Vittorio Franceschi ha fatto del mondo dello spettacolo la sua vita, diventando attore di teatro, regista e drammaturgo. Dopo aver girato l’Europa, lui insieme ai suoi testi, oggi insegna recitazione alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, di cui è codirettore.
MERCUZIO
Un verso che ti prende alle spalle
eccomi ti dice
sono l’intruso che non ti dà pace
l’esteta delle tue ubbie, il vandalo
delle tue ritrosie
non ti scostare dice
non ti faccio del male
voglio solo accertarmi del tuo cuore
voglio esserti Mercuzio
in cerimonia d’amore
reggere il tuo polso se sei pronto.
AMORE AL TEMPO DI SAFFO
Chissà i banchetti, chissà
le tazze lasciate lì sul prato
e nelle stanze i profumi; chissà
l’ombretto degli occhi e le unghie
meravigliose nei graffi; chissà
i sandali lì di lato in disordine, chissà
le dita sottili e le caviglie,
umide le labbra. E fuori
oltre le crete e i marmi, oltre
i sassi scuri dei selciati, oltre
il bronzo dei monili e la pietra
dei capitelli, in cima
oltre le capre e il cardo, oltre
il mirto e la porpora, gli uccelli
in libertà gioiosa e più su
più su più su le nuvole
STRAPPO
Nel costato, che all’inizio dici:
più a fondo!
può succedere, poi
più sotto, nel ventre
che dici: che succede?
poi
è troppo! ti alzi, ti vesti…
è tardi, è già successo.
I tuoi soliti occhi
non sono più gli stessi di pupilla
e il resto del corpo
che fu letizia! è già squarcio.
Chi mette le mani
lì dentro, al calduccio di viscere?
L’unghia è spezzata.
C’è un raschio nel buio
e mortale velluto sulla bara.
Da: Vittorio Franceschi, Canti dell’autunno inoltrato, Raffaelli 2018.
VITTORIO FRANCESCHI è nato nel 1936 e diplomatosi all’Accademia Antoniana di Bologna nel 1958,Vittorio Franceschi ha fatto del mondo dello spettacolo la sua vita, diventando attore di teatro, regista e drammaturgo. Dopo aver girato l’Europa, lui insieme ai suoi testi, oggi insegna recitazione alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, di cui è codirettore. Accanto all’amore per il teatro coltiva anche quello per la poesia. Nel 2004 ha pubblicato Stramba Bologna sghemba e nel 2011 Il volo dei giorni, entrambi con la nostra casa editrice; Tre ballate da cantare ubriachi e altre canzoni del 2013 è stato invece pubblicato dall’editore Pendragon. Da poco è uscita la sua ultima raccolta poetica, Canti dell’autunno inoltrato, che questa sera (giovedì 17 maggio) l’autore presenterà in forma di spettacolo nella sua città di
Sottopongo alla vostra attenzione alcuni versi di Giorgio Piovano (1920-2008) . Mi sembra straordinaria la capacità mostrata dall’autore di trasformare in poesia la vita di milioni di uomini cancellati e dimenticati dalla storia.
Giorgio Piovano
Proemio
Questo è il poema degli uomini senza storia
Che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico
E vengono a galla solo quando si compilano
Le statistiche dei cataclismi :
il poema degli uomini che non hanno mai
avuto una bandiera
e si sono sempre trovati
accodati a quelle degli altri.
Questo è un poema anonimo e materiale
Fatto solo di cose usuali
E di facce senza niente di speciale;
poema cosi povero e rozzo
che per spiegarsi non ha
se non parole di tutti i giorni
e di tutto il campionario
delle gioie e dei dolori
che la Vita mette in vetrina
sa commuoversi solo di quelli
che si possono chiamare
con nome e cognome.
E questo è il suo proemio
messo avanti per avvertire
le schive Anime Nobili
che qui non è aria per loro.
[…]
Ultimo canto
[…]
Io non sono che uno
della mia generazione, uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti la porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellerosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravano viandanti inquieti
tormentandosi per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustre
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e la guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
[…].
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
[…]
Quanto ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
[…]
Io non ho che la mia vita
e la sapienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno, lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Giorgio Piovano, Poema di noi, Effigie edizioni,Milano 2007.
Il “Poema di noi” (premio Viareggio opera prima nel 1950) è stato scritto negli anni Quaranta. Giorgio Piovano si richiamava a quel filone del “realismo socialista” che allora ispirava molta della letteratura di sinistra. Di fronte all’evolversi degli avvenimenti, al modificarsi dello stesso “modo di far politica”, potrebbe apparire anacronistico riproporre oggi – almeno nei termini in cui lo viveva allora l’autore – quel “bisogno di verità e coraggio” di cui ha parlato Davide Lajolo nella prefazione a “Il fuoco e la cenere”. In realtà, esiste un tenace filo conduttore tra le attese di ieri e quelle di oggi, come d’altra parte, senza quelle speranze, appare arduo capire la delusione e il disincanto che oggi sembrano serpeggiare in una parte della sinistra italiana ed europea. Sarebbe tuttavia riduttiva una lettura di questi versi condotta solo in chiave politica e nostalgica. La poesia di Piovano è soprattutto emozione, come scrive nell’introduzione un altro poeta civile, Alberto Bellocchio: “Poesia? Quella di Piovano è qualcosa di più. È spettacolo, è rappresentazione drammatica, è un torrente in piena, un affresco a tinte forti che ci sloggia dalle nostre plastificate certezze e catafratte abitudini e ci trascina in strada”. Se n’era accorto, fra gli altri, Giancarlo Majorino, che aveva incluso alcune liriche di Piovano nell’antologia “Poesie e realtà”, dedicata alla poesia civile italiana del Novecento.
«Ma il mio paese, il paese del mio cuore,
è là nelle piane lombarde, in Lomellina,
il paese delle nebbie e delle placide acque
che per diecimila canali si ritrovano in Po.
Al tempo dei risi, quando le mondine
calano a reggimenti dalle loro tradotte
e scaricano i sacchi e le casse
sui marciapiedi delle stazioni
allora è da vedere la Lomellina
come si canta per le strade a braccetto
piemontesi bresciane e bergamasche
e più brave di tutte, coi baschi rossi, le emiliane!»
(da: Giorgio Piovano, Il fuoco e la cenere, Editrice Edinform, Pavia 1984)
Giorgio Piovano
di Luca Ariano
È scomparso nella notte del 1 agosto 2008 all’età di 88 anni. Nato a Torino nel 1920 partecipò alla lotta partigiana prima a Pisa e poi a Lovere; così in un’intervista rilasciata sul web (http://solleviamoci.wordpress.com): “Sono stato avanguardista, come tutti. Odiavo le divise, ma non per politica. È che mi facevano fare brutta figura con le ragazze. A Pisa trovai qualcuno che mi aprì gli occhi: in pochi anni mi trovai antifascista. Nel ’43 entrai nel Partito d’Azione: alla prima manifestazione eravamo in tre. Il giorno dopo facemmo un comizio: a quella data risale la prima di molte denunce. Il discorso patriottico che tenni venne usato contro di me anni dopo, in tribunale, come prova che ero un sovversivo”. Il trasferimento poi a Pavia e la sua attività politica (Senatore del PCI per tre legislature e Presidente della Provincia di Pavia) nel dopoguerra: “Ero professore, cercavo una sede universitaria. Problemi di salute mi tennero lontano dalla guerra: da Pisa, dove ho studiato, mi spostai a Lovere. Poi mi venne offerto di insegnare all’Istituto Bordoni, e a Pavia sono rimasto fino ad oggi: le mie piccole radici sono qui”. Ricordo l’intervista filmata che gli feci con l’amico e poeta Tito Truglia, ricordo la sua schiettezza, la lucidità e la sua forza e voglia di combattere per un mondo migliore, per i giovani (uno dei pochi di quella generazione a capire la piaga del lavoro precario) perché alle sue idee credeva ancora fermamente e non si vergognava certo di essere stato comunista, di aver fatto la Resistenza. Ho scoperto prima il Piovano poeta leggendo estratti delle sue poesie nell’antologia Poesie e realtà 1945-2000Poema di noi (Premio Viareggio opera prima 1950) che amo molto: (Tropea, 2000) curata da Giancarlo Majorino; solo in seguito, dopo averlo conosciuto, ebbi la fortuna di avere in dono la sua opera omnia poetica. Così descriveva il suo rapporto con la poesia: “Era la mia ambizione, che sto rivivendo ora in tarda età.
Era il tempo di grandi arrabbiature poetiche, della lotta all’ermetismo e agli strascichi dannunziani. Per parafrasare un celebre verso di Montale, questo noi volevamo dire: chi siamo, cosa vogliamo”. Se n’è andato uno degli ultimi comunisti, di quelli che hanno lottato a viso aperto mettendoci la faccia, coraggio, passione ed impegno. Non voglio dilungarmi oltre per non scadere nella retorica o in patinate celebrazioni che so avrebbe odiato, ma voglio ricordarlo qui con una sua poesia tratta da
ULTIMO
Avrei voluto avere il verso lungo e profondo
come il rullo dell’Internazionale
sui tamburi delle divisioni
che sfilano in parata
sotto la porta del Brandemburgo;
avrei voluto potermi fare ascoltare
per amore o per forza come gli altoparlanti
installati tra i reticolati a Madrid
che giorno e notte spiegavano
ai mercenari franchisti
da che parte fosse la Patria vera.
Altro ebbi: come quando le cornamuse
calano dai monti alle città di provincia
accompagnando la fisarmonica
dalla voce sbiadita che tenta
maldestra su povere note
i ballabili più comuni.
Pure molti si fermano ad ascoltare,
il lattaio che gira in bicicletta
col suo bidone, la sposa
appena uscita per la spesa, l’oste
che apre allora… Dalla loggia
del vecchio casamento gentilizio
la fantesca in piedi sul davanzale
a pulire la vetrata, si sporge
col cencio in mano a salutare
i suonatori compaesani.
Poi quando l’allegra nenia è dileguata
oltre i mercati, ancora dura il canto
corale delle lavandaie
lungo la roggia e l’a solo
nei passaggi difficili, della voce
più giovane.
Io non sono che uno
della mia generazione,
uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti alla porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellirosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravamo viandanti inquieti
tormentandoci per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustrate
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e al guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
e dalla veranda del sanatorio
il respiro della risacca e la curva lunghissima
sotto la luna della linea delle spume
a perdita d’occhio nel golfo…
(«Rivedrete le sere che s’incendiano
i cieli, e i monti non hanno più peso
e nel fiume scorrono rivoli d’oro.
Salutatele per me
sperduto nelle valli profonde
donde muovono le ombre
che guidano il carro della Notte»).
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
Ascoltate l’allarme
delle volontà scatenate
come spari mirati al cuore.
Quando ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
Da continente a continente
le radio impazzite
invocano S.O.S.
Io non ho che la mia vita
e la pazienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Ma milioni come me
fanno il Partito
i vagoni di libri spediti
nei villaggi chirghisi
l’Eurasia fasciata
da una rete di canali
il grano al circolo polare
il razionale Discorso
messo insieme lettera per lettera
pazientemente coscienziosamente
come negli stampi il piombo fuso
sotto il tasto del linotipista:
le parole dei miei fratelli
e con loro le mie
che si danno la mano ed abbracciano
il pianeta col giro dei paralleli!
Milioni come me
e le generazioni martellano
nei bronzi della posterità
l’epopea della Classe Operaia
che mugghiava apocalittica
e si ergeva e colpiva
a mazzate di mille tonnellate
nelle grandi ondate dei popoli
che deragliavano la storia!
I nostri pensieri gridati
con gli altoparlanti nei refettori da cinquemila posti
pesati dagli uomini a veglia
nella stalla attorno al lume a petrolio
con lo stoppino abbassato perché durasse di più
le donne macilente e forsennate
a valanga contro i cordoni
le serpi nelle occhiaie
delle case bruciate per rappresaglia
l’offerta del disoccupato alla sottoscrizione
Montanari che sputava sangue nel fazzoletto
e contava i comizi che gli restavano
fino alla fine della campagna elettorale
Daccò che ha smesso di bere
per non essere espulso
la cooperativa di San Salvatore
costruita di notte e di domenica
Brasi fotografo che adesso
scopa la sua bottega
e indosso ha la giacca a vento
di quando comandava una divisione
le croci di legno sotto i larici a Monte Giglio
con la stella rossa e la scritta
NON PIANGETE
e il compagno senza nome che alla festa
rimase a guardia delle biciclette
al posteggio, e neanche si ricordarono
di mandargli un bicchiere di vino
e la musica della moto tra le mia gambe
sugli stradali nei tramonti estivi
nel pieno dello sciopero, e nel vento
della corsa, i colpi di spillo
dei moscerini sul viso
ed anche la faccia paonazza del Vicequestore
quando si accorse che né bonomia né cipiglio
non attaccavano, anche il pretoccolo
velenoso messo nel sacco
in pubblico contradditorio
e anche il pedatone che ruzzolò
dalle scale l’avvocatuccio
che tirava a diventare onorevole
e le bandiere rosse sulle locomotive
e le metropoli dove prima c’erano le paludi
e i congressi coi delegati di sei continenti
i nostri pensieri sul mondo
a stormo
perdio imparate posteri
in questo mondo si può essere giovani
imparate perdio in questo mondo
si può anche morire
a pieno cuore
come al termine di un’ardita giornata
di maggio, combattuta instancabile
a rincorse volanti e agguati
e subitanei parapiglia
lungo i sentieri dei pioppi
nel giallo del ravizzone
quando torniamo alla cascina
cantando – tutti stanati
i crumiri sotto il naso
dei campari con la doppietta imbracciata!
Pedaliamo a festa
nel fortore dei fieni
sotto le prime stelle,
e da lontano ci saluta
agitando il suo fanale
il compagno che batte la risaia
a caccia di rane
nell’acqua fino a mezza gamba.
(tratta da: Il fuoco e la cenere, Prefazione di Davide Lajolo, Pavia: Editrice Edinform, 1984.)
Giorgio Piovano
Biografia di Giorgio Piovano (Torino 1920 – Pavia 2008). Nato da famiglia operaia, frequenta, negli anni ’40, la Scuola Normale di Pisa, della quale diventerà in seguito, per un anno, docente di letteratura dantesca. Partecipa alla lotta antifascista a Pisa e a Lovere, militando nel Partito d’Azione. Con l’avvento della Repubblica, lega il suo destino al Partito comunista, del quale è stato componente della Federazione pavese. Nel 1950 vinse il premio “Viareggio” con l’opera “ Poema di noi”, un componimento che parla «degli uomini senza storia, che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico». Professore e preside. Uomo schietto, lucido, vicino ai giovani, uno dei pochi della vecchia generazione a capire la piaga del lavoro precario.
Biografia-
Giorgio Piovano (Torino, 27 marzo 1920 – Pavia, 31 luglio 2008) è stato un politico, scrittore e partigiano italiano.
Nasce in una famiglia operaia torinese e negli anni quaranta si trasferisce a Pisa dove frequenta la Scuola Normale Superiore. Iscrittosi al Partito d’Azione partecipa alla lotta partigiana nella zona della provincia di Pisa.[1]
Terminato il conflitto si iscrive al Partito Comunista, venendo nominato Presidente della provincia di Pavia, dove si era trasferito in quegli anni, ed eletto sindaco della città di Casteggio.[1]
Nel 1950 vince il Premio Viareggio per la migliore opera prima con Poema di noi.
Senatore della Repubblica Italiana
Legislature
IV, V, VI
Gruppo
parlamentare
comunista
Incarichi parlamentari
IV legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 3 marzo 1964 al 4 giugno 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963, Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968
V legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 5 giugno 1968 all’11 novembre 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 5 luglio 1968 al 17 luglio 1968, Vicepresidente dal 18 luglio 1968 al 24 maggio 1972
VI legislatura
7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica): Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate in materia di stato giuridico del personale della scuola: Membro dal 13 dicembre 1973 al 19 giugno 1976
Biografia di Liliane Wouters (1)-(Ixelles, 1930 – 2016).Poetessa, drammaturga, antologista e traduttrice belga (soprattutto di testi fiamminghi), membro dell’Académie de langue et littérature françaises de Belgique. La sua carriera poetica inizia grazie a Roger Bodart, al quale invia il manoscritto de La Marche forcée, che diventerà la sua prima raccolta di poesie (Éd. des Artistes, Georges Houyoux, 1956). A questa seguiranno, tra le altre, Le Bois sec (Gallimard, 1960), Le Gel (Pierre Seghers, 1966), L’Aloès (Luneau-Ascot, 1983) e l’ultima Trois visage de l’écrit (Espace Nord, 2016). La sua opera teatrale più conosciuta, La salle des profs, è una riflessione arguta e al contempo tenera sul mestiere dell’insegnante, mestiere esercitato dalla Wouters per oltre trent’anni. Grande rilevanza rivestono, inoltre, le antologie da lei curate di poesia belga, sia di lingua francese (con Alain Bosquet e Yves Namur) sia di lingua fiamminga. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti, ricordiamo il premio Goncourt de la poésie (2000).
Si nasce soli
Si nasce soli e soli anche si muore.
Si dorme soli in letti condivisi.
Soli si mangia pane di poesia.
Soli con noi ci si trova stranieri.
Soli a sognare graviti lo spazio,
soli a sentire l’io di carne e sangue,
soli a voler trattenere l’istante,
a passare senza voler passare.
(da L’aloe, 1983)
Come dirlo semplicemente
Come dirlo semplicemente
sui miliardi di istanti della nostra vita
quasi tutti sono bolle
che scoppiano subito
Altri – ben pochi – durano per sempre
presi nel fiume che ci porta
sono già l’eternità
Gli istanti in cui
ci si può sentire vicini
agli alberi, agli uccelli
e agli uomini, talvolta
Gli istanti meravigliosi
in cui si crede di essere in sintonia
con l’universo intero
e – forse – con Dio
(da Gli ultimi fuochi sulla terra, 2014)
Per vivere
Per vivere, bisogna piantare un albero fare un figlio, costruire una casa. Io ho soltanto guardato l’acqua che passa dicendo che tutto scorre. Io ho soltanto cercato il fuoco che brucia dicendo che tutto si consuma. Io ho soltanto seguito il vento che fugge dicendo che tutto si disperde. Io non ho seminato nulla nella terra che riposa e ci dice: ti aspetto.
Liliane Wouters
Liliane Wouters – due poesie Traduzione di Gabriele Belletti
1.
Pas rien, pas rien, le petit vent de l’aube,
le petit rose du petit matin,
changé en pourpre, en noir, en nuit de taupe.
Je suis la taupe et le ciel est lointain.
Pas rien, pas rien, les flaques sur la plage,
la dune blonde et la blonde clarté,
la mer sans fin et les vagues sans âge.
Nous n’y aurons dansé qu’un seul été.
Pas rien, pas rien, même si l’on décompte
les vaches maigres, les années de chien.
J’aurai vécu tel jour, telle seconde.
C’était trop peu, mais ce ne fut pas rien.
*
Quale nulla, quale nulla, il venticello dell’alba,
l’incerto rosa di primo mattino,
mutato in porpora, in nero, in notte di talpa.
Io sono la talpa e il cielo mai è vicino.
Quale nulla, quale nulla, le pozze sulla spiaggia,
la duna bionda e la bionda visione,
il mare senza fine dall’onda fatta saggia.
Lì la nostra danza di un’unica stagione.
Quale nulla, quale nulla, anche se nascondo
le vacche magre, gli anni da cani.
Avrò vissuto quel giorno, quel secondo.
Sempre pochi furono, ma mai furono vani.
[da L’Aloès, “L’Aloe”, Paris, Luneau-Ascot,1983]
2.
Le bois sec
Brûler Je songe à ma cendre
quand m’appellent des forêts
Ô feux Mais à leur voix tendre
répond votre chant secret
Je suis né pour cette fête
barbare ces rites purs
ce mortel assaut de bêtes
contre le défi des murs
J’aime la gloire soudaine
des flammes j’aime le bref
sursaut de passion de haine
du feu saluant son chef
Brûler Mon sang me calcine
Pas un coin de chair ombreux
Et si pourtant mes racines
trouvaient un sol généreux
un peu d’eau de sel Le sable
d’où je sors verrait des fruits
Non De cette paix durable
la fin seule me séduit
Je ne porte ni lumière
ni chaleur en mon corps mais
ce n’est qu’au centre des pierres
qu’on trouve un feu qui dormait
Verdoyez branches dociles
aux commandements des dieux
Je montre mon bois fossile
C’est lui qui flambe le mieux.
*
Il bosco secco
Bruciare Penso alla mia cenere
quando mi chiamano dei boschi
O fuochi Ma alle loro voci tenere
rispondono i vostri canti foschi
Io sono nato per questa festa
barbara questi riti puri
questo mortale assalto di bestia
contro la sfida dei muri
Amo la gloria immediata
delle fiamme amo il lesto
sussulto di passion crociata
del fuoco in onor del suo maestro
Bruciare Il mio sangue mi ustiona
Nessun angolo di carne ombroso
E se nonostante ciò il mio rizoma
trovasse un terreno generoso
un po’ d’acqua di sale La rena
da cui esco vedrebbe frutto
No Di questa pace cantilena
io voglio portare il lutto
Io non porto né lucentezza
né calore nel mio corpo tuttavia
è solo al centro della pietra grezza
che si trova un fuoco in prigionia
Verdeggiate rami docili
ai comandamenti degli dei
Io mostro il mio bosco fossile
Lui brucia come io vorrei.
Carteggi Letterari -[da Le Bois sec, “Il Bosco secco”, Paris, Gallimard, 1960]
Liliane Wouters
Biografia di Liliane Wouters (1)-(Ixelles, 1930 – 2016).Poetessa, drammaturga, antologista e traduttrice belga (soprattutto di testi fiamminghi), membro dell’Académie de langue et littérature françaises de Belgique. La sua carriera poetica inizia grazie a Roger Bodart, al quale invia il manoscritto de La Marche forcée, che diventerà la sua prima raccolta di poesie (Éd. des Artistes, Georges Houyoux, 1956). A questa seguiranno, tra le altre, Le Bois sec (Gallimard, 1960), Le Gel (Pierre Seghers, 1966), L’Aloès (Luneau-Ascot, 1983) e l’ultima Trois visage de l’écrit (Espace Nord, 2016). La sua opera teatrale più conosciuta, La salle des profs, è una riflessione arguta e al contempo tenera sul mestiere dell’insegnante, mestiere esercitato dalla Wouters per oltre trent’anni. Grande rilevanza rivestono, inoltre, le antologie da lei curate di poesia belga, sia di lingua francese (con Alain Bosquet e Yves Namur) sia di lingua fiamminga. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti, ricordiamo il premio Goncourt de la poésie (2000).
Breve biografia di Silvia Molesini, nata a Bussolengo (Vr) il 14 luglio 1966, vive e lavora come psicoterapeuta a Costermano. Ha pubblicato le raccolte Nuova noia (Ibiskos ed. 1987), L’indivia (Campanotto ed. 2001), Il corpo recitato (I figli belli ed. 2004), Lezioni di vuoto (Liberodiscrivere ed. 2006). Ha partecipato al romanzo a rete Rifrazioni scomposte su corpo 12 e, per circa due anni, membro fondatore, al progetto Karpòs. È presente in diverse antologie e in qualche rivista letteraria (Le voci della luna, Filling Station, L’ortica, Critère, Niedergasse) ed è stata segnalata in concorsi di poesia (nel 2008 : con Esanimando al Premio Montano e al premio Mazzacurati/Russo con Cahiér corpo piccolo ).
Nell’ora candida
sparano; è la mezzanotte
battezzo di fuoco nella candida
ora dell’arrivo della
linea della tua fronte, con gli occhi
scuri da fare spavento tu
maledici tutti
come si fa coi santi
per una cosa sparente continua.
Ed io ti immagino lungamente
contando i giorni che non ci sono,
i giorni insomma, le spille,
le cose adatte e loro
vengono ad assistere. Allora
diventi incandescente
lì dove ti incunei – spargi
una luce leggera
*
Lungo la linea fissa di un pensiero risorge muore
e che le linee si flettono così:
la immensità tattile declina
nel lontano da qui che è dove porge
le miliardi di anime e
– lungo la linea fissa anche la mia
che ha tutta la misera corrotta
nella miseria accesa in questo
eroe scomparente malinteso –
ti guarda con gli occhi glauchi e
lascia che il tuo grande cuore muoia,
lo bagna svelta del suo pianto finito
lungo una linea fissa risorgente
*
una crosta nell’angolo del pavimento
tra
i pavé disgiunti e arrotola
in riflessione rossa molto poco
immagine due te due tre volte
suona alla porta uno monco
tra
le due linee intersecanti
non va aprire alla luce che ruota
e comunque rivelata procede senza vedere fin quando incontra
l’ultimo dei suoi processi minori impegnato in più lotte untuose
*
Francesca a Venezia
due testeleone in oro color che balla
riprese in ottobre al filo della gondola:
si va per San Servolo Incident’acqua
malvestie della cenere dell’incendio
e curvate per passare sotto la Salute
enqualmentre brilla una città sola
la testa di Francesca nei beccheggi
scende
attenti
Breve biografia di Silvia Molesini, nata a Bussolengo (Vr) il 14 luglio 1966, vive e lavora come psicoterapeuta a Costermano. Ha pubblicato le raccolte Nuova noia (Ibiskos ed. 1987), L’indivia (Campanotto ed. 2001), Il corpo recitato (I figli belli ed. 2004), Lezioni di vuoto (Liberodiscrivere ed. 2006). Ha partecipato al romanzo a rete Rifrazioni scomposte su corpo 12 e, per circa due anni, membro fondatore, al progetto Karpòs. È presente in diverse antologie e in qualche rivista letteraria (Le voci della luna, Filling Station, L’ortica, Critère, Niedergasse) ed è stata segnalata in concorsi di poesia (nel 2008 : con Esanimando al Premio Montano e al premio Mazzacurati/Russo con Cahiér corpo piccolo ).
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Robert Creeley (Arlington, Massachusetts, 21 maggio 1926 – Odessa, Texas, 2 aprile 2005) Poeta statunitense, tra i maggiori esponenti della lirica postmoderna. Viaggiò in Europa e Asia vivendo per quarant’anni in Giappone, dove apprese la filosofia buddhista e lo zen. È spesso accostato ai poeti della Black Mountain, pur essendone lontano stilisticamente.
LE PIETRE
Cercando di pensare
ad una via d’uscita,
le pietre del pensiero
che spostano,
lanciate
in acqua,
molte altre cose.
Così la vita
è acqua, anche l’amore
ha una sostanza
simile.
Mancando
l’acqua una domenica
mattina Dio
non provvederà –
che sia mia moglie,
il suo calore
disteso
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al mio fianco, che sia questo
senso di calda
umidità la condizione
di ogni fioritura?
Lascia cadere
la pietra,
pensa bene, pensa
bene di me.
Robert Creeley
LA FINESTRA
La posizione esiste
dove la metti, dove si trova,
hai tu, per esempio,
quella grossa cisterna là,
argentata, con la chiesa bianca a fianco,
hai tu spostato tutto questo
e a quale scopo? Com’è pesante
il mondo monotono
con ogni cosa al suo posto.
Un uomo passa, una macchina accanto
nella strada che termina,
una foglia
gialla
sul punto di cadere.
Tutto
cade
al suo posto.
Il mio volto è pesante
a questa vista. Sento
l’occhio che si spezza.
Robert Creeley
PASSEGGIANDO
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Nella mia testa
passeggio, ma non sono
nella mia testa, dove si
può passeggiare
senza pensarlo, è forse
la strada stessa qualcosa
di più che veduto. Credo
potrebbe essere, sentire
come la sentono i miei piedi,
proseguire e alla fine
raggiungere, adagio,
uno scopo della mia intenzione.
IL LIMITE
Non posso
andare avanti
o indietro.
Sono preso
nel tempo
come limite.
Quello che pensiamo
pensiamo –
per nessun altro motivo
pensiamo se non per
pensare soltanto –
ciascuno per sé.
IL MECCANISMO
Se dovessimo cadere ora
alle nostre ostinate ginocchia
e sprofondare nel sonno, io
affondato nelle tue, allora
cosa ci terrebbe uniti
se non un peso
senza consistenza. Credi tu
nell’amore, e quanto.
Robert Creeley
“TENGO PER ME QUESTE MISURE…”
Tengo per me queste misure
che ho care,
di giorno in giorno le pietre
accumulano posizione.
Non esiste niente
se non ciò che il pensiero rende
meno tangibile. La mente,
per quanto veloce, rimane
indietro, vi sostituisce
come pietre semplici lapidi
solo per tornare
fiduciosa là dove
non può più. Tutto
oblia. La mia mente sprofonda.
Tengo tra le mani questo peso
è l’unico modo di descriverlo.
VARIAZIONI
L’amore esiste solo
così com’è l’amore. Questi
sensi ricreano
la loro definizione – una mano
trattiene in sé
ogni ragione. Gli occhi
hanno visto tanta bellezza
che si chiudono.
Ma prosegui. Così la voce
ancora, questi sensi ricreano
lo stato singolare provato
e provato ancora.
Ascolto. Ascolto
la mente che si chiude, la voce
che prosegue oltre,
le mani dischiuse.
Tenaci tengono
così strette soltanto se stesse,
sterili prese
di tale sensazione.
Ascolta, là dove
gli echi sono più
intensi, più luminosi,
sensazioni di suono
che si svelano e si celano
non più soltanto di amore, l’intenzione della mente,
la visione degli occhi, le mani che si stringono –
spezzati in echi, questi sensi ricreano
la loro definizione. Sento che la mente
si chiude.
Robert Creeley
QUALCHE POSTO
L’ho risolto, ho trovato
nella vita un centro
e me lo sono assicurato.
È la casa,
gli alberi al di là,
una vista limitata la racchiude.
Il tempo
la raggiunge
solo come in forma di vento, un breve
soffocato respiro. E se
la vita non lo raggiungesse?
Quando dovesse accadere
qualcosa, me l’ero assicurata,
proprio io, proprio,
insistendo.
Non c’è nulla che io sia,
nulla che non sia. Un luogo
in mezzo, io esisto. Sono
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più del pensiero, meno
del pensiero. Una casa
con venti ma una distanza
– qualcosa di sciolto al vento,
la sensazione del tempo come di quella esistenza,
sentieri verso le luci che lui ha abbandonato.
PAROLE
Sei sempre
con me,
non esiste
un luogo
separato. Ma se
nel luogo
tormentato
non posso parlare,
non solo indulgenza
o timore
ma una lingua
guasta
da ciò che gusta –
Esiste una memoria
di acqua,
di cibo quando uno ha fame.
Un giorno
e non sarà questo
allora dirò
parole
come chiari, bellissimi
filtri di cenere,
come polvere
da un luogo inesistente.
UNA PREGHIERA
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Benedici
una cosa piccola
ma infinita
e quieta.
Vi sono sensi
che creano un oggetto
col loro semplice sentirlo.
10 poesie di Robert Creeley tratte da “Parole” (dal libro “Per amore”, edizione italiana di Mondadori, 1971, traduzione di Perla Cacciaguerra, introduzione di Agostino Lombardo)
VALENTINA PER TE
*
Da dove, fino dove
il pensiero da fare –
Da dove, per dove
persino i significati ora mentono
Come, dove
queste speranze di riconciliare il cielo –
Anche la strada cambia
senza di te, anche il giorno.
Robert Creeley
Robert Creeley (Arlington, Massachusetts, 21 maggio 1926 – Odessa, Texas, 2 aprile 2005) Poeta statunitense, tra i maggiori esponenti della lirica postmoderna. Viaggiò in Europa e Asia vivendo per quarant’anni in Giappone, dove apprese la filosofia buddhista e lo zen. È spesso accostato ai poeti della Black Mountain, pur essendone lontano stilisticamente.
Gabriela Mistral: Le poesie più belle della poetessa cilena-
-Premio Nobel per la Letteratura nel 1945-
Breve biografia di Gabriela Mistral-Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, passata alla storia con il nome d’arte di Gabriela Mistral, nasce il 7 aprile 1889 a Vicuna, Cile del nord. La sua vita si rivela piena di complicazioni fin dall’infanzia: il padre Jeronimo Godoy Alcayaga Villanueva abbandona lei, la madre Petronila e la sorella Emelina quando Lucila ha appena 3 anni. Si trova quindi fin da subito a dover combattere una condizione di estrema povertà ma ciò nonostante, le difficoltà che deve affrontare nel quotidiano sembrano non riuscire ad affievolire la sua predisposizione per lo studio, per la letteratura e per la scrittura. I suoi testi sono avanguardisti, Lucila si schiera per l’istruzione gratis e la parità dei diritti, posizioni moderne che qualche anno più tardi le costeranno il rifiuto della sua domanda d’ammissione alla Scuola Normale per insegnanti. I suoi articoli, pubblicati da un quotidiano locale El Coquimbo de la Serena vengono infatti giudicati troppo sovversivi.
Prima donna sudamericana a vincere il Premio Nobel, nei suoi versi si fondono idealismo, anticonformismo e femminismo.
MADRE PIU’ DI UNA MADRE
Fa che io sia più madre di una madre nel mio amore e nella difesa del bambino che non è sangue del mio sangue. Aiutami affinché ognuno dei “miei” bambini diventi la poesia migliore. E nel giorno in cui non canteranno più le mie labbra, lascia dentro di lui o di lei, la più melodiosa delle melodie
Canto che amavi
Io canto ciò che tu amavi, vita mia, nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, nel rosso del tramonto io canto te, ombra mia.
Io non voglio restare più muta, vita mia. Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi?
Quale segnale, quale mi svela, vita mia?
Sono la stessa che fu già tua, vita mia. Né infiacchita né smemorata né spersa. Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; vieni qui a ricordare un canto, vita mia; se tu questa canzone riconosci a memoria e se il mio nome infine ancora ti ricordi.
Ti aspetto senza limiti né tempo. Tu non temere notte, nebbia o pioggia. Vieni per strade conosciute o ignote. Chiamami dove sei, anima mia, e avanza dritto fino a me, compagno.
Traduzione di Matteo Lefèvre Da Gabriela Mistral, Sillabe di fuoco, a cura di Matteo Lefèvre, con uno scritto di Octavio Paz, Bompiani 2020
Gabriela Mistral
Desolazione
La bruma spessa, eterna, affinché dimentichi dove
mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia.
La terra nella quale venni non ha primavera:
ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde.
Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi
e di urlo, e spezza, come un cristallo, il mio grido.
E nella pianura bianca, di orizzonte infinito,
guardo morire immensi occasi dolorosi.
Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta
se più lontano di lei solo andarono i morti ?
Tanto solo loro contemplano un mare tacito e rigido
crescere tra le sue braccia e le braccia amate!
Le navi le cui vele biancheggiano nel porto
vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei;
i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi
e recano frutti pallidi, senza la luce dei miei orti.
E l´interrogazione che sale alla mia gola
al vederli passare, mi riscende, vinta:
parlano strane lingue e non la commossa
lingua che in terre d´oro la mia povera madre canta.
Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa;
guardo crescere la nebbia come l´agonizzante,
e per non impazzire non conto gli istanti,
perché la notte lunga ora solo comincia.
Guardo il piano estasiato e raccolgo il suo lutto,
perché venni per vedere i paesaggi mortali.
La neve è il sembiante che svela i miei cristalli;
sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo!
Sempre essa, silenziosa, come il grande sguardo
di Dio su di me; sempre la sua zagara sopra la mia casa;
sempre, come il destino che non diminuisce ne passa,
scenderà a coprirmi, terribile e estasiata.
Gabriela Mistral
La donna forte
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni,
donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata;
quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia,
ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile.
Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava,
chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio;
sotto questo ricordo, che t’era bruciatura,
cadeva dalla mano, serena, la semente.
Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio,
e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi,
ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto.
E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi,
perché tra cento donne non ho visto il tuo volto,
e l’ombra tua nei solchi,
seguo ancora nel mio canto.
Dammi la mano
Dammi la mano e danzeremo
dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
con lo stesso passo ballerai.
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami Rosa ed io Speranza
però il tuo nome dimenticherai
perché saremo una danza
sulla collina e niente più.
DAMMI LA MANO
Dammi la mano e danzeremo
Dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
allo stesso passo danzerai
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami rosa e io speranza
ma il tuo nome dimenticherai
perchè saremo una danza
sulla collina e niente più.
Gabriela Mistral e Paplo Neruda
Gocce di fiele
Non cantare: resta sempre attaccato
sulla tua lingua un canto;
quello che doveva essere trasmesso.
Non baciare: resta sempre per una strana maledizione
il bacio che non viene su dal cuore.
Prega: pregare è dolce: però sappi
che la tua lingua avara non giunge
a dire il solo Padre Nostro che ti salvi.
E non chiamare come clemente la morte,
perché nel corpo di bianchezza immensa
resterà un vivo brandello che sente
la pietra che ti soffoca
ed il vorace verme che ti fora.
NINNA NANNA
Il mare le sue mille onde culla divino; odo i mari innamorati mentre cullo il mio piccino. L’errabondo vento, a notte, culla le spighe; odo i venti innamorati mentre cullo il mio piccino. Iddio Padre i mille mondi culla senza un brusio. Sento il gesto suo nell’ombra mentre cullo il bimbo mio.
L’amore che tace
Se ti odiassi, il mio odio ti darei
con le parole, rotondo e sicuro;
ma ti amo e il mio amore non si affida
a questa lingua umana, così oscura!
Tu lo vorresti mutato in un grido,
e vien così dal fondo che ha disfatto
la sua ardente fiumana, sfinito
prima ancora della gola e del petto.
Io sono come uno stagno ricolmo
ed a te sembro una sorgente inerte,
per questo mio silenzio tormentoso
più atroce che entrare nella morte!
Gabriela Mistral
Intima
Non stringere le mie mani.
Verrà il tempo infinito
di riposare con molta polvere
ed ombra tra le dita intrecciate.
E tu dirai:
‘Non posso
più amarla; le sue dita
si sgranarono come le spighe’.
La mia bocca non baciare.
Verrà l’istante pieno
di spenta luce, senza labbra
starò sotto un umido suolo.
E tu dirai: ‘L’amai, ma non posso
amarla più, ora che non aspira
l’odore di ginestre del mio bacio’.
E mi rattristerò nell’udirti;
tu parlerai come un cieco ed un pazzo,
perché la mia mano sarà sulla tua fronte
quando le dita si spezzino,
e scenderà sopra il tuo volto
pieno d’ansia, il mio respiro.
Non mi toccare dunque. Mentirei
nel dirti che ti dono
il mio amore nelle braccia mie protese,
nella mia bocca, nel mio collo,
e tu, credendo d’averlo esaurito
ti sbaglieresti come un bambino ingenuo.
Perché il mio amore non è solo questo
stanco e restio covone del mio corpo,
che trema tutto offeso dal cilicio
e in ogni volo mi resta indietro.
È ciò che sta nel bacio e non nel labbro,
ciò che spezza la voce e non il petto:
ma è un vento di Dio, che passa lacerando
nel suo volo, la polpa delle carni.
AMO LE COSE CHE NON EBBI MAI
Amo le cose che mai non ebbi,
insieme alle altre che non ho più:
tocco un’acqua silenziosa,
distesa su freddi prati,
che senza vento rabbrividiva
in un orto che era il mio orto.
La guardo come la guardavo;
mi viene uno strano pensiero
e lenta gioco con quest’acqua
come con pesce o mistero.
Paradiso
Distesa lamina d’oro
e nell’adagiarsi dorato
due corpi come gomitoli d’oro;
un corpo glorioso che
ascolta e un corpo
glorioso che parla nel
prato in cui nulla parla;
un respiro che va al respiro e
un volto che trema d’esso, in un prato in cui nulla trema.
Ricordarsi del triste tempo in
cui entrambi avevano
Tempo e da esso vivevano
afflitti,
nell’ora del chiodo d’oro
in cui il Tempo restò alla
soglia
come i cani vagabondi…
Gabriela Mistral
-Biografia di Gabriela Mistral-
Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, passata alla storia con il nome d’arte di Gabriela Mistral, nasce il 7 aprile 1889 a Vicuna, Cile del nord. La sua vita si rivela piena di complicazioni fin dall’infanzia: il padre Jeronimo Godoy Alcayaga Villanueva abbandona lei, la madre Petronila e la sorella Emelina quando Lucila ha appena 3 anni. Si trova quindi fin da subito a dover combattere una condizione di estrema povertà ma ciò nonostante, le difficoltà che deve affrontare nel quotidiano sembrano non riuscire ad affievolire la sua predisposizione per lo studio, per la letteratura e per la scrittura. I suoi testi sono avanguardisti, Lucila si schiera per l’istruzione gratis e la parità dei diritti, posizioni moderne che qualche anno più tardi le costeranno il rifiuto della sua domanda d’ammissione alla Scuola Normale per insegnanti. I suoi articoli, pubblicati da un quotidiano locale El Coquimbo de la Serena vengono infatti giudicati troppo sovversivi.
Il primo riconoscimento per l’arte poetica
Ma Lucila non si arrende e non abbandona né la vocazione di scrittrice né quella per l’insegnamento. Grazie all’aiuto della sorella Emelina, già maestra, riesce ad ottenere un posto come docente in alcuni istituti minori. È in questi anni che conosce un impiegato delle ferrovie, Romeo Ureta Carvajal, con cui dà vita a una relazione tormentata e controversa. Il suicidio dell’amato sarà al centro di un’opera, Sonetos de la Muerte, che le varrà il primo premio in una competizione letteraria nazionale svoltasi a Santiago nel dicembre del 1904. Lucila ora è Gabriela Mistral, una poetessa destinata al successo. Lo testimonia anche il suo nome d’arte del resto, un omaggio a due figure letterarie molto amate, il Vate Gabriele D’Annunzio e Frederic Mistral, poeta, quest’ultimo, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1904.
Gabriela Mistral è stata la prima donna sudamericana a ricevere un premio Nobel ed è anche una delle poche (tredici donne totali) che fino ad ora hanno avuto questo onore (contro i 101 vincitori uomini). Ma sarebbe forse potuto essere differente, del resto, il destino di una scrittrice che con il suo nome d’arte omaggia due tra i più grandi poeti della storia? Probabilmente no. Gabriela Mistral è passata alla storia senza dubbio per la sua eccelsa arte poetica ma soprattutto in quanto intellettuale idealista, appassionata, impegnata, sincera e soprattutto avanguardista.
Finalmente il Nobel
Gabriela Mistral Cerimonia premiazione Premio Nobel 10 dicembre 1945
Il 10 dicembre 1945 l’arte poetica di Gabirela Mistral le vale il Premio Nobel per la Letteratura, la sua vittoria è accompagnata da queste parole di motivazione: “La sua opera lirica che, ispirata da potenti emozioni, ha reso il suo nome un simbolo delle aspirazioni idealiste di tutto il mondo latino americano”.
Gli ultimi anni (anticonformisti)
Anche negli ultimi anni della sua vita Gabirela Mistral ha fatto scalpore e si è dimostrata come sempre anticipatrice dei tempi futuri, in particolare a dare adito a critiche e pettegolezzi in questo caso fu la sua relazione con una donna, Doris Dana, non vista di buon occhio. È il 10 gennaio 1957 quando la poetessa si spegne all’età di 67 anni a Long Island, sconfitta da un cancro al pancreas. La sua eredità più grande sopravvive nelle sue meravigliose poesie. Femministe, appassionate, intrise di amore per i suoi affetti più cari, la sua terra, le figure chiave della sua vita. Ma anche segnate dal dolore, dagli ideali disillusi e a volte anche da una certa spiritualità.
Denise Levertov (1923-1997)-Nata e cresciuta in Inghilterra, ma trasferita negli Stati Uniti nel 1947, Denise Levertov (1923- 1997) è una voce importante del canone poetico nordamericano del ventesimo secolo, e tuttavia ancora non ben conosciuta in Italia. Il corpus completo della sua opera è stato raccolto nel 2013 in un volume di oltre mille pagine, Collected Poems (a cura di P. A. Lacey e A. Dewey per New Directions), consentendo per la prima volta uno sguardo complessivo sulla molteplicità delle forme e dei registri poetici impiegati, da quello autobiografico-confessionale a quello di ispirazione etica e religiosa, dalla poesia di impegno e testimonianza civile alla riflessione sul lavoro poetico.Le poesie proposte, tratte da due raccolte degli anni ottanta del Novecento, accentuano un motivo profondo e pervasivo di tutta la sua opera : l’osservazione, l’ascolto, l’empatia con il mondo naturale – animali, alberi, montagne, laghi – creature viventi e senzienti, a volte trasfigurate in senso antropomorfico e metapoetico, la cui esistenza è spesso minacciata dall’opera di distruzione dell’uomo. Motivo, o assillo, che diventa dominante negli ultimi anni della vita di Levertov, in coincidenza con il suo trasferimento a Seattle, dove vive in prossimità del lago Washington e del gigantesco vulcano Rainier, presenza viva e misteriosa di molte sue poesie.
Creare la pace Una voce dal buio gridò, “I poeti devono donarci immaginazione di pace, per scacciare la violenta, consueta immaginazione del disastro. Pace, non solo l’assenza di guerra”. Ma la pace, come una poesia, non esiste prima di esserci, non si può immaginare prima che sia creata, non si può conoscere se non nelle parole di cui è fatta, grammatica di giustizia, sintassi di mutuo soccorso. Un’ impressione, la vaga intuizione di un ritmo, è tutto quello che abbiamo finché non cominciamo a pronunciarne le metafore, a scoprirle mentre parliamo. Un verso di pace potrebbe forse nascere se riformuliamo la frase della nostra esistenza, cancelliamo la sua riaffermazione di profitto e potere, mettiamo in discussione i nostri bisogni, ci prendiamo lunghe pause . . . Un ritmo di pace potrebbe forse reggersi su quel fulcro diverso; la pace, una presenza, un campo di forza più intenso della guerra, potrebbe allora palpitare, strofa dopo strofa nel mondo, ogni gesto di vita una sua parola, ogni parola un fremito di luce – facce del cristallo che si va formando.
Denise Levertov
da Collected Poems, New Directions, 2013
traduzione di Paola Splendore
Toccare il centro
“Sono un paesaggio” dice lui
“un paesaggio e una persona che cammina in quel paesaggio.
Ci sono dirupi spaventosi qui,
e pianure appagate dalla loro
bruna monotonia. Ma soprattutto
ci sono foibe, luoghi
di terrore improvviso, di corto diametro
e infida profondità”.
“Lo so”, dice lei. “Quando vado
a passeggiare dentro me, come capita
un bel pomeriggio, senza pensarci,
presto o tardi arrivo dove falasco
e mucchi di fiori bianchi, ruta forse,
segnano la palude, e so che lì
ci sono pantani che possono tirarti
giù, farti affondare nel fango gorgogliante”.
“Avevamo un vecchio cane, dice lui, quand’ero ragazzo”,
un buon cane, socievole. Ma aveva una ferita
sulla testa, se ti capitava
di toccarla appena, saltava su con un guaito
e ti azzannava. Diede un morso a un bambino,
e dovettero portarlo dal veterinario e abbatterlo”.
“Nessuno sa dove si trova” dice lei,
“e nessuno la tocca neppure per sbaglio.
È dentro il mio paesaggio, e io sola, mentre avanzo
ansiosa nella vita, tra le mie colline,
dormendo sul muschio verde dei miei boschi,
inavvertitamente la tocco,
e mi avvento contro me stessa -“
“oppure mi fermo
appena in tempo”.
“Sì, impariamo a farlo.
Non è di paura, ma di dolore che parliamo:
quei punti dentro noi, come la testa ferita del tuo cane,
feriti per sempre, che il tempo
mai lenisce, mai.”
Zeroing In
“I am a landscape,” he said,
“a landscape and a person walking in that landscape.
There are daunting cliffs there,
And plains glad in their way
Of brown monotony. But especially
There are sinkholes, places
Of sudden terror, of small circumference
And malevolent depths.”
“I know,” she said. “When I set forth
To walk in myself, as it might be
On a fine afternoon, forgetting,
Sooner or later I come to where sedge
And clumps of white flowers, rue perhaps,
Mark the bogland, and I know
There are quagmires there that can pull you
Down, and sink you in bubbling mud.”
“We had an old dog,” he told her, “when I was a boy,
A good dog, friendly. But there was an injured spot
On his head, if you happened
Just to touch it he’d jump up yelping
And bite you. He bit a young child,
They had to take him to the vet’s and destroy him.”
“No one knows where it is,” she said,
“and even by accident no one touches it:
It’s inside my landscape, and only I, making my way
Preoccupied through my life, crossing my hills,
Sleeping on green moss of my own woods,
I myself without warning touch it,
And leap up at myself”
“or flinch back
Just in time.”
“Yes, we learn that
It’s not terror, it’s pain we’re talking about:
Those places in us, like your dog’s bruised head,
That are bruised forever, that time
Never assuages, never.”
*
Presagio
Basta con questi rami, questa luce.
Il cielo, anche se azzurro, mi intralcia.
Da quando ho cominciato a capire
di avere altro da fare,
non so più stare dietro al ritmo
dei giorni col passo agile degli altri inverni.
L’albero svettante,
quello che l’alba tingeva d’oro
è stato abbattuto – quel fervore di uccelli e cherubini
soffocato. La siccità ha scurito
più di una foglia verde.
Da quando
so che un altro desiderio ha cominciato
a proiettare i suoi lacci fuori di me
in un luogo ignoto, mi protendo
in un silenzio quasi presente,
inafferrabile tra i battiti del cuore.
Denise Levertov
Intimation
I am impatient with these branches, this light.
The sky, however blue, intrudes.
Because I’ve begun to see
there is something else I must do,
I can’t quite catch the rhythm
of days I moved well to in other winters.
The steeple tree
was cut down, the one that daybreak
used to gild – that fervor of birds and cherubim
subdued. Drought has dulled
many a green blade.
Because
I know a different need has begun
to cast its lines out from me into
a place unknown, I reach
for a silence almost present,
elusive among my heartbeats.
*
Due montagne
“Avvertire l’aura di una cosa che guardiamo significa dotarla della capacità di rispondere al nostro sguardo.”
Walter Benjamin
Per un mese (un attimo)
ho vissuto accanto a due montagne.
Una era solo un bastione
di roccia pallida. ‘Una facciata di roccia’ si dice
senza pensare a un’espressione o a un volto –
un’astrazione.
Ma si dice anche
‘un uomo dal volto di pietra’, oppure ‘si è chiusa
in un silenzio di pietra.’ Questa montagna,
avesse avuto occhi, avrebbe sempre guardato
oltre o attraverso; la bocca, ne avesse avuta
una, avrebbe stretto le labbra sottili,
implacabile, senza concedere niente, proprio niente.
L’altra montagna emanava
un silenzio tutto diverso.
Può essere che (da me non avvertita)
cantasse, addirittura.
Burroni, foreste, nudi picchi di roccia, obliqui, fuori centro,
in un elegante cono acuto o corno, avevano l’aria
di provare piacere, piacere di esistere.
Questa la guardavo e riguardavo
senza trovare
un modo per convincerla a incontrare il mio sguardo.
Dovetti accettare la sua totale indifferenza,
la mia totale insignificanza,
essere
inconoscibile per la montagna
come un ago di pino o di abete
sui suoi lontani pendii, per me.
Denise Levertov
Two Mountains
“To perceive the aura of an object we look at means to invest it with the ability to look at us in return.”
Walter Benjamin
For a month (a minute)
I lived in sight of two mountains.
One was a sheer bastion
of pale rock. ‘A rockface’, one says,
without thought of features, expression –
it’s an abstract term.
But one says, too,
‘a stony-faced man’, or ‘she maintained
a stony silence.’ This mountain,
had it had eyes, would have looked always
past one or through one; its mouth,
if it had one, would purse thin lips,
implacable, ceding nothing, nothing at all.
The other mountain gave forth
a quite different silence.
Even (beyond my range of hearing)
it may have been singing.
Ravines, forests, bare rock that peaked, off-center
in a sharp and elegant cone or horn, had an air
of pleasure, pleasure in being.
At this one I looked and looked
but could devise
no ruse to coax it to meet my gaze.
I had to accept its complete indifference,
my own complete insignificance,
my self
unknowable to the mountain
as a single needle of spruce or fir
on its distant slopes, to me.
Denise Levertov
Denise Levertov (1923-1997)-Nata e cresciuta in Inghilterra, ma trasferita negli Stati Uniti nel 1947, Denise Levertov (1923- 1997) è una voce importante del canone poetico nordamericano del ventesimo secolo, e tuttavia ancora non ben conosciuta in Italia. Il corpus completo della sua opera è stato raccolto nel 2013 in un volume di oltre mille pagine, Collected Poems (a cura di P. A. Lacey e A. Dewey per New Directions), consentendo per la prima volta uno sguardo complessivo sulla molteplicità delle forme e dei registri poetici impiegati, da quello autobiografico-confessionale a quello di ispirazione etica e religiosa, dalla poesia di impegno e testimonianza civile alla riflessione sul lavoro poetico.Le poesie proposte, tratte da due raccolte degli anni ottanta del Novecento, accentuano un motivo profondo e pervasivo di tutta la sua opera : l’osservazione, l’ascolto, l’empatia con il mondo naturale – animali, alberi, montagne, laghi – creature viventi e senzienti, a volte trasfigurate in senso antropomorfico e metapoetico, la cui esistenza è spesso minacciata dall’opera di distruzione dell’uomo. Motivo, o assillo, che diventa dominante negli ultimi anni della vita di Levertov, in coincidenza con il suo trasferimento a Seattle, dove vive in prossimità del lago Washington e del gigantesco vulcano Rainier, presenza viva e misteriosa di molte sue poesie.
Paola Splendore
Paola Splendoreha insegnato Letteratura inglese all’Università Orientale di Napoli e all’Università di Roma Tre, occupandosi in prevalenza di letterature post-coloniali e di letteratura migrante. Tra le sue aree di studio vi è anche la rappresentazione letteraria della violenza nella narrativa scritta da donne. Ha pubblicato saggi sull’opera di scrittori indiani, sudafricani e caraibici, oltre ad aver curato le edizioni italiane di opere di Virginia Woolf, del filosofo Raymond Williams e del premio Nobel J.M. Coetzee. Per Donzelli ha tradotto poesie di Sujata Bhatt (Il colore della solitudine, 2005), Ingrid de Kok (Mappe del corpo, 2008), Karen Press (Pietre per le mie tasche, 2012) e Moniza Alvi (Un mondo diviso, 2014); ha inoltre curato con Jane Wilkinson l’antologia di poesia sudafricana Isole galleggianti (2011) e tradotto una raccolta di poesie di Jo Shapcott (Della mutabilità, 2015). Dal 2016 a oggi ha coordinato il gruppo di traduttrici di un poemetto di Philip Schultz (Erranti senza ali) e ha curato le edizioni italiane di sillogi poetiche di Hardi Choman (La crudeltà ci colse di sorpresa, 2017), Philip Schultz (Il dio della solitudine, 2018) e Ruth Padel (Variazioni Beethoven, 2021).
SINOSSI- Il libro Tullia Romagnoli Carettoni nell’Italia repubblicana-è stata partigiana, insegnante, funzionaria dell’Udi, dirigente socialista, senatrice dapprima con il Psi poi con la Sinistra indipendente, figura di spicco in vari organismi nazionali e internazionali. La sua biografia permette di ripercorrere i primi tre decenni della storia repubblicana: la transizione postfascista, il miracolo economico, le riforme mancate e quelle varate dal centro-sinistra, le battaglie per i diritti civili degli anni Settanta; ma anche la Guerra fredda, il processo di decolonizzazione, il movimento internazionale delle donne. A partire dal suo archivio personale, il volume restituisce il profilo di una “socialista autonoma” che, in Italia e nel mondo, si è battuta per intrecciare universalismo e differenze.
In copertina: Tullia Carettoni, da poco eletta senatrice del Psi (1963 ca). AUFN, TRC/I, busta 38, fasc. 1.
Tullia Romagnoli Carettoni
INDICE
Introduzione
1. Storia politica, questioni di genere, biografia
2. Costruire un archivio, costruire una memoria: il fondo Tullia Romagnoli Carettoni
3. Attraverso le sue carte: una lunga transizione postfascista
1. Tra le giovani donne della nuova Repubblica
1. Da Tullia Romagnoli a Tullia Carettoni
2. Partigiana combattente
3. «Tornata a valle», la Resistenza continua
4. Con Rodolfo Siviero: il recupero delle opere d’arte trafugate
5. Scuola e famiglia: l’impegno nell’Udi
6. «Candidata della pace» alle elezioni del 1948
7. Il “pellegrinaggio politico” in Urss e in Cina
8. Gli anni Cinquanta: tra modernità e tradizione
2. Nella stanza dei bottoni
1. Napoli, 1959. Nella Direzione del Psi
2. Dalla Scuola al Movimento femminile socialista
3. La “questione femminile” negli anni del centro-sinistra
4. Nel salotto delle Tribune politiche
5. 1963: l’ingresso a Palazzo Madama
6. Verso la stagione dei diritti civili
7. La Commissione Franceschini per i beni culturali
3. “Socialista autonoma” nella Sinistra indipendente
1. Conflittualità sociale e immobilismo parlamentare: l’uscita dal Psi
2. Una scuola per l’infanzia
3. Con Parri, per l’unità delle sinistre
4. Dagli Affari esteri alla Vicepresidenza del Senato
4. Nel mondo. I diritti umani
1. Contro la “guerra americana”: l’Issoco e il Comitato Italia-Vietnam
2. La tutela internazionale dei diritti umani: America Latina, Africa e Medioriente
3. L’Italia, la Cee e i paesi fascisti europei
4. Sulla linea della distensione
5. 1975: Anno internazionale della donna
5. In Italia. I diritti civili
1. In difesa del divorzio
2. La “lex Tullia” antireferendum
3. La riforma di famiglia e la “legge per le divorziate”
4. Aborto: problemi e leggi
5. Per il controllo delle nascite
6. Una legge «ipocrita ma necessaria»: la 194/1978
6. Per l’abrogazione della causa d’onore
1. 25 aprile 1976: il contributo della Resistenza alla libertà femminile
2. La protezione sotto attacco
3. La tutela dell’uguaglianza nel ddl 4/1976
4. Lo smantellamento della proposta
5. Il dibattito su delitto d’onore e matrimonio riparatore
6. L’infanticidio per causa d’onore
7. «Un gioco perfido di contro luci»
8. La legge 442/1981
Epilogo
1. Al Parlamento europeo (1979-1984)
2. La Presidenza dell’Istituto italo-africano (1980-1996)
3. All’Unesco (1984-2005)
4. Attraverso i confini
Indice dei nomi
AUTORE–Paola Stelliferi ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università degli Studi di Padova ed è stata assegnista di ricerca all’Università degli Studi Roma Tre. Fa parte della Società italiana delle storiche, per la quale è stata membro del consiglio direttivo nazionale. È autrice di Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere (Bup, 2015), di saggi di ricerca sulla storia dell’aborto nell’Italia repubblicana e sulla storia e la memoria dei femminismi.
EDITORE
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Rivista Atelier-Fotografia di Lena Leander Kaschnig
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
molti i semi molti i fiori morto il bel canto il culto continua ma fuori dalla finestra dentro le campane suonano in cella aorta ferrata trasporto ver sacro
*
La notte come un telo potrebb’esser ampio lenzuolo e non l’avvicendarsi delle piccole ombricole che nel suono si fanno uova nate
una macchina si è affranta sul marciapiede di mattina l’asfalto è tutto specchio
un vecchietto aveva forse scritto una carezza sul viso a una carcassa sembrava come dire il rosso a un uomo di fango.
*
Ocra essere un tubero come l’oro dal terriccio inavvicinabile quando vicino alla morte e coi corni viola senz’ossa diventare tutto frutto oppure come faceva il nonno a casa si chiama cucumarazzo farsi cibo senza pelle e figli superare acerbo la maturità, fresco.
*
COSÌ POTRÒ GUARDARTI LE FESSURE
Qualcuno avrebbe potuto mettere i fiori nel vaso della ricotta come a dire terra espungimi mostra fuori l’approvvigionamento
non si va dove una casa è come la casa la cintola ammira lo spazio cerimoniale appunta il trionfo sopra l’omero vittoria della vita rudimento.
*
Tra un po’ sarà finito il tempo della calendula la persiana rafferma un rettangolo spanciato quadro urbano dell’agosto fatto acqua il suono è lontano – lo si ascolta dalla schiena la finestra è aperta, guarda al mezzo: sarà smessa l’ora che noi in un poco avemmo in dote.
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Il Pittorialismo -scuola fotografica di Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson
Il Pittorialismo
Il Pittorialismo di Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson vengono considerati come dei precursori di una scuola fotografica che conobbe il suo momento di massimo splendore tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che ricopre un ruolo di capitale importanza per lo sviluppo delle tecniche analogiche di post-produzione: il “Pittorialismo”. L’obiettivo dei fotografi pittorialisti era di elevare il mezzo fotografico alla stessa dignità artistica della pittura e della scultura. In quegli anni, infatti, la maggior parte degli artisti “visivi” considerava la fotografia come un mero strumento di riproduzione meccanica della realtà, sprovvista quindi di ogni dignità creativa. I Pittorialisti intendevano dimostrare che la produzione di un’immagine fotografica richiedeva abilità tecniche e senso estetico del tutto paragonabili a quelle di qualsiasi altra forma d’arte. I fotografi che parteciparono attivamente allo sviluppo e alla vita di questa corrente gravitavano intorno a due “club” fotografici, in qualche modo retti e indirizzati da due figure di straordinaria importanza: il “Photo-Club de Paris”, sorto per volere del pittore e fotografo francese Robert Demachy (1859-1936), e l’associazione americana “Photo-Secession”, che aveva il suo promotore nel grande Alfred Stieglitz (1864- 1946).
Pittorialismo
Nella storia della fotografia, termine usato (talora con connotazione negativa) per indicare la tendenza di molti fotografi dell’Ottocento a imitare canoni estetici propri della pittura al fine di conferire dignità artistica alle proprie opere. Più in particolare, il complesso movimento (che si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento in Europa, per poi estendersi agli Stati Uniti) nel quale, in opposizione al diffondersi della fotografia amatoriale e puramente documentaria, veniva proposta una fotografia ‘pittorica’, teorizzando e affermando (con opere eseguite con grande perizia tecnica e sensibilità artistica, sia nella ripresa sia nella stampa) la piena validità e autonomia estetica dell’immagine fotografica, ritenuta degna di occupare un posto di primo piano nelle arti grafiche.
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