Articolo di Michela Ponzani,la Resistenza delle donnedi ieri e di oggi, per continuare a essere libere-
Articolo di Michela Ponzani,storica, autrice e conduttrice televisiva-Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Bersagli strategici dei nazisti e dei militi della Repubblica sociale, sono le donne a scontare con maggiore crudeltà una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi; di fucilazioni e torture sui corpi dei prigionieri politici.
Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, le donne decidono di non essere più vittime. E si ribellano a quella cultura di guerra che usa lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti (occupanti o liberatori).
Le memorie taciute delle donne raccontano storie di coraggio e di rivolta. E come ho ricordato in Guerra alle donne (Einaudi), ciò vale soprattutto per gli stupri di massa, compiuti dalle truppe marocchine e algerine nella primavera-estate del 1944 e le violenze subite dalle donne costrette a prostituirsi nei campi bordello, costruiti dall’esercito tedesco dietro la linea Gotica. Veri e propri tabù nella memoria nazionale e nel senso comune dell’Italia del dopoguerra.
La lotta partigiana delle donne è quindi una guerra di liberazione anzitutto contro la criminale violenza nazifascista; ma è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. Per le donne, la Resistenza è un atto di disobbedienza radicale; uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna ad essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare”. Che non permette d’iscriversi alle facoltà scientifiche e considera irrazionale la mente femminile, perché “il genio è maschio”.
Ma perché oggi una ragazza dovrebbe appassionarsi a vicende che hanno più 70 anni?
Al di là di discorsi ingessati o retorico-celebrativi, forse la risposta sta nel fatto che quelle storie – con le emozioni, le paure, i tormenti che segnano la scelta partigiana, dolorosa e carica di responsabilità – continuano a parlare al nostro presente.
Perché se oggi il destino delle donne non è più quello di stare a casa e di lasciare tutto il mondo agli uomini, è grazie alle ragazze che hanno combattuto la dittatura fascista, rinunciando alla spensieratezza della gioventù.
E che nel dopoguerra hanno continuato a battersi, affrontando discriminazioni insopportabili.
“Donna partigiana, donna puttana” si sentì dire Carla Capponi medaglia d’oro al valor militare, durante un dibattito alla Camera da alcuni deputati della destra postfascista, con tanto di inequivocabili gesti osceni. E Marisa Rodano (che ha da poco festeggiato i 100 anni) ha raccontato che “negli anni ’50 le carceri erano piene di adultere”. Il marito poteva spedire la moglie in galera, se questa aveva una relazione con un altro uomo.
Fortissime erano poi le disparità nella sfera domestica e professionale: le donne non potevano divorziare o interrompere una gravidanza, né diventare giudici o poliziotte perché troppo fragili.
Persino ucciderle non era così grave: la legge, concedeva le attenuanti se un uomo, per ragioni di onore, uccideva la moglie, la sorella o la figlia (il delitto d’onore sarà abrogato solo nel 1981). Altre norme permettevano di picchiare la moglie per correggerne il carattere e giustificavano lo stupro se seguito da un matrimonio riparatore (solo nel 1996 diverrà reato contro la persona e non contro la morale). Le ragazze della Resistenza lasciano dunque il testimone alle generazioni future. Non scorderò mai quella studentessa di liceo che trovò il coraggio di parlare delle violenze subite in famiglia, dopo aver letto il diario di una partigiana. Le venne il desiderio di diventare una donna libera (disse proprio così). Grazie al movimento #MeToo, abbiamo squarciato il velo d’ipocrisia sugli abusi e le molestie sessuali (non solo nel mondo dello spettacolo) e abbiamo più coraggio nel denunciare gesti e parole di offesa, urlate o allusive. E possiamo dichiarare, senza il timore di essere considerate pazze o esagerate, di non sopportare più allusioni sessuali non richieste (in ufficio, a un colloquio di lavoro o all’università), o di vederci sminuite nella nostra professione; come quando la dottoressa che ti visita in ospedale viene definita signorina.
Ma l’emergenza Covid-19, che ci ha rintanate in casa, ha visto aumentare i femminicidi. Perché quando si è fragili e abbandonate a una vita di isolamento e degrado, è proprio la famiglia a trasformarsi in un’orrenda prigione. E ci arrivano come macigni le notizie di uomini che odiano e ammazzano le donne: “buoni padri di famiglia” che uccidono per “troppo amore”; uomini “per bene” travolti da un raptus perché “lei voleva lasciarlo”. E allora festeggiamo questo 25 aprile con le parole che Marisa Ombra, staffetta nelle brigate Garibaldi ha dedicato a tutte noi. “Siate partigiane, per essere libere sempre”.
*Storica, autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45) (Einaudi, pp. 384, € 14,00)
Luciano Bianciardi, il Jamaica, la musica popolare ed altro.
Luciano Bianciardi, il Jamaica, è stato il corrispettivo di Pasolini, quello che il poeta vedeva nelle borgate romane, negli stessi anni Bianciardi lo scopriva nella Milano “livida e sprofondata” .
È l’autore della “Vita agra”, quasi un manifesto anarcoide sul disumano divenire della metropoli votata al consumo. È sempre sembrato un autore in qualche modo esemplare, meritevole di fregiarsi del titolo di “maestro” all’interno del panorama letterario italiano per gli scrittori della nuova generazione. In particolare, la sua opera ha espresso la reazione del giovane intellettuale di provincia di fronte al difficile momento di trapasso dalla letteratura ufficiale ed altisonante del fascismo propagandistico al neorealismo e poi al Boom economico degli Anni Sessanta. Questo perché con la sua stessa vita ha esemplificato la figura di ciò che può essere definito “l’intellettuale disintegrato”.
Luciano Bianciardi anticipa l’ importanza della musica “a 33 giri”, scopre Jannacci e Celentano. Enzo Jannacci fa il suo esordio col suo primo album in studio: La Milano, nel 1964. Dodici tracce, per lo più in milanese, tra cui la ballata El portava i scarp del tennis, due brani con testo di Dario Fo e una reinterpretazione di Mami, l’unica canzone mai scritta da Giorgio Strehler. Sul retro della copertina, una nota di Bianciardi, che aveva avuto modo di apprezzare il cantante in una sua esibizione al Teatro Gerolamo. Riguardo al loro rapporto Jannacci raccontava che, nonostante fosse poco più che un ragazzino, Bianciardi lo interpellava spesso per conoscere le sue opinioni sui cosiddetti massimi sistemi: “Mi chiedeva: Jannaccione, cosa ne pensi del mondo? E io rispondevo che ne pensavo malissimo. Fingono tutti, abbiamo perso la guerra, siamo poveri e nessuno lo dice. Tutta la mia produzione pseudopoetica parla di un Paese che fa finta di essere ricco e colto ma non pensa, non legge, non capisce”. Già nel ’64 però Jannacci aveva prestato volto e voce per la trasposizione cinematografica de La vita agra, interpretando L’ombrello di suo fratello dentro il bar Jamaica, nella Brera degli artisti e dei cospiratori.
Dopo la vittoria di Celentano al Cantagiro del 1962, Bianciardi intuisce la valenza ideologica del “sorriso celentanoide, espressione emblematica del neoqualunquismo neocapitalista”. Per Bianciardi il giovane Celentano era “saldo e avveduto” e avrebbe un giorno lanciato “una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato”. Adriano Celentano oggi scrive lettere a quotidiani. Interventi che diventano editoriali, ripresi anche dalla televisione e da internet. Considerato a tutti gli effetti un opinion leader dalla “filosofia totale”.
A Milano Bianciardi incontra solo ragionieri e “segretariette”: gli operai sono a Sesto San Giovanni, nelle periferie. Del capoluogo lombardo non gli piace niente, come spiega in alcune interviste dell’epoca , e l’improvvisa popolarità paradossalmente lo getta ancora più nella depressione: “Ormai mi chiamano ovunque, posso sparare qualsiasi cavolata”. Rifiuta una collaborazione offertagli da Indro Montanelli con il Corriere della Sera, in qualità di articolista di spalla, preferendo rubriche su giornali molto popolari quali ABC, Il Guerin Sportivo, L’Automobile o riviste prettamente maschili come Le Ore e Playmen, dove si sente molto più libero.
Cercò di lasciare Milano, trasferendosi con la sua compagna a Sant’Anna di Rapallo; il professor Nuccio Lodato, suo amico di quel periodo, ci ha raccontato che la domenica Bianciardi chiamava a raccolta un buon numero di persone a casa sua per vedere in compagnia “Quelli della domenica”. Andava pazzo per Paolo Villaggio nei panni del professor Kranz e del ragionier Fracchia, l’antesignano di Fantozzi, forse perché vedeva, in quel piccolo borghese vittima del consumismo, la rappresentazione in chiave comica del miracolo economico dal quale lui aveva tentato di fuggire, e che lo aveva portato all’alcolismo. Dopo la rottura con Maria Jatosti, la sua compagna (legame fuori dal matrimonio, da cui nacque il figlio Marcello), e un maldestro tentativo di riallacciare i rapporti con la famiglia e i figli, Bianciardi tornò a Milano, l’unico posto dove poteva bere senza essere controllato. E dove morì poco dopo, nel 1971, consumato dall’alcol.
Luciano Bianciardi
Luciano Bianciardi, l’”ultimo bohémien” che vide i primi mali della società dei consumi- Articolo di Marco Marasà-
Fonte Articolo STRISCIAROSSA
Nel periodo tra le due guerre mondiali, il 14 dicembre del 1922, nasce Luciano Bianciardi. Giovanni Arpino – tra i due vi era una profonda amicizia – lo definì “l’ultimo Bohémien possibile, seduto sulle macerie di un romanticismo perduto”.
Il campo in cui Bianciardi imbastisce il suo percorso di scrittore è nella maremma degli anni’50. In una piccola cittadina in divenire, nella quale il progresso stava mettendo i propri germogli, concepisce il Lavoro Culturale, primo di quella che sarà una sorta di “trilogia della rabbia” composta appunto dal Lavoro Culturale, L’integrazione e La vita Agra.
Luciano Bianciardi
Le contraddizioni della provincia grossetana
Della provincia Bianciardi carpisce la vivacità culturale che in quegli anni stava venendo fuori. Ne indovina però anche le contraddizioni e, con sardonica ironia, racconta il mondo letterario ed erudito della sua città natale, Grosseto. I cineforum che danno solo film sovietici o ungheresi, seguiti da animati dibattiti, sono la cartina di tornasole della provincia di allora. Un mondo ancora spaccato in due, tra il proletariato che sovente si rifaceva al Partito comunista italiano – che Bianciardi esortava di andare a votare ma al quale invitava di non iscriversi – e la classe borghese perlopiù democristiana. Eccetto alcuni intellettuali che, come viene raccontato da Bianciardi, si barcamenano per creare un ponte con gli operai. I risultati a volte sono grotteschi: operai assiepati nella sala cinematografica di Grosseto a sentire la recensione di un dato film ungherese di un critico venuto apposta da Roma.
Dal proprio cilindro Bianciardi pescava idee generose tanto quanto geniali; come il bibliobus, un pullman stipato di libri da elargire alla gente di campagna. Se le persone non possono raggiungere la biblioteca, sarà la biblioteca ad andare dalle persone. Un’autovettura che si faceva largo tra i paesaggi campestri, a bordo della quale vi erano Bianciardi e Carlo Cassola. L’inventiva di Bianciardi si manifestava anche e soprattutto nel linguaggio: per esempio Kansas City per denominare Grosseto. Appellativo affibbiato da Bianciardi dopo che i tenenti venuti dall’America trovarono una somiglianza tra Kansas City e la città maremmana. Streetrock che stava per Roccastrada. Il vezzo di traslare le parole nella lingua inglese è eredità adolescenziale. Degli anni trascorsi a trangugiare libri e romanzi dei narratori americani.-
Luciano Bianciardi,l’esplosione
L’esplosione a Ribolla che lo scuote
Poi nel maggio del 1954, all’improvviso, nel paese di Ribolla, un’esplosione di grisou in una miniera di lignite miete le vite di quarantatré minatori. Un evento nefasto che percuote l’animo dello scrittore grossetano. Con Carlo Cassola scrive I minatori della maremma, libro-inchiesta sulle condizioni dei minatori e delle miniere maremmane. Allo stesso tempo il saggio è una denuncia contro le inadempienze e le negligenze della compagnia mineraria Montecatini, che causarono l’esplosione della miniera di Ribolla. Al pari di The road in Wigan Pier (del 1937) – libro sulle condizioni dei minatori inglesi – di George Orwell, l’inchiesta è oggi un classico della letteratura operaia.
Per Bianciardi però la faccenda di Ribolla resta una ferita aperta. Per lenire le proprie pene parte per la moderna Milano. Dai giorni trascorsi a Milano, Bianciardi tira fuori La Vita Agra (1962), il suo capolavoro. Una commistione di tutto quello che aveva vissuto fino ad allora: la propria vita sentimentale, quella lavorativa e soprattutto l’esplosione di grisou.
Bianciardi mette sulla carta ciò che egli vorrebbe ma non può compiere: fare esplodere con la dinamite il torracchione, emblema dell’edonismo. Milano ha le fattezze delle città post- industriali d’oggi. I primi grandi e orribili grattacieli sovrastano lo sguardo attonito dello scrittore maremmano. Vi sono supermercati dove accanto alla pasta si vendono libri. Cose eterogenee confluiscono nello stesso spazio e formano un agglomerato di beni a portata di mano. Racconta delle impiegate rinseccolite che battono a macchina con sguardi tristi ed assenti.
Dai minatori passa agli operai, che però non vuole raccontare perché non li conosce e non ha avuto modo di osservarli, come invece è accaduto per i minatori maremmani. Alla fine, è Milano ad averla vinta e Bianciardi col tempo finisce per consumarsi. Beve tanto e fuma di più. Tuttavia, ha in serbo ancora un altro coniglio da far uscire dal proprio cilindro. In Israele, per dileggiare il generale Moshe Dayan, si fa fotografare con una benda sull’occhio. Si tratta della sua foto più celebre. Tra le vie di Grosseto ci si può imbattere nel suo faccione appiccicato su un muro, in uno dei graffiti che lo ritrae con espressione serafica e benda sull’occhio.
Luciano Bianciardi,la benda
-Quando si rifugia nel passato
Nel periodo di eclissi milanese, si rifugia nel passato. Precisamente nel Risorgimento, scrive cinque libri: Da Quarto a Torino. Breve spedizione dei mille (1960), La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969), Aprire il fuoco (1969) e Garibaldi (1972). Esalta Garibaldi e i mille. Si sente anch’esso una camicia rossa disillusa, “l’ultima camicia rossa della storia” .
Perché ricordare Luciano Bianciardi? Egli, anticipando persino Pier Paolo Pasolini, fu il primo a capire e a criticare, se pure in maniera confusionaria, la società dei consumi. Essa era ancora agli albori, ma Bianciardi riuscì a predire che tutto il mondo un giorno sarebbe diventato come Milano. Osservando quella città dove “se caschi nessuno ti raccatta” intuì l’omologazione, nonché la progressiva dissoluzione dei rapporti umani. Il mondo d’oggi a Bianciardi di certo non sarebbe piaciuto. Chissà quali parole avrebbe usato per apostrofare i vari colossi della rete – soverchianti supermercati virtuali – le multinazionali e così via. No, una società in cui l’edonismo permea ogni lembo sociale, non sarebbe andata giù all’”ultimo bohémien”.
Aida V. Eltanin-Il diario vivente di Emily Dickinson
Descrizione del libro di Aida V. Eltanin-Il diario vivente di Emily Dickinson-Emily Dickinson si è stancata di essere ancora fraintesa. Lei che citava spesso i vulcani nelle sue poesie ha deciso dall’aldilà che era ora che il suo Vesuvio eruttasse. La Dickinson in realtà non ha mai tenuto un diario e ha sempre lottato contro le pressioni a pubblicare le sue poesie per sconosciuti. Trovava fosse un po’ come ‘togliersi tutti i vestiti dall’anima’. Ha scritto però centinaia di lettere poetiche ad amici e parenti, missive nelle quali inseriva le sue preziose poesie tra una riga e l’altra. Era l’unico modo in cui voleva farle circolare. Ecco perché in questo diario la sentirai parlare di sé attraverso il suo mezzo preferito, antico e magico. Il tuo con Emily sarà un viaggio epistolare dentro la sua carrozza fatata: ogni lettera un capitolo di questo diario vivente. ‘Vivente’ perché ti sembrerà che la Dickinson scriva proprio a te, dal suo presente al tuo, come se tu fossi una sua cara lettrice che dal futuro le racconta come siano state recepite, e spesso travisate, le sue poesie e la sua persona nei decenni. La sentirai così com’era nella vita di tutti i giorni e la vedrai crescere con te, dalle parole leggere delle sue prime lettere – con frasi scritte da adolescente – fino agli ultimi bigliettini scritti prima di morire. Tutte le frasi in corsivo sono state realmente scritte da Emily Dickinson a qualcuno dei suoi tanti corrispondenti. Un paragrafo del diario potrebbe contenere frasi tratte da diverse sue lettere, assemblate insieme. L’ autrice si è limitata a ‘farle da medium’ selezionando un florilegio delle sue parole migliori e poi da traduttrice, creando ghirlande delle sue parole in un italiano moderno e comprensibile. Perché dovremmo leggere ancora la Dickinson nel 2021? Perché sono parole potenti le sue, intrise di una magia che come diceva lei – non passa solo perché ormai è morta la maga. Sono parole capaci di elevare un’anima, di evitare che un cuore si spezzi, di fare da balsamo su un lutto e di dare più profumo e bellezza alla nostra vita di tutti i giorni, come i fiori che lei tanto amava. Troppe biografie sono poco più che fredde autopsie letterarie dove la voce dominante è quella del biografo. In questo diario invece è la voce affettuosa e profonda della Dickinson a risuonare e a differenza dei libri disponibili su Emily Dickinson – che separano rigidamente le sue poesie dalle lettere o dalle biografie – in questo troverai le tre mischiate insieme in un genere forse unico, con le sue poesie – intere o parziali – intrufolate tra le righe delle lettere, esattamente come faceva lei quando scriveva a qualcuno, perché la sua prosa – come vedrai – era spesso poetica. Se sei dunque pronta a cominciare questo viaggio, dì al cocchiere di far partire la diligenza e apri con delicatezza la sua prima lettera…
Emily DickinsonEmily Dickinson
Editore : Independently published (4 maggio 2021)
ADRIANA SIGNORELLI-Nata a Caltagirone, in Catania, è psicologa e psicoterapeuta in formazione presso l’Istituto di Gestalt di Siracusa. Utilizza la scrittura come canale espressivo privilegiato tanto nel privato, come passione, quanto nell’attività professionale. Esistenzialista di fondo, sempre alla ricerca del senso della vita e delle sue vicissitudini, affronta temi universali quali amore, dolore, solitudine, morte e fede. Trova nella capacità introspettiva e nell’incontro empatico con l’altro la chiave di ispirazione per i suoi testi.
Sognando due Ali
<Tutte le cose sono belle,
e lo diventano ancora di più
quando non abbiamo paura
di conoscerle e provarle.
L’esperienza
è la Vita con le ali. >>
(K.Gibran,”Lettere d’Amore del Profeta”)
Non avevo aperto neanche gli occhi quando il mio cuore cominciò a battere.
Per la verità non sapevo neanche che quell’affare lì si chiamasse “cuore”, ma imparai presto.
Avevo però già sentito parlare della “Luce” e dicevano che con quella si potevano vedere tante cose belle.
<<Chi me lo aveva detto?>>. Beh! Adesso non ricordo. E’ passato così tanto tempo!
Però lui, il mio cuore, lo sapeva bene e, a giudicare dai battiti, sembrava che non vedesse l’ora di incontrarla, la Luce.
Non so neanche come facesse a sapere quando sarebbe avvenuto il momento della “scoperta”, però mi avvisò: cominciò a gridare così forte che, più che battiti, i suoi sembravano scosse di terremoto!
Io, comunque, capii cosa stava cercando di comunicarmi e mi preparai per l’avvento.
<<Anch’io ero ansiosa di sapere!>>.
Passarono delle ore: qualcuno dice otto, qualcun’ altro nove. A me sembrò un’eternità.
<<Ecco, ci siamo!>>. Sentii gridare. Ma non era il mio cuore che urlava!
<<E allora chi era? >>. Non ricordo neanche questo: i miei occhi erano ancora chiusi.
<<Magari altri cuori che parlano!>>. Pensai.
Sì, doveva essere per forza così.
Uno di loro disse: <<È venuta alla luce!>>.
Ma io non capivo, per me era ancora buio.
<<E va bene, aspettiamo!>>. E pazientai.
Passarono dei giorni.
******
Una notte mi svegliai di soprassalto, per la paura aprii gli occhi e per tranquillizzarmi dissi a me stessa: <<Sarà stato solo un incubo. Qui è tutto così bello!>>. Avevo appena visto la luce.
<<Allora era vero quello che dicevano di lei!>>, dissi gioendo. Era tutto così bello!
Non sapevo cosa fossero quelle cose che si muovevano e perché ce ne fossero tante altre che invece stavano ferme, però, mi piaceva guardarle. E poi, sembravano tutti così contenti.
Beh! Se erano così felici doveva pur esserci un motivo e io dovevo scoprirlo: <<Anche io volevo essere
così!>>.
******
Passarono gli anni, e io imparavo in fretta.
Pensate, non avevo neanche l’età da scolaretta quando entrai in prima elementare.
<<Ero un genio!>>. E sì, proprio così.
Non lo dicevo per presunzione, non sapevo neanche cosa fosse.
Però, io sapevo di esserlo e anche gli altri lo sapevano. Era tutto così bello!
<<Ora capisco perché tutte quelle facce contente!>>. Finalmente realizzai.
Ma certo, come si fa a non essere contenti: <<È cosi bello vivere!>>.
Pensavo di avere capito tutto della vita, se no … che “genio” ero?
E invece – ahimè! – non avevo ancora capito niente!
******
Arrivò il giorno in cui tutti i visi che ricordavo sorridenti si spensero e ancora una volta non capivo il perché.
Ero troppo piccola, non potevo capire i cosiddetti “grandi”.
Ma vi dirò di più: <<Non volevo neanche capirli!>>.
Preferivo restare piccola e ignorante e se essere grande significava diventare triste, beh, <<Allora non voglio crescere!>>. Mi ripetevo.
E per saziare questo desiderio, mi convinsi che i vecchi nascessero vecchi, i genitori nascessero già genitori e i bambini nascessero bambini e che ognuno di questi moriva così come nasceva.
Ma certo. Doveva essere per forza così: <<Se io non volevo diventare triste, allora non potevo neanche diventare grande!>>.
Tutto filava, ma … ahimè! Non era così.
******
Potevo decidere di rimanere “piccola” dentro, ma fuori ero già grande.
E anche per me arrivò l’odiato giorno della trasformazione.
“Metamorfosi”: è così che la chiamava qualcuno più grande e più famoso di me. Parlava di un uomo e di uno scarafaggio, credo.
Adesso non ricordo: <<Non mi piaceva imparare l’arte di essere triste!>>.
Preferivo concentrarmi sulle cose che, al di là dell’età biologica, continuavano a trasmettermi la gioia di vivere.
<<Cosa erano queste cose?>>. Ma i sogni, ovviamente.
Non so perché gli altri non li usassero, eppure ce li abbiamo tutti. Mah!
<<Forse che agli altri piace essere tristi? Chissà!>>.
Forse a loro sì, ma a me <<No!>>.
Io non li capivo proprio: prima ti insegnano che la vita è bella, che devi ritenerti fortunata perché ci sono tanti altri bambini che hanno meno di te – o, peggio ancora, non hanno niente -, che devi essere buona ed ubbidiente – e fino a qui, a me stava bene tutto! – e poi …
Così, all’improvviso, ti costringono a credere che non è vero niente, o quasi.
Diciamo che ti cambiano le regole del gioco: devi continuare ad essere ubbidiente e fare la brava, ma la vita è brutta e non c’è spazio per i sogni.
E come se non bastasse: gli altri sono cattivi, ma tu devi essere buona. <<Ma come??!!>>.
Ma, allora, tutte quelle brave persone che finora mi avevano amorevolmente cresciuto in realtà mi avevano preso solo in giro!
Allora, la vita è un inganno!!!
Scusate se parlo, ma almeno avvertitemi prima; così, anziché morire avrei preferito non nascere mai. Ma oramai ero lì, viva e vegeta.
E come si fa a rinunciare ad un dono che ti viene dato con tanto amore?
E poi, come si fa a rinnegare chi si era preso cura di te? E di fatti, non si può.
Così mi rassegnai, e feci come mi dissero o ordinarono – fate voi, per me era uguale! –.
******
<<Che dire? >>. Avrò pure fatto felice Lui, e loro… Ma io stavo morendo lo stesso.
Con l’unica differenza che: mentre la “Morte” vera dura un attimo, la mia stava durando un’eternità.
Ma presto mi rassegnai anche a questo.
<<Forse è proprio così che doveva andare! >>.
E poi, io avevo tutto – o almeno così sembrava – mentre il mondo era pieno di gente che non ha niente e non per questo stava male.
<<Avrei preferito nascere povera, se è la povertà che rende felici>>. Mi ripetevo, e ripetevo… e ripetevo.
Ma neanche questo era vero, non del tutto.
<<Allora siamo tutti destinati a soffrire!!!>>. Esclamai con tanta ferocia.
Eppure c’era tanta gente che rideva intorno a me.
<<Ma come fanno?>>, mi domandavo.
<<Forse sono io che chiedo troppo!>>, rispondevo.
Ma neanche questo era vero.
E nel silenzio della mia morte, mi rassegnai.
E poi, se questo rende felici almeno loro, così sia!
******
Mi avevano tolto tutti i sogni, ma non mi avevano ancora tolto tutto.
La “speranza”, quella, non te la può togliere nessuno.
E mi rassegnai a sperare.
Passavano i giorni, niente di nuovo. Io, però, dovevo resistere.
Non sapevo ancora come sarebbe finita, ma – come si suol dire – l’avrei scoperto solo vivendo.
O meglio, facendo finta di vivere.
Non so come facevo a respirare dato che il mio cuore non batteva più oramai da tempo. E non capivo neanche come facesse il mio cuore a soffrire dato che non vivevo più.
Ma ci fu un momento in cui cominciai a capire una cosa: la vera Luce, quella bella di cui tanto avevo sentito parlare ancor prima di nascere, era proprio quella che non si vedeva. E che l’incubo, quello vero, era iniziato proprio nell’istante in cui aprii gli occhi.
<<Povera bimba ingenua, altro che genio!>>. Il “genio dell’invisibile”, forse.
Ma che bello c’è ad essere genio di qualcosa che nessun’altro vede?
Eppure io ne ero certa: ero un genio! Forse un genio solitario, ma pur sempre un genio.
E sapevo pure che un giorno lo avrei dimostrato. Non sapevo ancora come, ma anche di questo ne ero certa.
E di lì, a poco, le cose cominciarono a cambiare.
******
Un giorno, non ricordo se mattina o sera – per me era sempre notte! –, comunque…
Un giorno, bussò un angelo alla mia porta: non aveva le ali, ma aveva un cuore ed era venuto a fare luce sul mio.
Mi portò una brutta notizia, almeno così sembrava.
Mi disse che il mio Babbo, quello vero, era morto ancor prima che io fossi stata concepita e che quelli che mi avevano cresciuto non erano i miei veri genitori. <<Ero stata adottata, dunque>>.
Dovevo molto a quelle persone e non avrei mai voluto far loro del male, ma loro stessi mi avevano insegnato che l’obbedienza verso i genitori è d’obbligo per i figli. Pertanto, mi capirete quando vi dico che ho cominciato ad obbedire al mio Babbo. Quello vero, però!
Forse voi sì, ma loro non mi capirono.
L’angelo mi disse pure che il mio Papino caro, prima di morire, mi lasciò una grande eredità, ma dovevo andarmela a cercare da sola.
<<Ero ricca, quindi>>.
E magari finalmente avrei potuto realizzare tanti sogni. Forse.
Beh! Non so cosa intendesse quell’angelo con il termine “eredità”, ma ad essere sincera non me ne fregava poi così tanto.
Io volevo solo ciò che era mio e mi era stato tolto: << Io volevo il mio Papino!>>.
Partii lo stesso, dunque, ma alla sua ricerca.
Sapevo che un giorno avrei trovato quello che cercavo, anche se ancora non sapevo neanche io cosa cercassi.
Prima di partire dissi: <<Vado a cercare il mio Babbo, e poi ritorno!>>.
Ma erano tutti così impegnati a pensare a loro stessi che nessuno ascoltò le mie parole. E, nel silenzio del mio cuore, me ne andai.
******
Dicono che ai grandi, alla “gente adulta”, – così si fanno chiamare! – non bastano le parole: loro vogliono i fatti!
Ebbene! Finalmente avevamo trovato un punto d’incontro: <<Loro vogliono i fatti, e io non sarei tornata se non prima di aver trovato il mio tesoro. Quello vero, però!>>.
Passarono gli anni e, nonostante le fatiche, la solitudine e l’umiliazione, la mia ricerca non si fermò.
Continuavo ad ignorare ciò che cercavo, ma più andavo avanti e più sentivo che doveva essere qualcosa di veramente grande. E meno avevo desiderio di tornare indietro!
Non avevo ancora trovato il mio tesoro, però, – senza saperlo! – lo stavo seminando, e da lì avrei raccolto. <<Cosa ho raccolto?>>.
I miei sogni, ovviamente!
Ah! Scusate, ma non vi ho ancora detto quali erano. Lo faccio adesso: <<Pace, Amore … e Libertà!>>.
E non vi ho ancora detto la fine. Lo faccio ora.
Il mio Papino è vivo! E sapete cosa mi ha detto? Ve lo dico io: <<I sogni esistono, basta crederci!>>.
E mentre lo diceva, mi porgeva in dono la mia eredità: due Ali!
******
<<Ora si che i conti tornano!>>
Non c’è vita senza sogni, e non c’è sogno che non può realizzarsi. E se lo dice Lui potete crederci.
<<Chi è Lui?>>. Ma come?!
Tutti ne parlano, tanti professano la sua parola, altri fanno propria la sua legge, ma solo gli Angeli ci credono. Quelli veri, però!
Comunque, chiamatelo Dio, o Signore, o Spirito Santo se volete: <<Io l’ho chiamato Babbo, e lui mi ha risposto!>>.
ADRIANA SIGNORELLI-Nata a Caltagirone, in Catania, è psicologa e psicoterapeuta in formazione presso l’Istituto di Gestalt di Siracusa. Utilizza la scrittura come canale espressivo privilegiato tanto nel privato, come passione, quanto nell’attività professionale. Esistenzialista di fondo, sempre alla ricerca del senso della vita e delle sue vicissitudini, affronta temi universali quali amore, dolore, solitudine, morte e fede. Trova nella capacità introspettiva e nell’incontro empatico con l’altro la chiave di ispirazione per i suoi testi.
Françoise Hardy è morta l’11 giugno, a 80 anni. Soffriva dal 2004 di una lunga e dolorosa malattia. Thomas Dutronc, suo figlio, ha confermato il decesso con un post instagram verso le ore 23 di ieri sera: “Mamma è partita”.
Françoise Hardy
Françoise Hardy era ammalata da tanto tempo, e la sua situazione si era recentemente aggravata. La cantante resta nella memoria collettiva come una delle icone degli anni ’60. I suoi successi e il suo gusto per la moda ne avevano fatto un idolo dei giovani. L’interprete della canzone “Comment te dire adieu”, viveva da tanti anni lontano dalle telecamere e dalla vita pubblica. Numerose volte, si era espressa per il diritto a morire con dignità, e desiderava che le sue sofferenze finissero.
L’infanzia di Françoise Hardy resterà sempre un periodo doloroso per la cantante, cresciuta in un ambiente modesto, in un piccolo appartamento nella nona circoscrizione di Parigi con sua madre e sua sorella. Figlia illegittima di un uomo già sposato, soffre di un’assenza paterna, e dello sguardo dei suoi compagni di classe della scuola cattolica. Ma i momenti che teme di più sono i weekend, a casa di una nonna descritta come terribile, particolarmente con la ragazza, travolta di critiche, che per tanti anni saranno i suoi complessi, soprattutto sul suo fisico.
Solitaria, Françoise si rifugia nella musica grazie alla radio e la collezione di dischi di sua madre, prima di farsi regalare una chitarra per aver passato l’esame di maturità. Essendo alla ricerca di giovani talentuosi da lanciare nell’avventura dello yeye, la casa discografica Vogue l’assume nel 1961. Lontana dalla furia di un Johnny Hallyday, Françoise Hardy canta, dolce e melanconica, le paure dell’adolescenza.
Françoise Hardy esordisce in televisione nel 1962 con la celebre Tous les garçons et les filles, che interpreta il 21 settembre nel programma Le Petit Conservatoire de la chanson e che viene ritrasmessa domenica 28 ottobre alla radio in uno degli intermezzi musicali nel corso di una diretta elettorale di grandissimo ascolto.
La sua carriera è lanciata in pochi minuti. Già dall’indomani mattina, la sua canzone “Tous les garçons et les filles” avrà un successo enorme. Paris Match la mette in copertina e la pone come “idolo di una generazione”. Fa concerti attraverso la Francia, passa dall’Olympia, viaggia in tutta Europa, e comincia pure a fare cinema. Diventa un’icona di moda, popolare nel mezzo dei grandi “couturiers” come Courrèges o Saint Laurent, e la sua bellezza rappresenterà l’innocenza degli anni 1960. Le sue canzoni diventano sempre più famose, come “L’amour s’en va”, poi “Mon amie la rose”, in 1964, oppure “Comment te dire adieu”, prodotta da Serge Gainsbourg nel 1968.
Negli anni 2000 le viene diagnosticato un linfoma, i cui sintomi si aggraveranno lungo gli anni. Ritornando all’astrologia, (una grande passione a partire dagli anni ’60), ma anche alla scrittura, combatte ferocemente contro la malattia per circa 20 anni, ma lotta anche per il diritto all’eutanasia. “Non ho paura di morire, dice a Match nel 2021, ma ho molta paura di soffrire, anche se sta già succedendo, ma anche paura della sofferenza di dovermi separare degli esseri che amo più al mondo: mio figlio Thomas e suo padre”.
Traduzione di Héloïse Badiane Dorléans, giovane studentessa del Liceo Francese di Torino, in redazione per due settimane di stage di osservazione in ambito professionale
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
ArchaeoReporter-La morte di Papa Francesco Il suo pensiero sui beni artistici e culturali da salvare-Articolo di Angelo Cimarosti-
Articolo di Angelo Cimarosti-ArchaeoReporter–Con la morte di papa Francesco scompare una figura centrale non solo per la Chiesa ma anche per il mondo della cultura. .”il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato…”, ricordava il pontefice”
La scomparsa del Santo Padre Francesco è un momento di preghiera per i fedeli e di raccoglimento per chi ha apprezzato il suo impegno e la sua voce anche al di fuori della Chiesa. ArchaeoReporter si unisce al ricordo per la sua figura di Pontefice e per la sua persona.
Il vero ruolo partecipativo dell’arte, dei beni culturali e dei musei
Nel 2019 il Papa scrisse un discorso, che poi diffuse invece per iscritto, in occasione dell’incontro con l’Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani, che riportiamo quasi integralmente, in particolare sottolineandone l’aspetto dei beni culturali visti come mezzo partecipativo e sulla necessità di comunicarli con un linguaggio adeguato.
“...Nell’Enciclica Laudato si’ ho ricordato che il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato. Esso è parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Bisogna integrare la storia, la cultura, l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale, facendo dialogare il linguaggio tecnico con il linguaggio popolare. È la cultura intesa non solo come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo (cfr n. 143). Per questo è fondamentale che il museo intrattenga buone relazioni con il territorio in cui è inserito, collaborando con le altre istituzioni analoghe. Si tratta di aiutare le persone a vivere insieme, a vivere bene insieme, a collaborare insieme. I musei ecclesiastici, per loro natura, sono chiamati a favorire l’incontro e il dialogo nella comunità territoriale. In questa prospettiva è normale collaborare con musei di altre comunità religiose. Le opere d’arte e la memoria di diverse tradizioni e stili di vita parlano di quella umanità che ci rende fratelli e sorelle.
Il museo concorre alla buona qualità della vita della gente, creando spazi aperti di relazione tra le persone, luoghi di vicinanza e occasioni per creare comunità. Nei grandi centri si propone come offerta culturale e di rappresentazione della storia di quel luogo. Nelle piccole città sostiene la consapevolezza di una identità che “fa sentire a casa”. Sempre e per tutti aiuta ad alzare lo sguardo sul bello. Gli spazi urbani e la vita delle persone hanno bisogno di musei che permettano di gustare questa bellezza come espressione della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco (cfr Laudato si’, 150).
So bene che per voi questo lavoro è una passione: passione per la cultura, la storia, l’arte, da conoscere e da salvaguardare; passione per la gente delle vostre terre, al cui servizio ponete la vostra professionalità. E anche passione per la Chiesa e la sua missione. I musei in cui operate rappresentano il volto della Chiesa, la sua fecondità artistica e artigianale, la sua vocazione a comunicare un messaggio che è Buona Notizia. Un messaggio non per pochi eletti, ma per tutti. Tutti hanno diritto alla cultura bella! Specie i più poveri e gli ultimi, che ne debbono godere come dono di Dio. I vostri musei sono luoghi ecclesiali e voi partecipate alla pastorale delle vostre comunità presentando la bellezza dei processi creativi umani intesi ad esprimere la Gloria di Dio. Per questo cooperate con i vari uffici diocesani, e anche con le parrocchie e con le scuole.
Mi congratulo con voi perché curate la vostra formazione, per garantire una preparazione generale aggiornata anche presso i centri di studio ecclesiastici, oltre alla preparazione specifica nei diversi settori di competenza. Penso ad esempio al corso svolto quest’anno nella Pontificia Università Gregoriana. Ma anche al lavoro capillare di informazione e di comunicazione dei musei attraverso i media, le giornate di formazione e i contributi a riviste specializzate. Incoraggio anche le iniziative che portate avanti insieme con gli archivi e le biblioteche, mettendo in sinergia le vostre professionalità e la vostra passione. Insieme a volte si va più adagio, ma sicuramente si va più lontano!
Molti di voi si dedicano al dialogo con gli artisti contemporanei, promuovendo incontri, realizzando mostre, formando le persone a linguaggi di oggi. È un lavoro di sapienza e di apertura, non sempre apprezzato; è un lavoro “di frontiera”, indispensabile per continuare il dialogo che la Chiesa sempre ha avuto con gli artisti. L’arte contemporanea recepisce i linguaggi a cui specialmente i giovani sono abituati. Non può mancare questa espressione e sensibilità nei nostri musei, attraverso la sapiente ricerca delle motivazioni, dei contenuti e delle relazioni. Nuove persone si possono avvicinare anche all’arte contemporanea sacra, che può essere luogo importante di confronto e di dialogo con la cultura di oggi…”.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate nel n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Biblioteca DEA SABINA-Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Rivista Collettivo R-La casa editrice venne fondata nel dicembre 1970 su inizativa di Luca Rosi, Ubaldo Bardi e Franco Manescalchi all’interno del movimento dell’underground culturale ed editoriale fiorentino in stretto collegamento con l’associazionismo politico culturale e ricreativo (Arci, Circoli culturali, Case del popolo, partiti della sinistra storica, sindacati e movimento studentesco). Lo scopo era di collegare la contestazione politica con orizzonti culturali più ampi attraverso la proposta della riflessione di scrittori e poeti, in particolare italiani e latinoamericani, poco noti al grande pubblico. L’iniziativa si concretizzò nella pubblicazione della rivista «Collettivo R», un nome derivato dalle unioni spontanee di quegli anni e una lettera simbolica R ad indicare un triplice richiamo: Resistenza, Ricerca, Rivoluzione.
La rivista mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
La Rivista Collettivo R mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio
IN RICORDO DI LUCA ROSI direttore della rivista di poesia “COLLETTIVO R- ATAHUALPA”
Sabato 21 settembre u.s. è morto Luca Rosi. Quanti l’abbiamo conosciuto abbiamo perso non solo il poeta, ma l’amico leale e sensibile, sempre vicino nei problemi di vita quotidiana; tutti noi dopo la sua morte siamo orfani di qualcosa,sentiamo la sua assenza come un vuoto e siamo affranti, questo vuoto era la sua dolcezza nei rapporti con tutti e il suo impegno tenace, di una persona forte e resistente moralmente, con la sua orientazione a portare a termine impegni di traduzione dei testi della rivista, di redazione dei “quaderni” di poesia o della preparazione dei diversi numeri della rivista. In questo impegno in cui si riconosceva pienamente e attraverso esso comunicava con tutti noi ed era felice quando inviava la rivista e spesso aggiungeva in un foglio allegato un caro saluto. Luca, con me, che abito a Roma, spesso era presente con una telefonata o con una lettera. Qualche volta veniva a Roma per i suoi impegni nel sindacato dell’editoria,ed era un’occasione di incontro e di riflessione, ugualmente avveniva nei miei ritorni a Firenze, anche dopo la conclusione del periodo universitario.
Luca era nato settanta quattro anni fa. L’ho incontrato la prima volta a Firenze, nella sua abitazione, per una riunione della redazione della rivista “Collettivo R”, fondata da Franco Manescalchi insieme allo stesso Luca. Quella sera, ricordo ci fossero Silvano Guarducci, Ubaldo Bardi e Paolo Tassi. Ero stato invitato, dopo aver scritto una lettera alla redazione in seguito alla presa visione di uno dei primi numeri che era arrivato alla redazione dei “Quaderni Calabresi” di Vibo Valentia. Siamo nei primi anni ’70, molto ricchi di fermenti culturali, e io ero alla ricerca di un percorso personale, che coniugasse politica e poesia. Allora mi sembrò – e fu poi così – di averlo trovato nella rivista fiorentina e nel gruppo di persone che l’animava.
Quando i rapporti redazionali divennero più frequenti con Luca, si andava formando anche una sincera amicizia, che col tempo si è consolidata, diventando molto preziosa. Io lo apprezzavo molto e gli volevo bene, e lui non mancava di farmi sentire il suo affetto e la sua stima, giudicando positivamente non solo i miei primi testi poetici per la rivista, ma spesso mi incoraggiava tantissimo a continuare a scrivere durante i miei periodi di dubbi e di insicurezza nel trovare un mio percorso. Io intanto scorgevo in lui (anche in Franco e Silvano e Paolo) l’unione tra intelligenza e sforzo morale: cioè l’attenzione che riversava verso la storia coniugata con la poesia. Lui , figlio di emigranti italiani in Venezuela, ritornato in Italia per studiare all’Università, aveva cominciato con l’interesse per i problemi degli studenti stranieri in Italia, con la redazione di un giornale degli studenti immigrati. Nel frattempo aveva avviato con la scrittura di testi poetici una comprensione del mondo e della sua storia. Penso alle prime due raccolte: “TERRA CALCINATA” E “AMORE SENZA TEMPO”. Per la prima volta ho cominciato a sentire da lui ( e da Franco) l’espressione caratterizzante: la poesia comepoesia della tensione. Essa era il risultato di riflessioni sul giusto rapporto morale con il mondo di quella storia che allora era divisa tra oppressione e movimenti di rivolta e rivoluzione. In quella concezione della poesia mi sembrava abitasse qualcosa di spirituale unito al politico. Luca era così, racchiudeva l’uno e l’altro. Lo spirituale mi sembrava basato su ciò che chiamiamo scelta, responsabilità, disponibilità all’apertura al mondo della storia. Così era fatto il suo mondo di poeta e di intellettuale, di poeta-intellettuale. Lui proponeva una poesia fatta con la passione della politica e con una tensione spirituale verso le singole persone oltre che per i fatti storico-collettivi. In Luca era molto presente anche l’orizzonte esistenziale, credo per dare un senso maggiore alla storia e alla vita stessa. Luca, già nei primi numeri della rivista “Collettivo R” individuava il ruolo del poeta come politico, con una sensibilità e una “tensione” verso le classi sfruttate e oppresse. Lui pensava possibile una <<lunga marcia>> in cui i poeti avrebbero lasciato da parte le ambizioni piccolo-borghesi, ogni prestigio personale per identificarsi con i problemi storici dell’oppressione. Luca è stato un innovatore : attraverso i testi classici del marxismo, denunciava nei primi scritti l’alienazione del lavoro intellettuale nell’industria, tra cui quello del poeta, che avrebbe perso l’aureola, eproponeva l’uscita dall’editoria tradizionale, con l’esoeditoria e il ciclostile e la diffusione a braccio della poesia tra gli strati popolari (case del popolo, scuole, ecc), collegandosi con le forze sociali che agivano a livello di massa. Così individuava il ruolo del poeta come ruolo politico in senso lato, con una tensione verso le classi oppresse. La Sua presenza alle feste dell’Unità, in alcune scuole, presso le Case del Popolo, e altri luoghi pubblici era determinante e necessaria: lui non riservava le sue energie che a questa attività di pedagogo, di amante della poesia, per far altresì innamorare gli altri. Una sua grande gioia era quella di poter invitare in questi incontri il poeta Cardenal o Rafael Alberti, o di tradurre dallo spagnolo moltissimi poeti latino-americani, per poterli far conoscere ai lettori italiani, cominciando dall’ antologia collettivamente tradotta: “Poeti a Cuba”. Il suo amore intenso per la poesia lo portava spesso a organizzare cene di sottoscrizione per continuare la pubblicazione della rivista, o a passare giorni interi a correggere le bozze di più di 50 libri di poesia di altrettanti autori, o a interessarsi alla redazione dell’antologia “L’Utopia Consumata” (o Anti-Antologia),o a curare periodicamente e con assiduità la corrispondenza con i poeti della rivista , o a tener testa ai diversi progetti culturali, relativi alla fondazione del Centro Eielson per la conoscenza della poesia latino-americana, o alla fondazione dell’Associazione culturale “ATAHUALPA, o alla edizione della nuova serie della rivista a cominciare dal 2006, o a preparare presso la biblioteca Marucelliana di Firenze la mostra di tutti i materiali di “COLLETTIVO R” e i diversi incontri di presentazione di libri per il quarantesimo anniversario della rivista.In questo suo impegno tenace era sempre sostenuto da una famiglia molto generose e a lui vicina: dalla moglie Felis, dalle figlie e dai nipoti, a cui ha saputo trasmettere con molto affetto il valore della poesia. Ecco, quando prendiamo in mano o pensiamo un numero della rivista o uno dei libri editati da Colletttivo R, pensiamo a Luca, al suo grande amore perché la poesia giungesse a tantissimi, perciò pensiamo a Lui come poeta, intellettuale e pedagogo. Oraquesto suo mondo apparentemente trascorso vivrà nel futuro, nella misura in cui noi lo ricordiamo riproponendolo. (Luca un grazie infinito da parte mia e a nome anche di coloro che ti hanno conosciuto attraverso la Rivista).
Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
Articolo e foto sono di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico” IL Mitico LUCA-Archeologo e storico della Villa Romana delle ColonnacceCASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .
L’esordio poetico di Francesco Gallina: Medicinalia-Par Cinzia Demi-Marco Saya Edizioni
Francesco Gallina, classe 1992, laureato in Filologia moderna, docente di Lettere nelle scuole secondarie di secondo grado, è dottore di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche presso l’Università degli Studi di Parma, dove si occupa prevalentemente della storia del genere novellistico e della fortuna dantesca in ambito letterario e figurativo. È autore di saggi di letteratura italiana, curatele e contributi su riviste scientifiche tra le quali: Studi e Problemi di Critica Testuale, Parole Rubate, Italianistica, Studi Pasoliniani, Griseldaonline, Campi Immaginabili, Oblio, Ricerche di S/Confine. Della sua produzione scientifica si menziona il recente «Speculando per sapienza». Vita, opere e poetica di Giovanni Gherardi da Prato (Rubbettino, 2022), volume monografico interamente dedicato all’intellettuale toscano. In ambito narrativo ha pubblicato racconti su quotidiani come la «Gazzetta di Parma» e antologie fra le quali Parma. I nuovi narratori raccontano la loro città (Diabasis, 2021).
Medicinalia, edito da Marco Saya Edizioni nel 2022, segna il suo esordio poetico: con questo lavoro Francesco Gallina ha vinto nello stesso anno il Premio Siae Under 35 nell’ambito del XXXIV Premio Letterario Camaiore – Francesco Belluomini, su giudizio della giuria composta dalla Presidente del Premio Rosanna Lupi e dal Presidente della Società italiana degli autori ed editori Giulio Rapetti Mogol.
Conosco Francesco Gallina per aver letto questa sua prima opera ed esserne rimasta colpita, come penso molti, per la particolarità del tema e l’assoluta scioltezza, ma anche complessità, con la quale lo tratta. Ho pensato di invitarlo alla rassegna Un thè con la poesia a Bologna, per l’appuntamento di giugno, per conoscerlo personalmente, per approfondire con lui le intenzioni del libro e per comprendere appieno questa sua esperienza, a mezza via tra la medicina e la poesia, che ci riporta indietro nel tempo, ricollegandosi ampiamente alla tradizione della Commedia dantesca.
Medicinalia
Francesco Gallina
Medicinalia è un titolo non proprio consueto per un libro di poesia, così come potrebbe far pensare il suo stesso contenuto. Eppure, a ben guardare, il nostro passato letterario è pieno di riferimenti a una tradizione che, su argomenti medici in poesia, affonda le sue radici addirittura nell’opera di Dante. E, certo, viene da chiedersi se Francesco Gallina, che per altro è anche dedito agli studi sul Poeta, non si sia ispirato in prima battuta proprio a lui per scrivere il suo lavoro. Dante, certamente, non era un medico ma sappiamo che a Firenze egli aveva scelto di iscriversi, tra le corporazioni, a quella dell’Arte dei medici e degli speziali, iscrizione che non è improbabile possa aver comportato il superamento di un esame non solo formale per verificare la capacità di esercitare il mestiere; sappiamo che ha avuto molti contatti con alcuni medici all’Università di Bologna, frequentando le lezioni di Taddeo Alderotti, professore di medicina, il quale a sua volta aveva legami con altri medici quali Fiduccio de’ Milotti e Mondino de’ Liuzzi; sappiamo che tra il 1304 e il 1306 Dante fu a Padova, dove frequentò Pietro D’Abano e, sicuramente, assistette alle dissezioni nel Teatro anatomico, le prime autorizzate dalla Chiesa… insomma molti indizi ci portano a credere che nella Commedia, in particolare nella cantica infernale, i riferimenti che confermano come Dante avesse una conoscenza di autori medici, e una grande capacità di descrivere le questioni inerenti agli argomenti da loro trattati, era considerevole, tanto da saperci restituire nella loro intensità e veridicità le pene inflitte ai dannati, le ambientazioni ospedaliere del tempo, il dolore fisico e psichico, le malattie dell’epoca come uno che ha davvero molta familiarità con la medicina.
Oltre a Dante, ovviamente, la schiera dei poeti che si sono cimentati in una scrittura che avesse come fondamento la medicina, e in specie la malattia, è lunga e se ne ritrovano tracce nella poesia classica e nella poesia contemporanea e ancora, come qualcuno sottolinea, in quella ipercontemporanea… Lo stesso Gallina apre il primo capitolo del libro o introduce alcune poesie con versi che ne dimostrano la frequentazione. Questi sono alcuni esempi: Ecco il bianco drappello che semina la pace/in punta di siringa (Margherita Guidacci, Iniezione serale); Splendido, certo, s’annuncia il continente profondo del cancro (Tiziano Rossi, Sotto cancro); Con non altri che te/è il colloquio (Vittorio Sereni, Via Scarlatti); Da che fatto fu poi il sangue brino,/ricominciò a dir: «Perché mi scerpi ?/non hai tu spirto di pietade alcuno ?» (Dante, Inferno)… e molti altri, non riportati, se ne potrebbero citare.
Resta da capire come sia stato sviluppato il tema e quale stile abbia scelto l’autore per i testi di questo libro che forse non ci sorprendono ma, di certo, non ci lasciano neanche indifferenti perché la malattia, la sofferenza, la partecipazione al dolore fanno parte della vita di tutti noi, rientrano nella nostra esperienza del quotidiano e non possiamo ignorarle. Tuttavia, l’approccio proposto da Gallina, di primo acchito, appare distaccato, e con il piglio quasi didascalico di chi descrive una realtà che, in fondo, sembra non appartenergli, egli si appresta a introdurci in stanze ben igienizzate, in sale operatorie illuminate da una luce neutrale, in resoconti clinici di mali, in elencazioni di organi più o meno vitali sottoposti a terapie, in sentimenti che non contemplano la compassione: tutto sembra non commuoverlo, come ci aspetteremo, tutto sembra raccontato con lucida perfezione come se visto in prima persona, ma attraverso un vetro, o uno specchio che ne riflette da lontano le immagini, le azioni, i volti, financo i pensieri: nessun coinvolgimento da parte del poeta, quasi nessun segno di quell’empatia che risulterebbe necessaria per affrontare l’argomento. Questo è quello che sembra. Ma noi non ci crediamo, e scandagliando bene le parole tra i versi dell’autore, ricominciamo a leggere per trovare quello che cerchiamo, quello che ci rende umani, quello che da sempre ci separa dal nulla, dal vuoto: il sentimento. Infatti, a ben guardare, ci imbattiamo – già dalle prime pagine – in alcuni versi che lasciano trapelare qualcosa di diverso da quella che è stata la prima impressione e che, se pure mimetizzata da un filo lieve d’ironia, soprattutto come vedremo più avanti, si apre nella prima sezione del libro alla presentazione di quella che è – o che vogliamo pensare sia -, in fondo, la dichiarazione di poetica di Francesco Gallina. Così scopriamo che la creazione dell’uomo nasce da un gesto d’amore: se qualcuno – il nome è un mistero -/non ci avesse messo l’impegno, la cura, un preistorico/storicissismo atto d’amore; che il pensiero sull’uomo porta alla considerazione che c’è qualcosa di più nel corpo umano, oltre agli organi che lo compongono: non è una macchina, l’Uomo/non è calcolo o matematica/non è certezza algoritmo equazione […] ma un magnetico puntino su tela/di Fénéon; che la razionalità sulla nostra esistenza dev’essere filtrata dalla bellezza e dell’arte, dimensione con cui convivere a pieno titolo: ché la vita è una questione di grafite,/roba fragile, fragile detrito//ma passata al filtro dell’arte/pulsa di nuovo colore.
Da qui il passaggio, quasi obbligatorio e di considerevole efficacia, ci conduce ai successivi capitoli, nei quali, come detto, attraverso una cifra stilistica forgiata da una lieve ironia che cattura al suo interno le figure retoriche tipiche della poesia, il ché ne denota l’ottima conoscenza, quali la metafora, l’allitterazione, l’iperbole, se pure rivisitate in chiave moderna, da qui, dicevamo, vengono poste al lettore – quasi inconsciamente – alcune domande basilari sulla funzionalità e intenzionalità delle scienze mediche, vengono rivisitate le storie degli esperimenti esperiti spesso senza alcuna etica professionale o umana, il tutto filtrato attraverso un percorso su alcune tipologie di malattie e la reazione ad esse da chi ne viene colpito (secondo capitolo: dal sentimento al sintomo), o addentrandosi nella dimensione ospedaliera vera e propria, con elencazione di mezzi e strumenti utilizzati, di patologie più gravi, di cure specifiche (terzo capitolo: minimo abbecedario ospedaliero).
E infine, arriviamo all’epilogo, ovvero all’ultima sezione del libro dove ci imbattiamo nella dimensione delle tematiche bioetiche anch’esse, in apparenza, trattate con distacco. Diciamo sempre in apparenza perché, non abbiamo nessuna convinzione in merito all’accennato atteggiamento del distacco: anche qui, infatti, come nella prima parte del libro ci sembra affiorare invece un sentimento, che potremmo definire quasi religioso di osservazione, cosparso di termini biblici ed evangelici, intriso di quella spiritualità che si porta necessariamente con sé il confronto tra la vita e la morte, tra il partire e il restare, tra la rianimazione e la resurrezione: corpo di pillola che si spezza come ostia/nella tua bocca, vecchio: nell’ora del vespro/la tua comunione contro l’ipertensione sono i versi che accompagnano questa visione liturgica dei gesti di cura; profondissima è la forza che separa/ “rianimazione” e “resurrezione” […] «alzati e cammina»/può diventare un protocollo umano,/troppo umano dove il miracolo di Lazzaro è il termine di paragone per il tentativo di rianimare un corpo da riportare in vita; si sfaldano come alghe le madri,/curve di nervi nelle camere ardenti//asciutta l’acquasantiera/ l’utero s’involve, secca dove l’elemento dell’acquasantiera asciutta si rapporta con l’utero seccato nel momento in cui la madre subisce la morte prematura del figlio… e gli esempi potrebbero continuare. Come parlare dunque di distacco, di assenza di coinvolgimento, di neutralità di fronte alle esperienze dolorose della vita, accorgendosi dell’uso di termini di paragone, metafore, similitudini di questa portata?
Per concludere possiamo solo dire che siamo grati a Francesco Gallina per averci condotto su questa strada dove ognuno vedrà sicuramente ciò che più gli è caro o vicino ma dove, inevitabile sarà il confrontarsi anche con questa prospettiva, molto meno laica di quanto si pensi.
Alcuni testi da: Medicinalia
L’atlante di Netter
se perdessi la strada che porta all’arteria
col dito potresti intercettare la sim
del sangue, risalire al pin
che ci tiene in vita, messo su carta
da Frank Netter in punta di matita,
ché la vita è una questione di grafite,
roba fragile, fragile detrito
ma passata al filtro dell’arte
pulsa di nuovo colore:
anche un tumore
acquista dignità, l’orrore
la rappresentazione del male
l’inferno senza girone
che incappi sfogliando l’Atlante
diventa il manifesto dell’iperreale
più vivo della carne
che ogni giorno ti carichi sulle spalle
***
La grafia del medico di famiglia
è una in gamba
la farmacista sotto casa
si dice abbia
avuto maestri illustri (Champollion,
Evans, Ventris), che persino
Dan Brown l’abbia chiamata
in consultazione privata
sulla decodifica di antichi alfabeti in codice
dunque, cari miei, nessuno stupore
se ha antenne per captare
la calligrafia e la sua mistica,
l’arzigogolo arabeggiante, l’esotico
ondeggiare dell’inchiostro
sulla stele di Rosetta
fresca di cartuccia
***
Il cuore
sono lontani i tempi in cui Magrelli
cantava di DNA di lucciole
innestati nelle fragole
oggi la musica è cambiata: la poesia
può permettersi solo un impoetico
cuore di porco, geneticamente
modificato, installato nel corpo
di un uomo, (in attesa che il cuore umano
palpiti un giorno nel costato di un porco
per permettere il passaggio di specie
forse già in atto, senza trapianto).
***
La risonanza magnetica
le bobine di gradiente
inglobano il corpo del piccolo Mircea,
lo risucchiano nel buco nero
di un solenoide: dentro
si gioca una guerra di acufeni,
frequenze acustiche all’impazzata,
onde magnetiche, picchi di martello
la testa di Mircea si apre a ombrello sul monitor:
vediamo il cervello e le radici
del tronco encefalico, vediamo
le cause dei suoi capogiri, la vertigine
cosmica, i suoi sogni in tomografia
***
La terapia intensiva
sotto la tonda plastica dei caschi
a ventilazione non invasiva
simile con simile qui è sepolto
inclinando oltre la parabola del mondo
raddrizzata sulla carreggiata l’anima
l’angelo intubatore, l’idraulico
celeste sotto lo scafandro, sillaba
alle valvole parole d’amore
la turbolenza dei flussi d’aria
è il soundtrack che tiene in vita chi da vita
sfugge
Cinzia Demi
Bologna, maggio 2023
Cinzia Demi
https://cinziademi.it/
Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino – LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.
Maram al-Masri -(Lattakia Siria 2 agosto 1962)-Le donne come me, non sanno parlare; la parola le rimane di attraverso in gola come una lisca che preferiscono inghiottire. Le donne come me sanno soltanto piangere a lacrime restie che improvvisamente rompono e sgorgano come una vena tagliata. Le donne come me sopportano gli schiaffi senza osare renderli. Tremano di rabbia e la reprimono. Come leoni in gabbia le donne come me sognano la libertà …
( Versi tratti da Anime scalze, Maram Al- Masri, Multimedia Edizioni / Casa della poesia.)
Maram al-Masri
-M’infiamma il desiderio.
M’infiamma il desiderio.
E brillano i miei occhi.
Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo,
mi muto in demonio,
e bendo gli occhi dei miei angeli
per un bacio.
-Dormi profondamente-
Dormi profondamente
e non ti preoccupare
per la mia insonnia,
lasciami sognare un po’
di strade alberate
e di vaste dune,
dove possa galoppare
sui miei cavalli bramosi,
io,
la donna che dovrà essere
buona
e ragionevole
domattina.
Ho osservato il mio specchio
Ho osservato il mio specchio
e vi ho visto
una donna
pienamente soddisfatta
con gli occhi brillanti
d’una squisita malizia.
L’ho invidiata
Abbiamo volti
che portiamo sulle spalle
sulle carte d’identità
nelle foto ricordo
Maram al-Masri
Abbiamo volti
Abbiamo volti
che strappiamo conserviamo
nascondiamo riveliamo
ai quali ci abituiamo che rinneghiamo
che amiamo
e odiamo
Abbiamo volti
che conosciamo…
diciamo: li conosciamo?
-Che follia-
Che follia!
Il mio cuore ogni volta che sente bussare
apre la porta.
-Uno straniero mi guarda-
Uno straniero mi guarda,
uno straniero mi parla,
sorrido ad uno straniero,
parlo ad uno straniero,
m’ascolta uno straniero,
davanti
alle sue pene
pulite e bianche
piango,
sulla solitudine che unisce
gli stranieri.
-La donna che guarda dalla finestra-
La donna che guarda dalla finestra
vorrebbe avere delle lunghe braccia
per prendere il mondo
il suo Nord e il suo Sud
il suo Est e il suo Ovest
nel suo grembo
come una tenera madre
vorrebbe avere grandi mani
per carezzare i suoi capelli
scrivere delle poesie
per alleviare la sua pena.
-Desideravo-
Desideravo
che le tue labbra sfiorassero
il mio collo,
per chiudere gli occhi
e assaporare
la magia di quel
momento
proibito.
-Io e la mia felicità-
Io e la mia felicità
aspettiamo
le vibrazioni dei tuoi passi.
-Sei molto diverso dagli altri-
Sei molto diverso dagli altri.
Il tuo segno distintivo:
il mio bacio
sulla
tua bocca.
-Sono la ladra dei dolci-
Sono la ladra dei dolci
esposti nel tuo negozio
le mie dita sono appiccicaticce
e non sono riuscita
a metterne uno solo
in bocca.
-Questa sera-
Questa sera
un uomo uscirà
in cerca
di una preda
per soddisfare il segreto dei suoi desideri.
Questa sera
una donna uscirà
in cerca
di un uomo che la renderà
la padrona del suo giaciglio.
Questa sera
la preda e il predatore si incontreranno
e si compenetreranno
e forse…
forse
si scambieranno i ruoli.
-Sul letto-
Sul letto
una macchia rossa
inumidita dalle lacrime del vergine desiderio.
Ama per la prima volta
e si immerge nell´acqua eterna della vita
quel sudore
caldo
e i suoi strani effluvi
che emanano da due corpi
che festeggiano la morte del desiderio.
-Specchio-
Mi sono guardata allo specchio
e ho visto
una donna
pienamente soddisfatta,
dallo sguardo radioso
e squisita malizia.
-Tristezza-
Sola
non le permetto
di farmi visita.
Volteggia intorno a me
la caccio via.
Eccola
simile a una mosca nera
simile a una orribile mosca nera
vola qui, ronza di là
per atterrare sul profondo del mio cuore.
Tristezza
una mucca impazzita
rumina
l´erba e il fieno
della mia estasi.
-Verso di lui-
Si è diretta verso di lui
per offrirgli
i suoi pori
e le sue unghie
decorate da ciliegie
che ha divorato
avidamente.
Se ne è andata
con il cestino del suo cuore
svuotato.
-Filo di luce-
Lo guardai
attraverso un filo di luce
che filtrava
dalla finestra della mia misericordia.
Il corpo affaticato
disteso accanto a me
affamato come me.
Gli ho fatto cenno
di avvicinarsi
ma ha rifiutato.
Glielo ho ordinato
ma ha disobbedito.
L’ho obbligato
si è avvicinato tremante dalla paura
di toccare
un altro corpo.
-L’Amore-
Lo voglio,
caldo
e profondo
che mi dia vertigine;
altrimenti, non ti avvicinare.
Che parta
dal mignolo della mia mano,
per finire alla punta dei miei piedi,
passando
per i miei monti,
le mie valli e le mie gole
e catturi
la mia anima.
– Aspetto,e cosa aspetto ?-
Aspetto,
e cosa aspetto ?
Un uomo carico di fiori
e di parole dolci.
Un uomo
che mi guardi e mi veda.
Che mi parli e m’ascolti.
un uomo che pianga
per me.
Provo pietà per lui
e l’amo.
-Impediscimi-
Impediscimi, mio saggio marito,
Impediscimi, mio saggio marito,
di issarmi sui tacchi della mia femminilità,
perché all’angolo
mi aspetta un giovane
-Lei mi apre-
Lei mi apre
le sue ampie porte.
Mi chiama
e mi spinge a lanciarmi
nel suo spazio
e come un uccello
davanti alla porta aperta della gabbia
non oso.
-Delitto-
Che
meraviglioso delitto
ho commesso?
Ho goduto
di un corpo
che mi ha donato
un fiume inebriante
e una ribellione di vita.
-Anime scalze-
Le ho viste.
Loro,
i loro volti dai lividi celati.
Loro,
gli ematomi nascosti tra le cosce,
Loro,
i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite
Loro,
i loro sorrisi affaticati.
Le ho viste
tutte
passare nella strada
anime scalze,
che si guardano dietro,
temendo di essere seguite
dai piedi della tempesta,
ladre di luna
attraversano,
camuffate da donne normali.
Nessuno le può riconoscere
tranne quelle
che sono come loro.
-Vieni, vieni-
Vieni, vieni
ho preparato la tavola del mio ventre
il giardino delle mie cosce dai frutti maturi
le mie cosce calde e felici
succose di nettare di desiderio.
Ma
prepara la tua bocca affinché io possa mangiare.
Vieni, vieni
ben temperato è il mio vino sacro
che ti darà il godimento
di una donna
matura d’amore.
Maram al-Masri
– Mi ha detto che sarebbe venuta-
Mi ha detto che sarebbe venuta
quando?
non lo so
tuttavia lei verrà, è sicuro
ma prima
bisognerà che mi tolga
lo sfavillio degli occhi
la freschezza della pelle
la pienezza dei seni
l’umido dei passi
la lucentezza dei capelli.
Dovrà privarmi
della voglia di correre
di danzare
di scoprire le braccia
di guardarmi nello specchio.
Le servirà far morire il mio desiderio
il desiderio di baciare
di fare l’amore.
– È venuta tutta intera-
È venuta tutta intera,
con l’odore del suo letto
e della sua cucina,
con i baci di suo marito
nascosti sotto la camicetta,
con il suo sperma
ancora caldo
nel ventre.
È venuta,
con la sua storia e i suoi sogni,
le sue rughe,
e il suo sorriso screpolato,
con la peluria che si tesse
sul bordo delle sue guance,
con i resti delle loro colazioni
appiccicati ai denti.
È venuta con tutti i miei dolori,
la donna che vive con il mio uomo.
-Che dispiacere-
Che dispiacere
per ogni parola d’amore
che voleva dichiararsi
e che fu seppellita viva.
Che dolore
in gola.
-Aspetto dietro la tua porta-
Aspetto
dietro la tua porta,
non aizzarmi contro i tuoi cani rabbiosi
perchè mi caccino.
I tuoi cani
che ho visto nascere,
che ho nutrito,
che ho carezzato,
che si sono dimenticati
che li abbracciavo
e che nascondevano la loro testa
nel mio grembo.
Ah,gli ingrati!
Ogni volta
che apro la mia valigia,
ne esce polvere.
– Madame Chevrot-
Età : 75 anni Professione : ex stiratrice
È da molto
che non vedo Madame Chevrot,
la donna che di solito
incontravo nella strada principale.
Mi sorrideva
e il suo sorriso mi costringeva a fermarmi,
anche se avevo fretta,
per parlare del tempo,
della sua bellezza di un tempo
e degli uomini che l’hanno amata.
Madame Chevrot è piccola,
un naso grosso come una melanzana
e pochi denti
rotti e neri,
Lei giura con fierezza, che sono veri.
Elegante, per quanto l’età lo permetta.
Truccata, tanto che le cascano le palpebre …
Al nostro ultimo incontro
mi ha raccontato
di aver conosciuto un uomo
nella sala da ballo
dove stava imparando la salsa.
Lui avrebbe tanto voluto vivere con lei …
Ma lei?
Lei esitava,
divisa tra rinunciare alla sua libertà
e rinunciare al suo russare,
perché, mi diceva,
è tutto quello che lui può offrirle
la notte.
– Grazie a tutti quelli che.-
Grazie a tutti quelli
che mi hanno amato
e a tutti quelli che mi hanno detestato
a quelli che mi hanno abbandonato
e a quelli che ho abbandonato
Ogni volta mi hanno ridato fuoco
e riacceso in me il desiderio
Ci sono quelli che ho dimenticato
e quelli che non dimenticherò mai
Non mi hanno impedito
d’avventurarmi
ogni volta
ad amare di nuovo.
Maram al-Masri
Maram al-Masri -(Lattakia Siria 2 agosto 1962)-Le donne come me, non sanno parlare; la parola le Maram al-Masri rimane di attraverso in gola come una lisca che preferiscono inghiottire. Le donne come me sanno soltanto piangere a lacrime restie che improvvisamente rompono e sgorgano come una vena tagliata. Le donne come me sopportano gli schiaffi senza osare renderli. Tremano di rabbia e la reprimono. Come leoni in gabbia le donne come me sognano la libertà …
( Versi tratti da Anime scalze, Maram Al- Masri, Multimedia Edizioni / Casa della poesia.)
Maram al-Masri – Vive suoi primi vent’anni nella città portuale siriana di Lattakia, vicina all’isola di Cipro. Dopo gli studi a Damasco e in Inghilterra, è costretta a lasciare la sua terra d’origine insieme a suo marito perché oppositrice del regime di Assad.
Si trasferisce con lui a Parigi dove vive dal 1982. A seguito della fine del suo matrimonio, l’ex marito ritorna in Siria portando con sé anche il figlio di soli diciotto mesi. A Maram Al Masri per tredici anni viene proibito di vederlo.
Maram esordisce a Damasco dove pubblica “Ti minaccio con una colomba bianca”, presso la casa editrice del Ministero dell’ Educazione. Dopo un lungo periodo di silenzio, nel 1997 ritorna alla poesia con “Ciliegia rossa su piastrelle bianche”, pubblicato a Tunisi dalle Edizioni L’Oro del Tempo nel 1997, e salutato con entusiasmo dalla critica dei paesi arabi. Nel 1998 riceve il premio del Forum culturale libanese in Francia, al quale partecipò il poeta libanese Adonis.
Nella raccolta Anime Scalze la poetessa dedica la sua opera alle donne vittime di violenza in Francia e nel mondo, a quelle “anime scalze”, alle donne che non sono mai state amate.
Nel 2000 Al Manar Edizioni pubblica a Beirut la terza raccolta Ti guardo e nel 2002 viene pubblicata in Spagna la prima traduzione di Ciliegie rosse su piastrelle bianche. Le sue opere cominciano ad essere tradotte in molte lingue. L’edizione spagnola di Ti guardo resta per quattro settimane tra i primi dieci libri di poesia più venduti. Maram al-Masri ha partecipato a numerosi festival internazionali di poesia in tutto il mondo e per Casa della poesia nel 2004 a “Il cammino delle comete” e a “Sidaja”, nel 2005 a “Napolipoesia nel Parco” e agli “Incontri di Sarajevo”. Nel 2007 e nel 2009 ha preso parte a “VersoSud”, Reggio Calabria. Nel 2017 ha ricevuto il Premio Casa della poesia – Regina Coppola.
Bibliografia
PUBBLICAZIONI:
1984 “Ti minaccio con una colomba bianca”, Ministero dell’ Educazione, Damasco.
1997, “Ciliegia rossa su piastrelle bianche”, Edizioni L’Oro del Tempo, Tunisi. Questo libro è stato tradotto in spagnolo, in francese, in corso e in inglese (Gran Bretagna e Stati Uniti). Molte sue poesie sono state tradotte e pubblicate in riviste, in spagnolo, francese, inglese, tedesco, italiano, corso e turco.
2000, “Ti guardo”: è stato pubblicato originariamente a Beirut (e poi in Francia e in Spagna); è stato pubblicato nell’agosto del 2009 da Multimedia Edizioni (traduzione dall’arabo di Marianna Salvioli).
2011, “Les âmes aux pieds nus”: è stato pubblicato in Francia da Le Temps des Cerises, e in Italia col titolo “Anime scalze” nel 2011 dalla Multimedia Edizioni / Casa della poesia che nel 2014 dà alle stampe “Arriva nuda la libertà” (traduzione dall’arabo di Bianca Carlino). Nel 2018 con la traduzione di Raffaella Marzano viene pubblicato “La donna con la valigia rossa”, racconto illustrato dall’artista salernitana Ida Mainenti.
La sua poesia è inserita nel volume “Non ho peccato abbastanza. Antologie di poetesse arabe contemporanee” (Mondadori, 2007).
Maram Al-Masri Nella Siria martoriata c’è una città che si chiama Lattakia. Una città di mare, vicina all’isola di Cipro: lì il 2 Agosto del 1962 è nata Maram Al-Masri e lì ha vissuto i suoi primi vent’anni. Studia a Damasco, poi in Inghilterra. Si sposa giovanissima e con il marito è costretta a fuggire a Parigi, in quanto oppositrice del regime di Assad.
Lì ho sepolto mio padre il giorno in cui ho deciso di partire con una sola valigia colma di sogni senza memoria… e la sua fotografia.
Quando il suo matrimonio finisce il marito ritorna in Siria portando con sé il figlio che Maram non vedrà per i successivi tredici anni. A Lattakia, oggi presa di mira dall’ISIS, vive ancora tutta la sua famiglia.
Maram esordisce a Damasco nel 1984 con Ti minaccio con una colomba bianca; poi, dopo un lungo periodo di silenzio, pubblica nel 1997 la raccolta di poesie Ciliegia rossa su piastrelle bianche. Ti guardo viene invece pubblicato a Beirut nel 2000.
Nella raccolta Anime scalze del 2011 Maram dedica i suoi versi a tutte le donne vittime di violenza, alle profughe, alle donne sommerse. La sua scrittura diventa quasi fotografia, è come vederle queste donne: i loro lividi, i loro sogni rapiti, le parole che non possono dire, i sorrisi stanchi:
Le ho viste tutte passare in strada / anime scalze, / che si guardano dietro, / temendo di essere seguite / dai piedi della tempesta, / ladre di luna / attraversano, / camuffate da donne normali. / Nessuno le può riconoscere / tranne quelle / che somigliano a loro.
La poesia di Maram è un inno alla bellezza che sopravvive al di là degli orrori, della guerra, della violenza nelle piccole cose.
Oggi il dolore di Maram è quello del suo popolo, decimato in pochi anni. I siriani da venti milioni sono diventati undici milioni. Quelli che hanno deciso di restare nella loro terra affrontano ogni giorno fame, prigione e torture da parte del regime, e le bombe dell’ISIS. A loro Maram dedica la raccolta di poesie Arriva nuda la libertà del 2014:
La Siria per me… è una donna violentata tutte le notti da un vecchio mostro / violata / imprigionata / costretta a sposarsi. / La Siria per me / è l’umanità afflitta / è una bella donna che canta l’inno della Libertà / ma le tagliano la gola. / È l’arcobaleno del popolo / che si staglierà dopo i fulmini e le tempeste.
I versi di Maram sono un omaggio a coloro che hanno perso la vita sotto le bombe o che sono morti sotto le torture del regime. Sono “figli della libertà”, indossano abiti usati di stoffa ruvida, sono scalzi o hanno scarpe troppo grandi. I figli dei figli della libertà giocano con brandelli di pneumatici, con i sassi, con i resti degli ordigni esplosi. Nessuno ha più la forza di raccontare loro una favola, ascoltano solo “il frastuono della paura e del freddo / sui marciapiedi / davanti alle porte delle loro case distrutte / negli accampamenti / o / nelle tombe.”
Ha un sogno Maram: diventare un uccello dalle grandi ali e sorvolare finalmente la sua nazione liberata da guerra e violenza, risorta dalle rovine.
Un esilio è paragonabile ad un albero privato delle radici. Una migrante come me / […] / non attecchisce da nessuna parte. / Senza patria / viene da ogni orizzonte, / portata dalle ali del vento.
Lontana dalla sua terra, la voce di Maram grida forte il proprio dissenso. I suoi versi diventano atti civili di resistenza al regime, richiesta di rispetto dei diritti umani. La sua poesia vola dalla Francia alla Siria, dall’Occidente all’Oriente: inno di giustizia e di libertà sia per i siriani che hanno deciso di restare sia per quelli che, in cammino per le strade del mondo, cercano pace e accoglienza.
Nel 2020 è stato tradotto in italiano dalla casa editrice Medinova il suo libro autobiografico “Le Rapt” con il titolo “La lontananza”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maram Al-Masri
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