Giuseppe Bartoli –Militare antifascista, Partigiano, Autore del libro il libro
-Edizioni Zero Lire-
25 aprile
. 25 APRILE
L’importante è non rompere lo stelo
della ginestra che protende
oltre la siepe dei giorni il suo fiore.
C’é un fremito antico in noi
che credemmo nella voce del cuore
piantando alberi della libertà
sulle pietre arse e sulle croci.
Oggi non osiamo alzare bandiere
alziamo solo stinti medaglieri
ricamati di timide stelle dorate
come il pudore delle primule:
noi che viviamo ancora di leggende
incise sulla pelle umiliata
dalla vigliaccheria degli immemori
Quando fummo nel sole
e la giovinezza fioriva
come il seme nella zolla
sfidammo cantando l’infinito
con un senso dell’Eterno
e con mani colme di storia
consapevoli del prezzo pagato
Sentivamo il domani sulle ferite
e un sogno impalpabile di pace
immenso come il profumo del pane
E sui monti che videro il nostro passo
colmo di lacrime e fatica
non resti dissecato
quel fiore che si nutrì di sangue
e di rugiada in un aprile stupendo
quando il mondo trattenne il respiro
davanti al vento della libertà
portato dai figli della Resistenza.
Giuseppe “Pino” Bartoli- “Il fiore della libertà”
AD UN PARTIGIANO CADUTO
E’ un fiume di ricordi ormai amico
la strada che conduce
a quei giorni lontani di smeraldo
dove sostammo come creduli ragazzi
a creare coi sogni nelle vene
fantasie di speranze e di parole
fra pugni di “canaglie in armi”
Forse potrei dimenticare il giogo
che mi lega all’arco dei rimpianti
se soltanto le voci dei compagni
tornassero a cantare
come quando la vita dilagava
e tu portavi alla gioia di tutti
il tuo sorriso di fanciullo
e la forza serena dei tuoi occhi
Ma anche se il tempo non ricama
che fili d’ombra sulla memoria
e il tormento di quell’assurdo giorno
quando attoniti restammo
davanti alla pietà della tua forca
è pur sempre l’ora della tua lotta
del tuo caldo vento di libertà
immenso come grembi di colombe
in volo fra fiori d’acquadiluna
Tu solo amico adesso
puoi scegliere i ritorni
e dirci ancora
col battito delle tue ali
le bellezze della vita
e le dolci innocenze della morte.
NOI CHE CADEMMO
Fummo una zolla qualunque
al taglio del vecchio aratro
che il nuovo trattore ferisce
inpianto, sudore e lavoro
Ora ascoltiamo i sospiri
di neri e snelli cipressi
dipinti da soffi di sole
in chicchi di riso azzurrino
che l’acre piovasco flagella
Viviamo in bellezze di morte
fra pioppi inclinati sul rio
E siamo la gialla pannocchia
che nutre la fame del povero
che accende la fede nell’uomo
Siamo promessa di pace
che tesse tovaglie d’altare
e bianchi lini di sposa
per alta promessa di vita
…………………………………….
noi che cademmo a vent’anni
nel sogno sublime dei liberi.
CA’ DI MALANCA
Se non sai leggere
negli occhi rossi
delle ginestre
nate dal sangue
della libertà
la muta preghiera
che scuote le catene
dei tiranni . . . .
Se non t’inginocchi
sulla brace
della carne accesa . . . .
Se non piangi
sui muri di corallo
delle case arse
e se non baci
la paglia insanguinata
dalle vene di tuo fratello
sei solo un fardello inutile
che non paga
il giusto prezzo ai Morti
Solo quando capirai
tutto questo . . . .
Solo quando ricorderai
come mordevi con dente di lupo
l’ultimo pane
nel cavo della mano contadina
potrai rivivere
quella primavera colma di rosso
per il primo fiore della Libertà
Giuseppe “Pino” Bartoli
I MORTI ASPETTANO UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE LA MÖRT ED CURBERA LA MORTE DI CORBARA I DISCORSI D’ALLORA A CRESPINO LA DISFATTA UN BARATTOLO DI LATTA UNA FARFALLA DI CENERE
INTRODUZIONE
Udimmo il tonfo delle rane
negli alti silenzi dei meriggi
e il respiro lieve dei cavalli
nelle estese vele delle notti
gonfie di lucciole e di fremiti
Sulle nostre tavole di fieno
abbiamo mangiato
lacrime e canti
fra grappoli di rondini
in giostra nel cielo
Udimmo la scure abbattersi
sui letti deserti dei boschi
mentre carri di ricordi
si trascinavano lenti
Poi arrivò l’alba
d’una rossa primavera
con brezze di mandorli avvolte
nell’immemore pianto della terra
Tornammo dalle nostre madri
dopo una lunga notte insonne
intonando canti senza dolore
Le culle delle foglie
che ci furono compagne
raccolsero il vagito
della rinata libertà
e sui crateri di sangue
– scavati –
dalla nostra lotta
mani nude di orfani
sfidarono il cielo
Dal buio delle fosse
vergini di croci
gli occhi spalancati
dei partigiani caduti
si chiuderanno solo
se la loro speranza
diventerà la nostra.
Sono tornato dove un ragazzo
dai grandi occhi di sole
ha maturato le sue radici
Sono tornato dove abbiamo
sepolto la nostra giovinezza
e dove il nome di battaglia
nasceva tra bagliori di fuoco
Ed ho ritrovato la mia estate
L’estate dei ramarri sui muri
la fionda dall’elastico rosso
i piedi scalzi color di terra
e tutta la luce del giorno
a tingerci d’ambra le mani
Qui “giocavamo” alla guerra
fra siepi di rovi e di more
dietro lo scudo delle foglie
povera “canaglia” della libertà
inerme come grembi di colombe
Raccogliemmo morte e mirtilli
e tra cappotti di lune rosse
rubammo l’oro alle lucciole
Quando tua madre ingobbita
come la collina che ti colse
soffocò l’urlo e i singhiozzi
nella “tana” d’uno scialle nero
per te cantarono le cicale
e si schiusero nidi di viole
C’era un profumo di ginestre
nel cielo della tua ultima estate
Ora ti guardo senza piangere
compagno dagli occhi di sole
e mi chiedo se non fu fortuna
quel tuo andartene allora
col freddo sudore di morte
sul tenerume delle labbra
ancora ebbre di latte materno
Te ne andasti e forse fu meglio
perchè adesso solo le pietre
urlano come monumenti nudi
e perchè ragazzo senza nome
siamo ormai pochi a ricordare
il “sorriso” delle tue tenere vene
che si svuotavano come calici
per l’ultimo brindisi alla vita.
I s’arbuteva coma spig’d grân Si rovesciavano come spighe di grano
cun del biastèm che pareva preghir con delle bestemmie che sembravano preghiere
e vers e’ zêl e verso il cielo
pal’d s-cióp spudedi fra i dént palle di schioppo sputate tra i denti
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént andava il nome di Maria e degli altri santi
E prèm a caschê e fo Curbera Il primo a cadere fu Corbari
e par la bòta e per il tonfo
o tremê la tëra e o fo sobit sera tremò la terra e fu subito sera
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él Lì disteso, ribelle senza più ali
u raspeva da e’ mêl raspava dal male
cun cla manaza grânda e cuntadéna con quella manaccia grande e contadina
……. bôna l’era la tëra ……….. ……………… buona era la terra
grasa e féna ……………. grassa e fine
Raspa Curbera, raspa stvò truvé Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare
l’eteran cunzem dla libartê: l’eterno concime della libertà:
e’ sangue rumagnöl il sangue romagnolo
cla imbariaghê ogni côr che ha ubriacato ogni cuore
Strèca, strèca la tëra Stringi, stringi la terra
l’è sèmpar cl’udôr è sempre quel profumo
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma è sempre l’amore della stessa mamma
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna che ti fa da letto povero figlio di Romagna
Strèca ed elza la tësta, so canàja! Stringi ed alza la testa, su “canaglia”!
L’as drèza la camisa sanguneda Si alza la camicia insanguinata
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera sembra un lume a marzo, lume di primavera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera è bello finire la vita per una bandiera
E cvànd che la prema sfója’d sôl E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza ride con la vergogna in faccia
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza Il sole che nasce da vita alla brezza
nud coma Crèst, inciudê tna trèza nudo come Cristo inchiodato in una treggia
e pasa per l’amiga campâgna passa per l’amica campagna
l’ultum re dla muntâgna l’ultimo re della montagna
Brigant dla libartê e preputént Brigante della libertà e prepotente
ma s-cét com l’è s-cét la su zént ma schietto come è schietta la sua gente
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël tra il pianto di mamma e quello del parabello
(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza.
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le noste tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Giuseppe “Pino” Bartoli
Vennero i giorni della primavera
La terra si coprì d’allegria
cantò tutti i colori del cielo
andò a piangere sui seminati
Nell’antica valle del Lamone
fiorì il natale sacro dei ciliegi
e le spighe in curva preghiera
baciarono il rosso dei papaveri
I campi non furono più tristi
quando sopra sbocciarono gentili
le rose selvatiche del maggio
Nessuno parlava di morte
fra le spine dei rossi lamponi
Ma la morte era in ogni pietra
nel filo dell’erbe e delle foglie
La morte vagava lungo il fiume
negli occhi delle bestie inquiete
nel taglio affilato della scure
E venne il giorno del martirio
sull’inerme cuore contadino
sulle mani rotte dal lavoro
sulla vanga ancora impastata
di buona terra e sacro sudore
Quando i barbari furono pronti
tacque il mormorio dell’acque
e una nube scura salì al cielo
a nascondere la rosa del sole
Le mani strinsero altre mani
Le parole e un pianto disperato
narraron sogni e favole smarrite
e negli occhi grandi delle madri
si posò il bacio dei figli
E l’ultimo pensiero andò lontano
ai fuochi spenti alla terra arata
all’oro reciso delle spighe
e ai giorni senza più domani
ai canti che si spegnevano
a loro che salivano il Calvario
e a noi, a noi, che siamo rimasti
a cogliere i frutti d’una stagione
nata da vittime innocenti
Era l’intera valle delle Scalelle
e dei castagni sacri a Campana
che consumava l’ultima ora
Non li chiamavano per nome
per non spaccare la cesta dell’odio
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva sul petto
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva
Il campo diventò bara immensa
nel tiepido meriggio estivo
Noch ein! Noch ein! Noch ein!
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido della carne viva
e il sangue si fondeva in grumi
nel rosario dei ceppi delle mani
nella coppa umida della terra
Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
– lontano –
oltre la malinconia dei roveti
un requiem di coralli accesi
si scaldava al lume delle case
e noi,, noi, quelli ancora vivi
attendevamo un “nuovo” mattino
P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Io non ho perso la guerra quando combattevo
nella nuda terra africana
seppellito come un pidocchio
dentro una gabbana
fatta di sabbia e di sete
mangiando cavallette
Io non ho sporcato
l’argento delle mie stellette
nella steppa russa
mordendo con dente di lupo
le ossa condite di ghiaccio
dei miei fratelli caduti
Io perdo ancora la guerra
tutte le volte che penso
a me e agli altri ragazzi
che col fucile in mano
tenevamo Anna Frank
sepolta in una soffitta
E fra l’occhio spento del cielo
e l’odio assassino della terra
l’ebrea costruiva col sangue
quel monumento di pace
che schiaccia ancora adesso
l’anima di tutti i boia
Quella si che fu la vera disfatta
il marchio d’una sconfitta
che mi urla sempre addosso
con una bocca larga
come una camera a gas
La stella dalla coda
aveva appena perso
l’ultimo filaccio
ancora pregno di sangue
Adesso il mondo
poteva piangere
rannicchiato
fra gli spigoli
delle case arse
Ma un bambino
aveva tanta
tanta voglia di vivere
di correre sulla rugiada
che non appassiva più
sulla terra dischiusa
Cercava un barattolo
per giocare a palla
per capire dal suono
di quel giocattolo
che rideva fra i sassi
che il macello era finito
Ma nessuna luna d’argento
– rotolava –
sul grembo della terra
e allora spense
i suoi piedi nudi
fra spine di pietra
e diventò subito un uomo
Sarà festa grande
al taglio del maggese
per coriandoli di farfalle innamorate
libere dalle culle
dell’amore agreste
Voleranno
verso la vela
tenera del cielo
tra grida pulite
di bambini
frammenti ansiosi
d’albe serene
nati dalla brace
della carne accesa
E tornerà puntuale
il ricordo
della bimba di Bologna
che sognava
una farfalla di fiordaliso
da chiudere
nella gabbia del cuore
Vedo la sua immagine
dibattersi prigioniera
fra i rovi delle schegge
come rosa di macchia
nella siepe
Ogni anno
– per non dimenticare –
un filo di calendule d’oro
illuminerà
il sentiero di cenere
grigio
come la dolcezza
d’un settembre
Angela
non rivedrà più
gronde di luna
né si scalderà
all’abbaino del sole
con occhi
di passero sperduto
Di lei resta solo
un volo immenso
di cenere
che si posò leggero
sui suoi capelli
“come solinga
lampada di tomba”
Giuseppe “Pino” Bartoli
Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze.
Ma così non è.
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo.
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando, in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza.
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre.
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: “Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza quando cammini tra la natura per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada vedrai che è bello vivere”
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute.
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: “Vorrei andare sola dove c’è altra gente migliore in qualche posto sconosciuto dove nessuno uccide” Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende parole di alcuni dei tanti ragazzi che con il tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa. C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta. “Se la mia voce morirà sulla croce di pietra cittadina portatela sulla cima del mio monte che s’alza nel vento e si corica nella nebbia Se la mia voce morirà nella mia pianura cercatela nel canneto nella conchiglie del mare e nell’acqua del fiume Se la mia voce morirà ridatemela viva fra gli alberi del bosco dove ogni sera canta un usignolo” –
Disegni di Terezin: l’Olocausto visto dai bambini
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: “…..e la speranza libera dalla gabbia colorerà la nebbia delle ore”. Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo.
«…..non è più tempo amico di trascinare uomini col giogo sui «Golgota» affamati di croci Non è più tempo delle gioie né di rimembranze serene se capisci che affondi i piedi sul sangue degli innocenti Resta coi bambini di Terezin e vedrai che dopo la lunga notte i licheni tenaci della libertà chiuderanno le crepe profonde delle nostre coscienze stanche» –
Giuseppe “Pino” Bartoli
Breve biografia di Giuseppe “Pino” Bartoli, nato a Brisighella il 18/07/1920 e deceduto il 20/06/2004. Ex Ufficiale di Stato Civile ed ufficiale della formazione partigiana “Silvio Corbari”, grado riconosciutogli dal Ministero della Difesa, ha ricoperto, nel comune di Brisighella, tutti gli incarichi pubblici: Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Poeta in lingua e vernacolo nonché prosatore, si è affermato in oltre 500 concorsi letterari, molti dei quali di livello nazionale ed internazionale. Cavaliere della Comunità Poetica Europea e Commendatore dell’Ordine Militare di S.Andrea, socio di 10 Accademie di lettere, arti e scienze, ha conseguito per due volte l’Oscar di Letteratura “Romagna”.
In sua memoria, si tiene annualmente un concorso di poesia, elaborati, disegni, ceramiche, ecc. riservato agli
Giuseppe “Pino” Bartoli
quei giovani in cui Giuseppe riponeva la sua speranza per il futuro e che credeva fossero la gioia più bella del mondo.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
David Maria Turoldo- Poesie di un prete “ Resistente”
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
David Maria Turoldo
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
“Il caso Turoldo” di Davide Toffoli, (Ladolfi, 2021)
A cura di Gisella Blanco
Due occhi che puntavano come spade, così come fa la dolcezza più tagliente. David Maria Turoldo, il poeta prete “rosso”, è stato l’autore su cui è ricaduta la scelta del titolo della tesi di Davide Toffoli, laureando in Lettere a Roma con Biancamaria Frabotta. Con questa curiosa narrazione, una “anomala prefazione”, formata attraverso gli scambi su Whatsapp della stessa Frabotta con Toffoli, inizia il saggio “Il caso Turoldo – Liturgia e poesia di un uomo”, pubblicato per Ladolfi Editore nel 2021.
Scegliere ciò che poteva essere “altro da sé” in modo radicale era uno degli intenti di Toffoli che, di certo, al momento della decisione, non avrebbe immaginato la “comunione”, seppur laicissima, che si sarebbe venuta a creare tra lui e questo misterioso poeta del Novecento italiano. Con la vestitura, Turoldo scelse due nomi emblematici con i quali da quel momento in poi si sarebbe fatto chiamare: David, il giovane pastore vittorioso su Golia, e Maria, la madre di tutti da cui apprendere l’arte della parola, il “linguaggio dell’Amore”.
Turoldo era un frate antifascista che, però, vedeva nella vita un valore da tutelare in senso sovrapartitico, era un innovatore che desiderava cambiare l’inaccessibilità linguistica della funzione religiosa, era un frate per cui la fede è “entrare in conflitto”.
La sua poesia era un tutt’uno con la vita, le azioni, la resistenza, le iniziative filantropiche, il cinema, gli articoli di giornale, le omelie: “Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario”. E, in effetti, come ha specificato Fernando Bandini, “parlare della poesia di padre David coi puri strumenti della critica letteraria, esaminare i suoi testi come mero discorso poetico separandoli dalla testimonianza della sua vita, non sarebbe un’operazione legittima”. Se interpretare i testi di un autore anche attraverso la sua biografia è atto di per sé insidioso, poiché può condurre a rintracciare nelle parole ciò che in effetti non vi risiede, in linea per altro con il pensiero strutturalista, nel caso di Turoldo non si potrebbe fare altrimenti, essendo la sua poetica legata a doppia mandata alle vicende e alle attività di un vissuto sorprendente ed estremamente ricco di esperienze.
“Il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Così sarà la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia”, e ancora: “Essere cristiani vuol dire essere uomo che resiste anche in funzione della società”, affermava Turoldo, fermamente convinto di come la fede cristiana, e Dio, potessero non risiedere sempre nei dettami della Chiesa. D’altronde, non gli interessavano la figura istituzionalizzata del prete, i giochi di potere istituzionalizzati, i ruoli stereotipati che non avessero una reale base sociale: Turoldo portava scompiglio, metteva in dubbio le piramidi ecclesiastiche e pungolava le coscienze a tutte le latitudini:
“Finalmente ho disturbato la quiete di questo convento altrove devo fuggire a rompere altre paci”.
Con l’amico, confidente e compagno di avventure Padre De Piaz, tra le varie imprese condivise, c’è la proposta della messa in italiano, affinché il sacerdote non fosse l’unica parte attiva della celebrazione. Pur non essendo un prete moderno, poiché era molto attaccato alla tradizione come necessaria sorgente di novità, le sue idee non avevano timore di andare in contrasto con dogmi, preconcetti e ingiuste disuguaglianze. Come specifica Frabotta, tra le voci poetiche per lui più incisive Toffoli individua un poeta come Giorgio Caproni, la sua patoteologia ultima, la sua ricerca dell’inesistenza di Dio per rintracciarne la radice più profonda – e per questo nascosta – nel dramma della condizione umana.
“Sia in Caproni sia in Turoldo si respira la necessità di perdersi, di smarrirsi, per cercare di trovarsi realmente e la consapevolezza che mai si può approdare a qualcosa di effettivamente definitivo. Anche il paesaggio, del resto, li accomuna: una sorta di non luogo che potrebbe essere ovunque (di sicuro lontano dal caos cittadino) e che mette l’uomo in ascolto e al cospetto di se stesso”, sostiene convintamente Toffoli.
Un esistenzialismo kierkegaardiano che non si limitava all’osservazione del disfacimento del reale ma provava a trovare non solo una chiave di lettura teologale ma anche fattiva, in quell’operosità concreta per la quale il suo insegnamento risulta sincero anche alle analisi più scettiche.
I suoi versi, la cui scrittura proteiforme si mostra incredibilmente coesa a livello formale, nonostante il lasso temporale ampio – gran parte della sua vita – che ha interessato la sua attività letteraria, è ricca di umanissime palinodie e continui, legittimi ripensamenti ideali su Dio, sul concetto di divinità, sull’uomo e sul rapporto tra dio e l’uomo.
Lungo l’asse – articolato e fin troppo eterogeneo, forse, per essere unificato – della poesia religiosa del Novecento, tra Rebora, Betocchi, Guidacci e Testori per fare solo alcuni dei nomi più rilevanti tra cui, di certo, c’è anche Turoldo, ma senza dimenticare lo stesso Caproni, e Ungaretti e Luzi, si possono indagare, nella poesia di Turoldo, grandi ascendenze da quell’ermetismo esistenziale che ha fatto emergere alcuni dei linguaggi più eleganti e più penetranti del Secolo Breve.
Eppure, è all’Infinito di Leopardi che Turoldo si riferisce per individuare nel suo contraddittorio e talvolta lugubre Nulla una specie d’eternità che atterrisce e incanta gli esseri viventi, protési in un continuo spasmo verso la speranza, che talvolta coincide con la bellezza, forma più compassionevole e gioiosa del sublime leopardiano. Ma per Turoldo, “se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo”.
Un uomo, non l’uomo bensì un singolo individuo qualunque, mostruoso e peccatore che sia. Un messaggio che, in favore di una misericordia profondamente fondata sulla realtà, propone un’immagine di dio che soffre e compartecipa delle fragilità del proprio creato. Tutti concetti che sono compatibili con l’altra linea stilistica che, pur non coincidendo pienamente con la scrittura di Turoldo, ne sanciva alcuni degli aspetti formali e, cioè, un “rarefatto realismo”, come ebbe a commentare Zanzotto.
Anche in base a ciò, non stupisce la grande amicizia con Pasolini, con cui condividevano molti topoi delle loro poetiche, seppur con svariate differenze di postura autoriale. Il tema della madre, per esempio, se per Pasolini era elaborato come dramma di non sentirsi mai del tutto uscito dall’utero materno, per Turoldo era la ricerca di una figura originativa, dalle sembianze marianiche e dal timbro non solo educativo ma anche rassicurante. Il Friuli, terra d’origine di entrambi i poeti, era un paesaggio idilliaco, insieme interiore ed esteriore, da cui ritrovare nuovi approdi luminosi.
Il profetismo engagé, pregnante in ambo le poetiche, era forse semplicemente una riflessione così imperniata nel presente da mettere in luce il probabile futuro di tutti. Il cinema era una passione comune, e la ricerca disperata di Dio non lasciava scampo né a Pasolini né a Turoldo, ciascuno con il proprio modo di intendere la divinità anche in base alla percezione del corpo personale e di quello sociale. Se la parola poetica di Pasolini, secondo lo stesso Zanzotto e Agosti, era “fuori di sé”, distorcente anche per via delle ibridazioni con la cronachistica, quella di Turoldo rimase “in sé”, seppur sempre mutevole ed eterodossa.
Le esperienze di Turoldo, dalla missione nei lager, assieme a Camillo De Piaz, in cui sperimentò di camminare sulla “sabbia dolente” degli intrasportabili, uomini bruciati sul posto e, soprattutto, durante la quale si rese conto non solo dell’ostruzionismo ma della corruzione delle autorità italiane, americane ed ecclesiastiche, fino all’avventura di Nomadelfia come vita comunitaria che non piacque al Vaticano per lo “scandalo della fratellanza”, furono molteplici e attivamente politiche, e, per questo, misero in luce gli aspetti più biechi dell’organizzazione della Chiesa, nonché i suoi rapporti non sempre lineari con lo Stato.
Anche l’incontro con Don Milani, altro prete tutt’altro che canonico, fu di grande rilievo, così come l’opinione di Turoldo sul caso Moro e, in generale, sulla possibilità che la cristianità non fosse monopartitica e non si identificasse in modo cieco e ben poco spirituale con una sola fazione politica. La sinistra cattolica, esperienza breve ma significativa cui Turoldo aderì con convinzione, fu l’emblema di come sia possibile, benché complicato, mantenere la propria integrità valoriale contro il pensiero imposto dai gruppi di potere, finanche quelli religiosi.
Nelle opere inerenti all’ultima parte della sua vita, in cui Turoldo fu colto da una grave malattia, il referente, il tu, è sempre più chiaro e, insieme, più dubitativo: dio o non dio?
È dio, ma è anche il sé annichilito – o esaltato – dai sovrumani silenzi leopardiani in cui l’infinito è sostituito da un nulla che atterrisce sia l’uomo che la divinità. Una “alterità che incombi dentro la parte più profonda di noi”. Il Nulla li inerisce entrambi, uomini e divinità, li spaura e ne fa emergere il valore reciproco. Il Grande Male, onnipresente, è anche il piccolo “mio male” di ogni giorno.
Il timore della inutilità del quotidiano fa da contraltare alla paura della morte, un calice amaro necessario, talvolta salvifico, che avvicina il poeta all’esperienza di Cristo (“un volto cercato da tutte le fedi”, ecco che Turoldo dà una soluzione al rapporto tra i non fedeli e Cristo), pur rimanendo uomo e vivendo il dubbio che ha attraversato tutta l’esistenza turoldiana e ne ha reso l’opera trasversale a credenze e fedi.
Il dubbio, d’altronde, “è gravido”, sprona non solo al dialogo con il dio ma anche e soprattutto al confronto. Un confronto violento, reso con l’audace metafora degli amanti (tema comune con Testori) che non trovano pace, e rintracciano nella tensione al tradimento e al peccato gli estremi gesti di richiesta d’amore:
“O forse il peccato è un gesto folle per cercarti? Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!”.
E ancora:
“Almeno un poeta ci sia per ogni monastero: qualcuno che canti le follie di Dio”:
Così compare un dio che si strugge per l’infelicità e la malattia dei suoi uomini, insalvabili per il loro stesso agognato libero arbitrio. E il poeta è sempre più vicino alla figura cristica, terrena, carnale, disperata.
Turoldo torna all’idea tormentata della necessità di distruggere la divinità per riacquisirne la prossimità ontologica, in un percorso condiviso con il fratello ateo: ecco che Padre Turoldo, sul letto di morte, ha saputo parlare al proprio dolore, e a quello di tutte le donne e di tutti gli uomini, anche non credenti – compresa chi scrive – ma che condividono con lui, cercatore del Verbo tra le parole del creato, il difficile cammino nella coscienza, fideistica e non, in un moto di compassionevole empatia sovrareligiosa e profondamente spirituale da cui tutti dovremmo imparare.
“Dal dubbio germinano le mie radici
* * *
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona l’ora prima della morte.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona:
non è mai esistita.
*
Il bianco coniglietto di Alice
si è ammalato, non ha più tempo
non ha più corse, la bambina lo guarda
preoccupata, lo pettina con una spazzola
cento e più volte, lo bagna in un’acqua
di sapone e di lacrime, lo accarezza piano
sulla testa, gli sfiora le zampe che si aprono
come piccoli ventagli quando l’aria calda
del fon gli smuove il mantello, bianco
cotone che sprigiona aroma di fieno,
adesso guarisci, gli dice contro il musetto
ingiallito, mentre pensa che dio non esiste,
altrimenti non potrebbe guardare morire
le anime candide, bambini che perdono i denti
da latte coniglietti affamati, le prede del mondo,
corri e nasconditi, gli sussurra, ma lui è già altrove,
nel paese senza meraviglie la Regina di Cuori
ha tagliato il cordone e la bambina precipita,
diventa sempre più piccola, le si apre un vortice
dentro la pancia, al posto dell’ombelico: ora
conosce il bianco orrore della perdita, o della nascita.
*
Occhi neri a precipizio
sempre paura sempre sola
bambina piccina cuore friabile
sbranato a morsi, cresce pane
nel tuo petto per il pettirosso
del libro delle fiabe, cresci obliqua
per non farti male, ferita dal vento in pieno
volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla
di fuoco brucia la città dei balocchi
il dio dei bambini rotti non ti ascolta:
e tu corri a nasconderti dalla fame,
nel luogo segreto dei bottoni
̶ mettili in fila, inghiottili ̶
prima che ti chiudano la bocca.
Va scomparendo
Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.
*
David Maria Turoldo
“O sensi miei…”
Poesie 1948-1988
Biblioteca Universale Rizzoli (Milano, 2002)
Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba
Da: Mia Apocalisse
Tempo verrà
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi. Tutti
vi dovrete rannicchiare:
nemmeno coricati!
Se pure non sarete
accatastati uno sull’altro.
Allora uno resterà soffocato
dal ribrezzo dell’altro.
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un solo angolo,
un remoto angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Il cuore sarà cavo
come il buco nero
in mezzo alle galassie.
La mente di tutti
una lavagna nera…
Un groviglio di fili
senza corrente
i sentimenti
a terra.
*
David, è scaduto il tempo
David, è scaduto il tempo d’imbarco!
Ora il tuo posto
è la lista d’attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.
Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.
Tutti sconosciuti l’uno all’altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:
anche lui sbarcato
a forza dal predellino dell’ultimo tram
nella notte.
*
E non hanno
E non hanno neppure
la gioia di andare
come tu andavi (oh David)
imperioso alla conquista!
E non importava sapere di cosa,
bastava la fede
almeno nell’uomo!
Ora nessuno sa
in quale direzione andare,
e tutti cercano una maniglia
nel vuoto:
o appena si affacciano
alla linea gialla della strada
subito vengono
da forze misteriose.
ribattuti indietro.
e continuano a urlare
ma nessuno sa cosa.
Tutti dentro una luce sempre uguale,
al neon:
e sola
continuerà a brillare,
appena sorridente
la gigantografia
in fosforescenza
del GRANDE FRATELLO
onnivedente,
COME STA SCRITTO!
E anche in piccole foto,
o di varia grandezza,
ma sempre uguali, a miriadi
a ogni pulsante appese:
appese agli stipiti e agli archi delle vie,
appese, le più grandi ai frontali dei palazzi
e negli stadi
e dai rosoni delle chiese,
COME STA SCRITTO:
anche le chiese
saranno allora
la STESSA COSA.
Né alcuno che possa dire
che nome porta o chi sia!
E tutti nel feroce
invincibile sospetto
l’uno dell’altro…
Non due fedi
O papa, sorridi
(non ridano solo le tue labbra)
sorridi dentro
spera
confida.
Pace a te, o papa,
non temere!
Allora non affonderai
camminando sulle acque:
altri crederanno per te
nella cruciata ora della decisione.
Non sentirti solo, o papa,
nel giardino dei dubbi.
Credi, ti amiamo
e ti «compatiamo»
filialmente.
Da te stesso liberati, o papa,
uccidi la tua ombra che t’insegue:
il mondo non ti è nemico,
abbi fede in lui
e nel Dio che l’ama
fino alla fine,
e sia un’unica fede.
Non due fedi, o papa.
Credi all’unità
dei giorni e delle opere,
alla creazione che è unica.
Puoi essere voce di due infallibilità
che tutto, chiesa e fabbrica e studi
è inesauribile invenzione
di un medesimo Spirito:
uno è l’uomo,
uno e amorosamente operante
Iddio nell’uomo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
ALTRA SALMODIA ALLA PACE
a «Testimonianze» e a tutti i comitati di pace
La pace è l’Eden,
l’Armonia da sempre agognata,
giardino dell’Alleanza
che sta nel cuore della terra,
giardino da sempre rimpianto.
Anche le fiere dei campi ti piangono, o Pace,
anche il leone e la tigre ti piangono,
con ululati dalle selve piangono
l’orrendo disordine
non necessario.
La coesione della pietra è santa,
la massa compatta delle acque,
santa la coesione degli astri.
Uomini, non violate il Sacrario dell’atomo,
non entrate nel Santo dei santi
perché morirete: Scienziati,
non fate della sua casa
una spelonca di ladri.
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il Sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace;
che si faccia la Pace su tutta la terra:
e l’uomo è la sola coscienza
a proclamare che Egli esiste.
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilo et sereno»,
perfino alla morte diciamo: o sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«0ltre-morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
profanato il Santo dei santi:
messe le mani sull’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti «Despoti».
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande Comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’universo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
David Maria Turoldo
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO (1943-1944)
Libro di Enrico AMATORI-Editrice IL VELINO
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO-I Partigiani della banda “GIODA”LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO
Roma al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”la black comedy scritta e diretta da Massimo Odierna-
al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”
Roma-Dal 29 aprile al 4 maggio, escluso il 1 maggio 2025, torna in scena al Teatro Lo Spazio di Roma, LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG, la black comedy scritta e diretta da Massimo Odierna, che indaga con leggerezza, nichilismo ed un linguaggio politically incorrect la follia e l’alienazione dei nostri tempi. Ambientata in presente alterato ed indefinito, la pièce è abitata da personaggi estremi, ridicoli e violenti, lo spazio scenico è svuotato di qualsiasi elemento e l’intera struttura dello spettacolo è affidata alla perfomance degli attori.
Thomas vive alla giornata conoscendo donne e bevendo fiumi di alcol. Una sera, durante uno dei suoi appuntamenti viene avvicinato da Libero, suo ex compagno d’ avventure ai tempi degli scout.
Libero implora Thomas di aiutarlo a ritrovare la dolce Noa, una ragazzina di sedici anni della quale si è invaghito ma di cui si sono perse le tracce. Noa è la figlia di Kioto Zhang, il temibile capo delle guardie imperiali. Inizialmente Thomas allontanerà Libero ritenendo assurda la richiesta d’ aiuto, successivamente sarà lo stesso Thomas a sfruttare questa vicenda per riconquistare Amèlie, sua ex fidanzata, una ragazza che ama praticare la gentilezza empatizzando con i più deboli e pronta a salvare il mondo. Le vite di questi tre protagonisti convergeranno alla ricerca della giovane ragazza scomparsa. Protagonisti di questa assurda pièce anche un padre pederasta, una madre devota, una maga scorbutica, e poi Jasmine, Sharon, Tinetta, Clotide, Brooke ed un maestro spirituale.
Lo spettacolo ha ricevuto la menzione speciale della giuria all’idea originale al Festival InDivenire 2023.
Roma al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG Con Irene Ciani, Enoch Marrella, Francesco Petruzzelli, Federica Quartana, Giovanni Serratore, Sofia Taglioni
Teatro Lo Spazio -Nel cuore storico della capitale, uno spazio suggestivo dove confluiscono realtà ed identità contemporanee, che trovano una residenza per esprimere la loro creatività. Due sale prove, diverse possibilità di utilizzo dello spazio scenico, fanno di questo luogo, dopo oltre 10 anni, una realtà off che sente oggi il bisogno di ampliare le proprie potenzialità.
al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”
Indirizzo
Via Locri, 42/44
Orari
Per gli orari e le modalità di accesso rivolgersi ai contatti indicati.
Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti Poesie-
– Editore Stabilimento Tipografico Fontana di TORINO 1844 –
Giovanni Prati
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni PratiGiovanni PratiGiovanni Prati
Giovanni Prati – Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni Prati-Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Poesie di Giovanni Prati
Incantesimo
La maga entro l’arena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
mi ha tocco in sull’occipite,
ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
per arte della maga,
che in verità potrei
nuotar sopra diafane
ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’esser altrui sì novo,
sì strano a me. Deh fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
noi, cinta in bianca veste
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
che quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, o mo’ di freccia,
la sbalza un’amadriade
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane graziose
giran la verde stanza:
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno e tetro
com’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
E né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
Né il truculento martoro
mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra siepe il mio pensiero.
Oh fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo
so che è incanata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocando in che è sì bella.
So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.
sien acque, o stelle, o venti,
ove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo: per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblìo.
Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra fiore.
Così la vita è un forte
licor che ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
che la tua man descrive a ciò non bada.
Giovanni Prati
Un giorno d’inverno
Sempre sul farsi della tacit’ora
Crepuscolar m’invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.
Guardo il foco morente, e m’innamora
Tenervi intenta e risa la pupilla,
lnsin che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.
Il crepitar di quella ultima vita,
L’ombra addensata e la cadente neve
Di piu cupa tristezza il cor mi serra.
E prorompoll dall’anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!
Oh che cielo!
Oh che cielo ! oh che mar ! Quella profonda
e doppia immensità quanti sospiri
mi trae dal cor ! di che malie m’inonda!
con che forza m’assorbe entro i suoi giri!
La man per gioco, o fanciulletta bionda,
non por sugli occhi miei: lascia ch’io miri
queste due glorie. A te né il ciel né l’onda
parlano: ed altro muove i tuoi desiri,
Te move il riso dell’età tua verde,
un’ape d’oro, una farfalla, un fiore:
me l’infinito ciel, l’onda infinita.
E in questi abissi il mio pensier si perde,
e mentre scherzi, o bimba, il pensatore
piange tra il vel delle tue rosee dita.
Alba
Fumano i campi; la rugiada stilla
sull’erba nova; il cheto aere si desta
il sol che spunta, e con l’aletta in resta
il cardellino in cima al gelso trilla.
Al giocondo lavor sparsa è la villa
sui bruni solchi; pei declivi a festa
saltan le capre; e in seno a la foresta
le allegrie della caccia il corno squilla.
Questa è vita davver; questo è divino
elemento di forza all’uman petto:
aria, luce, tripudio, opera intorno.
E noi, civico vulgo, ogni mattino
(fatica insigne!) ci leviam dal letto,
pallidi spettri, ad invecchiar d’un giorno.
Ramuscello
O ramuscel di mandorlo,
quando su te si posa
il cardellino, e ai limpidi
rigagni e al ciel di rosa
sparge la fresca e lieta
anima di fanciullo e di poeta;
o ramuscel, per magica
arte io vorrei mutarmi
nell’ augellin che dondola
su te, trillando carmi;
su te che spargi al vento
la molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
mio tempo e i dolci inganni,
le ingrate nevi e il cumulo
non sentirei degli anni.
Ma ognun la sua fatale
stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Marionette
Al fantolino, più che pesca o mela,
piace il casotto degl’incanti, dove
un piccol mondo di figure nove
al suo cupido e fermo occhio si svela:
né sa che dietro la dipinta tela
per fili arcani in giocolier le move;
e crede velo il finto; e in quelle prove,
in quegli atti, in que’ volti avvampa e gela.
Grandeggia quindi il fantolin con l’ora:
e nel mondo degli uomini s’aggira,
e crede vero ciò ch’ è finto ancora.
Uom poi diventa, e si travaglia e stanca
pur dietro a sogni: e il dì che l’ombra ei mira
del Ver, spìa sul quadrante, e il tempo manca.
Giovanni Prati
Or passeggi solinga
Ti veggo, o madre; per i conscii lochi
dove teco scherzava io fanciulletto
or passeggi solinga, e il caro aspetto
del tuo lontano lacrimando invochi.
Parmi d’udire i tuoi gemiti fiochi
i quando mesta riguardi il vacuo letto,
e tuo figlio mancar vedi al banchetto,
e il cerchi indarno ai consueti giochi.
Sì, vederti mi par, parmi d’udirti
povera madre! e rimaner lontano,
tal rimorso è per me ch’io non so dirti.
Conosco il fallo e m’addoloro e piango!
Ahi! Com’è questo cor misero e strano!
Conosco il fallo, eppur lontan rimango.
Tra veglia e sonno
Un verno a notte bruna
mentre nell’erma stanza
d’Usca inducea la luna
un pallido chiaror,
cantò questa romanza
il reduce Gildorl.
«Senti diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor:
compi la tua promessa;
vieni, mio dolce amor.
Eccoti il lino bianco,
segnaI della tua fede;
mirami cinta al fianco
la ciarpa tricolor;
vieni, nessun ti vede,
angelo del mio cor.
Mio bel tesor, calcai
sabbie infuocate e nevi;
un oceàn varcai
per te, mio bel tesor;
per me varcar tu devi .
solo un vial di fior.
Tu mi dicesti un giorno,
con lacrime dirotte:
«Quando farai ritorno,
chiamami, o mio Gildor,
chiamami a mezzanotte, .
ti volerò sul cor.»
Senti, diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor;
compi la tua promessa,
vieni, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
piti bello ho salutato
ma te recando in core,
fu mio secondo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.
Che fai, diletta mia?
Quell’ora è già suonata.
lo gelo sulla via,
e tu non vieni ancor …
Ti sei di me scordata;
addio, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
le belle ho ricusato ;
or senza te nel core,
sarà mio solo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.»
E dileguò. Svegliata
Usca, sul far del giorno,
disse d’aver sognata
la voce di Gildor;
e aspetta il suo ritorno
la poveretta ancor.
Biografia di Giovanni Prati
Busto di Giovanni Prati (Trento)
Giovanni Prati (Comano Terme, 27 gennaio 1815 – Roma, 9 maggio 1884) è stato un poeta e politico italiano.
Giovanni Prati
Giovanni Prati nacque nel 1815 a Dasindo (oggi frazione del Comune di Comano Terme) nel Trentino, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico e si formò nell’Imperial Regio Ginnasio d’Austria-Ungheria di Trento, intitolato alla sua persona nel 1919, Liceo Classico Giovanni Prati, dopo il passaggio del Trentino – Alto Adige all’Italia. Nello stesso Ginnasio studiò il poeta e patriota Antonio Gazzoletti.
Studiò legge a Padova e si dedicò alla poesia. Si sposò nel 1834 con Elisa Bassi, dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell’affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.
A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo Veneto (anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l’asilo politico.
Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l’attrice drammatica Lucia Arnaudon.
Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani ed altri.
Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre cinquecento sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa di Dasindo di Lomaso.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Prati
Maria José de Lancastre-Fernando Pessoa-Immagini della sua vita-
ADELPHI EDIZIONI
DESCRIZIONE
– Fernando Pessoa è passato in pochi anni da autore noto a pochi ad astro della mitologia letteraria moderna. La sua Lisbona, la sua vita dai soggetti multipli, il baule pieno di manoscritti che facevano nascere ogni volta nuove fisionomie di scrittori, fanno ormai parte dei sogni di ogni lettore. Tanto più preziosa sarà questa biografia per immagini che per la prima volta raccoglie le tracce fotografiche della vita di Pessoa, in apparente opposizione con Pessoa stesso, il quale una volta confessò in una lettera una sua «certa riluttanza a farmi delle fotografie». Sono testimonianze intrise di un sottile fascino, che riesce a intaccare con l’irrealtà pessoana anche le immagini più normali. E finalmente ci appariranno qui i volti e i luoghi che furono la scena della sua vita. Nella sua fuga sapiente dalla realtà quotidiana, Pessoa ancora una volta riuscirà vincitore.
Maria José de Lancastre-Fernando Pessoa
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14
20121 – Milano
Tel. +39 02.725731 (r.a.)
Fax +39 02.89010337
È considerato uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, e per il suo valore è comparato a Camões. Il critico letterario Harold Bloom lo definì, accanto a Pablo Neruda, il poeta più rappresentativo del XX secolo.
Avendo vissuto la maggior parte della sua giovinezza in Sudafrica, la lingua inglese giocò un ruolo fondamentale nella sua vita, tanto che traduceva, lavorava, scriveva, studiava e pensava in inglese. Visse una vita discreta, trovando espressione nel giornalismo, nella pubblicità, nel commercio e, principalmente, nella letteratura, in cui si scompose in varie altre personalità, contrassegnate da diversi eteronimi. La sua figura enigmatica interessa gran parte degli studi sulla sua vita e opera, oltre a essere il maggior autore della eteronimia.
Morì a causa di problemi epatici all’età di 47 anni nella stessa città dov’era nato. L’ultima frase che scrisse fu in inglese “I know not what tomorrow will bring” (Non so cosa porterà il domani) e si riportano come le sue ultime parole (essendo molto miope) “Dê-me os meus óculos!” (Mi dia i miei occhiali).
La giovinezza a Durban
Alle 15:30[1] del 13 giugno 1888 nasceva a Lisbona Fernando Pessoa. Il parto avvenne al quarto piano a sinistra del numero 4 del Largo de São Carlos, davanti all’Opera di Lisbona, il Teatro Nacional de São Carlos.
Suo padre era il funzionario pubblico del Ministero della Giustizia e critico musicale del «Diário de Notícias» Joaquim de Seabra Pessoa, di Lisbona; sua madre Maria Magdalena Pinheiro Nogueira, originaria della Ilha Terceira nelle Azzorre. Con loro vivevano anche la nonna Dionisia, malata mentale, e due zie non sposate, Joana ed Emilia.
Venne battezzato il 12 luglio nella Basílica de Nossa Senhora dos Mártires nel quartiere del Chiado. I padrini furono sua zia materna Ana Luísa Pinheiro Nogueira e il generale Cláudio Bernardo Pereira de Chaby[2][3]. Il nome Fernando Antonio è collegato a Sant’Antonio di Padova, dalla cui famiglia la famiglia di Pessoa reclamava una discendenza genealogica. Il nome di battesimo del Santo era infatti Fernando de Bulhões, e il giorno a lui consacrato a Lisbona era il 13 giugno, lo stesso della nascita di Pessoa.
La sua infanzia e adolescenza vennero marcate da fatti che lo avrebbero influenzato in seguito. Cinque anni dopo il padre morì, a soli 43 anni, vittima della tubercolosi. Lasciò la moglie, il piccolo Fernando e suo fratello Jorge, che non avrebbe raggiunto l’anno di vita. La madre fu costretta a vendere parte della mobilia e a trasferirsi in una abitazione più modesta, al terzo piano di Rua de São Marçal, n. 104 (nell’odierna freguesia di Santo António). È in questo periodo che nasce il suo primo pseudonimo, Chevalier de Pas. Lui stesso rivelò questo fatto ad Adolfo Casais Monteiro in una lettera del 13 gennaio 1935, in cui parla diffusamente dell’origine degli eteronimi.
«[…] Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia.”[4]»
Nello stesso anno scrive il suo primo poema, un’epigrafe infantile dedicata “Alla mia amata mamma”.
La casa natale di Fernando Pessoa, in Largo de São Carlos a Lisbona
Nel 1895 sua madre si risposa per procura con il Comandante João Miguel Rosa, console del Portogallo a Durban (Sudafrica), che aveva conosciuto un anno prima. In Africa Pessoa dimostrerà presto di possedere abilità letterarie.
A seguito del matrimonio si trasferisce con la madre e un prozio, Manuel Gualdino da Cunha, a Durban, dove passa la maggior parte della sua giovinezza. Viaggiano con la nave “Funchal” fino a Madera, e poi si imbarcano nel vascello inglese “Hawarden Castle” fino al Capo di Buona Speranza.
Dovendo dividere le attenzioni della madre con la prole del nuovo matrimonio e con il patrigno, Pessoa si isola, propiziandosi così momenti di intensa riflessione. A Durban riceve una educazione di stampo britannico, con un profondo contatto con la lingua inglese. I suoi primi testi e studi saranno infatti in inglese. Mantiene il contatto con la letteratura inglese con autori come Shakespeare, John Milton, Lord Byron, John Keats, Percy Shelley, Alfred Tennyson, e americana, con Edgar Allan Poe, solo per citarne alcuni. L’inglese giocò un ruolo importante nella sua vita, sia per il lavoro (divenne infatti corrispondente commerciale a Lisbona), sia per alcuni dei suoi scritti, che per traduzioni di opere quali “Annabel Lee” e “Il Corvo” di Edgar Allan Poe. Con l’eccezione del libro Mensagem, gli unici lavori pubblicati in vita saranno le due raccolte delle sue poesie in inglese: Antinous and 35 Sonnets e English Poems I – II e III, scritti fra il 1918 e il 1921.
Ferdinando Pessoa
Frequenta le scuole primarie nell’istituto dei frati irlandesi di West Street, dove riceve anche la prima comunione e riesce a concentrare 5 anni in soli 3. Nel 1899 entra nella Durban High School, dove resterà per tre anni e sarà uno dei primi alunni della classe. Nello stesso anno crea lo pseudonimo di Alexander Search, con cui si auto-invia delle lettere. Nel 1901 è promosso con distinzione nel primo esame della Cape School High Examination, e scrive le prime poesie in inglese. Nello stesso periodo muore sua sorella di due anni Madalena Henriqueta. Nelle vacanze parte con la famiglia per il Portogallo. Sulla stessa nave con la quale viaggiano si trova anche la salma della sorella defunta. A Lisbona abita con la famiglia nella zona di Pedrouços (nell’odierna freguesia di Belém), poi in Avenida D. Carlos I, n. 109 (nell’odierna freguesia di Misericórdia). Nella capitale portoghese nasce João Maria, quarto figlio del secondo matrimonio della madre. Con il patrigno, la madre e i fratelli compie un viaggio nell’Ilha Terceira, nelle Azzorre, dove abita la famiglia materna. Si recano anche a Tavira per visitare i parenti del padre. In questo periodo scrive la poesia Quando ela passa.
Pessoa resta a Lisbona quando la famiglia rientra a Durban. Torna in Africa da solo con il vapore “Herzog”. È il periodo in cui tenta di scrivere romanzi in inglese, e si iscrive alla Commercial School. Lì studierà la notte, perché durante il giorno si occupa di discipline umanistiche. Nel 1903 si candida all’Università del Capo di Buona Speranza. Nella prova di esame per l’ammissione non ottiene un buon punteggio, ma riceve il voto più alto fra 899 candidati nel saggio stilistico di inglese. Per questo riceve il Queen Victoria Memorial Prize.
Un anno dopo rientra alla Durban High School dove frequenta l’equivalente di un primo anno universitario. Approfondisce la sua cultura, leggendo classici inglesi e latini; scrive poesia e prosa in inglese, e nascono gli eteronimi Charles Robert Anon e H. M. F. Lecher; nasce sua sorella Maria Clara e pubblica nel giornale del liceo un saggio critico intitolato Macaulay. Infine, chiude i suoi ben avviati studi sudafricani raggiungendo all’università l’«Intermediate Examination in Arts», con buoni risultati.
Rientro definitivo in Portogallo e inizio della carriera
Lasciando la famiglia a Durban rientra definitivamente nella capitale portoghese da solo nel 1905, dove abita presso una zia. La madre e il patrigno tornano a loro volta, e Pessoa si trasferisce a vivere con loro. Continua la produzione di poesie in inglese, e nel 1906 si immatricola nel corso superiore di lettere dell’Università di Lisbona, che però abbandona senza neanche completare il primo anno. È in questo periodo che entra in contatto con importanti scrittori della letteratura portoghese. Si interessa all’opera di Cesário Verde e ai sermoni di Padre Antônio Vieira sul Quinto impero, a loro volta basati sulle Trovas di Gonçalo Annes Bandarra, anch’esse facenti parte del bagaglio formativo di Pessoa. I suoi rientrano a Durban, e Fernando inizia a vivere con la nonna, che muore poco dopo, lasciandogli una piccola eredità. Passa quindi a dedicarsi alla traduzione di corrispondenza commerciale, un lavoro che viene normalmente definito “corrispondente estero”. Sarà il suo lavoro per tutta la vita, con una modesta vita pubblica.
La prima pubblicazione di Pessoa in Portogallo è il saggio critico «A Nova Poesia Portuguesa Sociologicamente Considerada» («La nuova poesia portoghese considerata sociologicamente»), uscito nel 1912 sulla rivista A Águia, organo ufficiale del movimento Renascença Portuguesa, guidato dal poeta e pensatore saudosistaTeixeira de Pascoaes. Da tale movimento, in seguito, Pessoa si distaccherà per divenire la figura di riferimento dei primi modernisti portoghesi e della loro rivista, Orpheu, pubblicata nel 1915.
Pessoa viene ricoverato il 29 novembre 1935 nell’ospedale di Luís dos Franceses, vittima di una crisi epatica; si tratta chiaramente di cirrosi epatica, causata dall’abuso di alcool di tutta una vita. Il 30 novembre muore all’età di 47 anni. Negli ultimi momenti della sua vita chiede i suoi occhiali e invoca gli eteronimi. La sua ultima frase scritta è nella lingua in cui fu educato, l’inglese: I know not what tomorrow will bring (Non so cosa porterà il domani).
Eredità
Si può dire che il poeta passò l’esistenza a creare altre vite attraverso i suoi eteronimi. Questa è stata la principale caratteristica di quest’uomo così pacato. Alcuni critici si sono chiesti se Pessoa abbia mai fatto trasparire il suo vero “io” o se tutta la sua produzione letteraria non fosse altro che il frutto della sua creatività. Quando tratta temi soggettivi e quando usa l’eteronimia, Pessoa diviene enigmatico fino all’estremo. Questo particolare aspetto è quello che muove gran parte delle ricerche sulla sua opera. Il poeta e critico brasiliano Frederico Barbosa dichiara che Fernando Pessoa fu «l’enigma in persona» (il sottile gioco di parole non viene reso nella traduzione, perché in portoghese “pessoa” significa “persona”). Scrisse dall’età di 7 anni fino al letto di morte. Aveva a cuore l’intelletto dell’uomo, giungendo a dire che la sua vita era stata una costante divulgazione della lingua portoghese; nelle parole del poeta riportate per bocca dell’eteronimo Bernardo Soares «la mia patria è la lingua portoghese». Oppure, attraverso un poema:
«Ho il dovere di chiudermi in casa nel mio spirito e lavorare
quanto io possa e in tutto ciò che io posso, per il progresso
della civiltà e l’allargamento della conoscenza dell’umanità»
Come Pompeo, che disse che «navigare è necessario, vivere non è necessario» (“Navigare necesse est, vivere non est necesse“), Pessoa dice nel poema Navegar è Preciso che «vivere non è necessario; quel che è necessario è creare».
Su Pessoa il poeta messicano premio Nobel per la letteraturaOctavio Paz dice che «il poeta non ha biografia: la sua opera è la sua biografia», e inoltre che «niente nella sua vita è sorprendente –nulla, eccetto i suoi poemi». Il critico letterario statunitense Harold Bloom lo considerò il poeta più rappresentativo del XX secolo assieme al cilenoPablo Neruda.
La scrittrice portoghese Maria Gabriela Llansol trasformò Pessoa in un personaggio letterario, al quale diede nome «Aossê», che appare in vari libri dell’autrice.[5]
Pessoa e l’occultismo
Fernando Pessoa a sei anni
Fernando Pessoa aveva dei legami con l’occultismo e il misticismo, con la massoneria e con i Rosacroce (benché non si conosca alcuna affiliazione concreta in una loggia o fraternità di una di queste associazioni), e difese pubblicamente le organizzazioni iniziatiche sul quotidiano Diario di Lisbona del 4 febbraio 1935[6] contro gli attacchi della dittatura dell’Estado Novo di Salazar. Uno dei suoi poemi ermetici più noti e apprezzati nei circoli esoterici si intitola “No Túmulo de Christian Rosenkreutz“[7]. Aveva l’abitudine di richiedere ed eseguire egli stesso delle consultazioni astrologiche e ha preso seriamente in considerazione la possibilità di esercitare l’astrologia a titolo professionale[8].
Una volta, leggendo una pubblicazione del famoso occultista inglese Aleister Crowley, Pessoa vi trovò un errore nel calcolo della sua ora di nascita, e scrisse all’editore per informarlo che il suo oroscopo non era corretto. Crowley fu impressionato dalle conoscenze astrologiche di Pessoa e andò in Portogallo per incontrarlo. Con lui vi era una giovane artista tedesca, Hanni Jaeger, che in seguito corrispose anche con Pessoa. L’incontro fu cordiale, e terminò con il famoso “affaire” della “Boca do Inferno”, nel quale Crowley inscenò con l’aiuto di Pessoa il suo finto suicidio[9].
Nota autobiografica
Questa nota biografica fu scritta da Fernando Pessoa, il 30 marzo 1935, e venne parzialmente pubblicata come introduzione al À memória do Presidente-Rei Sidónio Pais, edito dalla casa Editorial Império nel 1940. Essendo un testo autografo, si noterà che è una “biografia” molto soggettiva e piuttosto incompleta, ma rappresenta i desideri e le interpretazioni dell’Autore in quel preciso momento della sua vita[10].
Lisbona, 30 marzo 1935 (nell’originale 1933, per apparente lapsus)
Nome completo Fernando António Nogueira Pessoa.
Età e provenienza Nato a Lisbona, chiesa dei Martiri, al n. 4 del Largo de San Carlos (oggi del Direttorio) il 13 giugno 1888.
Paternità e maternità Figlio legittimo di Joaquim de Seabra Pessoa e di D. Maria Madalena Pinheiro Nogueira. Nipote in linea paterna del generale Joaquim António de Araújo Pessoa, combattente nelle campagne liberali, e di D. Dionísia Seabra; nipote in linea materna del Consigliere Luís António Nogueira, giurista ed ex Direttore Generale del Ministero del Regno, e di D. Madalena Xavier Pinheiro. Ascendenza generale: misto di fidalgos ed ebrei[11].
Stato civile Celibe.
Professione La definizione più propria sarà «traduttore», la più esatta quella di «corrispondente in lingue estere in aziende commerciali». L’essere poeta e scrittore non costituisce una professione, ma una vocazione.
Residenza Rua Coelho da Rocha, 16, 1ºD.to. Lisbona. (Indirizzo postale – Casella Postale 147, Lisbona).
Funzioni sociali svolte Se con questo si intende incarichi pubblici o funzioni di rilievo, nessuna.
Opere pubblicate L’opera è fondamentalmente dispersa, per ora, in varie riviste e pubblicazioni occasionali. I libri e gli articoli che ritiene validi sono i seguenti: «35 Sonnets» (in inglese), 1918; «English Poems I-II» e «English Poems III» (sempre in inglese), 1922, e il libro «Mensagem», 1934, premiato dal Secretariado de Propaganda Nacional nella categoria «Poema». L’articolo «O Interregno», pubblicato nel 1928, e consistente in una difesa della Dittatura Militare in Portogallo, deve essere considerato come non esistente. Tutto questo è da rivedere e molto forse da ripudiare.
Educazione In virtù, morto suo padre nel 1893, dell’aver sua madre sposato nel 1895, in seconde nozze, il Comandante João Miguel Rosa, Console del Portogallo a Durban, Natal, è stato colà educato. Ha vinto il premio Regina Vittoria di lingua inglese all’Università del Capo di Buona Speranza nel 1903, in occasione dell’esame di ammissione, a 15 anni
Ideologia Politica Pensa che il sistema monarchico sarebbe il più adatto per una nazione organicamente imperiale come è il Portogallo. Ma al tempo stesso ritiene la monarchia del tutto inattuabile in Portogallo. Per questo, se ci fosse un plebiscito sul tipo di regime, voterebbe, sebbene a malincuore, per la repubblica. Conservatore di stile inglese, cioè liberale all’interno del conservatorismo, e assolutamente antireazionario.
Posizione religiosa Cristiano gnostico, e quindi assolutamente contrario a tutte le Chiese organizzate, e soprattutto alla Chiesa di Roma. Fedele, per motivi che più avanti saranno impliciti, alla Tradizione Segreta del Cristianesimo, che è in stretto rapporto con la Tradizione Segreta in Israele (la Santa Cabbala) e con l’essenza occulta della Massoneria.
Posizione iniziatica Iniziato, per comunicazione diretta da Maestro a Discepolo, nei tre gradi minori dell’ (apparentemente estinto) Ordine Templare del Portogallo.
Posizione patriottica Fautore di un nazionalismo mistico, da cui sia eliminata ogni infiltrazione cattolico-romana, per dar vita, se fosse possibile, a un sebastianismo nuovo che la sostituisca spiritualmente, ammesso che nel cattolicesimo portoghese ci sia mai stata spiritualità. Nazionalista che si ispira a questa massima: «Tutto per l’Umanità, niente contro la Nazione».
Riassunto di queste ultime considerazioni Tenere sempre a mente il martire Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari, e combattere, sempre e dovunque i suoi tre assassini: l’Ignoranza, il Fanatismo e la Tirannia.
Opera poetica
(PT)
«O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.»
(IT)
«Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente.»
(Fernando Pessoa Autopsicografia. Pubblicato il 1º aprile 1931)
La grande creazione estetica di Pessoa è considerata l’invenzione degli eteronimi, che attraversa tutta la sua vita. A differenza degli pseudonimi, gli eteronimi sono personalità poetiche complete: identità che, inizialmente inventate, divengono autentiche attraverso la loro personale attività artistica, diversa e distinta da quella dell’autore originale. Fra gli eteronimi si trova lo stesso Fernando Pessoa, in questo caso chiamato ortonimo, che però sembra sempre più simile agli altri con la loro maturazione poetica. I tre eteronomi più noti, quelli con la maggiore opera poetica sono Álvaro de Campos, Ricardo Reis e Alberto Caeiro.
Un quarto eteronimo di grande importanza nell’opera di Pessoa è Bernardo Soares, autore del Livro do desassossego (Libro dell’inquietudine). Soares è talvolta considerato un semi-eteronimo, a causa delle notevoli somiglianze con Pessoa, e per non aver sviluppato una personalità molto caratterizzata.
Al contrario, i primi tre possiedono addirittura una data di nascita e di morte, quest’ultima con l’eccezione di Ricardo Reis. Proprio questo dettaglio venne sfruttato dal premio Nobel per la letteratura José Saramago per scrivere il libro L’anno della morte di Ricardo Reis.
Attraverso gli eteronimi, Pessoa condusse una profonda riflessione sulle relazioni che intercorrono fra verità, esistenza e identità. Quest’ultimo aspetto è notevole nell’aura di mistero che circondava il poeta.
(PT)
«Com uma tal falta de gente coexistível, como há hoje, que pode um homem de sensibilidade fazer senão inventar os seus amigos, ou quando menos, os seus companheiros de espírito?»
(IT)
«Con una tale mancanza di gente coesistibile come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?»
Ortonimo
(autore: João Luiz Roth)
Pessoa Ortonimo è da considerarsi, su un piano metafisico, anch’egli un eteronimo, con la differenza rispetto agli altri, che tale personaggio porta il suo stesso nome: non si può certo identificare l’uomo Pessoa con l’Ortonimo, se non altro, per il semplice motivo che l’opera di questo è pressoché esclusivamente rivolta all’esoterismo, e quindi sarebbe riduttivo considerarla come tutto il pensiero del poeta. Pessoa Ortonimo si può considerare come ciò che resta del poeta, tolti i suoi eteronimi, e la ricchezza interiore che gli davano: e ciò che resta è una ricerca spirituale della propria, personale, dimensione.
L’opera ortonima di Pessoa è passata per fasi distinte, ma fondamentalmente è una ricerca di un certo patriottismo perduto, con lo sguardo rivolto all’esoterismo: la patria ha un valore esistenziale e spirituale, è una dimensione interiore da cui l’uomo è andato in esilio. L’ortonimo fu profondamente influenzato, in vari momenti, da dottrine religiose come la teosofia e da società segrete come la massoneria[12]. La poesia che ne risulta possiede una certa aria mitica, eroica (quasi fosse una poesia epica, ma certo non nell’accezione originale del termine), e talvolta tragica. Pessoa un poeta universale, nella misura in cui ci fornisce una visione simultaneamente multipla e unitaria della vita, pur con contraddizioni. È proprio nel tentativo di guardare il mondo in forma multipla (con un forte substrato di filosofia razionalista e anche con influenze orientali) che risiede una spiegazione plausibile alla creazione degli eteronimi più celebri.
L’opera principale del “Pessoa-sé-stesso” è “Mensagem” (“Messaggio”), una raccolta di poemi sui grandi personaggi storici portoghesi. Il libro fu inoltre l’unico pubblicato in vita dall’autore in lingua portoghese.
L’ortonimo è considerato simbolista e modernista, per l’evanescenza, l’indefinizione e l’insoddisfazione, e per l’innovazione praticata nelle diverse vie con cui formula il discorso poetico (sensazionismo, paulismo, intersezionismo, ecc.).
Gli eteronimi e il giorno trionfale
Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, scrive:
«L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.[4]»
Sempre nella stessa lettera, descrive così la nascita del suo primo eteronimo, il suo “giorno trionfale”:
«Un giorno in cui avevo definitivamente rinunciato — era l’8 marzo 1914 — mi sono avvicinato da un alto comò e, prendendo un foglio di carta, mi sono messo a scrivere, all’impiedi, come faccio ogni volta che posso. E ho scritto circa trenta poesie di seguito, in una specie di estasi di cui non riesco a capire il senso. Fu il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro come quello. Cominciai con un titolo: O Guardador de Rebanhos (Il Guardiano di greggi). E quello che seguì fu la nascita in me di qualcuno a cui diedi subito il nome di Alberto Caeiro. Scusate l’assurdità di questa frase: il mio maestro era sorto in me».[4]»
Alberto Caeiro
(PT)
«O essencial é saber ver,
Saber ver sem estar a pensar,
Saber ver quando se vê,
E nem pensar quando se vê,
Nem ver quando se pensa.»
(IT)
«L’essenziale è saper vedere,
Saper vedere senza stare a pensare,
Saper vedere quando si vede,
E né pensare quando si vede,
Né vedere quanto si pensa.»
(Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa, «O Guardador de Rebanhos», in Athena, n. 4, 1925)
Secondo quanto detto da Pessoa sempre nella lettera ad Adolfo Casais Montero, Caeiro, nato a Lisbona nel 1879, avrebbe vissuto tutta la vita come contadino, quasi senza studi formali ma solo con una istruzione elementare; rimasto presto orfano, visse con la zia di uno dei genitori, grazie a una modesta rendita. Morì di tubercolosi (come il padre di Pessoa) nel 1915.[13][14][15]
Alberto Caeiro è considerato il maestro tra gli eteronimi[16], per l’ortonimo e per Pessoa stesso che lo descrisse come il suo maestro di poesia, pur cosciente dell’assurdità di ciò.[14] È noto anche come poeta-filosofo, ma rigettava questo titolo e propugnava una “non-filosofia”. Credeva che gli esseri semplicemente “sono”, e nulla più; era irritato dalla metafisica e da qualunque tipo di simbologia sulla vita. In altri termini non credeva che il linguaggio e il pensiero fossero mezzi adatti a conoscere la Realtà, poiché essa è altrove.
Fu creato nella prima metà degli anni 1910, con l’intenzione, da parte di Pessoa, di farne un poeta bucolico.[14] Possedeva un linguaggio estetico diretto, concreto e semplice, ma tuttavia sufficientemente complesso per il suo punto di vista riflessivo. Il suo ideale si può riassumere nel verso “C’è sufficiente metafisica nel non pensare a niente”[17], mentre tra i temi da lui più esaltati nella sua opera si trovano la natura e la conoscenza di essa tramite i sensi fisici. Le sue opere di poesia sono O Guardador de Rebanhos, O Pastor Amoroso e Poemas Inconjuntos[15]; la sua opera è raccolta nel volume “Poemas Completos de Alberto Caeiro“.
Il giorno stesso in cui nacque Caeiro nella mente di Pessoa, il giorno trionfale, Pessoa lo concepì come già morto: egli fu il maestro prematuramente scomparso, di tutti gli eteronimi e dell’Ortonimo. Ciò che abbiamo di lui è un’opera postuma e il ricordo che ne avevano i suoi allievi.
Álvaro de Campos
(PT)
«Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.»
(IT)
«Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.»
Álvaro de Campos, eteronimo di Fernando Pessoa, «Tabacaria» (in Presença, n. 39, 1933, p. 1)
Pessoa fece nascere Campos a Tavira (Portogallo), il 15 ottobre 1890, alle 13:30. Viene descritto come un uomo alto 1,75 m e fisicamente «tra il bianco e il bruno, del tipo vagamente dell’ebreo portoghese». Trasferitosi in Scozia, Campos studiò dapprima ingegneria meccanica e poi navale a Glasgow. Durante un viaggio in Oriente, compose la poesia Opiário. Uno zio di Beira, prete, gli insegnò il latino.[18] Afflitto dalla sensazione di essere straniero in qualsiasi parte del mondo, una volta a Lisbona non esercitò la professione. In questa città era solito frequentare gli stessi luoghi amati da Pessoa, e con lui morì il 30 novembre 1935.[19]
Fra gli eteronimi, Campos fu l’unico a manifestare fasi poetiche differenti nel corso della sua opera.[20] Inizia la sua avventura come decadente influenzato dal simbolismo, ma aderisce presto al futurismo. A seguito di una serie di disillusioni esistenziali, assume una vena nichilista, che viene esplicitata nel poema “Tabacaria“, considerato uno dei più noti della lingua portoghese, e quello che forse ha maggiormente influenzato altri autori.
Campos è il primo, tra gli eteronimi di Pessoa, a debuttare pubblicamente, nel primo numero della rivista Orpheu nel 1915, con le poesie Opiário e Ode Triunfal.[18][21] A suo nome sono firmate alcune tra le poesie più importanti di Pessoa, tra le quali Tabacaria e Ode Marítima.
Col passare del tempo, la presenza di Campos si estese anche al di fuori dall’ambito letterario, come testimonia la corrispondenza tra Pessoa e la sua fidanzata Ofélia Queiroz. Lei intuì presto la minaccia che Campos rappresentava e se ne lamentò più volte col poeta. Il pericolo è stato confermato da alcuni studiosi che scorgono in questo eteronimo elementi di omosessualità e dunque di disturbo nel rapporto di coppia; Campos, insomma, avrebbe costituito il temibile terzo lato del triangolo amoroso.
Ricardo Reis
(PT)
«Para ser grande, sê inteiro: nada
Teu exagera ou exclui.»
(IT)
«Per essere grande, sii intero: nulla
Di te esagera o escludi.»
(Ricardo Reis, eteronimo di Fernando Pessoa, in Presença, n. 37, 1933)
L’eteronimo Ricardo Reis è descritto come un medico che si autodefinisce latinista e monarchico. Nacque a Porto nel 1887, si formò nelle lingue latino e greco, e si auto-esiliò in Brasile nel 1919, poiché contrario alla repubblica istituita in Portogallo nel 1910. Non si conosce l’anno della sua morte.[22][23]
In un certo qual modo Reis simboleggia l’eredità classica nella letteratura occidentale, espressa con simmetria, armonia, una certa vena bucolica, con elementi epicurei e stoicismi: le sue poesie – o meglio, le sue Odes (Odi) – infatti s’ispirano ai classici greci e latini, soprattutto alla filosofia epicureista. L’inesorabile fine di tutti i viventi è una costante nella sua opera, sempre classica, depurata e disciplinata.[24]
José Saramago continua l’universo di questo eteronimo nel romanzo O ano da morte de Ricardo Reis, in cui Reis torna a Lisbona dopo la morte di Pessoa e stabilisce un dialogo con il fantasma dell’ortonimo, ambedue sopravvissuti al loro creatore.
Bernardo Soares
Bernardo Soares è un semi-eteronimo di Pessoa, che definì Soares come “una semplice mutilazione della mia personalità: sono io senza il raziocinio e l’affettività.” È l’autore del Libro dell’inquietudine, considerato una delle maggiori opere della letteratura portoghese del XX secolo. Bernardo Soares è un modesto impiegato in un ufficio (Vasques e Companhia) della Baixa di Lisbona. Molti frammenti del libro sono dedicati alle sensazioni provocate dall’universo della Baixa, poiché è da questi microcosmi che Bernardo Soares parte per creare la sua inquieta metafisica.
Altri autori fittizi
Sono stati effettuati vari “censimenti” negli archivi di Pessoa per cercare di conoscere il numero esatto di eteronimi da lui inventati. Infatti, si può dire che lo scrittore portoghese avesse a disposizione un vero e proprio laboratorio di eteronimia, nel quale creava costantemente nuovi scrittori immaginari, abbandonandone presto alcuni e sviluppandone altri nel tempo.
Nel 2013, Jerónimo Pizarro e Patricio Ferrari hanno pubblicato un’antologia contenente testi di centotrentasei autori fittizi inventati da Pessoa: ai tre eteronimi Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Álvaro de Campos (dotati di una costruzione estetica, psicologica e drammaturgica assai elaborata, accuratamente costruiti da Pessoa sulla base di precisi calcoli e corrispondenze astrologiche[25]) e al semi-eteronimo Bernardo Soares, si aggiungono altre centotrentadue figure,[26][27] alcune delle quali erano già state divulgate in precedenti edizioni.[28]
Alcuni tra questi autori sono pressoché abbozzi di eteronimi, altri invece, in modo analogo ai tre eteronimi principali e a Soares, sono più strutturati e presentano una biografia, un’opera significativamente voluminosa, una caratterizzazione abbastanza avanzata. È questo certamente il caso di António Mora, la cui opera Pessoa non pubblicò, ma che nei suoi piani doveva essere l’eteronimo-filosofo e che appare in alcuni scritti come vero e proprio membro del gruppo dei “discepoli” di Caeiro, assieme a Reis, Campos e allo stesso Pessoa[29]. Altri nomi rilevanti in questa proliferazione di alter ego sono Alexander Search (che scrive in inglese), Vicente Guedes (che doveva inizialmente essere l’autore del Libro dell’Inquietudine) e il Barone di Teive (autore de L’educazione dello stoico).
Citazioni
(PT)
«Não sou nada. Nunca serei nada. Não posso querer ser nada. À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.»
(IT)
«Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.»
(Da “Tabacaria“, considerato uno dei più bei testi della letteratura portoghese)
«Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile.»
“VIVA LA POESIA” di Papa Francesco-tra interiorità e verità -Articolo di Domenico Pisana-
Articolo di Domenico Pisana relativo al libro “VIVA LA POESIA” di Papa Francesco- Edizioni ARES-rapporto poesia – interiorità – verità è una forte esigenza del sentimento poetico del nostro tempo. L’uomo contemporaneo dalla poesia non vuole la finzione intesa come costruzione lirica della mente, ma vuole la verità. E quale verità?
– La “verità di senso”: la poesia è chiamata a far scoprire all’uomo la dimensione valoriale degli accadimenti, lieti e tristi, della vita; deve aiutare l’uomo a dare un significato alla gioia o al dolore in questa fuga continua di giorni;
– la “verità morale”: fare poesia implica mettere l’uomo nella condizione di discernere il bene e il male che è dentro di lui.
Queste riflessioni emergono leggendo il libro “Viva la poesia!” di Papa Francesco, ove convergono alcuni scritti del pontefice su “poesia e letteratura”, che offrono chiavi di lettura per comprendere l’intelligenza letteraria di Bergoglio e le angolazioni ermeneutiche degli autori da lui esaminati.
Il testo di Papa Francesco fa capire come sia importante riflettere sulla poesia e sull’essere poeti, facendo risaltare che “affidarsi alla poesia non significa fuggire, né entrare in un mondo parallelo; significa, invece, ritrovare questo stesso mondo in un modo più profondo, riscoprendolo sotto altri riflessi”.
Il libro di Papa Francesco lo si può accogliere come un invito ai poeti ad essere presenti nel dibattito culturale, sociale, politico del nostro tempo, dando così all’ “essere poeta” forza e peso in grado di contribuire a suscitare domande di senso.
Quando un poeta c’è, si vede, si percepisce perché “sveglia le coscienze”; le sue parole aprono al confronto, al dialogo, invitano a entrare nelle pieghe della vita, che è mistero, è fascinazione, è inafferrabile, non è ingabbiabile, non è definibile come fosse un dogma.
La poesia, in verità, la si può trovare dovunque: basta guardarsi intorno. Spesso si è portati a pensare che le cose semplici della vita di ogni giorno non possano assurgere a “poesia”, non possano essere chiamate “poesia”. Domandiamoci: cosa può avere di poetico un guscio d’uovo? Eppure il poeta Giovanni Raboni gli dedicò una poesia scrivendo: “La tenerezza del guscio d’uovo/dolcemente svuotato con la bocca/ e ornato con paesaggi lontani…” . Cosa può avere di poetico un calzolaio? Eppure Montale gli dedicò dei versi: “L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe, /il cornetto di latta arrugginito ch’era/sempre con noi..” Cosa può avere di poetico una moneta? Eppure un altro importante poeta del 900, Giovanni Giudici, vi ha dedicato una poesia, scrivendo: “Provvido dal taschino del panciotto la moneta/ Parsimoniosa estraendo e snocciolata /Sul polpastrello pensieroso…”
Ecco, i grandi poeti non hanno fatto una distinzione tra cose poetiche e non poetiche; ci hanno insegnato che il poeta è tale perché aiuta a vedere con occhi diversi; perché fa provare sensazioni ricorrendo ad un linguaggio specifico e appropriato. Ogni poeta, infatti , quando prova delle sensazioni, vede un suo colore, sente un suo suono, o annusa un suo odore. Sta qui la bellezza e diversità della poesia!
Un altro messaggio viene dal libro del pontefice: occorre oggi, una poesia personalista secondo l’idea, a mio avviso, di Luigi Pareyson, supportata da “un cognitivismo epistemico ed etico con risvolti anche sul piano civile” per contrastare il nichilismo contemporaneo e superare con la sua forza visionaria la tanta “poesia individualista, massificata nell’autoreferenzialità, che è sterile e non dà frutto e conduce al nulla”.
Il poeta esiste come persona che può modificare la realtà con la sua libertà e verità, e non solo per scrivere idilli o – direbbe Quasimodo – oroscopi lirici. La crisi del nostro tempo chiede al poeta una dimensione pragmatica e sociale nella quale il ruolo del poetare non appaia solo quello “speculativo e contemplativo”, ma quello dell’invito alla prassi come metodo per cambiare il mondo.
Il poeta non può nascondersi né evitare di assumersi le sue responsabilità sociali; egli non può rimanere neutrale di fronte alla storia, alla società e al mondo, ma, al contrario, deve prendere posizione; il suo poetare è un “atto di creazione” di immagini forti, nonché di sentimenti e contenuti in grado di avere un’efficacia sul cuore dell’uomo ancor più forte rispetto a quanto siano in grado di fare la storia e la filosofia.
Da qui il bisogno di puntare nella direzione di una poesia personalista ed esistenzialista che sappia dare voce alla società non come massa ma come realtà di relazione tra persone chiamate a ritrovarsi sui valori di una umanità che fatica ad essere umana; ciò non è da confondere con le lamentazioni né con una sorta di “poesia sociologica” o di tipo moralistico, ma, invece, deve essere inteso come necessità di una poesia che aspira al dialogo più che al monologo; direbbe infatti Quasimodo: “Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è verità e libertà di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento (…)
Viva la poesia! è un libro che invita i poeti a rimanere sempre più legati al mondo, non staccandosi dalla vita nelle sue articolazioni storiche, politiche, sociologiche, filosofiche, religiose, di idealità, passioni, difficoltà e speranze. Il poeta, per dirla con Heidegger, è l’uomo della soglia, l’uomo della frontiera, del confine, nel senso che fiuta un pericolo, il disagio del suo tempo, intuisce ciò che altri non intuiscono, e quando intuisce “traduce”, cioè porta quel disagio, quel pericolo dentro un linguaggio che parte dalla vita e alla vita ritorna. Il poetare è come vivere al confine, che è quel luogo interiore, quello spazio dell’anima dove il poeta parla il linguaggio dell’essere, della spiritualità, dei modelli, dei principi, dei valori non per fissare canoni estetici, ma per fornire un importante contributo alla società in cui vive, e caricando, così, il suo operato di responsabilità.
Il linguaggio della poesia diventa così servizio a favore dell’altro in qualunque parte del mondo esso si trovi, servizio per la comunità civile, e il poeta un costruttore di bellezza testimoniata attraverso il nesso tra etica ed estetica della poesia.
Domenico Pisana
Biografia di Domenico Pisana è nato a Modica (RG) nel 1958.
Domenico Pisana
Ha conseguito il Magistero in Scienze religiose con specializzazione pedagogico-didattica, presso la Facoltà di Teologia dell’Ateneo della Santa Croce di Roma; il Baccalaureato in Sacra Teologia, presso la Pontificia Università salesiana; la Licenza in Teologia Morale, presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, riconosciuta come Diploma di Laurea dell’ordinamento didattico italiano con Decreto N. 1066 del 5 Giugno 2002; il Dottorato in Teologia Morale, presso l’Accademia Alfonsiana della Pontificia Università Lateranense; il Master di II livello in Dirigenza scolastica, presso la Libera Università LUPSIO di Roma.
In oltre un trentennio ha affiancato ai suoi studi teologici, – è infatti docente nei Licei – studi e ricerche letterarie, svolgendo attività poetica, di scrittore, saggista e critico letterario, e tenendo conferenze su temi letterari, teologici, storico-politici, presentando autori e recensendo libri di vario genere.
È socio fondatore dello Snadir, Sindacato Nazionale Autonomo Degli Insegnanti di Religione, ed è stato docente formatore del MIUR distaccato presso l’ADR, Associazione nazionale dei docenti di religione. A Ragusa ha insegnato Etica Professionale, Morale Fondamentale e Bioetica e attualmente insegna Teologia Morale nella Scuola Teologica di base della Diocesi di Noto.
Inoltre, è giornalista è Direttore responsabile dell’emittente radiofonica e quotidiano on line RTM, Radio Trasmissioni Modica; negli anni ‘80 ha svolto attività giornalistica presso la TV Video Mediterraneo, dove ha curato diverse interessanti rubriche e successivamente è stato Direttore responsabile del quotidiano della Diocesi di Ragusa Insieme, mentre nel 1995 ha fondato il giornale di attualità cultura ed informazione Professione IR.
È anche membro dell’ATISM, Associazione teologica Italiana per lo studio della Morale. Nel suo percorso professionale, ha anche collaborato con numerose riviste di Letteratura e Teologia ed è Presidente del Caffe Letterario Salvatore Quasimodo di Modica; svolge cicli di lezioni in corsi di formazione pedagogico-didattica, seminari di studi e conferenze in convegni su temi di letteratura e teologia con studi ed approfondimenti su S. Quasimodo, E. Montale e sulla poesia dialettale e religiosa.
In quasi un trentennio di fiorente attività letteraria, si sono occupati di Domenico Pisana la rivista di Letteratura greca Pancosmia Sunergasìa, l’Antologia poetica Romanta in italiano, inglese, francese e tedesco, gli autori Irena Burchacka e Anna Sojka che hanno tradotto in polacco l’opera teologica di Pisana “Sulla tua parola gettero le reti”, tradotta anche integralmente in versione spagnola da Augusto Aimar; ed ancora si sono occupati di Domenico Pisana il poeta e critico letterario rumeno Geo Vasile, che ha tradotto il suo saggio su Quasimodo, e la poetessa Floriana Ferro che ha tradotto il suo recente volume “Odi alle dodici terre. Il vento, a corde, dagli Iblei”, nonché Renato Civello, Piero Cruciani Antinori, Anna Maria Ferrero, Felice Ballero, Graziella Corsinovi, Pietrangelo Buttafuoco, Gaetano De Bernardis, Maurizio Soldini, Ninnj Di Stefano Busa, Niccolò Carosi, Dalmazio Masini, Corrado Calvo, Ester Cecere, Salvatore Borzì e tanti altri autorevoli nomi della cultura italiana.
Ha ricevuto premi e riconoscimenti letterari, tra i quali:
– Premio Letterario Internazionale “Velino”, conferitogli il 15 maggio 1982 per la sezione “Letteratura per l’infanzia, Critica e Giornalismo”;
– Menzione speciale per la poesia, conferita a Milano il 5 Aprile 1987 presso la Sala del Grechetto di Palazzo Sormani;
– Menzione speciale per il tema sociale, conferito dal Centro studi per la ricerca e la documentazione della poesia italiana del 900 “Carlo Capodieci” presso il Teatro Quirino di Roma il 23 maggio 1987;
– Premio per la poesia Giacomo Leopardi, assegnato dall’Accademia dei Bronzi di Catanzaro il 26 Marzo 1988;
– 3° Premio internazionale Katana per la critica letteraria, conferito dal Centro di Ricerche Poesia contemporanea di Catania il 29 Ottobre 1988;
– Medaglia d’Argento per la valorizzazione dell’arte e della cultura, conferitagli dall’Accademia Italiana “Gli Etruschi” di Vada (Livorno) il 6 novembre 1988;
– Premio Città di Alanno, per la critica letteraria, nel 1988;
– Menzione d’onore al Premio Bontempelli-Marinetti per la critica letteraria, nel 1989;
– Premio Regionale alla solidarietà e amicizia (VI Edizione) per l’impegno nella ricerca letteraria e teologica e nella promozione della solidarietà, conferito il 16 giugno 2002 dalla Pro Loco e dall’Università della terza età di Modica;
– Premio speciale per la saggistica, conferitogli a Palermo il 15 novembre 2008 dall’ASLA Associazione siciliana per le lettere ed arti, in occasione del Convegno internazionale Arte e poesia 2003, tenutosi nella ricorrenza del 40° anno di fondazione dell’associazione;
– Medaglia d’oro del “Premio alla Modicanità”, conferitogli nel settembre del 2006 dall’Amministrazione Comunale e dalla Pro Loco di Modica;
– Premio “Capitale Iblea della cultura” per l’impegno profuso nella promozione della cultura e dell’espressione poetica proprie degli Iblei”, conferitogli a Comiso il 15 dicembre 2015;
– “Premio Sicilia Federico II alla cultura” per le sue pubblicazioni e attività culturali, conferitogli a Rosolini (Siracusa) il 27 novembre del 2016;
– “Premio Europeo FARFA” per la cultura e il territorio 2017, conferitogli a Pozzallo dall’Associazione Internazionale dei Critici Letterari il 21 gennaio 2017;
– Premio alla cultura “Magister vitae” conferitogli a San Vito Lo Capo (Trapani) il 2 settembre 2017;
– Nomina di Socio Onorario dell’Associazione Culturale “Euterpre” di IESI per i suoi alti meriti in campo letterario, di esegesi religiosa, e la sua instancabile attività di promozione e diffusione culturale a livello locale e nazionale, conferitagli a Catania il 23 giugno 2018;
– Nomina di Socio Onorario e Ambasciatore di Cultura dall’Università Popolare di Palermo “Per l’infaticabile opera di promozione e divulgazione della Cultura nei diversi ambiti del Sapere. Per il contributo prezioso offerto alla comunità come poeta, scrittore, intellettuale, teologo, organizzatore di eventi e Presidente del salotto letterario “Salvatore Quasimodo”. Per l’impegno anche di tipo sociologico-comunicativo che ha raggiunto nel tempo livelli di fama internazionale”, conferitagli a Palermo l’11 maggio 2019;
– Premio Internazionale di Poesia in lingua italiana Città di Siderno, 26 ottobre 2019;
– Menzione d’onore al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Lord Byron Porto Venere Golfo dei Poeti 2019, conferitogli a Porto Venere il 3 novembre 2019;
– Primo Premio Internazionale di Arte Letteraria “Il Canto di Dafne” per la saggistica, conferitogli ad Aulla (MS) il 24 novembre 2019;
– I Premio Internazionale “Dal Tirreno allo Jonio”, VI Edizione 2019, per un saggio su Eugenio Montale, conferitogli a Matera, capitale europea della Cultura 2019, il 21 dicembre 2019.
LE OPERE DI DOMENICO PISANA
Poesia
Nella sognante casa delle Muse, Editrice EDI, Modica, 1985.
E verrà il tempo…, Edizioni Associazione culturale Dialogo, Modica, 1988.
Oltre il silenzio della Parola, Vincenzo Ursini Editore, Catanzaro, 1990.
Guardando Lembi di cielo, Adierre Editrice, 1993.
Terre di Rinascita, Itinerarium Editrice, Modica 1997.
Canto dal Mediterraneo, Ismeca, Bologna, 2008.
Tra naufragio e speranza, Europa Edizioni, Roma, 2014.
Odi alle dodici terre. Il vento, a corde, dagli Iblei, bilingue (Italiano-inglese), Armando Siciliano, Messina, 2016.
Saggistica e critica letteraria
Poesia negli Iblei. Lettura di poeti dell’area ragusana Editrice Setim, Modica, 1990.
Poesia e Teologia in una letteratura d’umanità, Libroitaliano, Ragusa, 1995.
“Saverio Saluzzi e la sua poesia del Tramonto”. Itinerarium Editrice, Modica, 1996.
Percorsi critici. Lettura di autori contemporanei: Quasimodo, Montale, Goffis, Lauretta, Musumarra, Saluzzi, Savoca, Barberi Squarotti, Trombatore, Edizioni Pagine, Roma, 2001.
Quel Nobel venuto dal Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria ed oblio, Edi Argo 2006.
Paesaggi dell’anima nella poesia di Salvatore Puma, Albalibri, Livorno, 2011.
Personaggi letterari degli Iblei, 1839-1925. Profili critici e testi, Periferie Edizioni, Ragusa, 2019.
Pagine critiche di Poesia Contemporanea – Linguaggi e valori comuni fra diversità culturali, Edizioni Il Cuscino di stelle, Pereto (AQ), 2019.
Teologia ed etica
Il padre, l’amico, il fratello. Mons. Giuseppe Rizza, Editrice EDI, Modica, 1986.
L’etica della famiglia siciliana tra passato e presente. Lineamenti di cultura, fede, spiritualità, Libroitaliano, Ragusa, 1994.
Orizzonti etici e sociali nell’insegnamento del Vescovo Mons. G. Blandini, Adierre Editrice, Modica, 1994.
Evangelizzazione e catechesi nell’episcopato di Mons. Salvatore Nicolosi, Itinerarium Editrice, Modica, 1997.
La famiglia santuario della vita, Itinerarium Editrice, Modica, 1998.
Sulla tua parola getterò le reti, Edizioni San Paolo, Milano, 1997.
Temi di Bioetica, introduzione e conclusioni del volume di Mario Cascone, SEI, Torino, 1996.
Alle pendici dell’Oreb, Edizioni Rinnovamento nello Spirito, Roma, 2003.
Per una città educativa e solidale, Itinerarium Editrice, 2003.
Va’ e anche tu fa’ lo stesso, Edizioni del Rinnovamento, Roma, 2005.
Storia e politica
Aspettando la politica. Libro intervista a cura di Luisa Montù, Adierre, 2005.
Modica in un trentennio. Percorsi di storia di una città in cammino, Genius Loci Editrice, Ragusa, 2010.
Indignazione e doppia morale nell’Italia del berlusconismo, Petralia Editore, Modica, 2011.
Didattica (a cura di)
– La nuova identità della scuola a 10 anni dall’introduzione dell’autonomia scolastica: l’insegnamento della religione cattolica tra cambiamenti, sperimentazioni ed emergenze educative, Atti del corso interregionale dei docenti di religione dell’Italia del Nord, Verona, Adierre, 2010.
– L’identità professionale del docente di religione tra qualità e flessibilità dell’insegnamento, confessionalità e laicità, Atti del corso di aggiornamento dei docenti di religione dell’Italia centrale, Pisa, Adierre, 2010.
– Il contributo e il ruolo specifico dell’IRC nella progettazione del sistema di istruzione e formazione, Atti del corso di aggiornamento dei docenti di religione del Sud Italia, Lecce, Adierre, 2010.
– Programmazione e metodologia dell’IRC per un’efficace azione educativa nella scuola, Atti del corso di aggiornamento dei docenti di religione di Sicilia e Sardegna, Catania, Adierre, 2010.
– L’IRC di fronte al bullismo e al disagio giovanile: per una strategia educativa, Atti del corso interregionale di aggiornamento degli idr del Nord Italia, Treviso, Adierre, 2011.
– Lo sguardo educativo nel processo educativo dell’IRC, Atti del corso nazionale per i docenti di religione della scuola dell’infanzia e primaria, Salerno, Adierre, 2011.
– Per una attività didattica motivata: L’IRC tra istruzione, formazione, competenze relazionali e capacità comunicative, Atti del corso interregionale di aggiornamento dei docenti di religione del Nord Italia, Mantova, Adierre, 2011.
– Essere docenti nella scuola dell’autonomia. La conduzione del gruppo classe nell’ora di religione, Atti del corso regionale di aggiornamento dei docenti di religione della Sardegna, Sassari, Adierre, 2011.
– Insegnamento della religione e valutazione delle competenze, Atti del corso interregionale di aggiornamento dei docenti di religione dell’Italia centrale, Pisa, Adierre, 2011.
– Per una educazione alla cittadinanza. L’insegnamento della religione cattolica come “spazio di senso”, Atti del corso interregionale di aggiornamento dei docenti di religione del Sud Italia, Caserta, Adierre, 2011.
– Insegnamento della religione, arte e web, Atti del corso interregionale di aggiornamento dei docenti di religione della scuola dell’infanzia e primaria dell’Italia centrale, Roma, Adierre, 2011.
– Insegnamento della religione e uso delle tecnologie informatiche e multimediali nella didattica, Atti del corso regionale di aggiornamento dei docenti di religione della Sicilia, Palermo, Adierre, 2011.
– Per una cultura della solidarietà. Sogni e desideri cambiano il mondo, Atti del convegno nazionale di aggiornamento dei docenti di religione, Palermo Adierre, 2011.
– L’insegnamento della religione e la relazione educativa, Atti del corso interregionale di aggiornamento dei docenti di religione dell’Italia centrale, Pisa Adierre, 2013.
Opere di Pisana tradotte in polacco, spagnolo,
rumeno e inglese.
Na twojw slowa zarzuce sieci, Polish edition 1999, 4K PHUP Sp.z.o.o., Bytom, Polonia, 1999.
En tu palabra echaré las redes, San Pablo, Santafe De Bogota, D.C.,1999.
Acel Nobel venit din Sud. Salvatore Quasimodo intre glorie siui tare, Iunimea, Iasi, Bucarest, 2011.
Odes tho the twelve lands. A stringed wind from the Ibleans, Armando Siciliano Editore, Messina, 2016.
RECENSIONI E STUDI SULL’AUTORE
C. AREZZO, Nella sognante casa delle muse, in Ragusa sera, Ragusa, aprile 1986.
F. BALLERO, Nella sognante casa delle muse di Domenico Pisana, in Gazzetta del Sud, 14 agosto 1986.
E. BARONE, Un poeta in anticamera, in Dialogo, mensile di cultura, politica e attualità, Modica, Maggio 1994.
G. BATTAGLIA, Luce spirituale e lirica nella seconda silloge di Pisana “E verrà il tempo …”, in La Vita Diocesana, Noto, 8 gennaio 1989, anno XV.
G. BATTAGLIA – S. SALUZZI, Sulla poesia di Domenico Pisana, Insieme CI.DI.BI., Ragusa, 1992.
S. CANNIZZARO, Oltre il silenzio della parola, in La Vita diocesana, n. 34, Noto, 25 novembre 1990.
M. CATAUDELLA, E verrà il tempo … di Domenico Pisana, in Il Giornale di Scicli, Scicli, 10 settembre 1989.
R. CIVELLO, Pisana e l’etica del linguaggio, in Secolo d’Italia, Domenica 16 ottobre 1988, p.6.
P. CRUCIANI ANTINORI, E verrà il tempo … , in … le segrete cose, Rassegna mensile di poesia ed altre cose intelligenti, Roma febbraio 1989.
C. DEPETRO, Nuove poesie di Domenico Pisana in “E verrà il tempo …”, in Provincia Iblea, Ragusa 21 dicembre 1988, p.6.
C. DEPETRO, Aspirazione alla libertà, in Ragusa sera, Ragusa, 23 febbraio 1991.
C. DEPETRO, Una raccolta poetica di Domenico Pisana, in Il Secolo d’Italia, 18 febbraio 1994.
C. DEPETRO, La luce divina illumina la vita, in Il Mercatino, 29 marzo 1994.
S. DI MARCO, Oltre il silenzio della parola, in Giornale di poesia siciliana, Palermo, gennaio 1991.
G. DORMIENTE, Oltre il silenzio della parola, in Dialogo, mensile di cultura, politica e attualità, Modica, gennaio 1991.
A. MARIA FERRERO, Pisana poeta della speranza, in Controcampo, rivista letteraria, Torino, Agosto 1989.
C. FIORE, E verrà il tempo …, in Dialogo, mensile di cultura, politica, attualità, Modica, Dicembre 1988, p.3.
C. FIORE, “Nella sognante casa delle muse” di Domenico Pisana, in Dialogo, mensile di cultura, politica, attualità, Modica, 1985.
C. FIORE, Una lirica per la pace, E verrà il tempo, in Corriere di Modica, Modica, gennaio-febbraio 1987.
C. FIORE, Guardando lembi di cielo di Domenico Pisana, in La Pagina, quindicinale di Modica, 28 maggio 1994.
E. SCHEMBARI, “E verrà il tempo … “, in Il Giornale di Scicli, 26 giugno 1988, p.5.
D. GENNARO, La raccolta di poesie di Pisana “E verrà il tempo”, in Gazzetta del Sud, Messina 8 Agosto 1988.
C. LAURETTA, E verrà il tempo … , in Giornale di poesia siciliana, Palermo, 1988.
G. DORMIENTE, E verrà il tempo …, in Il Focolare, mensile della famiglia, anno XXI, n. 11-12, Nov. – Dic. 1988.
G. PUMA, Domenico Pisana poeta, in Artecultura, anno XXII, n. 10 dicembre, Milano, 1988.
C. LAURETTA, L’amore che si fa speranza nella lirica di Pisana, in Ragusa sera, Ragusa, 1988, p.4.
E. SCHEMBARI, Nella sognante casa delle muse un misto di amore, fede e umanità, in Il Domani Ibleo, settimanale, Anno VIII, n. 5, Modica, 1 febbraio 1986.
S. SALUZZI, Grido e tormento di vita la poesia di Domenico Pisana, in Il Domani Ibleo, settimanale, Anno VIII, n. 10 Modica, 8 marzo 1986.
L. MONTù, È nato un poeta, “Nella sognante casa delle mu-se”, in Il Domani Ibleo, Anno VII, n. 13, Modica, 12 ottobre 1985.
T. RIZZONE, Nella sognante casa delle muse, in La Vita diocesana, n. 7 , Noto, 23 febbraio 1985.
L. TRINGALI, Un messaggio di amore e di libertà la poesia di Domenico Pisana, in Il Quindicinale, Ispica, 30 marzo 1986.
C. LAURETTA, L’epifania del divino, in Ragusa sera, Ragusa, 22 dicembre 1990.
G. ROSSINO, Oltre il silenzio della parola, in Dibattito, mensile di attualità, politica, costume, sport, Anno III, n. 2, febbraio 1991.
M. IEMMOLO, Pisana rivive nella memoria i filmati dell’infanzia e dell’adolescenza, in Gazzetta del Sud, Anno XL, lunedì 29 aprile 1991.
L. MODICA, Modica terra di poeti. Quarta pubblicazione di Domenico Pisana, in Giornale di Sicilia,martedì 4 gennaio 1994.
C. LAURETTA, Proposte ermeneutiche della poesia di Domenico Pisana, in Insieme, quindicinale della provincia di Ragusa, Ragusa, 15 febbraio 1993.
E. SCHEMBARI, Guardando lembi di cielo, in La Settimana della provincia di Ragusa, n. 13, 7 maggio 1994.
C. LAURETTA, Le parafrasi della silloge di Pisana, in Insieme, quindicinale della provincia di Ragusa, 31 marzo 1994.
C. LAURETTA, Pisana, Poesia e cultura, Itinerarium, 1999.
V. INGRAO, Modica: terra di poeti, in Insieme, quindicinale della provincia di Ragusa, 15 giugno 1990.
L. RICCOBENE, La poesia come sublimazione del silenzio, in Insieme, quindicinale della provincia di Ragusa, 28 febbraio 1995, p. 3.
E. SCHEMBARI, Oltre il silenzio della parola, in La Provincia di Ragusa, marzo 1991.
L. MODICA, Guardando lembi di cielo, in Giornale di Sicilia, 4 gennaio 1994.
S. SALUZZI, Prefazione a E verrà il tempo, Edizioni Associazione culturale Dialogo, Modica, 1988.
S. SALUZZI, Guardando lembi di cielo, in S. SALUZZI, Da Modica e dintorni e oltre, Moderna, Modica, 1994.
G. SELVAGGIO, Nella sognante casa delle muse, in La Provincia di Ragusa, giugno 1986.
S. SALUZZI, Una lettura più riposata delle poesie di Domenico Pisana, Miscellanea, saggi critici su poeti e scrittori contemporanei dell’area iblea, Setim, Modica, 1990.
L. TROMBADORE, Domenico Pisana. Scritti, interviste, epistole, poesie, Periferie Edizioni, Ragusa, 2017.
Di Domenico Pisana si sono anche occupati “Il Giornale Italiano de Espana” di Madrid, il Giornale on line “L’ItaloEuropeo Independent” di Londra, la rivista francese “La Voce” di Parigi, la rivista letteraria internazionale Galaktika Poetike “ATUNIS”, il quotidiano on line dell’Arabia Saudita “Sobranews.com”.
Pisana è stato anche tradotto in rumeno da Stefan Damian, poeta e scrittore e docente di letteratura italiana presso il Dipartimento di Lingue Romanze dell’Università di Bucarest, sulla rivista romena “TRIBUNA”; è stato tradotto dal poeta e docente universitario albanese Arjan Kallco sulla rivista italo-albanese “ALTERNATIVA”, ed è stato inserito nel volume ATUNIS GALAXY ANTHOLOGY – 2019, a cura di Agron Schele, autore albanese residente in Belgio, scrittore di romanzi e co-fondatore della rivista internazionale ATUNIS.
Recentemente ha ricevuto riconoscimenti in importanti Festival Internazionali: in Bosnia al Festival “La Piuma d’oro”, il 28 settembre 2019, e a Istanbul in Turchia al FeminIstanbul” il 9 novembre 2019. È presente in riviste e blog letterari on line con traduzione in greco, inglese, macedone, arabo.
A Padova la mostra ‘Vivian Maier. The exhibition’ aperta dal 24 aprile-
Aprirà al pubblico il 24 aprile Vivian Maier. The exhibition, “la più grande mostra mai dedicata alla celebre fotografa americana” ospitata a Padova, presso il Centro Culturale Altinate – San Gaetano fino al 28 settembre 2025. Sono più di 200 le stampe a colori e in bianco e nero, oltre a contact sheet, le opere esposte. La mostra propone anche registrazioni audio originali con la voce della fotografa e filmati Super 8, “visibili soltanto in questa retrospettiva” precisano gli organizzatori.
Curata da Anne Morin – la più grande esperta e studiosa della vita dell’artista – l’esposizione è suddivisa in sezioni tematiche che esplorano i soggetti e gli aspetti distintivi del suo stile: dagli intensi autoritratti alle scene di vita urbana, dai ritratti di bambini alle immagini di persone ai margini della società. La selezione include fotografie in bianco e nero e a colori, molte delle quali rare ed esposte solo recentemente al pubblico. La mostra si arricchisce inoltre di filmati in formato Super 8, provini a contatto, audio con la voce di Vivian Maier e vari oggetti personali, tra cui le sue macchine fotografiche Rolleiflex e Leica.
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
La mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia Promossa dal Comune di Padova, da un progetto di Vertigo Syndrome in collaborazione con Chroma photography.
INFORMAZIONI
Orario apertura
Dal martedì alla domenica 10.00-19.30
Chiuso il lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima)
Orari estivi dal 28 luglio al 31 agosto
Dal martedì alla domenica 10.00-13.00, 15.30-19.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Chiuso il lunedì
Dall’11 al 17 agosto chiuso
Aperture straordinarie
Venerdì 25 aprile 10.00-19.30
Giovedì 1 maggio 10.00-19.30
Lunedì 2 giugno 10.00-19.30
Venerdì 13 giugno 10.00-19.30
Biglietti
Open € 18,00
Intero € 16,00
Ridotto € 14,00
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