Audre Lorde -D’amore e di lotta- Poesie scelte- Testo inglese a fronte
Audre Lorde
Audre Lorde è nata a nord della metropoli come terza e ultima figlia di una famiglia di immigrati da Grenada (Caraibi). È stata una poeta militante che ha riempito i suoi versi della forza libera e denotatrice di Harlem e ha usato la sua poesia come uno stagno in cui far confluire e risuonare la sua lotta verso la piena aderenza di sé stessa in nome dell’uguaglianza.
Nata il 18 febbraio del 1938 nel periodo in cui la povertà per la Grande Depressione agitava le strade di Harlem, cresce in una casa sulla 155ma Strada davanti al fiume Hudson. La famiglia con grandi sacrifici la iscrive in una scuola per studentesse dotate di cui è l’unica ragazza nera. Agli occhi di mamma Linda e papà Frederich, Audre mostra precocemente la sua indole forte e indipendente: decide di troncare una parte del suo nome originale Audrey e recidere la lettera Y e lasciare il nome che le rimarrà appiccicato come segno di distinzione e autoaffermazione. Tra gli scorci di tutto quello che le succede, racconta anche episodi di odio metropolitano: come quando non la fanno sedere sul bus oppure come la osservano mentre attraversa l’incrocio per andare a scuola. Harlem rappresenta in quegli anni il teatro della lotta e protesta degli afroamericani: Malcom X con i suoi comizi riempie l’Apollo Theatre e le vie del quartiere. Lorde per continuare i suoi studi lavora come operaia e infermiera e comincia a frequentare gli ambienti letterari e omosessuali di New York. Negli anni sessanta l’omosessualità era considerata illegale; la comunità gay stanca del deprimente clima di repressione trova nei vecchi edifici industriali, come il Mount Morris di Harlem, un luogo dove esprimersi. In questo composito panorama metropolitano, incontra Edwin Rollins, avvocato bisessuale da cui avrà due figli Elizabeth e Jonathan.
Il matrimonio con Rollins non funziona e Audre si svela a sé stessa attraverso la poesia. Nel 1968 pubblica Two Cities prima delle undici raccolte poetiche. La poesia diventa lo specchio entro cui raccontare la propria diversità e da cui far partire un grido comune, libero, rivolto a tutte le donne. “La pelle nera è come il carbone rinchiuso nelle viscere della terra che si trasforma in diamante”.
Negli anni successvi Lorde viene anche operata per un cancro al seno e racconterà la sua lotta nei Cancer Journals pubblicato nel 1980. In quelle settimane si innamora di una giovane ragazza, Gloria Joseph, che diventerà sua compagna fino alla fine.
La poeta diventerà un punto di riferimento libero e ostinato per la lotta letteraria contro le diversità. Audre Lorde si è battuta perché la poesia diventasse una necessità per ridefinire le libertà e le identità delle persone. Ha costruito un ponte tra mondi diversi in cui affermarsi come donna, nera e omosessuale: il suo messaggio ha abbracciato lentamente tutto il globo, viaggiando assieme a lei dalla Nigeria a Cuba sino alla Nuova Zelanda. Ha saputo portare la sua battaglia femminista ovunque, permeata dalla sua immensa vitalità, documentando anche l’invasione di Grenada, stato insulare nel Mar dei Caraibi in cui è voluta tornare. Nel 1991 è stata nominata Poetessa dello Stato di New York rimanendo per sempre radicata alla sua lotta poetica e al quartiere di Harlem.
Al poeta che si dà il caso sia Nero e al poeta Nero che si dà il caso sia una donna I
Sono nata nel ventre della Nerezza
proprio da in mezzo alle cosce di mia madre
le si ruppero le acque sul linoleum a fiori blu
facendosi come neve sciolta nel freddo di Harlem
le 10 di una notte di luna piena
la mia testa spuntò rotonda come un pendolo
“Eri così scura”, diceva mia madre
“Credevo fossi un maschio”.
II
La prima volta che toccai mia sorella in vita
ero sicura che la terra prendesse nota
ma noi non eravamo intonse
la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco
fiamma aggiogata ero io
spogliata fino alla punta delle dita
la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia
benvenuta a casa
in una lingua che ero contenta di reimparare.
III
Nessuno spirito gelido mi ha mai attraversato le ossa
all’angolo di Amsterdam Avenue
nessun cane mi ha mai presa per una panca
o un albero o un osso
nessun’amante ha mai guardato alle mie braccia brune e grassocce
vedendo ali né mi hai mai chiamato condor per sbaglio
ma conosco a memoria
occhi
che mi cancellano
come un appuntamento indesiderato
posta a carico
timbrata in giallo rosso viola
ogni colore
eccetto Nero e scelta
e donna
in vita.
IV
Non so rammentarmi le parole della mia prima poesia
ma ricordo una promessa
fatta alla mia penna
di non lasciarla mai
giacere
nel sangue altrui.
Donna Madre Nera
Non riesco a ricordarti delicata
eppure attraverso il tuo pesante amore
sono diventata
immagine della tua carne un tempo fragile
spaccata da falsi desideri.
Quando sconosciuti si avvicinano per farmi i complimenti
il tuo spirito antico fa un inchino
e risuona d’orgoglio
ma una volta nascondevi quel segreto
al centro delle furie
soffocandomi
con seni profondi e capelli ruvidi
con la tua carne spaccata
e occhi da sempre sofferenti
seppelliti in miti di scarso valore.
Ma ho sbucciato la tua rabbia
fino al nocciolo dell’amore
e guarda madre
Io Sono
un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito
bella
e dura come castagno
puntello al tuo incubo di debolezza
e se i miei occhi nascondono
uno squadrone di ribellioni in conflitto
ho imparato da te
a definire me stessa
attraverso i tuoi rifiuti.
Stazioni
Certe donne amano
aspettare
la vita un anello
nella luce di giugno un abbraccio
del sole che le guarisca di un’altra donna
la voce che le completi
che sleghi le loro mani
metta parole nelle loro bocche
dia forma ai loro percorsi suono
alle loro grida un’altra dormiente
che ricordi il loro futuro il loro passato.
Certe donne aspettano il treno
giusto nella stazione sbagliata
nei vicoli del mattino
il clamore del mezzogiorno
il calare della notte.
Certe donne aspettano che l’amore
faccia sorgere
il figlio della loro promessa
di raccogliere dalla terra
quello che non seminano
di reclamare dolore per travaglio
di diventare
la punta di una freccia per mirare
al cuore di un adesso
ma non sta mai fermo.
Certe donne aspettano visioni
che non si ripetono
dove non erano benvenute
nude
il rinnovarsi di inviti
in luoghi
che avrebbero sempre voluto
visitare.
Certe donne aspettano se stesse
dietro l’angolo
e chiamano pace quello spazio vuoto
ma il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa.
Certe donne aspettano che qualcosa
cambi e niente
cambia veramente
perciò cambiano
se stesse.
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Per la prima volta in traduzione italiana, questa antologia dà spazio alle poesie di amore e di lotta di una poetessa, Audre Lorde, che ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femminista, Lgbt e delle persone di colore. Con il suo potente linguaggio poetico, Lorde ci regala istantanee della realtà filtrate attraverso uno sguardo acuto e mai distaccato. Nei suoi versi erompe il racconto di una donna Nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, il cui linguaggio è intriso di ognuna di queste parti e dell’intersezione di tutte. Per questo il canto di Audre Lorde arriva a tutte e tutti noi, abbracciando la realtà da un punto di vista situato e proiettandosi oltre, fino a cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli.
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra-Nella foto la geologa-speologa Dott.ssa Tatiana CONCAS
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra –
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra -“Nel dicembre 1987, a circa 300 metri dal Casale della Bottaccia, in seguito a lavori agricoli che hanno provocato lo sprofondamento di una volta, si sono scoperti alcuni ambienti ipogei. L’ispezione, condotta da tale pertugio improvvisato da parte del dottor Sergio Mineo, evidenziava un complesso articolato “in tre ambienti distinti di forma quadrangolare, paralleli e di diversa lunghezza … la cui altezza media è di m. 2,30. I tre vani, dei quali non è stato individuato il piano di calpestio antico, sono coperti da una volta a botte e … raccordati tra loro da passaggi più stretti … L’ambiente C è il più interessante in quanto la sua parete di fondo presenta un bassorilievo scolpito nel tufo … raffigurante, a destra, un serpente, a sinistra un elemento di difficile interpretazione (un albero fortemente stilizzato?) e, in alto, al centro della composizione, una testa, raffigurante probabilmente il volto della divinità, i cui tratti sono del tutto abrasi” (Sergio Mineo, “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, vol. 93, 1989-1990).Il complesso cultuale è stato identificato, con buona probabilità, quale mitraico.
L’AssociazioneCornelia Antiqua ha rinnovato la spedizione nei sotterranei. La visita ha confermato i rilievi del 1987: con qualche novità.
In effetti il volto centrale del bassorilievo è assai poco riconoscibile e purtuttavia il serpente già indica un atmosfera mitraica; e ciò sembra confermata da una nostra umile e personale rilettura dell’elemento a sinistra: non già un albero, benché stilizzato, bensì la raffigurazione d’una pigna, simbolo d’eternità e immortalità, e oggetto ricorrente in sei figurazioni mitraiche (“pomme de pin”) riportate nella celebre compilazione di Franz Cumont Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, 2 voll. 1896 – oggetto, quindi, non casuale, ma caratterizzante tale divinità.
Altra conferma verrebbe da un gruppo in marmo bianco raffigurante, senza dubbio, proprio il dio nella sua versione tauroctona (ovvero Mithra nell’atto di uccidere il toro). Tale gruppo marmoreo sarebbe stato rinvenuto nel 1825 proprio nel nostro mitreo dagli allora proprietari, i nobili Pamphili, che la tolsero a un sonno millenario aggiungendola alla propria straordinaria collezione (oggi esso è visibile alla Galleria Doria-Pamphili di via del Corso).
Lo stesso Cumont ci informa di tale ritrovamento nel secondo volume dell’opera succitata: “26. Composizione in marmo bianco [lunghezza m. 0,29; altezza m. 0,43] trovato nel 1825 sulla via Aurelia attorno all’undicesimo miglio nella tenuta denominata il Bottaccio, là dov’era situato senza dubbio Lorium, la celebre villa degli Antonini. Oggi è visibile alla galleria Doria … Mithra tauroctono con il cane (in parte nascosto dietro il dadoforo a destra), il serpente, lo scorpione e i due tedofori, uno, a sinistra, con in mano la sua torcia alzata, l’altra, a destra, abbassata. Una cinghia o un’ampia cintura circonda il corpo del toro. Restauri: il mantello fluttuante (dove probabilmente era appollaiato il corvo imperiale) e parte del cappello Frigio di Mitra, la torcia e le due mani del dadoforo sinistro. Mediocre lavoro“.
Nella composizione marmorea rinveniamo tutti gli elementi consueti della drammaturgia mitraica: Mithra che pugnala il toro, il serpente e il cane a lambire la ferita, lo scorpione che si avventa sui testicoli dell’animale morente, i due portatori di fiaccola Cautes e Cautopates (il primo la innalza, il secondo la rivolge a terra) che formano col dio una trinità, il corvo, la fertilità del sangue.
Se davvero, come è altamente probabile, tale gruppo proviene dai nostri vani ipogei, e se è sostenibile l’identificazione dell’elemento del bassorilievo quale pigna, è possibile definire, con ottimo grado di approssimazione, l’ambiente quale mitraico.
Se poi verrà confermata la presenza di una nicchia quale ospite del gruppo marmoreo stesso (dovrebbero risultare compatibili le misure anzidette) allora l’approssimazione si tramuterà in certezza.
Articolo di Gianluca Chiovelli , Vice-Presidente Associazione “Cornelia Antiqua”
Associazione Cornelia Antiqua
CHI SIAMO noi dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA–Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
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Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
Chantal Delsol -La fine della cristianità e il ritorno del paganismo- Edizioni Cantagalli-Siena
Descrizione del libro di Chantal Delsol La fine della cristianità-Il futuro dell’Occidente è pagano. Siamo in un declino da spossatezza, barbarie e cancel culture. Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire e oggi siamo testimoni di un’inversione normativa e filosofica che inaugura una nuova era; un’era che non sarà atea o nichilista, come molti credono, ma pagana. La cristianità ha esaurito il suo tempo lasciando spazio a nuove religioni, ad un politeismo che venera gli alberi, la terra, le balene. La transizione è brutale, difficile da accettare per i difensori di un’epoca in via di estinzione.
Dovremmo rimpiangere i tempi passati quando il divorzio era proibito come così l’istruzione superiore delle ragazze? Dobbiamo vivere nella speranza che la cristianità risorga dalle sue ceneri affermando la sua forza morale? Chi vive in questa malinconica nostalgia è già stato cancellato da un mondo che, nel bene o nel male, ormai è cambiato radicalmente.
Il grande Pan è tornato. Il cristianesimo deve inventarsi un altro modo per sopravvivere. Quello del semplice testimone. Dell’agente segreto di Dio.
Breve Biografia di Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi 1947) filosofa, scrittrice, docente di filosofia politica, autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Editorialista di «Le Figaro», è membro della Académie des Sciences morales et politiques dell’Institut de France. Autrice di importanti opere tradotte in diverse lingue, tra le quali ricordiamo: Le Souci con-temporain (1996, 2004), premio Mousquetaire; L’Étatsubsidiaire (1992), premio della Académie des Sciences morales et politiques, trad. it. Lo Stato e la sussidiarietà; Histoire desidéespolitiques de l’Europe centrale, con Michel Maslowski (1998), premio della Académie des Sciences mo-rales et politiques; Éloge de la singularité, essai sur la modernité tardive (2000), premio Raymond-de-Boyer-de-Sainte-Suzanne dell’Accademia francese, trad. it. Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva.
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
Acquistalo in anteprima con il 5% di sconto sul prezzo di copertina e le spese di spedizione a ns/ carico.
Edizioni Cantagalli srl
Indirizzo: Str. Massetana Romana 12
53100, Siena (SI)
Non abbiamo ancora preso piena coscienza della pro- fonda trasformazione che si sta producendo nel nostro tempo: la fine di una civiltà vecchia di sedici secoli. Dopo molte esitazioni, uso questa agghiacciante parola: “ago- nia”. Infatti la morte della cristianità1 non è affatto una morte improvvisa. D’altronde, salvo poche eccezioni, le civiltà non conoscono una morte improvvisa: si estin- guono a poco a poco, in numerosi sussulti. La cristianità combatte da due secoli per non morire, e in questo con- siste quella commovente ed eroica agonia. È così antica che ha creduto all’inizio di poter beneficiare di una sorta di immortalità: non era forse segnata dal sigillo della tra- scendenza? E poi si è creduta, come certi anziani, troppo vecchia per morire. La Chiesa è eterna per i cattolici: ci sarà sempre un gruppo di fedeli, sia pure sparuto, a costitu- irla. Ma la cristianità è qualcosa di completamente diverso. Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chie- sa. Sotto questo aspetto possiamo dire che la cristianità è durata sedici secoli, dalla battaglia del fiume Frigido, nel 394, fino alla seconda metà del XX secolo, con il successo dei sostenitori dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Le cosiddette riforme sociali sono essenziali per ca-
1 In francese il termine Chrétienté ha l’iniziale maiuscola, che va usata per distinguere le civiltà (Islam come civiltà e islam come religio- ne, per esempio). In italiano abbiamo optato per l’iniziale minuscola, dato che tale distinzione abitualmente non è così categorica (ndc).
pire l’inizio e la fine. Infatti questa è davvero una civiltà, in altre parole: un certo modo di vivere, una visione dei confini tra il bene e il male.
L’incredibile energia con cui la cultura cristiana lotta da due secoli per non morire dimostra chiaramente che ha davvero formato un mondo, un mondo coerente in tutti gli ambiti della vita, chiamato cristianità. Non sono d’accordo con Emmanuel Mounier quando dice che non c’è stata alcuna civiltà cristiana: «La cristianità è una “spa- ventosa illusione” […]. Il cristianesimo è un’alternativa nel fondo del cuore […], non un consolidamento che si sta- bilisce con il tempo e con il numero»2. Mounier descrive qui il suo desiderio, non certo la realtà. Il cristianesimo ha costruito una civiltà, che è vissuta secondo le sue leggi e i suoi dogmi, tra mille difficoltà, per sedici secoli.
L’eredità controrivoluzionaria
La stagione dei Lumi, che inizia forse molto presto (con Montaigne? con Vico?) e culmina nella grande Rivoluzio- ne, mette in discussione la cristianità, attacca la civiltà cri- stiana, cioè dei modi di essere, una morale, delle convin- zioni profonde.
La Rivoluzione francese non si è potuta compiere se non in opposizione al cristianesimo, che era fin dall’origi- ne e fino a poco tempo fa, ce ne dimentichiamo troppo, il principale nemico della modernità3.
2 e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 227-228 (or. fr. Feu la Chrétienté [1950], Desclée de Brouwer, Paris 2013, p. 51).
3 Con l’eccezione, ovviamente, dei protestanti. Il termine cristia- nesimo qui include essenzialmente cattolici e ortodossi.
Gli storici hanno mostrato chiaramente quanto la Ri- voluzione francese del 1789, che è la quarta del suo genere in Occidente, sia stata particolare rispetto alle precedenti. Le rivoluzioni olandese, inglese e americana, per rove- sciare il vecchio ordine sociale, si sono appoggiate su una base religiosa come Archimede sulla sua leva. In questi tre paesi regnava la religione riformata, che opponeva pochi ostacoli alle nuove idee. La Rivoluzione francese invece poggiava sul nulla, perché la religione cattolica dominan- te ne rifiutava tutti i princìpi, a cominciare dalla libertà e dall’uguaglianza. La conseguenza fu che le prime tre rivo- luzioni non degenerarono in utopie vendicative e ridicole, ma instaurarono regimi stabili e crearono società in cui la politica e la religione potevano appoggiarsi l’una sull’altra. La Rivoluzione francese sfociò invece in una guerra perpe- tua tra la Chiesa e lo Stato, con tutte le sue conseguenze: quando si priva completamente della vita spirituale, la po- litica cade inevitabilmente in eccessi sinistri. Quanto alla Chiesa, ridotta allo stato di nemico pubblico e perenne- mente in rivolta contro le leggi e i costumi, andava lenta- mente indebolendosi.
Le prime rivoluzioni moderne fondate sulla libertà fu- rono delle conquiste protestanti. Per questo le democrazie anglosassoni di oggi non hanno rifiutato i riferimenti re- ligiosi all’interno perfino della politica: non si disdegna la propria culla. D’altra parte, come scrive Pascal Ory:
«La Rivoluzione francese, al contrario delle altre tre, non si è potuta appoggiare a una religione che, questa volta, era cattolica, apostolica e romana. I valori che sosteneva si contrapponevano frontal- mente a quelli del Magistero romano, facendo del-
la Chiesa cattolica per più di un secolo il principale organismo antiliberale del mondo occidentale»4.
A partire dall’inizio del XIX secolo, infatti, la Chiesa cat- tolica si erge come baluardo contro la modernità. E poiché la libertà moderna si fa strada come un destino ineluttabile e non può crollare, dal momento che sono i suoi avversari a rendersi ridicoli, la Chiesa nel giro di un secolo e mezzo perderà a poco a poco il suo potere, il suo credito e la sua influenza: «I secoli moderni sono una crociata contro il cri- stianesimo», diceva José Ortega y Gasset5. È la caduta della cristianità come civiltà cristiana.
La cristianità come civiltà è il frutto del cattolicesimo, religione olistica, che sostiene una società organica, rifiuta l’individualismo e la libertà individuale. Era naturale che si scontrasse con la modernità e, una volta arrivata quest’ul- tima al proprio apice, il suo destino era quello di scompa- rire. Quando in occasione del Concilio Vaticano II, negli anni ’60 del XX secolo, la Chiesa riconobbe finalmente la libertà religiosa, «rivoluzione copernicana» (J. Isensee) preparata dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, nel 1963, ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni6. E infatti si trattava addirittura di proclamare esattamente il contrario di quanto aveva decretato Pio IX nel Sillabo,
4 ory, Qu’est-ce qu’une nation?, Gallimard, Paris 2020, p. 161.
5 J. ortega y gasset, Il tema del nostro tempo. La vita come dialogo
tra l’io e la circostanza, SugarCo, Milano 1985, p. 116 (or. spagn. El tema de nuestro tiempo. El ocaso de las revoluciones. El sentido histórico de la teo- ría de Einstein, Calpe, Madrid 1923).
6 J.-m. mayeur (dir.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cul- tura, vol. 13, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla-Città Nuova, Roma 2002, pp. 79 e 107 (or. fr. Histoire du christianisme, t. XIII, Crises et renouveau, de 1958 à nos jours, Desclée, Paris 2000, pp. 69 e 109).
un secolo prima… Che cosa significa questo capovolgi- mento, e qual è il suo scopo? Si può capire che la Chiesa non voglia, di fronte agli assalti della modernità, rimanere una fortezza assediata. Tuttavia essa è la sentinella di una verità più che di una reputazione. È molto difficile com- prendere questo evidente cambiamento di rotta, che rati- fica la fine dell’olismo cattolico e un timido ingresso nella società moderna dell’individualismo – poiché significa che «l’uomo deve essere considerato non come l’“oggetto” della vita sociale o come uno dei suoi elementi passivi, ma come il suo “soggetto”, il suo fondamento e il suo fine»7. Tuttavia, anche se la Chiesa avesse voluto, così facendo, riconciliarsi con i tempi, sarebbe stato troppo tardi. La tar- da modernità, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, considera la Chiesa come un’istituzione decisamente ob- soleta, perché poggia su una verità e fa uso dell’autorità per sostenerla. Durante la seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI, le divergenze si accumuleranno. Il liberali- smo/libertarismo imperante rappresenta l’esatto opposto del modo di pensare ecclesiale.
Oggi, la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni princìpi di libertà di coscienza e di re- ligione – tranne qualche piccolo gruppo che peraltro non oserebbe difendere apertamente le proposizioni del Silla- bo. E più ancora: la maggior parte del clero e dei fedeli nutre rammarico e rimpianto ricordando la radicalità del Sillabo.
A partire dall’inizio del XIX secolo incomincia la lun- ga campagna di difesa cristiana. Antoine Compagnon ha mostrato fino a che punto, nei due secoli che ci hanno pre-
ceduto, abbia sovrabbondato la letteratura antimoderna8. All’interno di questa letteratura, subito dopo la Rivoluzione emerge, e sempre più chiaramente, l’ossessione della fine della cristianità.
Il mio intento non è quello di fare la cronistoria di que- sta presa di coscienza con i suoi drammatici sussulti, ma semplicemente di mostrare, brevemente e a mo’ di in- troduzione, come il pensiero cristiano abbia progressiva- mente rinunciato alla cristianità. Non si può definirlo un tradimento, anche se si tratta di una serie di concessioni, ognuna delle quali vorrebbe essere l’ultima mentre già lascia la porta aperta a quella successiva. Il tradimento in effetti presuppone un’alternativa, ma in questo caso non si vede altra scelta possibile – le soluzioni estreme per salva- re la cristianità sono state tentate nel XX secolo e si sono rivelate peggiori del male. Non si può chiamarlo una ri- nuncia, che presuppone un’indifferenza, una fatica, quan- do si guarda all’estrema combattività, alla fede ardente che anima tutta una genealogia di scrittori cristiani, da Juan Donoso Cortés fino a William Cavanaugh, passando per Jacques Maritain e tanti altri. Questa storia di due secoli segna piuttosto una graduale assuefazione a una situazio- ne inizialmente ritenuta inaccettabile, una lunga catena di compromessi di varia portata e, alla fine, una situazione in cui non resta nulla. È la storia di una sconfitta dove tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato, e come si vedrà, nemmeno l’essenziale: la storia concreta di un’agonia, o se si vuole, di una lotta all’ultimo sangue, persa in anticipo.
8 A. ComPagnon, Gli antimoderni, Neri Pozza, Vicenza 2017 (or. fr. Les antimodernes, Gallimard, Paris 2005).
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Edizioni Cantagalli srl
Indirizzo: Str. Massetana Romana 12
53100, Siena (SI)
Prof. Chantal Delsol doktorem honoris causa Katolickiego Uniwersytetu Lubelskiego
Prof. Chantal Delsol
Prof. Chantal Delsol odebrała w niedzielę w Lublinie doktorat honoris causa KUL. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo już nas nikt nie chce słuchać. Misja musi przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi o dokonanie zasadniczego zwrotu” – mówiła filozofka.
Nadanie tytułu doktora honoris causa KUL prof. Chantal Delsol miało miejsce w niedzielę podczas uroczystego rozpoczęcia roku akademickiego, które zakończyło również VII. Kongres Kultury Chrześcijańskiej w Lublinie.
W uchwale Senatu KUL uzasadniono, że to najwyższe wyróżnienie w świecie akademickim jest wyrażeniem szacunku i uznania dla prof. Chantal Delsol „jako wybitnej humanistki upominającej się w swoich pismach filozoficznych i literackich o godność osoby ludzkiej i prawdę w post-ponowoczesnym świecie”.
W swoim wykładzie prof. Chantal Delsol zwróciła uwagę, że chrześcijańskim powołaniem jest misja: „staniecie się rybakami ludzi…”. Ta misja – jak mówiła – to dawanie świadectwa aż po krańce ziemi. „Żyjemy w tej chwili w czasach, kiedy na Zachodzie chrześcijaństwo jest tolerowane pod warunkiem, że nie obiera sobie misji za cel. Stawia nas to w bardzo niekomfortowej sytuacji. Powiedziałabym nawet, żew sytuacji dramatycznie sprzecznej” – podkreśliła francuska filozofka.
Jej zdaniem nie możemy dalej wyobrażać sobie misji jako głosu autorytetu panującego nad ciałami i duszami. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo byliśmy nimi za długo, już nas nikt nie chce słuchać. Misja nasza musi się więc zmienić – przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi tutaj o dokonanie zasadniczego zwrotu” – zwróciła uwagę prof. Delsol.
Zaznaczyła, że wielu misjonarzy w przeszłości było prawdziwymi świadkami tego, co sami głosili. „Ogólnie jednak rzecz biorąc, mamy raczej przed sobą kaznodziejów – ani gorszych, ani lepszych od innych – krótko mówiąc ludzi, którzy czasami wydają się gorsi od innych, ponieważ ich autorytet daje im sposobność do wykorzystywania ludzkich słabości, np. spójrzmy na przypadki pedofilii” – wskazała filozof.
W jej opinii, jeśli nadal chcemy żywić szacunek dla powołania misyjnego, to liczy się tutaj jedynie świadek: prosty, pokorny, zwyczajny. Według niej powinien nawracać on jedynie poprzez swoją własną osobę, swoje własne postępowanie.
„Jednak w tej chwili – przez kilka jeszcze dziesięcioleci albo może nawet stuleci – niech chrześcijanie nie otwierają ust, bo za wiele mówiliśmy i zbyt często tylko mówiliśmy. Potrzebujemy bardzo długiego okresu wstrzemięźliwości, mam na myśli wstrzemięźliwość od słów, od kazań. Pozwólmy ujrzeć, ukazać żywą postać dobrej nowiny” – mówiła francuska filozofka.
Prof. Delsol podkreśliła, że jeżeli misja ma oznaczać podbój, to możemy natychmiast odrzucić tę ambicję. „Będziemy jednak kontynuować historię chrześcijaństwa w ten oto sposób – w filozofii, zastępując dogmatykę fenomenologią; w duszpasterstwie, zastępując dogmatykę świadectwem” – stwierdziła.
Podczas swojego przemówienia inauguracyjnego rok akademicki rektor KUL ks. prof. Mirosław Kalinowski zwrócił uwagę, że „we współczesnych czasach nowoczesności, pluralizmu i postmodernizmu” KUL jest powołany do zadań wyjątkowych.
„Chcemy być uczelnią nowoczesną, ale opartą o tradycję; przodującą w rankingach naukowych, ale równocześnie mającą swój wyrazisty charakter, do którego zobowiązuje przydomek +katolicki+. Uczelnią widoczną w życiu społecznym i proponującą nowe, ciekawe rozwiązania w wielu dziedzinach, ostatnio także w zakresie medycyny, a równocześnie wprowadzającą do świata nauki i relacji społeczno-gospodarczych ducha prawdy, uczciwości, moralności, wysokiej kultury” – zaznaczył rektor.
Katolicki Uniwersytet Lubelski jest najstarszą uczelnią w Lublinie. Powstał w 1918 r. Kształci ponad 8 tys. studentów, w tym ok. 3 tys. na pierwszym roku. Wśród ok. 700 cudzoziemców najliczniejszą grupę stanowią Ukraińcy i Białorusini.
Chantal Delsol (ur. 16 kwietnia 1947 r. w Paryżu) jest profesorem filozofii politycznej, francuską myślicielką zajmującą się przemianami świata postnowoczesnego, członkinią Akademii Francuskiej, a także publicystką oraz autorką książek filozoficznych i powieści. Jest założycielką Instytutu Badań im. Hannah Arendt oraz dyrektorką Ośrodka Studiów Europejskich na Uniwersytecie Marne-la-Vallée w Paryżu. Po polsku ukazały się m. in. „Esej o człowieku późnej nowoczesności” (2003), „Nienawiść do świata. Totalitaryzmy i ponowoczesność” (2017), „Koniec świata chrześcijańskiego” (2023).
Roma-Galleria d’Arte Moderna -Retrospettiva Nino Bertoletti-
Roma-Galleria d’Arte Moderna -Retrospettiva Nino Bertoletti dall’11 aprile sino al 14 settembre 2025-a cura di Pier Paolo Pancotto che affronta la complessità della figura e della produzione di Nino Bertoletti, artista poliedrico, capace di spaziare con la stessa intensità dalla pittura alla grafica, dall’architettura al giornalismo fino al collezionismo.
Una solida formazione culturale, i numerosi viaggi per visitare mostre e musei in tutta Europa, la conoscenza delle lingue straniere, un’ampia e selezionata biblioteca privata permettono a Nino Bertoletti, fin da giovane, di coltivare contemporaneamente interessi diversi, per lo più orientati in ambito artistico, intrecciando passione e professione.
Nino Bertoletti
Tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento vive il periodo più intenso del suo percorso, partecipando alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e alle maggiori rassegne del periodo. Collabora all’organizzazione di eventi istituzionali, progetta un intervento architettonico per via della Conciliazione e contribuisce alla decorazione di un cantiere dell’E42 a Roma. Attivo anche come collezionista e mercante d’arte, da artista dialoga in prima persona sia con gli ambienti d’avanguardia (il gruppo de “La Casa”, di Villa Strohl Fern e della Secessione a Roma) sia con i cosiddetti “neo-classici” e con il gruppo del Novecento; entra in contatto con i maggiori interpreti del proprio tempo in campo artistico (Giorgio de Chirico, in primis, come anche Cipriano Efisio Oppo, Armando Spadini, Fausto Pirandello) e letterario (Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Paola Masino, Emilio Cecchi, tra gli altri).
La sua carriera si sviluppa in parallelo a quella della moglie Pasquarosa (1896-1973), pittrice di rilievo con cui condivide viaggi ed esperienze culturali, oltre al grande amore per l’esercizio creativo.
Informazioni
Luogo
Galleria d’Arte Moderna
Orario
Dall’11 aprile al 14 settembre 2025
dal martedì alla domenica ore 10.00-19.00
Chiuso il lunedì e il 1° maggio
CONSULTARE SEMPRE LA PAGINA AVVISI prima di programmare la visita al museo
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Umberto Bellintani nasce a Gorgo di San Benedetto Po il 10 maggio 1914 e muore a San Benedetto Po il 7 ottobre 1999.Fra gli anni 1932 e 1937 studia scultura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, allievo di Marino Marini.Partito volontario per la guerra, patisce i campi di concentramento di Dachau, Torn, Peterdorf e Górlitz. In guerra comincia a trasfondere in versi il suo forte senso della “poesia della vita”.Alla fine del conflitto, impossibilitato a riprendere la scultura, per breve tempo insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto Po per poi svolgere le mansioni di segretario presso la Scuola Media di San Benedetto Po.In vita dà alle stampe cinque importanti raccolte di versi: Forse un viso tra mille (Vallecchi 1953), Paria (Mondadori 1955), E tu che m’ascolti (Mondadori 1963), Nella grande pianura (Mondadori 1998) e Canto autunnale (Perosini 1998).
Umberto Bellintani -Poeta italiano
POESIE
Per un bambino che non conosce più i passeri
Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.
E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,
e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.
Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.
Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco.
Dolce chiude l’ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d’anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v’è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s’alterna
timore d’essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l’ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Poiché veramente sono fratello
Poiché veramente sono fratello
del topo nella bocca della gatta
che svelta se ne corre via
e sopportare non posso il ragazzo
scemo che inchioda al tronco
dell’acero la lucertola
ecco che uccido il ragazzo
con il cuore e gli tronco le mani,
poi rendo la testa della gatta
in poltiglia con colpi di pietra
ed è davvero perché sono fratello del fossato
della latta arrugginita e dei ciottoli
della strada e di ogni essere che vive o non vive
ecco che amo e odio follemente il mondo.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Più d’una rete
Più d’una rete luceva sulle acque,
stillando al sole; di poi si sommergeva.
Ed era un giubilo d’allodole quando
al pescatore sotto riva lento emerse
il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo.
Allora il pianto della madre ruppe in gridi,
e quello muto d’altre donne dilagò
ed era greve. Ma nel cielo
ancora il sole risplendeva e la Riparia
era pur sempre gorgheggiata dalle rondini.
Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore
antica stella che illumini nei boschi
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.
Angela
Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell’amore:
c’è il buono di un’anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c’è tanto della mamma nei tuoi occhi
di un benevolo nero;
e che ti prende, di poi si vergogna.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Fratelli
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato
in questa vita così fatta per gli uomini;
chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino
e ha distrutto le colture, e chi la donna
dell’amico ha condotta a perdizione.
Ma non per questo nessuno v’è che peni;
ognuno soffre la montagna della morte
che gl’impedisce di vedere il proprio figlio
e la sua donna, la casa, il campo amato,
un volto amico, un arnese, umili cose.
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Il gatto che ritto si dorme
Il gatto che ritto si dorme
al sommo del palo in questa quiete
dell’aria al pomeriggio di fuoco,
e la rana che grida terrore
dove il fosso s’incurva,
sono voci dell’arcano, e la cetonia
stremata sul sentiero e l’acqua
infesta di torpore e morte;
voci dell’arcano
che dilagan talvolta allora
che tutto s’addensa nel cuore,
preme e non sai
se di vita diversa un esser vivo
un irrequieto immortale
o d’altri mondi a noi cala la voce.
Altro non sai che tu vivi
di questo senso profondo della vita
che ti snerva e che puoi
affascinato dare il fianco alla morte.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Una pianura tutta verde
Immaginiamola, amici, una pianura tutta verde
e tutta piena di bianchi scheletri.
E ditemi voi se non è bella una pianura tutta verde
di primavera ben coperta di quegli scheletri
distesi al sole e tanti fiori sparsi intorno.
Immaginiamola, amici, una pianura tutta sola
come s’intende cosparsa di margherite.
E ditemi voi se non è bella una pianura verde
tutta gremita di margherite e bianchi scheletri.
Immaginiamola, amici, la morte bianca distesa al sole
con tanti scheletri in quella piana di fresco verde.
A Berto
Case vuote abbandonate
occhi allucinati di finestre
amate case di campagna
lombarde voci della vita
case morte della mia pianura
vite spente della gioia
aie al sole della luce
mia tristezza che non taci mai.
Ancora: forse Dio non esiste,
esiste soltanto esiste
il sempre che vive in noi
eternamente.
Morirete senza tremare
di sgomento
perché nessun figlio resterà
solo. Fonte Poesie dal sito www.italian-poetry.org
APRILE
(Umberto Bellintani)
Tu vivi il tempo di grazia dell’aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d’ali di quell’anatra smarrita,
un piccol sasso, un’inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m’allieta,
di come il male della vita qui s’apposta;
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l’anima contrita,
se per l’azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l’upupa rara.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
NOSTALGIA
Torna un lamento,
e ne dà l’eco la pallida
ombra del monte al capo viola.
Vedo gli uccelli
sui comignoli dei tetti
di un paese dell’Epiro
e scroscia un fresco scintillato di rugiada.
E mentre trebbiano il grano
dei fulvi cavalli arrivo
ove l’oracolo di Delfo era
nel volto corrucciato del greco
fiero di odiarmi.
Non sarò forse mai,
non avrò più ritorno
a quelle terre ove
di me in cerca s’aggira
un ebbro momento.
Oh triste
esser dispersi nel tempo
e per terra divisi
in parti ed ogni parte la sorella
chiamare vanamente.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Chi era Umberto Bellintani
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Umberto Bellintani nasce a Gorgo, frazione di San Benedetto Po, provincia di Mantova. Fra il 1932 e il 1937 frequenta a Monza l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Ha come maestri (oltre a Marino Marini, docente di Plastica Decorativa, con cui si diploma in scultura nel 1937) Arturo Martini, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Giuseppe Pagano (architetto), Edoardo Persico. Confesserà in più di una lettera all’amico Parronchi che quegli anni furono intensi e pieni di sogni, fra tutti quello di diventare scultore. Purtroppo, delle opere eseguite da Bellintani in quel tempo è rimasto pochissimo: una scultura denominata Fanciullo, conservata nella raccolta Collezioni Civiche di proprietà del Comune di Monza e Il legionario, scultura a figura intera, conservata in uno dei chiostri della Società Umanitaria a Milano. Richiamato alle armi nel 1940, combatte in Albania e in Grecia. È prigioniero, dal 1943 al 1945, nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Thorn e Peterdorf nell’attuale Polonia. Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura, dapprima insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto, poi è assunto come applicato di segreteria presso la locale Scuola Media. Sposatosi nel 1940 con Eva Pedrazzoli, ha due figli, Marino e Rita. Il suo esordio poetico avviene nel 1946 quando si colloca al secondo posto ex aequo con Vittorio Sereni al Premio Internazionale “Libera Stampa” (1946-1966) di Lugano e suscita l’interesse da parte della critica più accreditata. Pubblica nove poesie sul Politecnico di Elio Vittorini, due su Paragone di Roberto Longhi, altre su Itinerari. Nel 1953 pubblica la sua prima raccolta di versi Forse un viso tra mille, per la Casa Editrice Vallecchi. Nel 1954, agli Incontri fra generazioni, che avevano sostituito il Premio San Pellegrino, ottiene il Premio Minerva Italica mentre Rocco Scotellaro riceve un premio alla memoria. Nel 1955 pubblica Paria, Edizioni della Meridiana, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro Ferrata. Nel 1962 vince il Premio Cervia e ottiene la medaglia d’oro al Premio LericiPea. Nel 1963 pubblica E tu che m’ascolti, per la Casa Editrice Mondadori, nella collana Lo specchio. La raccolta comprende anche la ristampa di Paria. Dopo aver raggiunto considerevoli consensi, sparisce dalla scena letteraria e per ben 35 anni non pubblica niente altro. In questo arco di tempo, comunque, non cessa mai né di scrivere né di disegnare e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti. Nel 1983 Alessandro Parronchi lo convince a esporre alla Galleria Pananti di Firenze, dal 18 al 28 giugno, un gruppo di cinquanta disegni. Umberto Bellintani accetta ma ordina poi a Piero Pananti di distruggere i cataloghi: di essi rimane solo una copia. Nel 1998, poco prima della morte, avvenuta il 7 ottobre 1999, escono due raccolte di poesie: – Nella grande pianura, una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una scelta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che mi ascolti, a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori Editore; – Canto autunnale, quarantacinque componimenti editi e inediti, a cura di Italo Bosetto, per l’Editore Perosini di Verona. Alcune poesie circolavano già, firmate con vari pseudonimi: Tino di Camaino, Federico Fiume, Berto della Rita. Con quello di Virgilio il Greco, coniato da Suzana Glavaš, nel 1995 erano apparsi quattro inediti sulla rivista Da qui.[10], diretta da Giuseppe Goffredo. Nel 1999 vince il Premio di Poesia Circe Sabaudia e il Premio Speciale David Maria Turoldo al concorso letterario Renzo Sertoli Salis di cui ha notizia ma che sarà consegnato postumo, il 29 ottobre, alla figlia Rita.
Nel 2000 il Comune di San Benedetto Po dedica al suo nome la Biblioteca Pubblica e istituisce il “Premio Bellintani di San Benedetto Po”. Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Sempre nel 2000, il Comune di Mantova organizza, a Palazzo Te, una Mostra di suoi disegni e, al Centro Culturale Biblioteca Baratta, un percorso fotografico dal titolo Umberto Bellintani, Luoghi, di Piero Baguzzi. Nel 2005, dal 6 febbraio al 20 marzo, un’altra mostra “Umberto Bellintani- Disegni” è stata organizzata da Afro Somenzari alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana. Negli anni Cinquanta, il professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato in due università milanesi, attraverso Salvatore Quasimodo e l’antologia poetica, Poesia Italiana del Dopoguerra, da lui curata e pubblicata nel 1958, conosce la poesia di Bellintani e se ne fa estimatore in patria. Agli inizi degli anni ottanta, Suzana Glavaš, studentessa di lingua e letteratura italiana dell’Università degli Studi di Zagabria allora, e oggi docente di lingua croata all’Università L’Orientale di Napoli, frequenta le lezioni del professor Mladen Machiedo e scopre la poesia di Bellintani. Nel 1984 viene di persona in Italia, a Gorgo, a incontrare il poeta perché vuole dedicargli la tesi di dottorato e lui, nel Natale 1986, le invia in regalo un manoscritto con un gruppo di poesie inedite. Nel 1995 la Glavaš discute e pubblica la sua tesi di dottorato, Iskustvo i mit u poeziji Umberta Bellintanija (Esperienza e mito nella poesia di Umberto Bellintani), Zagreb 1995. Nel 2006, pubblica in Italia, col titolo Se vuoi sapere di me, la settantina di poesie inedite regalatele dal poeta, presso la Poiesis Editrice di Alberobello, Bari, e La Mongolfiera Editrice di Cosenza, nella collana Diwan della Poesia, curata dal poeta e critico Giuseppe Goffredo. Nel 2008 uscirà a Zagabria, a cura della Glavaš, una scelta antologica di poesie di Bellintani da lei tradotte e presentate con testo a fronte e uno studio sulla poesia Notte Incantata. (fonte Wikipedia)
Umberto Bellintani -Poeta italiano
<<Ond’io canti dolcezza e amore, e il cardo fiorito, e te rincorra, nuvola vaghissima del cielo margherita, anche per me nel campo ara il vecchio padre.>> *Versi di ispirazione autobiografica di Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Autore oggi poco conosciuto, legato alla terra ed al mondo contadino, lo scultore e poeta lombardo è stato sempre apprezzato da importanti critici e poeti. Tra loro, il celebre narratore Carlo Emilio Gadda, che ne ammira “la dizione scarna e commossa, la nettezza dolorosa dell’immagine, l’autenticità dell’angoscia poetica”, e lo scrittore Franco Fortini, che lo qualifica come “Esenin rurale”. Ed ancora, Eugenio Montale, il quale scrive in un articolo del Corriere della Sera nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni. Spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola.” Maurizio Cucchi, infine, così definisce nel 1995 il suo universo bucolico: “È un poeta di ruvida violenza espressiva. Il suo mondo parrebbe quello di una realtà sprofondata nella terra, ma dove il poeta legge qualcosa che la oltrepassa, qualcosa di arcano”. Lo stesso Bellintani rievocava la sua attrazione verso l’arte poetica ed il suo amore per la natura in un testo autobiografico del 1959: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare di erbe e di fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi.
Articolo di Valentina Barbieri -• festival letteratura 08 settembre 2014-
Articolo di Valentina Barbieri –Poeta Umberto Bellintani: l’uomo che dava del tu alla natura
Al Campiani l’omaggio al poeta di Gorgo, a cent’anni dalla nascita, con Nella Roveri, Antonio Prete e Fabrizio Dall’Aglio
Articolo di Valentina Barbieri -08 settembre 2014- Eugenio Montale scrisse di lui: «Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola». Ieri, al conservatorio Campiani, si è aperta così la finestra che il Festivaletteratura ha voluto riservare alla memoria di Umberto Bellintani, per il centenario dalla sua nascita. La citazione è partita da Antonio Prete, editore della nuova edizione (a cura di Elia Malagò e Nella Roveri) della prima raccolta di Bellintani, Forse un viso tra mille pubblicata nel 1953. «Mi è strano parlare di Bellintani da editore- afferma Prete- lui ebbe un rapporto così contrastato con l’editoria. Dopo l’uscita di E tu che m’ascolti nel 1963 sparì dalle scene e non pubblicò più nulla per trent’anni. Trovo calzante ciò che scrisse di lui Montale: la poesia vera si rifugia sempre in uomini che sembrano con avere le carte in tavola. Uomini scomodi, spesso distanti, apparentemente lontani dal mondo». Bellintani lontano dal mondo lo era probabilmente solo in senso fisico. Non si allontanava dalla sua Gorgo se non per contigenti necessità, non aveva pretese di pubblicazione, era lontano dall’opportunismo e dalla gloria effimera. Nonostante ciò, per tutta la sua vita, mantenne una corrispondenza costante con quelli che erano, al tempo, i maggiori protagonisti della poesia e letteratura del Novecento. Fortini, Vittorini, Caproni, Sereni, Zavattini, Pasolini. Nella mostra, allestita nel museo civico polironiano a San Benedetto Po, inaugurata a maggio in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Bellintani, che rimarrà aperta fino al 5 ottobre, sono esposte alcune lettere, tra le più importanti del suo infinito carteggio. «Le carte sono veramente tantissime-aggiunge Nella Roveri- Bellintani scriveva su ogni tipo di supporto: anche sui cartoni della pasta. C’è un immenso materiale che andrebbe studiato approfonditamente». Tra le tante lettere che il poeta di Gorgo scrisse, vi è il carteggio con Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo. «Nel 1951- racconta Fabrizio Dall’Aglio- Bellintani inviò tutte le sue poesie a Don Primo. Non è una cosa usuale per il poeta di Gorgo che, di solito, non amava inviare bozze delle sue opere. Ma a Don Primo sì. Lo fa, a parer mio, per svelare al parroco la sua vera anima. La poesia diventa per lui un veicolo della confidenza. Con Don Primo scoccherà un’empatia tale che il parroco confessò a Bellintani di “essersi riposato e ricreato nella lettura delle sue poesie”». Dall’Aglio ha segnalato come nelle poesie di Bellintani la fede non assurga mai a trascendenza, bensì ad immanenza. Come il poeta di Gorgo riuscisse a ritrovare nelle cose l’infinito. I versi delle sue poesie si colorano così di immagini, di un bestiario fittissimo di esseri viventi attraverso cui emerge un’adesione alla terrestrità e alla creaturalità. Con Bellintani vi è un ritorno alla letizia e alla natura indagata a partire da Lucrezio e, nello stesso tempo, il terrore che le parole non portino più con sè le cose, che perdano la loro prossimità col mondo, che esauriscano il tu con la natura.
• festivaletteratura 2014
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Poesia di Refaat Alareer-Poeta palestinese , morto nella Striscia di Gaza-
Refaat Alareer (1979 – 2023) era un poeta, scrittore e professore universitario di letteratura comparata presso la Islamic University di Striscia Gaza. Attivista, cofondatore del progetto We Are Not Numbers, nato per raccontare storie di quotidianità con la collaborazione di autori affermati e giovani scrittori di Gaza. La poesia che qui pubblichiamo è stata scritta in inglese il 1° novembre 2023. L’intellettuale gazawi, appassionato di Shakespeare, è stato ucciso nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023, insieme ad altri 7 membri della sua famiglia, durante un raid israeliano che ha colpito la sua casa.
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Se dovessi morire L’ultima poesia di Alareer, Se dovessi morire (titolo originale: If I must die), ha conosciuto ampia diffusione dopo la sua morte ed è stata tradotta in più di 40 lingue.
SE DOVESSI MORIRE
(Refaat Alareer)
Se io dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere tutte le mie cose
comprare un po’ di stoffa
e qualche filo,
per farne un aquilone
(magari bianco con una lunga coda)
in modo che un bambino,
da qualche parte a Gaza
fissando negli occhi il cielo
nell’attesa che suo padre
morto all’improvviso, senza dire addio
a nessuno
né al suo corpo
né a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che hai fatto tu,
volare là in alto
e pensi per un attimo
che ci sia un angelo lì
a riportare amore.
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto!
IO SONO TE
Due passi: uno, due.
Guardati allo specchio:
l’orrore, l’orrore!
Il calcio del tuo M-16 sullo zigomo
la macchia gialla che ha lasciato
la cicatrice a forma di proiettile che si espande
come una svastica,
che serpeggia sul mio viso,
il dolore che scorre
dai miei occhi che gocciola
dalle mie narici che perforano
le mie orecchie che si allagano.
Come è successo a te
80 anni fa
o giù di lì.
Sono solo te.
Sono il tuo passato che ti tormenta
il tuo presente e il tuo futuro.
Mi sforzo come hai fatto tu.
Combatto come hai fatto tu. Resisto come hai resistito tu
e per un momento,
prenderei la tua tenacia
come modello,
non stavi tenendo
la canna della pistola
tra i miei occhi sanguinanti?
Uno. Due.
La stessa pistola
lo stesso proiettile
che ha ucciso tua madre
e ucciso tuo padre
viene usato,
contro di me,
da te.
Segna questo proiettile e segnalo nella tua pistola.
Se lo annusi, ha il tuo e il mio sangue.
Ha il mio presente e il tuo passato.
Ha il mio presente.
Ha il tuo futuro.
Ecco perché siamo gemelli,
stesso percorso di vita
stessa arma
stessa sofferenza
stesse espressioni facciali disegnate
sul volto dell’assassino,
tutto uguale
tranne che nel tuo caso
la vittima si è evoluta, all’indietro,
in un carnefice.
Te lo dico.
Io sono te.
Tranne che non sono il te di adesso.
Non ti odio.
Voglio aiutarti a smettere di odiarmi
e uccidermi.
Te lo dico:
il rumore della tua mitragliatrice
ti rende sordo
l’odore della polvere da sparo
con quello del mio sangue.
Le scintille sfigurano
le mie espressioni facciali.
Smetteresti di sparare?
Per un momento?
Lo faresti?
Tutto quello che devi fare
è chiudere gli occhi
(vedere questi giorni
acceca i nostri cuori.)
Chiudi gli occhi, forte
così puoi vedere
con l’occhio della mente.
Poi guardati allo specchio.
Uno. Due.
Io sono te.
Io sono il tuo passato.
E uccidendomi,
tu uccidi te stesso.
Refaat Alareer-Poeta palestinese-Aquilone
(inglese)
«If I must die,
you must live
to tell my story,
to sell my things
to buy a piece of cloth
and some strings,
(make it white with a long tail)
so that a child, somewhere in Gaza
while looking heaven in the eye
awaiting his dad who left in a blaze—
and bid no one farewell
not even to his flesh
not even to himself—
sees the kite, my kite you made, flying up above
and thinks for a moment an angel is there
bringing back love
If I must die
let it bring hope
let it be a tale»
Refaat Alareer-Poeta palestinese
<<Io sono te. Io sono il tuo passato. E uccidendomi, tu uccidi te stesso.>>
*Versi di Refaat Alareer (Shuja’iyya, 1979 – Gaza, 2023) che equiparano lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti all’eccidio di civili compiuto attualmente dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Il palestinese Alareer, poeta e docente di letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza che documentava tramite i social media le sofferenze del suo popolo nel corso del conflitto arabo-israeliano, morì con due fratelli e tre figli il 6 dicembre 2023 in seguito ad un attacco aereo israeliano che distrusse il palazzo in cui abitava. Secondo diverse organizzazioni umanitarie, il bombardamento sarebbe stato mirato ad eliminare l’accademico, già destinatario di continue minacce online, sacrificando le vite dei condomini dell’intero edificio.
Sul magazine ‘La fionda’, così racconta la vicenda umana dello scomodo testimone lo storico Antonio Bocchinfuso: “Refaat Alareer aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta. Il 6 dicembre 2023 rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il ‘pericoloso’ intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito ‘chirurgicamente’. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre ‘bombe intelligenti’, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura, costi quel che costi.”
Poche settimane prima della sua scomparsa, aveva pubblicato sul social X la poesia ‘Se dovessi morire’, composta il primo novembre 2023.
La lirica contiene l’invito a proseguire il suo racconto, preziosa eredità morale raccolta dalla sua allieva Amna Shabana, che scrive: “È il marzo del 2024. L’intera università che tanto amava è ormai in macerie. Il dottor Refaat è stato assassinato. L’unica via è la morte continua. Ma finalmente ho capito qualcosa sulle lezioni di Refaat e sul potere che avevano le sue parole: lo hanno tenuto in vita. Nessuno potrà mai privarmi della sua ispirazione. Finché respirerò, racconterò le sue storie e le infinite storie della mia città, occupata e messa a tacere, alla luce dei suoi racconti.”
☞il blog di Refaat Alareer ☟ https://thisisgaza.wordpress.com/ ☞il profilo X di Refaat Alareer ☟ https://x.com/ThisIsGaZa ☞il progetto fondato da Alareer, ‘We are not numbers’, gestito da giovani scrittori palestinesi ☟ https://wearenotnumbers.org #Poesia #Poeti #RefaatAlareer #GuerraAraboIsraeliana #Israele #Palestina #Gaza
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Il poeta e l’ulivo. In memoria di Refaat Alareer Articolodi Antonio Bocchinfuso(articolo ripreso da lafionda.org)
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra
E la terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla [1]
Uccidere un poeta è un crimine tremendo. Chi uccide un poeta non uccide solo un uomo, ma anche la Musa che quell’uomo si portava dentro e che poteva parlare solo per bocca sua. Si tratta in qualche modo di un duplice omicidio. Come in ogni guerra, anche a Gaza vengono uccisi artisti e poeti in quanto tali. Soprattutto a Gaza. Refaat Alareer era uno di questi. Aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta[2]. Il 6 dicembre 2023 Alareer rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il pericoloso intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito “chirurgicamente”[3]. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre “bombe intelligenti”, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura costi quel che costi, il genocidio del popolo palestinese richiede questo e molto altro.
Tra migliaia di foto e reportage strazianti provenienti da Gaza il video della demolizione della Islamic University è passato relativamente in sordina[4]. Io invece credo che non lo dimenticherò mai. Quella che poteva essere una delle poche, importanti alternative alla radicalizzazione disperata per i giovani gazawi, un preziosissimo presidio di dialogo ed umanità polverizzato in pochi secondi. Quella stessa università in cui Alareer studiava Shakespeare con i suoi studenti palestinesi, mostrando come fosse più naturale per loro empatizzare, ancor più che con il moro Otello, con l’ebreo usuraio Shylock, proprio in quanto emarginato ed odiato da una società ghettizzante[5]. Probabilmente Refaat avrebbe pubblicato questi studi e molto altro se il governo israeliano non avesse deciso che l’Università, la letteratura e la poesia costituiscono una minaccia per uno degli eserciti meglio armati al mondo. Una minaccia da combattere con tonnellate e tonnellate di esplosivo. Qualche settimana prima di essere ucciso, mentre Gaza precipitava verso l’inferno Refaat ripubblicava sul suo profilo Twitter una poesia che dopo la sua morte è stata letta in tutto il mondo. Gli ultimi versi mi hanno spinto a scrivere queste righe: If I must die, let it be a tale[6].
Ebbene, dubito che io, comodamente seduto in camera mia a Roma, possa avere qualche storia interessante da raccontarvi a proposito di una faccenda così importante e drammatica. Tuttavia non potrei accettare che l’ultimo desiderio di un uomo, morto da poeta e quindi da partigiano, restasse incompiuto. Vorrei dunque riportare poche frasi tratte da una delle storie più belle e struggenti che abbia mai letto, Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Il brano racconta la raccolta delle olive nel piccolo villaggio palestinese di ‘Aid Hod, pochi anni prima della Nakba.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. […] Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata. […] I colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle tele incerate e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.”[7]
L’ulivo, che pianta meravigliosa. Alcuni ulivi, se curati con sapienza, possono vivere millenni. E quando una pianta è vecchia il suo corpo si separa da sé stesso, si divide e nascono quindi due alberi, poi quattro e poi otto, ma che sono in realtà uno. Poco fuori Gerusalemme, nell’orto del Getsemani dove secondo i Vangeli sarebbe iniziata la passione di Cristo, otto ulivi risalenti al XII secolo fruttano tutt’oggi. Queste otto piante presentano un profilo genetico del tutto simile, tanto da far pensare che in origine fossero un unico albero. Lui sì che ne avrebbe di storie da raccontare. Affinché un ulivo possa vivere così tanto servono però uomini e donne che per secoli e secoli lo sappiano amare ininterrottamente, e che insegnino ai loro figli come amarlo. È ciò che accade da millenni sulle coste del Mediterraneo. Questo amore forgia da tempo immemore la cultura palestinese, di cui l’ulivo è il simbolo. Torniamo per un momento alle parole di Vecchioni in esergo: “Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra”. Sì, perché se molti palestinesi oggi vivono dei frutti di un ulivo è perché questo è stato piantato e curato dai loro avi, perché il loro sudore ha innaffiato d’amore il suolo nel quale si sono fortificate le radici. Questo i palestinesi lo sanno bene. Nel villaggio di ‘Ain Hod ringraziare Dio significava venerare l’eterna ciclicità del raccolto, la natura tutta si univa festante al coro della preghiera. Per noi, ormai abituati a frequentare gli anonimi ed impersonali nonluoghi del transito veloce e del consumo, è sempre più difficile comprendere questo radicamento nella terra. Tra centri commerciali, aeroporti e McDonald’s, spazi a-storici ed interscambiabili perché uguali ovunque, pensati per un utilizzo strumentale e passeggero, fatichiamo a comprendere il rapporto ecologico e spirituale tra la terra, i suoi frutti e chi vive della cura di questi. Io credo che questo scarto antropologico, questa differenza nel modo di rapportarsi alla terra sia fondamentale per la comprensione del conflitto in Palestina. Refaat Alareer aveva ben presente una tale distanza. O’Live Tree è il racconto di un ulivo che sa perfettamente che chi ora calpesta le sue radici con stivali pesanti, chi batte le sue fronde con bastoni di metallo non può che essere uno straniero, un usurpatore: But you belong not here/ You do not even know/ How to touch me/ How to gently sqeeze me/ How to hug me/ How to wipe off the dust[8]. E l’umiliazione che l’ulivo pazientemente sopporta è la sofferenza di tutto il popolo palestinese. Ecco l’identificazione, il radicamento: The humiliation, I do not care/ But take me not/ Steal me not/ Even if I burn/ Here I belong[9].
E cosa fa il colonialismo israeliano davanti ad simile legame? Come ci comportiamo con quegli ulivi secolari noi, che abbiamo visto nell’agricoltura intensiva e nello sfruttamento più estremo del mondo l’unica ragione del nostro sviluppo? Li sradichiamo. Sì, perché la pulizia etnica della Palestina prevede di estirpare quelle radici così profonde. Nei territori occupati, tra le mille preoccupazioni della popolazione palestinese c’è anche quella di difendere gli ulivi dalle irruzioni dei coloni e dai bulldozer dell’esercito israeliano. Non dobbiamo limitarci a vedere in queste brutalità semplicemente la distruzione delle risorse palestinesi e la lotta per il controllo del territorio. Estirpare gli ulivi significa cancellare la storia e la memoria di cui sono testimoni. Ricordate la nostra indignazione quando Daesh distrusse i templi di Bel e Baalshamin a Palmira, in Siria? Gli ulivi palestinesi sono monumenti viventi che ci raccontano di generazioni e generazioni di uomini vissuti sul suolo più venerato di tutti i tempi, che ancora nutrono i suoi abitanti. Distruggerli è un crimine contro la storia, contro l’universale senso del Sacro, il danno prodotto non ha prezzo. Simone Weil vedeva proprio nello sradicamento la malattia corrosiva dell’Occidente. Si tratta di un processo iniziato sostanzialmente con la modernità, e consiste secondo la filosofa francese nella perdita di un rapporto pieno con la propria storia ed il proprio passato, nella perdita della propria radice. “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, separata da quell’antichità nella quale tutti gli elementi della nostra civilizzazione hanno la loro origine; e a partire dal XVI secolo è a sua volta andata a sradicare gli altri continenti”[10]. Dice poi Weil, sempre a proposito dello sradicamento coloniale: “Quando un conquistatore rimane straniero nel territorio conquistato, lo sradicamento è una malattia quasi mortale per la popolazione conquistata”[11]. Nonostante il riferimento biblico al regno d’Israele, i coloni sionisti rimangono coloni, ed il colono è sempre l’opposto del locale. Con ciò non voglio sminuire il legame spirituale che un ebreo, così come un cristiano, un musulmano o chiunque altro, può avere con la Terra Santa. Quello che voglio semplicemente dire è che il sionismo era e resta un progetto coloniale, e questo è peraltro un fatto abbastanza pacifico per i coloni stessi. Gli sforzi degli archeologi israeliani di dimostrare l’autoctonia israeliana in Palestina, riferendosi ad un passato reale o mitico, non possono modificare una semplice realtà di fatto: quando consolidano i loro possedimenti nei territori palestinesi, i coloni si comportano da coloni, ossia da stranieri, da stranieri che distruggono. Il colonialismo è l’opposto del radicamento, dell’appartenenza profonda ad un luogo. E devono in qualche modo essersene accorti anche, soprattutto le migliaia e miglia di ulivi sradicati dal 1967. La terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla.
In Palestina la raccolta delle olive è diventata una forma di resistenza. È usanza qui da noi sminuire ogni condanna del genocidio palestinese precisando, con una certa pedanteria, che bisogna prima prendere le distanze dagli aspetti ingiustificabili della resistenza armata palestinese come il terrorismo. Io non entrerò nella questione, mi limito a dire che finché parte delle mie tasse verrà usata per bombardare, affamare, deportare e sterminare un popolo inerme sarebbe un’offesa alla mia dignità impartire lezioni di dirittumanismo a chi ogni giorno è ucciso dalla nostra accondiscendenza. Eppure, per la gioia (o l’imbarazzo) dei moralisti nostrani, in Palestina la resistenza nonviolenta esiste. Un giorno, spero, gli abitanti dei villaggi palestinesi che ogni anno rischiano la vita per la raccolta, sfidando la violenza dei coloni e dell’IDF, saranno ricordati insieme a Gandhi e Martin Luther King[12]. Donne e uomini coraggiosi che lanciano un messaggio potentissimo: Tutto quello che vi chiediamo è di poter amare queste piante e questa terra, come abbiamo sempre fatto. Un giorno, spero, la Storia saprà leggere questo messaggio sepolto dalla nostra indifferenza. Un giorno ci si ricorderà di quanto è ridicolo, nella sua cieca brutalità, chi si oppone con la forza ad una richiesta simile.
Negli ultimi mesi, lo sterminio fisico della popolazione di Gaza ha monopolizzato l’attenzione di chiunque nel mondo abbia un briciolo di coscienza. Tra questi, quelli che in Occidente contano qualcosa sono pochissimi. Abbiamo scoperto che il potere è un anestetico ben più forte del previsto, ed è capace di disumanizzare chi lo esercita ad un punto che io, che pure credevo di essere un cinico, non ritenevo possibile. Eppure la gente comune, quella che non comanda, è rimasta sconcertata dalle foto dei bombardamenti e dei bambini che muoiono di fame a Gaza, mentre a poche centinaia di metri l’esercito israeliano blocca l’arrivo di aiuti umanitari. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che in Palestina stia avvenendo un genocidio, e le stramberie sul “diritto a difendersi” di Israele sono solo appannaggio di un’egemonia incancrenita e putrescente nei media e nella politica occidentale, a cui non crede più nessuno. Eppure ho voluto raccontarvi la storia di Refaat Alareer e del suo ulivo perché credo che al di là dell’evidenza del torto abbiamo ancora molto da riflettere sulle cause profonde di questa mattanza umana e culturale. Quando questo orribile capitolo della nostra storia si sarà chiuso, se vorremo ristabilire rapporti equilibrati con il mondo e con noi stessi dovremo riflettere su cosa ci ha portato a sradicare quegli alberi, e su che fine abbiano fatto le nostre radici. Abbiamo ancora molto da imparare dagli ulivi, che da tempi antichissimi ci raccontano di incontri nel nostro Mediterraneo, testimoni di cura e di pace. Ho voluto parlarvi di Refaat e del suo ulivo perché non voglio rassegnarmi all’idea che una volgare pallottola possa uccidere la poesia. Mahmoud Darwish accolse serenamente la sua ora. Ormai vecchio, consegnò alla Fine la sua “parte d’argilla”[13]. E dopo una vita passata a sbeffeggiare il potere, il grande poeta palestinese si prese gioco anche della visitatrice più temibile: O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti/ E allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi. Non può essere tanto facile uccidere una Musa. Come tutto ciò che è divino, anche la Dea dell’arte e della poesia può rivivere nei cuori che sanno cercarla. Per questo da sempre i tiranni hanno tanta paura dei poeti.
Voglio crederlo, lo credo.
[1] R. Vecchioni, Shalom
[2] Refaat Alareer insegava letteratura e scrittura creativa alla IUG. Si occupava principalmente di letteratura inglese, in particolare Shakespeare e Donne. Il suo blog, dove pubblicava poesie e brevi riflessioni (https://thisisgaza.wordpress.com/), il suo profilo Twitter (https://twitter.com/itranslate123) ed il suo attivismo lo hanno reso molto popolare a Gaza. È inoltre co-fondatore del progetto We are not numbers (https://wearenotnumbers.org/), che racconta la vita sotto l’occupazione israeliana attraverso le voci di giovani scrittori e scrittrici palestinesi
[3] Euro-Med Human Rights Monitor, Israeli strike on Refaat al-Aleer Apparently Deliberate https://euromedmonitor.org/en/article/6014
[4] Al Jazeera English, Gaza University destroyed: Israel accused of targeting education centers
[5] R. Alareer, Poems of Mass Destruction at Gaza University, in R. Alareer et. Al. (a cura di), Gaza Unsilenced, Charlottesville 2015
[6] R. Alareer, If I must die. “Se devo morire, che sia una storia”
[7] S. Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 15-16
[8] R. Alareer, O’Live Tree. “Ma tu non sei di qui/ Tu non sai nemmeno/ Come toccarmi/ Come spremermi dolcemente/ Come abbracciarmi/ Come pulirmi dalla polvere”
https://thisisgaza.wordpress.com/category/my-poetry/
[9] “Dell’umiliazione, non mi importa/ Ma non portarmi via/ Non rubarmi/ Anche dovessi bruciare/ Il mio posto è qui”.
[10] S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 32
[11] S. Weil, La prima radice, SE, Milano 2013, p. 49
[12] Sulla resistenza nonviolenta degli agricoltori palestinesi, si veda per esempio Rete Italiana ISM, Raccolta delle olive con International Solidarity Movement
Marocco- Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti in mostra a Palermo-
Nicola Fioravanti in mostra a Palermo dal 16 aprile / 22 maggio, “Centro Internazionale di Fotografia Letizia Battaglia”– Un mosaico di colori, architetture ed energia. Il Marocco, con la sua luce mutevole, la forza del vento e del fuoco, i volti delle persone e le scene di vita quotidiana, è il protagonista della mostra “Marocco, Atlante Sentimentale” di Nicola Fioravanti, fotografo di fama internazionale, che si terrà a Palermo, dal 16 aprile al 22 maggio. L’esposizione, ospitata al “Centro internazionale di fotografia Letizia Battaglia” ai Cantieri Culturali alla Zisa, è curata dalla storica dell’arte Daniela Brignone e organizzata dall’Associazione I-design e da Contemporary Concept, con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e del Consolato Generale del Regno del Marocco. L’inaugurazione sarà mercoledì 16 aprile, alle ore 18,00. Ingresso libero.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Il primo incontro tra Fioravanti e il Marocco avviene nel 2010. La sua potenza cromatica diventa subito una fonte di ispirazione, ma servono anni di esperienza prima di riuscire a catturarne davvero l’essenza. Il ritorno, dopo quasi dieci anni, segna un punto di svolta, che è una trasformazione: adesso l’obiettivo non è solo quello di esplorarne i tratti, ma di raccontare l’anima di un popolo e del suo territorio: scoprirne il genius loci per poterlo immortalare. Così nasce “Marocco, Atlante Sentimentale”, una selezione di 40 scatti d’artista di ciò che Fioravanti ha maggiormente amato: le strade e i vicoli, i volti degli abitanti, le architetture di questo straordinario Paese ed è un omaggio alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni audaci, all’entusiasmo della sua creatività. Ad ogni angolo si scoprono scene che sembrano disegnate o dipinte, ma che sono in realtà composizioni spontanee di vita quotidiana.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Fioravanti attraversa le città e i villaggi, soffermandosi sulle strade, sulle kasbah labirintiche, sui banchi dei venditori, sull’operosità degli artigiani e sulle espressioni delle persone che incontra. Ogni scatto è un frammento di questo caotico equilibrio di forme e colori, in un’armonia del tutto naturale. Dalle spezie che tingono l’aria con i loro profumi ai giochi improvvisati dai bambini nei vicoli stretti, dagli sguardi profondi degli anziani alla danza costante fra luci e ombre che placa il frastuono del giorno: il Marocco si rivela in ogni dettaglio, in ogni angolo, nella sua vibrante energia. Questa esposizione segna un momento importante, perché nonostante Fioravanti abbia lavorato in tutto il mondo, è la prima volta che la Sicilia ospita una sua mostra.
Dopo Palermo, la mostra sarà presentata a Rabat, dall’1 al 18 dicembre, presso la “Galerie Bab Rouah”, uno degli spazi espositivi statali più prestigiosi del Regno del Marocco. Situata in una storica porta monumentale della città, la galleria è un punto di riferimento per l’arte contemporanea in Marocco e ospita regolarmente artisti di fama nazionale e internazionale. Esporre in questo luogo iconico, significa entrare in un contesto ricco di storia e simbolo dell’impegno del Regno per la promozione culturale.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Da noi, si mangia con gli occhi”, recita un proverbio marocchino: ed è proprio attraverso lo sguardo – quello attento e profondo di Nicola Fioravanti – che questa mostra diventa un omaggio a un paese dalle mille sfumature, un invito a lasciarsi trasportare dalla sua luce, dal suo ritmo, dalla sua storia. Insh’Allah, “se Dio vuole”, è la frase che ricorre, quasi come una cantilena, che affida le sorti di questo popolo e della sua terra ad Allah, al Divino. Su tutto, cala il silenzio della notte che placa gli animi e, recando la voce del deserto, induce al sonno. Dalla Medina di Casablanca, con i suoi mercati, fino alle strade dipinte di blu di Chefchaouen, immersi in un’atmosfera sospesa nel tempo, questa mostra è una lettera d’amore al Marocco e alla straordinaria tavolozza di colori che ne definisce l’anima. Ed è proprio sul colore che si sofferma l’indagine di Nicola Fioravanti, che esplora il cuore delle medine, con le loro caratterizzazioni cromatiche ben definite che identificano l’anima di questi spazi e del Marocco stesso, che da tempo punta proprio sulla forza e l’efficacia espressiva del colore, per meglio connotare e identificare l’identità dei luoghi, attraverso le suggestioni che questo riesce a trasmettere.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Questa mostra non è solo una testimonianza fotografica di grande maestria, ma un viaggio emotivo nel cuore del Marocco – sottolinea la curatrice Daniela Brignone – dove ogni immagine è un racconto affascinante e coinvolgente che evoca il passato e il presente di una terra fortemente proiettata verso il futuro. Il lavoro di Nicola Fioravanti entra nel profondo della cultura e dell’anima di questo paese, presentato in un luogo, Palermo, che risuona ancora delle tante testimonianze derivate dalla dominazione araba. Ogni scatto è un invito a esplorare l’energia vibrante e la bellezza che permeano ogni angolo, ogni volto, ogni dettaglio. Un viaggio visivo che ci porta ad apprezzare non solo la maestosità del Marocco, ma anche la sua quotidianità, ricca di una forza che è allo stesso tempo delicata e potente”.
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