Versi di Resistenza: la poesia patriottica del 25 aprile , Festa della Liberazione-dal blog “L’Altrove”-
Il 25 aprile, Festa della Liberazione, rappresenta un nodo fondativo e simbolico dell’identità repubblicana italiana, in cui storia, memoria e linguaggio si sovrappongono in un dialogo plurimo e stratificato. Se la storiografia e la memorialistica hanno ricostruito i percorsi della lotta partigiana in termini politici e militari, è la poesia a custodire le forme più intime, complesse e stratificate dell’esperienza resistenziale. La poesiapatriottica nata dalla Resistenza al nazifascismo non si limita a essere documento storico o strumento celebrativo: essa si configura piuttosto come pratica discorsiva capace di interrogare i codici etici, civili ed estetici della modernità. In questo contesto, la presenza di autori come Alfonso Gatto e Franco Fortini si affianca a quella, più taciuta ma non meno significativa, delle poete partigiane come Renata Viganò, JoyceLussu, Ada Gobetti e Maria Luisa Spaziani. Analizzare le loro opere significa restituire complessità a un canone poetico-politico spesso semplificato e ridotto a paradigma maschile ed eroico.
Festa della Liberazione dal nazifascismo
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza
ALFONSO GATTO
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza-Tra i poeti che più intensamente hanno tematizzato la Resistenza, Alfonso Gatto (1909–1976) occupa un posto centrale. La sua raccolta La storia delle vittime (Mondadori, 1966) costituisce un corpus poetico in cui la parola si carica di responsabilità storica, emotiva ed etica. In componimenti come Le vittime, Gatto non canta l’eroismo, ma la fragilità e la morte innocente, assumendo un tono elegiaco che trasforma la poesia in atto di pietas. La memoria, in Gatto, si coniuga sempre con il dolore e con l’ingiustizia subita, in un rifiuto programmatico della retorica bellica.
Gatto, partigiano egli stesso, fa della sua lirica una forma di memoria incarnata, in cui l’esperienza della guerra e della liberazione non si separano dalla sofferenza collettiva. In questo senso, la sua poesia diventa spazio per la riflessione civile, ma anche per una visione tragica del mondo: la Resistenza, pur necessaria, non cancella il lutto. Come nota Cesare Cases, Gatto non sacralizza la guerra giusta, ma la umanizza attraverso la compassione, offrendo una delle rappresentazioni più intense e contro-retoriche dell’antifascismo poetico.
Le vittime
La storia fosse scritta dalle vittime altro sarebbe, un tempo di minuti, di formiche incessanti che ripullulano al nostro soffio e pure ad una ad una vivide di tenacia, intente d’essere.
Gli inermi che si scostano al passaggio delle divise chiedono allo sguardo dei propri occhi la letizia ansiosa d’essere vinti, il numero che oblia la sua sabbia infinita nel crepuscolo.
Dei vincitori, ai ruinosi alberghi del loro oblio, più nulla. Rimane chi disparve nella sera dell’opera compiuta, sua la mano di tutti e il fare che è del fare il tenero. È il nostro soffio che gli crede, il dubbio di perderlo nel numero, tra noi.
Franco Fortini: la parola critica della storia
Franco Fortini
Franco Fortini (1917–1994) rappresenta l’altra grande voce della poesia resistenziale italiana, ma da una prospettiva profondamente diversa. Intellettuale marxista, saggista e polemista, Fortini elabora una poetica dialettica e autocritica, in cui l’evento storico non è mai semplicemente rappresentato, ma problematizzato. Nella raccolta Poesia eerrore (1959) e poi in Una volta per sempre (1978), l’evento resistenziale si iscrive in una riflessione radicale sul linguaggio e sulla funzione dell’intellettuale.
In testi come Traducendo Brecht, Fortini afferma l’impossibilità di separare poesia e responsabilità storica: “La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”, afferma provocatoriamente. Il riferimento a Brecht e alla poesia didattica è centrale: Fortini crede in una lirica che, anziché consolare o esaltare, interroghi, analizzi, smascheri. La Resistenza, per lui, non è solo un momento storico da celebrare, ma un problema etico-politico da rielaborare. Il poeta diventa allora testimone, ma anche interprete critico della propria epoca, capace di sfidare l’opacità della Storia attraverso la precisione della parola.
Canto degli ultimi partigiani è un testo emblematico resistenziale. Il testo si articola in strofe secche e ossessive, che alternano immagini di morte concreta – “le teste degli impiccati”, “i denti dei fucilati” – a un crescendo di disumanizzazione: “la nostra carne non è più d’uomini”. Fortini costruisce un rituale lirico della sofferenza collettiva, ma anche una promessa di giustizia: “sulla terra faremo libertà”. La voce è corale, epica e tragica insieme, radicata nella Resistenza ma rivolta a una memoria attiva, militante. L’ultimo verso, “la giustizia che si farà”, sigilla una fede laica nella storia e nella responsabilità civile.
Canto degli ultimi partigiani
Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati
Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini.
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà Ma l’hanno stretta i pugni dei morti La giustizia che si farà.
Renata Viganò: la voce delle donne dimenticate
Renata Viganò
Renata Viganò (1900–1976), autrice del celebre romanzo L’Agnese va a morire (1949), è anche una significativa figura poetica della Resistenza. Le sue Poesie della Resistenza, meno note al grande pubblico (Wikipedia), si distinguono per il tono sobrio, narrativo, e per una forte tensione etica. La sua è una poesia quotidiana, che racconta la guerra non dal fronte armato ma dalle retrovie femminili: le madri, le contadine, le staffette, le infermiere.
Viganò rompe con la retorica dell’eroismo maschile, e afferma una visione della Resistenza come atto di cura e sacrificio. Le sue liriche, spesso semplici nella forma, hanno una forza evocativa profonda, perché portano alla luce il contributo delle donne alla lotta di liberazione. In esse il corpo femminile non è oggetto, ma soggetto della Storia: corpo che si muove, agisce, combatte e muore per la libertà. È una poesia che restituisce dignità alla memoria collettiva, ampliando il canone resistenziale oltre i confini del racconto maschile.
L’anagrafe trista è una poesia che affronta il tema del sacrificio delle donne partigiane. Attraverso un linguaggio semplice ma intenso, la scrittrice rende omaggio alle 128 donne cadute, i cui nomi compongono una sorta di “anagrafe triste”. La poesia evoca emozioni profonde, sottolineando il coraggio e la determinazione di queste donne nel combattere per la libertà. L’autrice utilizza immagini toccanti per trasmettere il senso di perdita e di memoria collettiva, rendendo il testo un tributo duraturo alla loro eroica partecipazione alla lotta partigiana.
L’anagrafe trista
Sussurravano piano piano rome le giovani fidanzate dietro le siepi d’estate a fare l’amore la prima volta, Mormoravano piano piano come la sposa che l’uomo bacia dopo la firma tremante sul registro del matrimonio. Camminavano piano piano come le mamme che vanno attorno, che sia la nOlte o che sia il giorno, alla culla del loro bambino, E invece uscivano dalla casa, ogni impresa cara era finita, Andavano fuori dalla vita per entrare nella Resistenza. Rinunciarono ai mobili nuovi comperati con tanti stenti. Non pensarono agli ingrandimenti inclinati nelle cornici. Non guardarono occhi di madri. già in pianto per altri dolori . Dalla vita si misero fuori per essere nella Resistenza. Fecero maglie e calze partigiane, fasciarono ferite partigiane, portarono armi e stampe partigiane. Ma se li agguantavano i tedeschi per mezzo di una anagrafe trista redatta dalla brigata nera, questo, voleva dire la morte. Eppure era bella la sera, In seno alla dolce stagione! Il sole, il respiro, il colore dell’aria fu per tante l’ultima vista. Altre caddero al buio, stracciate, contro le mura di un quartiere. Furono ansiose dell’ultimo istante per essere buone a tacere. Furorono paghe dell’ultima ora per disperdere il nome dei compagni nell’urlo della bocca’ infranta dal fuoco della tortura. Donne vive, vite vive: diritto e promesse d’amante. Lasciarono amore e passione per morir nella Resistenza. E qualcuna fu portata di peso e fucilata da morta, e qualcuna disse una parola dura al plotone di esecuzione.
Joyce Lussu: la traduzione del dolore storico
Joyce Lussu
Joyce Lussu (1912–1998), militante politica e traduttrice di poesia rivoluzionaria del Terzo Mondo, è tra le figure più originali della poesia resistenziale italiana. Nella raccolta Liriche, Lussu elabora una forma di poesia civile in cui soggettività e coralità si fondono. Il suo verso è secco, quasi documentaristico, ma ricco di tensione morale. La Resistenza, per Lussu, non è solo un fatto italiano, ma si inserisce in una rete di lotte internazionali contro l’oppressione.
Le sue poesie sono brevi, spesso costruite come testimonianze dirette, in cui la parola si fa strumento di resistenza contro la dimenticanza. Lussu rifiuta ogni estetismo: la forma poetica è funzionale all’urgenza del contenuto. La memoria della lotta diventa così patrimonio collettivo, e la poesia uno dei suoi veicoli più efficaci. La sua voce si aggiunge a quella di Brecht, Hikmet, Darwish: la resistenza è anche linguaggio, comunicazione, passaggio di testimone.
Ada Gobetti: il diario come forma poetica della resistenza
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana, è nota per il Diario partigiano, testo ibrido tra testimonianza, prosa diaristica e prosa lirica. Pur non scrivendo in versi, la sua scrittura ha una densità poetica che la rende parte integrante del paesaggio letterario resistenziale. La precisione del linguaggio, la capacità evocativa delle immagini, la forza morale che attraversa ogni pagina fanno del suo diario una forma lirica della resistenza vissuta.
Gobetti restituisce la quotidianità della lotta: le marce nei boschi, le paure notturne, i bambini nascosti nei rifugi, i compagni arrestati. La resistenza, nelle sue parole, non è solo strategia militare ma scelta etica quotidiana, fatta di piccoli gesti, decisioni difficili, silenzi condivisi. Il suo sguardo femminile non è mai sentimentale, ma radicalmente politico: la poesia, qui, coincide con la pratica della libertà.
Maria Luisa Spaziani: la lirica della memoria
Maria Luisa SPAZIANI
Maria Luisa Spaziani (1922–2014), sebbene non direttamente impegnata nella lotta armata, fu testimone acuta dell’Italia resistenziale. La sua poesia, spesso più simbolica e meditativa, ha saputo cogliere l’eco lirica della Liberazione in testi in cui il tempo storico si fonde con la riflessione esistenziale. In alcune liriche, la Resistenza è evocata come tensione verso la libertà, come interrogazione della giovinezza perduta, come necessità di testimoniare.
Spaziani dimostra che la memoria della guerra può assumere anche una forma interiore, individuale, e tuttavia profondamente politica. La sua voce amplia il campo semantico della poesia patriottica, offrendone una versione meno bellicosa ma non meno intensa, in cui il trauma storico si elabora attraverso la trasfigurazione simbolica.
Poesia come vigilanza
La poesia della resistenza si configura dunque come uno spazio plurale, attraversato da voci, generi, stili e posizionamenti differenti. La centralità di Gatto e Fortini, con le loro poetiche complementari – la pietas lirica e l’analisi dialettica – trova un contrappunto necessario nella scrittura delle poete resistenti, che introducono uno sguardo di genere, una diversa etica del ricordo e una rinnovata forma del racconto storico. Rileggere oggi queste opere non significa solo fare memoria, ma anche interrogare le nostre pratiche discorsive, i nostri silenzi, le nostre esclusioni. Questi versi non sono dunque reliquie, ma un archivio vivente in cui si conserva il senso più profondo della parola democratica: non quella che esalta, ma quella che ascolta, che testimonia, che resiste. In un’epoca segnata dal riemergere di revisionismi e negazionismi, è necessario riaffermare con forza il ruolo della letteratura come spazio di consapevolezza e responsabilità. Non vi è nulla di decorativo o nostalgico in questa scrittura: al contrario, il suo compito è quello di vigilare, di mantenere acceso il fuoco della memoria, di ricordare che la libertà non è un’eredità acquisita, ma una scelta quotidiana. La poesia, in questo contesto, non celebra la patria come entità astratta, ma come spazio etico della convivenza, come luogo simbolico da difendere contro ogni forma di violenza, sopraffazione, oblio. Il 25 aprile, nella parola poetica, non è solo un ricordo: è una promessa che si rinnova ogni volta che il verso resiste al silenzio
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni – Terme di Caracalla-
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla è il titolo della mostra organizzata dalla Soprintendenza Speciale di Roma e dalla Fondazione Francesco Corni in programma alle Terme di Caracalla dal 3 maggio al 19 ottobre 2025.
Sessanta opere dell’archeologo disegnatore originario di Modena e scomparso nel 2020 che potranno essere ammirate nell’esposizione allestita nelle due aule coperte del complesso archeologico.
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
Un racconto per immagini della Roma Antica che attraversa i monumenti più significativi della città in un gioco tridimensionale che unisce il passato al presente. Le tavole di Francesco Corni sono capaci di trasmettere la profondità del tempo e hanno una forte connotazione divulgativa.
La mostra, la prima realizzata a Roma di Francesco Corni, costituisce un viaggio nei luoghi e nel tempo in cui si uniscono maestria e competenza scientifica. Le tavole, molte delle quali inedite, restituiscono, nel primo ambiente, il senso di una passeggiata nella città antica dal Campidoglio al Foro Boario, mentre nella seconda aula, l’allestimento è legato a temi come l’acqua, le terme, i giochi, i grandi cantieri e i metodi di costruzione in epoca romana e infine una sezione è dedicata alla Basilica Vaticana e alla sua evoluzione nel tempo.
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
La mostra, curata da Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi è l’occasione per scoprire il talento di Francesco Corni e le sue prospettive impossibili.
Il Soprintendente Speciale Daniela Porro ha spiegato: «Le curatrici Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi hanno sapientemente messo in mostra l’eccezionalità della figura di Corni come divulgatore che nasce da un favoloso talento grafico unito alla preparazione da archeologo e alla attività di disegnatore rilevatore negli scavi in varie località italiane ed estere. Basi solidissime che gli hanno permesso di realizzare tavole che restituiscono non solo la ricostruzione di iconici edifici, ma mirabolanti spaccati che rivelano gli interni e spiegano le tecniche costruttive antiche».
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
Il direttore delle Terme di Caracalla, Mirella Serlorenzi, ha aggiunto: «Dopo le iniziative sull’arte contemporanea presentiamo una mostra dedicata all’archeologia che trova una felice connessione con l’impianto termale antoniniano.Corni è stato un grande illustratore e ha dedicato il suo lavoro conclusivo a immaginare il volto di Roma imperiale: tra gli ultimi disegni spiccano le Terme di Caracalla di cui l’artista è riuscito a realizzare lo stato di fatto, ma purtroppo non la tavola ricostruttiva a causa della sua scomparsa. Il visitatore sarà protagonista di questo sogno, immergendosi negli antichi monumenti».
Elisabetta Corni ha evidenziato: «Il talento più grande di questo artista è la sua capacità di visione spaziale tridimensionale; la sua missione, quella di spiegare la realtà. Anche oggi, nell’era del digitale, il disegno fatto a mano ha un potere comunicativo molto forte e il disegno di Corni è una sintesi dinamica di molti elementi che dà vita a scorci e prospettive che non sarebbe possibile vedere in altro modo».
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni alle Terme di Caracalla
La mostra è aperta al pubblico dal 3 maggio al 19 ottobre con biglietto ordinario senza sovrapprezzo mostra. I biglietti potranno essere acquistati:
♦ online sul sito Musei Italiani;
♦ da telefono con la app Musei Italiani disponibile su Google Playe suApp Store;
♦ dai totem posizionati all’ingresso del sito (esclusivamente con carte di pagamento elettroniche).
Biografia di Francesco Corni
Francesco Corni (Modena, 14 settembre 1952 – Strambino, 21 gennaio 2020) è stato un disegnatore italiano, specializzato in rilievi archeologici e disegni architettonici ed urbanistici del passato.
Professionalmente si è formato nel 1975 presso la scuola dell’archeologo svizzeroCharles Bonnet come disegnatore e rilevatore archeologico per la Soprintendenza ai beni culturali della Valle d’Aosta.
Le sue tavole sono state inoltre inserite in guide turistiche della Gallimard, della De Agostini e della Mondadori, ovvero si trovano in pannelli didattici nella presentazione di monumenti, punti panoramici e luoghi storici. Ha collaborato all’editoria scolastica Utet e Paravia.
Ha collaborato con il Dipartimento di scienze ambientali e territoriali della Facoltà di architettura di Reggio Calabria per la realizzazione di un ipertesto dal titolo Mediterranea, una città di 250 milioni di abitanti.
Come autore di libri illustrati ha realizzato il volume Aosta la città romana, vincitore del “Premio Willien” nel 1990. Ha illustrato inoltre Il castello di Fenis, I mulini d’Italia, il Gotico in Europa, la trilogia La storia dell’uomo della De Agostini, la collana didattica edita dalla Jaka Book, con i volumi Lebek, una città sul mare nel Nord Europa e Umm El Madayan, una città araba del Nord Africa.
Ha esposto i suoi disegni nella mostra Segni di pietra. Torri, castelli, manieri e residenze. Disegni e osservazioni, presso il Forte di Bard[1].
Caratteristiche del disegno
Presenta un disegno realistico e minuzioso, che si snoda come un racconto, a volte accompagnato dalla parola scritta.
I volumi Lebek, una città sul mare nel Nord Europa e Umm El Madayan, una città araba del Nord Africa sono impostati come descrizioni di città immaginarie, esempio di uno stile urbanistico e architettonico. Nel volume Aosta la città romana, si descrive la fondazione della città e la costruzione dei suoi monumenti principali, l’organizzazione del territorio agricolo e le strade in direzione dei valichi alpini.
Pubblicazioni
Lebek, una città sul mare nel Nord Europa, Jaca Book, 1991
Umm El Madayan, una città araba del Nord Africa, Jaca Book, 1993
Arturo TOSCANINI -Concerto del 14 gennaio 1920 al Teatro AUGUSTEO di ROMA-
Arturo Toscanini Direttore d’orchestra (Parma 1867 – New York 1957). Iniziò la sua carriera come violoncellista, ma si affermò presto come direttore sino a raggiungere un’enorme celebrità. L’interpretazione direttoriale di T., sia in campo teatrale sia in campo concertistico, era caratterizzata da una lucida lettura del testo musicale, associata alla concezione dell’orchestra intesa come uno strumento che deve sempre vibrare in tutte le sue parti. Il suo repertorio era assai vasto, rivelando peraltro una particolare predilezione per i musicisti del sec. 19º, da Beethoven a Brahms, da Verdi a Wagner.
Vita e opere
Studiò nei conservatori di Parma e di Milano, e iniziò la sua carriera come violoncellista nell’orchestra Teatro Regio di Parma e di altre, in Italia e nell’America Meridionale. Diresse per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1886, e si affermò successivamente nei maggiori teatri d’Europa e d’America, sino a raggiungere una celebrità e una considerazione superiori a quelle di qualsiasi altro direttore. Chiamato alla Scala di Milano (1898), vi diresse fino al 1928, anno in cui fu nominato “principal conductor” dell’Orchestra Filarmonica di New York. Direttore al Metropolitan di New York (1908-15), rientrò in Italia nel 1915; nel 1931, essendosi rifiutato di eseguire gli inni ufficiali prima di un concerto a Bologna, fu schiaffeggiato da un gruppo di fascisti. Emigrò allora negli USA, dove fu a capo (1937-54) dell’Orchestra della National Broadcasting Company, costituita appositamente per lui. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, tornò saltuariamente in Italia, e inaugurò la Scala ricostruita dopo i bombardamenti che l’avevano gravemente danneggiata (1946). T. diresse, inoltre, la prima esecuzione assoluta di numerose opere, tra le quali: La Bohème, La fanciulla del West, Turandot di G. Puccini; Nerone di A. Boito
Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920
Arturo Toscanini nasce a Parma il 25 marzo 1867, da Claudio e Paola Montani Toscanini. Il padre, sarto, ha combattuto per l’Unità d’Italia. Per il suo patriottismo ha scontato anche tre anni di carcere, ha perso tutti i denti e fatica a condurre una vita stabile.
Arturo, che da piccolo è molto gracile forse a causa della celiachia, si diploma in Musica al Regio Conservatorio di Parma nel 1885, con i massimi voti in Composizione e Violoncello.
Dopo il diploma, si unisce a una compagnia operistica itinerante come violoncellista. Mentre si trova in tournée in Brasile, viene chiamato a sostituire il direttore d’orchestra durante una rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi. Toscanini, che ha imparato a memoria lo spartito, regala al pubblico una brillante esecuzione. Dato il suo trionfo, è assunto per il resto della stagione, affermandosi dunque per i propri talenti ed abilità d’esecuzione a soli 19 anni.
Debutta in Italia nel novembre 1886, a Torino. Nel proprio Paese d’origine firma molte direzioni d’orchestra, tra cui ad esempio le prime mondiali dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892) e della Bohème di Giacomo Puccini (1896), come pure la prima italiana del Crepuscolo degli dei di Richard Wagner (1895).
Nel 1896, Toscanini conduce per la prima volta a La Scala di Milano un concerto comprendente tra l’altro una sinfonia di Franz Joseph Haydn e lo Schiaccianoci di Pyotr Ilyich Tchaikovsky. Il suo successo cresce quando viene scelto come direttore d’orchestra principale de La Scala nel 1898.
Nel 1897 sposa Carla De Martini. La coppia ha due figli maschi, Walter e Giorgio (che morirà di difterite nel 1906), e due figlie, Wally e Wanda. Wanda sposerà il pianista Vladimir Horowitz, collaboratore del padre.
Nel 1908, Toscanini lascia La Scala per andare a dirigere la New York Metropolitan Opera. Qui conduce un’altra prima mondiale di Puccini, La fanciulla del West, nel 1910. Tornerà in Italia durante la prima guerra mondiale, e suonerà gratuitamente per beneficienza per i soldati al fronte fino alla fine della guerra. Dopo il conflitto, Toscanini porta l’orchestra de La Scala in tournée in Europa, in Canada e negli Stati Uniti. A partire dal 1921 si allontanerà volontariamente dalla direzione de La Scala, che gli costa troppa energia, e soprattutto dall’Italia, dove il fascismo guadagna sempre maggiori consensi. Continua a dirigere in America, apparendo come direttore d’orchestra della New York Philharmonic Orchestra nel 1926. Lavorerà con questa orchestra fino al 1936.
Toscanini si oppone fieramente all’avanzata del fascismo in Europa. In Italia, nel 1931, viene schiaffeggiato per avere rifiutato di eseguire l’inno fascista Giovinezza. È il primo non tedesco a dirigere un’orchestra al festival dedicato a Wagner a Bayreuth, in Germania, ma nel 1933 sceglie di non recarsi a questo evento per protesta contro il regime nazista. Questa vicenda è una delle tante manifestazioni del successo del Maestro Toscanini. Infatti il capillare controllo che il nazismo esercitava su tutte le opinioni, e il fatto che il regime avesse ritenuto Toscanini “incapace di resistere alla propaganda antigermanica”, non avevano impedito che alcuni giornali esprimessero rammarico per la sua mancata partecipazione al festival, e il divieto di trasmettere la sua musica alla radio tedesca fu per qualche tempo sospeso, per convincerlo a cambiare idea.
Nel 1936, Toscanini va in Palestina per dirigere un gruppo di musicisti ebrei che, in collaborazione con il musicista polacco Bronislaw Huberman, ha aiutato a fuggire dall’Europa.
David Sarnoff, il direttore della NBC, fonda la NBC Symphony Orchestra specificamente per Toscanini nel 1937. Toscanini sarà direttore di questa orchestra per 17 anni, ma troverà il tempo di suonare con altre orchestre, da una riva all’altra dell’Atlantico.
Nel 1947 partecipa con entusiasmo alla rinascita de La Scala dopo le distruzioni belliche. È tuttavia già molto anziano.
Sua moglie Carla muore nel 1951. Toscanini dirigerà il suo ultimo concerto dal vivo alla Carnegie Hall il 4 aprile 1954, con l’orchestra sinfonica della NBC. Negli ultimi anni riesaminerà le proprie registrazioni ancora inedite. Il 16 gennaio 1957, all’età di 89 anni, anche Arturo si spegne a casa sua nel quartiere Riverdale di New York.
Giardini che onorano Arturo Toscanini
Benevento – Liceo scientifico Rummo
Cittadella
Fiumicino – IC Colombo
Frattamaggiore – Liceo Miranda
Roma – Auditorium Parco della Musica
Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920Arturo TOSCANINI in Concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA 14 gennaio 1920
Renata Viganò scrittrice, poetessa e partigiana –Nacque a Bologna nel 1900 e a soli 12 anni, nel 1912, esordì con la sua prima raccolta di poesie dal titolo Ginestra in fiore, seguita, dopo tre anni, da Piccola Fiamma.
Ma oltre alla poesia, la Viganò si dedicò anche alla prosa e raggiunse l’apice del suo successo con L’Agnese va a morire, pubblicato da Einaudi nel 1949, un romanzo neorealistico ispirato alla Resistenza che ottenne il Premio Viareggio. La scrittrice partecipò, infatti, alla lotta partigiana collaborando come infermiera e scrivendo per la stampa clandestina.
Vogliamo ricordarla con voi pubblicando alcune sue poesie:
Cantata di una giovane mondina-
Mondine, mondine,
cuore della risaia.
Mio caro padre, mia cara madre,
io sono quaggiù per trenta giorni.
Appena arrivata mi sento già stanca;
chi sa come sarò al ritorno.
Si mangia poco, si beve a stento,
l’acqua fresca la troviamo di rado.
Eppure, mamma, son tanto contenta
d’esser venuta per questa strada.
Mondine, mondine,
amore della risaia.
Con le gambe sempre nell’acqua,
non so perché, vien sete in bocca.
Sono, al tramonto, una bestia stracca,
che si butta dove te tocca.
Paglia nuda e fitti respiri
nel camerone con tante zanzare.
Se per stanchezza non possiamo dormire,
qualche volta ci mettiamo a cantare.
Mondine, mondine,
fiore della risaia.
È bello, mamma, mondare il riso,
chè il riso è bianco e i padroni son neri.
Essi hanno in terra il paradiso,
noi camminiamo per bruschi sentieri.
Ma i nostri sentieri ci portano avanti,
e andiamo incontro a più dolce stagione.
Essi son pochi e noi siamo tanti,
e poco giova sentirsi padroni.
Mondine, mondine,
dolore della risaia.
Di sera guardo sulla pianura
quando si aprono in alto le stelle.
Non è il lavoro che fa paura,
chè, di questo, son figlia e sorella.
Mio caro padre, mia cara madre,
io vi ringrazio di essere forte.
Andiamo insieme su un’unica strada,
e la bandiera la portano i morti.
Mondine, mondine,
onore della risaia.
L’usignolo-
L’usignolo solo
canta triste fra i rami,
e pare che richiami
un sogno già svanito
un sogno già sfiorito.
Canta pian l’usignolo.
La ginestra-
Nasce sul brullo monte,
fra i roveti ed i sassi,
fragile come un bimbo
che muove i primi passi.
La sua fragil corolla
rallegra il senteruolo,
rallegra il pastorello
colle caprette, solo.
Oh! Ginestra ignorata
è breve la sua vita,
ella nasce in estate,
d’autunno è già sfiorita.
E uno strano contrasto
lo stelo col fior fa;
quello forte, robusto,
questo fragilità.
Renata Viganò si appassionò fin da piccola alla letteratura e coltivava un sogno: fare da grande il medico. Tuttavia le difficoltà economiche subentrate in famiglia la indussero ad interrompere il liceo e, con senso del sacrificio e una maturazione affrettata e non voluta, ad entrare nel mondo del lavoro come inserviente e poi infermiera negli ospedali bolognesi.
Questo suo impegno al servizio dei bisognosi non le impedì di scrivere per quotidianie periodici, elzeviri, poesie, racconti sino all’8 settembre 1943.
Con la firma dell’armistizio la sua vita ebbe una svolta esistenziale: assieme al marito Antonio Meluschi e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipò alla lotta partigianacome staffetta, infermiera e collaborando alla stampa clandestina.
Di questo periodo disagiato ma intriso di sano idealismo esistenziale fu pervasa la susseguente produzione letteraria. L’Agnese va a morire (1949), romanzo tradotto in quattordici lingue, rappresentò il punto più alto; vinse il secondo premio al Viareggio[2]e costituì il soggetto per il film omonimo diretto da Giuliano Montaldo.
Il romanzo racconta vicende partigiane con onesta semplicità da cronista e spirito di sincera adesione agli eventi, e fu considerato negli anni del dopoguerra un esempio, una testimonianza della narrativaneorealista.
Vale la pena di ricordare, tra le opere della Viganò, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza (1955), ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute, e Matrimonio in brigata (1976), una raccolta di efficaci racconti partigiani, uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Renata Viganò fu assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.
Renata Viganò
Opere
Ginestra in fiore. Liriche, Bologna, Beltrami, 1913.
Piccola fiamma. Liriche (1913-1915), Milano, Alfieri & Lacroix, 1916.
Il lume spento, Milano, Quaderni di poesia, 1933.
L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1949.
Mondine, Modena, Tip. Modenesi, 1952.
Arriva la cicogna, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1954.
Donne della Resistenza, Bologna, STEB, 1955. [Ritratti di donne partigiane pubblicato in occasione della Festa dell’Unità di Bologna 1955]
Ho conosciuto Ciro, Bologna, Tecnografica emiliana, 1959.
Una storia di ragazze, Milano, Del Duca, 1962.
Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista, 1976.
Rosario. Libera interpretazione dei quindici misteri del rosario scritta da me, non credente, per puro amore di leggenda e poesia, Bologna, A.N.P.I., 1984. [poesie pubblicate dall’ANPI Bologna in 100 copie, con incisioni di Guttuso, Covili].
Sonetti inediti, Bologna, A.N.P.I., 1984.
La bambola brutta. Storia di Eloisa partigiana, illustrazioni Viola Niccolai, a cura di “Brigata Viganò”: Dafne Carletti, Sofia Fiore, Margherita Occhilupo, Marta Selleri, Elena Sofia Tarozzi e Tiziana Roversi, Bologna, Tipografia Negri, 2017. [Nuova edizione del racconto pubblicato la prima volta in “Pioniere”, 1960]
Nel 1925 Salvador Dali dipinge questo “Ritratto di mio padre”. E’ un’opera complessa perché complesso è il rapporto col padre.
Don Salvador, padre del Salvador pittore, era un notaio: diligente, rigido, severo, presente, oppressivo
Non era un rapporto semplice ma pieno di complicazioni, fra amore e repressione, fra il bisogno di ribellione del giovane Salvador e il bisogno di avere l’attenzione di un genitore autorevole nella sua comunità
Salvador Dali RITRATTO DI MIO PADRE
Il ritratto esprime questa complessità. Don Salvador tiene in mano una pipa ma appare tranquillo, solido (come un muro, la sua giacca grigia quasi si fonde col muro retrostante), calmo. Le sue mani sono possenti e sicure, il suo sguardo deciso, la sua espressione controllata.
E’ un uomo forte, un uomo solido, un uomo che comanda, un uomo che è un riferimento per gli altri: la composizione gira tutta intorno a lui, lo sfondo è quasi annullato per lasciare spazio a lui
Al tempo stesso, c’è un senso di durezza, di ostilità, di rimprovero. Non c’è dolcezza in quegli occhi, sembra sul punto di pronunciare parole di richiamo al dovere. Il gioco di chiaroscuro sul suo volto lo rende sfuggente e vagamente sinistro
Il pittore che ritrae suo padre è anche il bimbo che guarda il suo genitore, fra il bisogno di averne l’attenzione, la voglia di sfuggire alle sue regole e la paura del suo giudizio.
Breve biografia d Salvat Dalì-Pittore, scrittore e poeta, nato a Figueras (Spagna) l’11 marzo 1904. Dopo aver frequentato l’Accademia di belle arti di Madrid, dalla quale fu espulso, si stabilì a Parigi. Nel 1929 aderì al movimento surrealista che da lui ebbe un nuovo, forte sviluppo. Allo scoppio della seconda Guerra mondiale, nel 1939, riparò negli S. U., dove ridusse la sua attività surrealista alle esigenze di un pubblico mondano. Vasta la sua opera letteraria (La femme visible, Parigi 1930; L’amour et la mémoire, 1931; Babaouo, scénario précédé d’un abrégé d’une histoire critique du cinéma et suivi de Guillaume Tell, ballet portugais, ivi 1932; La conquête de l’irrationel, ivi 1935; Métamorphoses de Narcisse, ivi 1936; The secret life of S. D., New York 1942; Hidden Faces, New York 1944), cinematografica (sceneggiatura, insieme con Luis Bunuel, dei film: Un chien andalou, 1939, e L’âge d’or, 1931), pittorica (Gli accomodamenti dei desideri, 1929; La persistenza della memoria, 1931, Mus. of Mod. Art, New York; Medio burocrate atmosferocefalico nell’atto di mungere un’arpa craniale, 1934; Costruzione morbida con fagiuoli bolliti; preannunzio di guerra civile, 1936; Famiglia di centauri marsupiali, 1941; ecc.); di inventore e costruttore di “oggetti a funzionamento simbolico”, oggetti, cioè, che assunti al di fuori del loro uso consueto si caricano di analogie e rispondenze subconsce. Tutta la sua opera è fondata sull’attività “paranoico-critica”, definita dal D. come “metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basata sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti”. L’evocazione pesante e ossessiva in senso fisico – attraverso un verismo spesso repugnante, sostenuto da un’eccezionale abilità tecnica – del senso di disfacimento della materia, toglie al D., che tuttavia ha esercitato un sensibile influsso sul gusto contemporaneo, ogni possibilità di creazione d’arte.
Descrizione del libro di Luigi Inzaghi. La vita di Beniamino Gigli è stata tra le più affascinanti del secolo XX. Non bello di forme come Franco Corelli, giudicato anzi troppo grasso e brutto per comparire sulle scene del Colón, Gigli cantava invece ammirevolmente più di qualsiasi altro tenore del suo tempo, escluso Caruso, in quanto possedeva la virilità di Martinelli, il pathos di Caruso, la liquidità di Bonci, il temperamento di Crimi, la grazia di Gayarre, la dolcezza di Angelo Masini e il calore di Roberto Stagno. I suoi modi di fare contrastavano grandemente da quelli convenzionali degli altri tenori, grazie alla sua voce che risuonava piena, ricca ed espressiva nel timbro. Là dove limitò il suo ardore per giovare all’arte, sfoggiò in cambio delle meravigliose mezze-voci e delle sonore note di testa. Non cercò neppure di convincere il pubblico presentando sempre una figura idilliaca o di appassionato fervore, né pronunciare un francese perfetto, ma anche in ciò la sua approssimazione meritava un elogio. Là dove ostentava note acute, in barba al dettato melodico del compositore, venne stigmatizzato dai critici ma apprezzato da Cilèa e da Alfano che approvarono le modifiche al loro genio creativo. I suoi do di petto nella pira verdiana furono alquanto arrischiati, arrivando bene solamente al Si naturale: il resto lo lasciava ai suoi falsettoni più arditi! Sposo non integerrimo, oltre ad aver cantato in 62 diverse opere di ogni genere dal 1907 al 1953, beneficò una quantità enorme di persone, di enti privati e pubblici, da meritargli medaglie, diplomi, onorificenze da capi di Stato e dalla Chiesa Cattolica. Accusato di collaborazionismo con nazisti e fascisti, venne escluso dal grande concerto toscaniniano che inaugurò il Teatro alla Scala di Milano nel primo dopoguerra. Avvicinatosi allora alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, accettò la candidatura a deputato delle Marche.
Il libro contiene oltre 300 illustrazioni – Le origini e gli studi – Le famiglie – La carriera – Il litigio col Metropolitan – I concerti – Attore cinematografico – La discografia – La Musica Sacra – Città delle esibizioni gigliane – Le opere della carriera – Cronologia – Documenti – Registrazioni – Film e cortometraggi
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Tawara Machi -Mattina d’agosto-Rivista Nuovi Argomenti
La Poesia di Tawara Machi -Mattina d’agosto compone la prima sezione del canzoniere d’amore L’anniversario dell’insalata (1987), della poetessa giapponese Tawara Machi, scritto quando aveva ventisei anni. Il successo commerciale dell’opera testimonia come la giovanissima scrittrice abbia saputo dare voce al vocabolario emotivo di una nuova generazione. L’uso della forma metrica del tanka, inoltre, fa dialogare l’opera con l’eredità della poesia giapponese classica. Pubblichiamo alcuni estratti, nelle traduzioni inedite di Damiana De Gennaro.
Tawara Machi
この曲と決めて海岸沿いの道とばす君なり「ホテルカリフォルニア」
tu sei questo brano
che scorre con il lungomare – Hotel California
陽の当たる壁にもたれて座りおり平行線の吾と君の足
i raggi colpiscono la parete
a cui siamo poggiati –
le nostre gambe, linee parallele
ぼってりとだ円の太陽自らの重みに耐えぬように落ちゆく
come se non sopportasse
il suo stesso peso,
il sole, ovale, sta cadendo
オレンジの空の真下の九十九里モノクロームの君に寄り添う
arancione, il cielo
sulla spiaggia di Kujūkuri –
mi avvicino a te, monocromo
あいみてののちの心の夕まぐれ君だけがいる風景である
fa sera nel mio cuore
quando te ne vai –
solo tu sei nel paesaggio
君を待つ土曜日なりき待つという時間を食べて女は生きる
un altro sabato ad attenderti –
le donne vivono mangiando
il tempo dell’attesa
球場に作り出される真昼間を近景として我ら華やぐ
come la luce di mezzogiorno
nel campo da baseball
noi splendiamo
「また電話しろよ」「待ってろ」いつもいつも命令形で愛を言う君
telefonami, poi; aspetta
si coniuga la lingua del tuo amore
sempre all’imperativo
一生かけて愛してみたき人といて虚実皮膜の論を寂しむ
pensando al labile confine
tra reale e irreale, il dolore
di volerti amare per la vita
いつか君が歌ったこんな夕暮れのハートブレイクホテルの灯り
una volta, nella luce
di un tramonto simile, cantavi Heartbreak Hotel
愛人でいいのとうたう歌手がいて言ってくれるじゃないのと思う
va bene anche solo essere amanti
dice qualcuno in una canzone –
ma ne avrebbe il coraggio?
Tawara Machi
Tawara Machi (俵万智) nasce a Osaka il 31 dicembre del 1962. Si iscrive alla facoltà di lettere presso l’Università Waseda, dove incontra il suo mentore Sasaki Yakitsuna. Nel 1986 le 50 poesie raccolte sotto il titolo di Mattina d’agosto si classificano al primo posto della trentaduesima edizione del Premio Kadokawa. L’anno successivo viene pubblicato il suo primo libro, Sarada kinenbi, che diviene subito best-seller e fenomeno letterario. Tra le sue altre opere, ricordiamo Kaze no te no hira, Chokoreto kakumin, Pu-san no hana, Ore ga Mario, Mirai no Saizu.
Fonte – Nuovi Argomenti-
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Nuovi Argomenti la più prestigiosa rivista letteraria italiana, fondata nel 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci.
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Scritto con Jan Brachmann-Traduzione di Nicola Cattò
Zecchini Editore
Descrizione del libro del grande David Geringas-Spesso le autobiografie di grandi artisti si riassumono in una serie di dati, persone e luoghi di relativa importanza per il lettore: del tutto diverso è quanto si legge nelle “Memorie di un violoncellista” (questo il sottotitolo del volume scritto con Jan Brachmann) del grande David Geringas, l’allievo prediletto di Rostropovič, vincitore del Premio Čajkovskij nel 1970. La sua vita è anche il riflesso della storia, anzi della Grande Storia, fra l’infanzia in Lituania, gli studi nelle Mosca sovietica, l’emigrazione in Germania (con una lunga parentesi verso l’Italia, paese da Geringas amatissimo) e la lunga carriera di violoncellista e insegnante, in un continuo scambio con tutti i compositori più importanti del secondo ’900, che hanno scritto per lui. Nella vita di David Geringas, insomma, c’è la storia musicale e culturale degli ultimi 70 anni: e non è poco.
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Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario –
Così descrive Arturo Graf lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Arturo Graf -Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
La vetta di Arturo Graf
Avanti! pochi altri passi
e poi sarem sulla vetta;
avanti pur senza fretta,
in mezzo agli sterpi e ai sassi!
La vetta è là, tutta sgombra,
tutta serena nel sole,
lungi da quando si duole,
fuor dalle nebbie e dall’ombra.
Anima inquieta e stanca,
non ti rivolgere indietro:
in basso il vapore tetro,
in alto la luce bianca.
Voi, cui travaglia ed opprime
un cruccio greve e nascoso,
ponete mente: riposo
non è, se non sulle cime.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
La poesia che state per leggere è stata scritta da Arturo Graf il 19 gennaio 1848 per il suo caro micino. Dolce, spiritosa, scanzonata, è una vera e propria dichiarazione d’amore all’amico a quattro zampe.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
mentre al quieto lume
d’una lampa modello,
io, com’è mio costume,
sui libri mi scervello;
mentre assassino l’ore
cercando il pel nell’uovo,
o con l’antico errore
affastellando il nuovo;
tu vieni quatto quatto
a farmi compagnia,
e mi schizzi d’un tratto
sopra la scrivania.
Ti muovi a coda ritta
fra libri e scartafacci,
poi sulla carta scritta
placido t’accovacci.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
io prendo gran satolle
di testi con le note;
tu rimani in panciolle
sulle morbide piote;
se beato sonnecchi,
pieno di scienza infusa,
o mi guardi sottecchi,
sbadigli e fai le fusa.
E non so se m’inganno:
ma talvolta direi
che tu, così soppanno,
ridi de’ fatti miei.
Poi, quando finalmente
ci vengono a chiamare,
e come l’altra gente
andiamo a desinare;
io mangio quanto un grillo
consunto d’etisia;
tu pappi franco e arzillo,
la tua parte e la mia.
PRIMAVERA
(Arturo Graf)
Torna l’aprile e si rinnova il mondo,
e tutta un riso la natura appare:
de’ primi fiori inghirlandate, o care
fanciulle, il crine inanellato e biondo.
Torna l’aprile ed in leggiadre gare
apre natura il suo spirto profondo:
sciogliete, o care vergini, a giocondo
inno le voci armoniose e chiare.
Esultate, esultate al dolce orezzo.
Ché a voi s’addice e a vostra età fiorita,
obblivïosa di una certa sorte:
non a me, cui dà noja e fa ribrezzo
questo rigoglio di novella vita
intesa solo a preparar la morte.
SE SI POTESSE
Se si potesse in un tino
spremer con agili dita
la poesia dalla vita
come dai grappoli il vino!
E innebrïarsi di quella
come d’un vino giocondo,
ricreando il vecchio mondo
in una ebrezza novella!
Spremer la dolce follia
da tutti i grappoli!
Bere in un pulito bicchiere,
e i graspi buttarli via!
Bere, guardando allo insù!
Poi, dopo avere bevuto,
dire: bicchier, ti saluto!
Non voglio bevere più.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Pensiero fulmineo”
Talora, quando più secreta e folta
la notte incombe e l’emisfero tace.
Io, da vana deluso ombra di pace,
gli sparsi miei pensier chiamo a raccolta.
E la speranza suscito che giace
sotto le antiche ceneri sepolta,
e di tesser mi studio anco una volta
bella vita il sottil sogno fallace.
Ma d’improvviso, sì ch’io non l’avverto,
piomba dall’alto sulla mia follia
fulminando il pensier dell’infinito:
dissipa il frale e dilicato ordito,
e lascia dentro a me l’anima mia
fatta un gorgo di mar, fatta un deserto. Arturo Graf
SERA
Dalla chiesetta alpestre
giunge il clamor dell’ora:
al ciel che si scolora
olezzan le ginestre.
Una quïete stanca
scende implorata ai vivi:
la luce ai campi, ai clivi
gradatamente manca.
Un vertice selvaggio,
scabra, sassosa mole,
riceve ancor del sole
il moribondo raggio;
e sul pendio, raccolti
dentro un recinto breve,
sotto la terra greve
riposano i sepolti.
Un divino silenzio
tutte le cose ammanta,
e l’anime rincanta
beverate d’assenzio.
Solo, tra l’erbe, il grillo,
salutando la sera,
scande la tiritera
del suo gracile trillo;
nentre dall’erme lande
il mite odor del fieno
sotto il cielo sereno
lento s’eleva e spande.
Immortale favilla,
nitida gemma ardente,
espero in occidente,
là, sulla selva, brilla.
in quell’innamorato
lume il mio sguardo mira:
l’anima mia delira
risognando il passato.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Le Campane di Lucerna”
Il suono delle campane di Lucerna ha colpito l’animo del poeta. La loro voce romba cupa, ma quel rombo giunge gradito all’orecchio di colui che soffre. è l’annuncio di un regno di pace, di un al di là sereno. E nel cuore nasce vivo, acuto, pungente il desiderio della vita eterna. La lirica si chiude con una quartina altamente poetica. Leggetela attentamente: sono versi musicali, pare quasi di sentire l’eco del rombo di quelle campane.
Le campane di Lucerna
romban cupe in cieli oscuri:
agli afflitti, ai morituri
fan sognar la vita eterna.
La lor voce è come un tuono
che sorvoli ai monti, ai piani,
conclamando accenti arcani
di corruccio e di perdono.
Quei che prega e si prosterna,
quei che nega e si rivolta,
ciascun freme allor che ascolta
le campane di Lucerna.
A quel suono che accommiata
l’ore stanche, i dì consunti,
treman l’ossa dei defunti
nella terra consacrata (1)
O desio di vita eterna,
come pungi e come aneli,
quando rombano ne’ cieli
le campane di Lucerna!
1) nel cimitero
“Superstite”
Della chiesa superba
questo avanzo rimane,
quattro livide mura,
un arco immane,
la distesa scalea, vestita d’erba.
Dal cielo guata la luna l’ignudo altar
gl’inscritti sepolcri
e il muto pulpito e i diritti pilastri
cui la fosca edera abbruna,
e gli altri vaneggianti finestroni all’ingiro,
ove sui fondo oro e di zaffiro
un giorno sfavillar
Madonne e Santi.
Tra le deserte mura tutto è silenzio e morte
d’una vita che fu, d’un altra sorte
un solo e vivo testimonio or dura dietro
alla vota occhiaia dell’oriuolo incombe
alla ruina e le forbite trombe ancor lo smisurato
organo appaia.
Ancor grandeggia e brilla sotto la buia volta,
e par che intuoni a un popolo che ascolta
l’orror del Dies Irae Dies Illa.
Me ne’ fianchi l’intendo fiato più non comprime,
più non rompe terribile e sublime
dalle cento sue bocche il canto immenso
e sol malora, quando nei cilindri sonori s’ingorga un venticel,
l’aria di fuori freme d’un canto doloroso e blando.
E sulla sponda estrema della grigia parete
alcun pallido fior morto di sete
sul flessuoso stel palpita e trema.
“Fantasmi”
Mezzanotte: fremendo l’orïuolo
i lenti squilli nel silenzio esala;
è mezzanotte; pensieroso e solo
io seggo in mezzo alla profonda sala.
Splende d’un lume abbacinato e fioco
delle finestre il gotico traforo;
come una nebbia di stemprato foco
raggian nel buio i lacunari d’oro.
Nel ciel cui spazza il gelido rovaio,
dietro i frastagli d’una guglia bruna,
come uno scudo di forbito acciaio
il disco sale della colma luna.
È mezzanotte; una mortal quïete
il freddo e sonnolento aere ingombra;
un organo s’addossa alla parete,
e con le terse canne allistan l’ombra.
Io guardo innanzi a me lo steso arazzo,
e a poco a poco, trasparenti e pure,
veggo apparir sul fondo pavonazzo,
colorirsi e passar care figure.
Larve di donne innamorate e morte,
coronate di gigli e d’amaranti,
belle, soavi, in cheta estasi assorte,
piene di carità nei lor sembianti.
Passan lente e leggiere, in compagnia,
e tornano a vanir nell’aer scuro;
io veggo la dipinta anima mia
istorïarsi a mano a man sul muro.
L’organo si ridesta; entro le cave
trombe gorgoglia un gemebondo nato;
trema un canto nell’aria arcano e grave,
il canto della morte e del passato.
“Pallida Mors”
Mentre intorno ai fioriti e scintillanti
deschi sediam entro dorata sala,
e dalle tazze traboccanti esala
il sonoro e gentil spirto dei canti;
mentre ferve la gioia, e accende il volto
alle fanciulle e scalda il sen di neve,
dietro i serici arazzi il passo greve
e il riso acuto io della morte ascolto.
E gli occhi, pieno di sgomento il core,
ficco nei viso a mi orïuol beffardo,
e il negro, maledetto indice guardo
per l’angusto volar cerchio dell’ore.
Mi guardo a fianco, e sull’amata fronte
veggo di tratto inaridir le rose,
e spegnersi il balen dell’amorose
luci che al mio piacere eran sì pronte;
illividir le tempie ed il soave
labbro farsi di gel, sciorsi le chiome,
e sulla sedia arrovesciarsi, come
morto, il bel corpo illanguidito e grave.
E mi s’agghiaccia il cor; falso né vero
più non discerno, non rido, non piango;
ma, con le braccia al sen, muto rimango,
immobile, a guatar l’empio mistero.
“Simulacro”
Dal marmoreo fonte
ritto si leva il bianco simulacro:
ancora par che dal selvoso monte
Diana scenda al gelido lavacro.
Le fredde ignude membra
un arcano e sottil spirito avviva;
ancora sui divini omeri sembra
che balzi e suoni la faretra argiva.
Sotto l’arco del ciglio
immobilmente la pupilli guata,
guata dell’onde il lucido scompiglio
e l’ozïosa danza interminata.
Sulla fronte superba
un’ombra di pensier tacito vaga,
misterïoso desiderio, acerba
reminiscenza, fantasia presaga.
Dimmi, ricordi i chiari
gioghi d’Olimpo, il ciel liquido immenso?
De’ numi il lieto popolo, gli altari
su cui bruciava l’odorato incenso?
Ricordi tu le selve
dense, al fragor dell’irruente caccia
alto sonanti, e le inseguite belve,
e i can travolti sulla lunga traccia?
Ricordi i lieti e vaghi
recessi dove dal sanguigno ludo
posavi? i monti solitarii, i laghi
ove immergevi il divin corpo ignudo?
Ricordi i baci ardenti
d’Endimïone e il venturato scoglio?
del mal vinto pudore i turbamenti
soavi e il novo femminile orgoglio?
Ricordi ancorar? Or dove,
dov’è quel tempo e quel felice mondo?
ove il tuo culto e il nume tuo giocondo,
superba figlia dell’egioco Giove?
Buon per te che sei morta!
Il pellegrin dolente e affaticato
ti passa innanzi, e meditando il fato
de’ numi erge la fronte e si conforta.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Teschio”
In mezzo a una pianura erma e scoverta
sorge la gran piramide d’un monte,
che, solcata da’ fulmini, la fronte
avventa al cielo minacciosa ed erta.
L’uom di lassù potria mirar le glorie
di cinquanta città: opere e fasti
d’antiene genti, alte ruine e vasti
regni, teatro di famose istorie.
Sopra una guglia dritta acuminata,
a cui l’aquila il vol drizzar non osa,
un teschio ignudo e solitario posa,
e muto spettator dall’alto guata.
E pensa? E par così meditabondo!
e così triste! O nudo teschio e vano,
o teschio pien d’un gran pensiero arcano,
dimmi, per dio, che pensi tu del mondo?
“Sangue”
Strano licor! nell’infingarda creta
qual’arte arcana, qual poter t’instilla?
Vive per te la sciagurata argilla;
vive: il ciel può saper quanto n’è lieta.
Nullo acume di mente o di pupilla
può penetrar la tua virtù secreta;
bagni l’inerte fibra e irrequieta
vampa l’imperscrutata anima brilla.
Tu fomenti il pensier; dal cor profondo
reggi estuoso della vita il gioco,
mesci gli effetti in turbolente gare.
Strano licore! ogni tua stilla è un mondo;
e non conosce i tuoi fervori il foco,
e non conosce le tue rabbie il mare.
“Lo specchio”
Nella mia cameretta ove l’amica
luna dal ciel traguarda e il sol morente,
sovra il camin pende uno specchio, antica
d’arte venezïana opra lucente.
L’immacolato vetro intorno intorno
di negro legno una cornice accoglie,
ove industre scalpel, con stile adorno,
fiori e frutta intagliò, viticci e foglie.
D’empia Medusa al negro cerchio in cima
la turpe faccia boccheggiar si vede;
scolta è nel legno e viva altri la stima,
e dall’aspetto orribile recede.
Lo specchio d’un baglior pallido brilla
da soli antichi nel cristal piovuto;
oh, la sua grande, immobile pupilla
sa dio le orribil cose che ha veduto,
nei marmorei palazzi, entro secrete
stanze, o di simulati usci pel vano,
lucida e tonda in mezzo alla parete,
che sorda, muta, custodia l’arcano!
Or più non serba e non respinge indietro
larva né segno del veduto mondo;
lucido, eguale, immacolato il vetro
si stende come un lago senza fondo.
Talor mi pongo a riguardar furtivo
entro il suo lume, quando il giorno muore,
e nel vedermi, e nel sentirmi vivo,
d’orror mi riempio, mi s’agghiaccia il core.
E l’empia Gorgo mi saetta addosso
l’atroce sguardo e mi trapassa dentro;
vorrei fuggire e il piè mover non posso,
immobil guardo ed impietrar mi sento
Fonte-Poesie pubblicate da Lunaria
Arturo Graf: una guida verso la ricorrenza -di Fabio Cecchi-
Fabio Cecchi
Nell’ombra che attende. Passata la ricorrenza legata al cantore sammaurese, i suoi ben noti versi ci introducono quella oramai prossima dell’altrettanto illustre (all’epoca, s’intende) Arturo Graf (1848-1913). Il padre, di provenienza teutonica, poté fornirgli il cognome che, anomalo nel panorama di casa nostra, è ed è stato d’aiuto alla folla nel consolidarsi in mente. Se sembrava prerogativa di molte voci romantiche e dei personaggi loro una giovinezza nomade, anche a Graf toccò un biculturalismo, lui che si insedierà a ponte tra le esperienze letterarie dei secoli XIX e XX. La biblioteca della facoltà di Lettere di Torino ne reca oggi il nome, e ivi risiede inoltre, come da volontà, il patrimonio culturale della sua persona:
«Gode lo studio mio, se nol sapete, di più comodità, di varii pregi:
quattro migliaia di volumi egregi veston dall’alto al basso la parete.
C’è la bibbia in tedesco ed in latino, con le Mille e una Notte e il Pecorone;
c’è con l’Emilio l’Imitazione; ci sono l’opre di Pietro Aretino.» (da Notte di Natale, 1893)
Nel capoluogo torinese Graf esercitò per un largo ventennio l’insegnamento della letteratura italiana, formando tra i molti Attilio Momigliano, Francesco Pastonchi e Giovanni Cena. Prima di ciò riuscì ad apporre la firma su pagine di giornali letterari sempre con base a Torino; lo sappiamo accanto a un redattore quale Rodolfo Renier e già definito “di ingegno squisito e coltura molta” da parte di Antonio Labriola.
Nelle aule accademiche il suo nome circola oggi nella veste di storico della letteratura e dei costumi, rendendo onore agli sforzi di lui ricercatore ma eludendo quella produzione in versi che per le scuole secondarie è assolutamente nulla cosa (discorso estensibile a molteplici altri casi).
Forte del sodalizio con Hermann Loescher egli produsse una buona lista di scritti, alcuni mai tramontati, come Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, altri noti a pochi come La poesia popolare rumena; molte lezioni sulla Commedia sono poi confluite in libelli dati prontamente alle stampe. Questo metterà il nostro in contatto epistolare con un professore in erba che al vate fiorentino e nazionale riservava uno dei tavoli di studi nella dimora di Castelvecchio, e troveremo Zvanì citarlo con devozione nelle postille ai Poemi Conviviali. Per finire, elenchiamo un romanzo ben accolto, Il riscatto, ed un libro, Ecce Homo, piuttosto cospicuo considerando che raccoglie aforismi e brevi detti, scaturiti sia dall’ingegno che dalla coscienza.
STILE E MATERIA POETICA
Cosa abbiamo sott’occhio? Sonetti, innanzitutto, regolari ma anche minimi. Gli endecasillabi, affiancati talvolta ai più capienti alessandrini, prevalgono nella prima fase, fin che il poeta sposa il verso breve (settenari, ottonari) prima in Morgana poi nelle Rime della Selva per l’intero canzoniere.
«Semplice, chiaro, preciso è, pur nel verso, il mio dire.
Non so, non voglio mentire, né la parola, né il viso.» (Rime della Selva, Prologo)
Vorrei ora riportare un passaggio da una mia sortita in un dizionario degli autori. «Il Graf – vi è scritto – è tra i pochissimi a uscire indenne dalla lezione carducciana […]». Del tutto vero: nessuna trattazione politico-patriottica, con la materia storica che cede la scena a quella mitologica (Tantalo, Invocazione a Venere, Flora Nivalis, la Fenice). Neppure troveremo, netta distinzione dallo Zanella (per il quale, si ricorda, il nostro stilò una sentita prefazione allegata alle uscite postume per Le Monnier) carmi celebrativi con dedica a esponenti delle alte classi.
Invece, al pari del corrispondente romano Domenico Gnoli, e rispondendo ad un nascente astro d’origine romagnola, Graf tratteggia molto abilmente squarci naturali e paesaggi, spendendo senza riserbo lodi e paragoni per il fonte e l’invitta cima, la tea e gli arguti e festanti augelli.
Dove Graf può accostarsi al nostro primo vincitor del Nobel e, senza tralasciare numerosi passaggi appartenenti a Psiche, per molti vetta della poesia di Giovanni Prati, è evidente l’intento d’innalzare la posizione dell’intellettuale. Questi detiene il sacro compito di diffondere la ragione, di fronte un volgo reticente e dalla minima volontà di accogliere precetti ed inviti. Di seguito si allega una selezione certamente indicativa al riguardo: “diffida della garrula plebe”; “addio, pestifera proda”; “vive nell’ora presente, nell’ora corta e declive, senza saper come vive, per la più parte la gente…” e ci par lecito aggiungere: “O martire cruento, sai tu di che genìa / pieno ed infetto sia, il mondo ch’hai redento?” (da Ad un Crocifisso lungo la Via).
La questione pare aver coinvolto pure il Rapisardi, il quale assai di rado ebbe ad astenersi dall’emetter voce a nome della collettività. A dimostrazione, ne le ammirevoli Poesie religiose (1887, Catania) si alternano espressioni quali “gagliarda invitta stirpe” ed altre del tipo “turba rea” e “vili objetti del volgo”.
Con Medusa in molti cominciarono e chiusero con l’autore. Egli salta difatti alle cronache come poeta del male di vivere, e non nel senso tanto caro e fruttuoso ai poetucoli d’oggi. Ivi s’apprende che all’affermazione dello studioso corrisponde una sfera sociale scarna tutt’altro che esaltante.
La terzina che segue, impostata in prima persona, lo vede esporre con scarsa ritrosia la negatività del momento.
«Così vivo e mi sfaccio e mi consumo,
La notte il bujo, il dì guardo la polve,
Piego le braccia neghittose e aspetto» (Terrore)
Una soggettività non celata quindi, che riesce ad adombrare i cauti tinteggiamenti leopardiani, così riecheggianti di Petrarca ed altri nomi della classicità. Una valutazione sarà certamente soggetta ai punti di vista, e per chi “impegnato” anche alla corrente d’appartenenza. Ancora:
«Quand’io contemplo la funesta arena
ove men perde chi più presto muore
[…]
sento stringermi il cor, sento piu scura
farsi la notte dello stanco ingegno.
Ed un pensiero immobile m’assedia
e prorompo in un grido: Empia Natura,
quanto ha mai da durar questa tragedia?» (Umana tragedia)
Inevitabile per i viventi l’incontro con oppressione e dolore, vengono innalzati temibili appelli nichilisti:
«Taciam noi pur! regni il silenzio dove
regna destino forsennato, e immenso
empia di sé l’inesorabil etra.» (Omnia ruunt)
Il poeta, parte attiva in parecchi dibattiti del suo tempo anche di genere filosofico-epistemologico, giunge – dopo spasmodiche deviazioni di percorso – a proclamarsi cattolico di confessione. Per una Fede, opuscolo dato alle stampe nel 1906, espone le motivazioni dietro la scelta. È insieme curioso e lodevole constatare però come nella produzione lirica ciò non provochi stravolgimenti o un modo differente di porsi nei confronti dell’Ordine delle Cose o di Sé. Ne Le Rime della Selva, con cui Graf sceglie preventivamente di congedarsi dal vasto pubblico lasciando gli ultimissimi esercizi alle pagine della «Nuova Antologia», l’ardore iniziale s’ammorza sfociando ripetutamente in un distacco nostalgico ma coscienzioso.
«Il benvenuto non posso, non posso dartelo come
fanno, per dir qualche nome, lo sgricciolo e il pettirosso.
[…]
Vecchio e finito. Dio buono! Chi è che sa dirmi al vero
ov’abbian lor cimitero i giorni che più non sono?» (Al novo giorno)
Non possiamo tuttavia attestare la sommessa invocazione degli ultimi passaggi come forzata e dissonante. In linea col sentimento espresso notiamo meglio calzare tutt’altra esclamazione, se non che teniamo in conto il codice etico dei letterati del tempo.
Ci serviamo ad ogni modo dei precedenti stralci al fine di una sintesi: un linguaggio calibrato e spesso steso con originalità, una certa tensione emotiva e di pensiero, un’atmosfera complessiva che risente di molta esplorazione, dunque delle cadute e degli slanci di questa.
CAMMINO POETICO
Lungo il Novecento parecchi poeti di valore e risonanza riuscirono a vedere le loro fatiche riunite in volume unico (in altri casi, come per Carducci e Cena, si optò per gli scritti completi).
Il primo omaggio postumo sfornato dalla patria torinese consiste nel volume piuttosto sgangherato che è POESIE 1893-1906, apparso nel 1915. Si conta un certo numero di errori di stampa ed oltre alle Danaidi, uscite all’incirca a mezzo del periodo indicato, sono poi omesse le aggiunte apportate ai libri dall’autore in un secondo tempo. In bene, oltre ad un ritratto fotografico quel giusto lugubre, rileviamo l’inclusione di Fiori, poesia inedita in copia da fac-simile.
Ogni opera appare in edizione definitiva nel più moderno e corposo LE POESIE dato alle stampe nel 1922 da Giovanni Chiantore (chiamato a succedere dalla vedova di Graf, la quale già fu vedova Loescher). Vistato dall’allievo poi francesista Ferdinando Neri, esso si avvale della prefazione del membro del Senato Vittorio Cian, che del professore sapeva molto più di quanto abbia voluto presentarci (uno dei tanti carteggi a cura di Clara Allasia).
Nelle note preposte all’Indice si fa doverosamente presente come piuttosto che selezionare si è optato per escludere POESIE E NOVELLE (Roma, 1876), primissima apparizione – per l’Italia – del nostro. Se può esser stata mossa ragionevole l’aggirare un eccessivo ingombro, non possiamo tuttavia in questa sede segnalare una maggiore coincidenza dei canti sopra accennati rispetto ai Poemetti (vedi sotto).
Il viaggio a ritroso nel tempo continua con il piuttosto raro VERSI che nel 1874 il nostro diede alle stampe nella città di Braila, Romania, dove la madre gestiva una attività dall’alterna fortuna. I più arditi collezionisti potrebbero infine mettersi sulle tracce di Versi di Filarete Franchi (riportato come Bianchi in altre fonti) fatica primissima di un Graf appena quattordicenne e celato da pseudonimo.
MEDUSA (1880, poi 1890): Graf dà avvio alla sua produzione di rilievo con un libro non meno sinistro del titolo affibiatogli. La lettura viene per così dire alleviata dal centinaio di disegni realizzati da Carlo Chessa (anch’egli con studio a Torino) che inframezzano i componimenti. L’edizione terza, sempre affidata all’esimio compare Loescher, accresce notevolmente l’opera di una terza sezione in linea con le antecedenti. La critica, come da previsione, è spaccata: si contano opinioni a favore ineggianti al vivido simbolismo e al linguaggio sofisticato (in buon numero i dantismi) ed altre meno accondiscenti che rilevano un “gelido leopardismo” e “il difetto di un’ansiosa morale”.
DOPO IL TRAMONTO (1893): sono qui raccolti nuovi spunti, molti di materia autobiografica. Il pessimismo che contraddistingue Medusa da cima a fondamenta va attenuandosi lasciando il posto ad un più artistico intento che apre una fase di discreto equilibrio. Una certa divulgazione è stata favorita dalla larga antologizzazione di Breve la Vita? componimento esemplare per il pensiero dell’autore.
LE DANAIDI (1897, poi 1905): in prima apparizione non ripagano le attese, nonostante, attingendo dall’Alighieri sulla scia di Tennyson, Graf produca Ultimo Viaggio di Ulisse, poema di buona caratura e lunghezza. Il riesumato Loescher provvederà, dopo una certa attesa, a rieditare la presente raccolta in veste definitiva; un valore aggiunto sarà dato da liriche come Sic transit e la collana di sonetti “Consigli a un Poeta Giovane”.
MORGANA (1901): ritorno alle edizioni milanesi, che propongono un volume alquanto ingombrante al paragone con gli esili cartoncini dei rivali. L’autore fa scelta di declinare eventuali spasmi filosofici virando su brani impressionistici e rischiando il plagio argomentativo di quanto fatto vedere ne Le Danaidi. Da segnalare sono Venezia e Napoli, catture dei rispettivi ambienti e atmosfere rese in capitoletti di quartine brevi. Qui contenuta è inoltre quella perla occulta degli annali letterari che risponde al titolo Il Canto della Vecchia Cattedrale, susseguirsi di più voci, chiaro preludio ai Poemetti che sappiamo esser già in stesura. Il successo è molto modesto e pure la seconda edizione non porterà maggiori clamori.
POEMETTI DRAMATICI (1905): In carta a mano, stampato in rosso e in nero, illustrato da composizioni a intero formato e fregiato di testate e finali squisitamente stilizzati, legato in pergamena. Questa la presentazione che Treves allega alle sue uscite, soffermandosi con lecito orgoglio sul prezioso ricamo che contorna i testi. Graf può ora dar frutto letterario alle letture sacre di cui si è sempre accompagnato, chiamando a raccolta le figurue del Messia, dei profeti e molti altri soggetti. I modelli sono svariati: le Operette del beneamato Leopardi, i libretti di Pietro Trapassi, e l’opera magna del Rapisardi, Lucifero (1880) dove possiam discernere somiglianze nel tono e nell’impostazione (canto XII, per la precisione).
Ad ogni modo, sia per materia sia per i ricercati accostamenti di versi, trattasi d’un lavoro adatto a palati fini mentre indigesto ha modo di presentarsi al lettore occasionale.
LE RIME DELLA SELVA (1906) è l’opera che garantisce al professore una certa fama postuma: in essa si condensa l’essenza delle sua poetica. Alla prima versione, rivisitata per il soddisfatissimo Treves, non si aggiungeranno che un pugno di liriche, alcune però assai estese.
Graf anticipa quelli che saranno a breve i cavalli di punta della “penna del Wessex” Thomas Hardy: l’invettiva ad un Tempo impietoso ed implacabile (Al Novo Giorno, L’Oriuolo a Cùculo) nonché il commento steso su un Allora rievocato (Quella Sera, Voce dal Passato).
Dove più, dove meno riuscita, molti passaggi dell’opera di Graf non hanno perso il loro lustro, e hanno ispirato a suo tempo non poche voci di lato rinnovatore oltre che crepuscolare. Non era comunque possibile che il Graf superasse anche quest’ultimo orizzonte, preda precoce, come aveva a definirsi, d’una “incresciosa vecchiezza”.
Non importa: un sincero desiro di ascolto risulta sufficiente per accoglierlo, ripagati, sugli scaffali di casa nostra. E in fondo, il professore, per come sappiamo ebbero a evolversi molti avanguardisti, sull’esempio di Mario Rapisardi suo idolo (il quale prese nel nuovo secolo a firmarsi classicista per rimarcare un’opposizione), avrebbe forse gradito non ispirarli.
Bibliografia minima
Arturo Graf, Le Poesie (Chiantore, Torino 1922)
Luigi Baldacci, Poeti Minori del’800
Fabio Cecchi
Fabio Cecchi è nato a Cesena nel 1991. Risiede a Igea Marina ed è studente universitario di ramo umanistico. Nella variegata sfera delle “attività in seconda” si alternano la composizione pianistica, il volontariato, il calcetto amatoriale, lettura e scrittura. Ignoto e convinto hardiologo (seguace della poetica di Thomas Hardy), nel vasto mar letterario si è sospinto in particolare sull’ottocento meno considerato (Guerrini, Prati, Graf, Cena…). Da questi e non solo attinge nella lenta formazione, tra slanci sociali e squarci intimisti, di un corpus poetico di – sempre relativo – valore.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Biografia di Arturo Graf
Arturo Graf fu poeta, aforista e critico letterario. Nacque ad Atene da padre tedesco e madre italiana il 19 gennaio 1848. Tre anni più tardi si trasferì a Trieste con la famiglia. Alla morte del padre andò a vivere a Brăila, in Romania, ospite del fratello della madre. Solamente nel 1863 rientrò in Italia dove frequentò il liceo a Napoli. Terminato il liceo seguì le lezioni di Francesco de Sanctis; in seguito si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza conseguendo la laurea in legge nel 1870. Intanto, per un breve periodo, Arturo Graf si dedicò al commercio a Braila e al ritorno in Italia si recò a Roma dove conobbe Ernesto Monaci; con quest’ultimo strinse una salda amicizia, iniziando approfonditi studi sul Medioevo del quale si occupò anche in seguito, con particolare attenzione ai suoi aspetti simbolici. Nel 1875 ottenne la libera docenza in Letteratura italiana; il primo incarico lo portò a Roma, come docente di Letteratura italiana e di Letteratura romanza all’Università della capitale. Nel 1876 gli venne affidata la cattedra di Letteratura neolatina presso l’Università degli Studi di Torino, dove iniziò i corsi con la conferenza “Di una trattazione scientifica della storia letteraria”; nel 1882 si trasferì definitivamente nel capoluogo piemontese, insegnando sempre – come professore ordinario – letteratura italiana fino al 1907. Nel 1883 fondò, insieme a Francesco Novati e Rodolfo Renier, il “Giornale storico della letteratura italiana” del quale divenne poi condirettore. Collaborò anche alla rivista “Critica Sociale” e a “Nuova Antologia”; su quest’ultima pubblicò le opere in versi “Medusa” nel 1880, “Dopo il tramonto” nel 1890, e “Rime delle selva” nel 1906: queste opere rispecchiano la sua lenta e graduale conversione al razionalismo positivistico, dove si trova un primo accenno di simbolismo cristiano. Le dolorose vicende familiari di quel periodo, tra le quali la morte per suicidio del fratello Ottone nel 1894, lo fecero avvicinare alla religione: il poeta scrisse l’opera “Per una fede” nel 1906, il “Saggio sul ‘Santo’ di A. Fogazzaro”, gli aforismi e le parabole di “Ecce Homo” nel 1908 e il suo unico romanzo, “Il riscatto”, nel 1901. Nel contesto della Letteratura italiana, “Il riscatto” è uno degli elaborati più caratteristici dello spiritualismo del primo Novecento, dove viene rappresentata, anche con riferimenti autobiografici, la contrapposizione fra la legge dell’ereditarietà, nella quale necessariamente ogni avvenimento deve essere determinato da quello che lo precede, e la volontà individuale, intenta a liberarsi dei legami e a fuggire. L’opera poetica di Arturo Graf risente dell’atmosfera cupa delle leggende medievali, tipiche del primo romanticismo con le meditazioni sulla morte, sul male del mondo, la visione di paesaggi solitari e patetiche esistenze tragiche che troppo spesso si risolvono in macabre rappresentazioni e, solo di rado, in un più acuto simbolismo che consente all’autore di raggiungere un’efficace simbologia funebre, tetra, sommessa, percorsa da lunghi brividi musicali. Le sue opere:
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Poesie e novelle di gioventù (1876)
Il riscatto (1901)
Della poesia popolare romena (1875)
Di una trattazione scientifica della storia letteraria (1877)
La leggenda del paradiso terrestre (1878)
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medioevo (1882-1883)
Attraverso il Cinquecento (1888)
Il diavolo (1889)
Foscolo, Manzoni, Leopardi (1889)
Miti, leggende e superstizioni del medioevo (1892-1893)
L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII (1911)
Medusa (1880)
Polve
Dopo il tramonto (1890)
Le Danaidi (1897)
Morgana (1901)
Poemetti drammatici (1905)
Rime della selva (1906)
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Cenni biografici di Arturo Graf (Atene, 1848 – Torino, 1913) tratti dal componimento ‘Consigli a un poeta giovane’.
Nato in Grecia da padre tedesco e da madre italiana, di Ancona, il cosmopolita autore trascorse una gioventù girovaga al seguito della famiglia. Visse dall’età di 15 anni dapprima a Trieste, poi in Romania, ed ancora a Napoli, dove si diplomò e si laureò in Legge seguendo i corsi di Francesco de Sanctis, ed in seguito a Roma, per stabilirsi infine stabilmente a Torino, città in cui ottenne le cattedre universitarie di letteratura neolatina e di letteratura italiana.
Oggi è ricordato per la sua poesia ‘pessimista’ e per i suoi rigorosi saggi di critica letteraria, grazie ai quali è considerato uno dei massimi esperti italiani di filologia classica.
Così lo descrive lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
A proposito delle sue liriche, aggiunge: “La sua poetica trae alimento da un sentimento sostanzialmente ‘pagano’ della vita, dove non c’è la luce della provvidenza della religione e del cristianesimo. Siamo in quei decenni fra Ottocento e primi del Novecento in cui tutto appare in crisi, che in poesia producono il crepuscolarismo, il decadentismo, l’edonismo dannunziano. Graf è fuori da queste correnti, più legato ai classici e ad esperienze della poesia tedesca e inglese e agli italiani Foscolo, Leopardi, Manzoni e Carducci. Però la sua poesia risente molto del clima di crisi e della crisi si fa portavoce. Il suo non è un ‘pessimismo eroico’, come è stato a volte definito quello del Leopardi, ma piuttosto una pretesa, personale e soggettiva, di ‘realismo’.”
Fotoreportage:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia.
La foresta rossa
Fotoreportage -La Russia è costellata di luoghi sorprendenti creati dalla “mano” magica della natura, che in questo angolo di mondo è stata particolarmente generosa in termini di bellezza e varietà. Il boschetto di cipressi nella valle di Sukko, nel sud paese, pur essendo di origine artificiale, è comunque impressionante! Giudicate voi stessi:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia
RUSSIA-La foresta rossa
Infatti i cipressi della palude (taxodium) non sono mai cresciuti qui e difficilmente sarebbero apparsi se non fosse stato per un esperimento sovietico. Si narra che negli anni ’30 furono portate delle piantine di cipresso dall’America del Nord, nella speranza di sviluppare in URSS una nuova coltura.
RUSSIA-La foresta rossa
Questi alberi furono piantati a 14 km da Anapa, nella valle collinare di Sukko, non lontano dall’omonimo villaggio.
RUSSIA-La foresta rossa
Con il passare degli anni, le piante hanno attecchito perfettamente e sono state oggetto di innumerevoli servizi fotografici e televisivi. Sono finite persino sulle pagine della rivista National Geographic.
Fonte Russia Beyond
Natura sensitiva tra la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino
Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
“E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene”
(William Shakespeare, “As you like it”)
Che le piante fossero degli esseri straordinari e super-eroici lo sosteniamo da tempo, ma essere capaci di rimediare ai disastri atomici sembra proprio una qualità da eroe Marvel.
Da Černobyl a Hiroshima, le piante stanno dimostrando a noi umani una potente volontà di vita: un misto di resilienza, fluidità e capacità di rinascita.
La Foresta Rossa di Černobyl
Il nome evocativo “Foresta Rossa” non indica una zona di qualche remota regione del Nord Europa o una magica foresta in stile “Il Signore degli Anelli”, ma una pineta di circa 4 km2 che subito dopo “l’incidente” di Černobyl virò di colpo al rosso, per poi morire.
Era l’una del mattino, 23 minuti e 46 secondi e successe l’impensabile.
Una serie di violazioni nel protocollo di sicurezza crearono uno spaventoso effetto domino: il reattore n° 4 della Centrale nucleare Vladimir Il’ iČ Lenin, vicino a Černobyl, vide la temperatura del proprio nocciolo aumentare bruscamente, portando l’acqua di refrigerazione a scindersi in ossigeno e idrogeno che, a contatto con l’incandescenza delle barre di controllo, provocò un esplosione, lo scoperchiamento della struttura e un vasto incendio.
Fu così che una nube di isotopi radioattivi si disperse.
Piombò con prepotenza su un’area specifica, distruggendo e contaminando.
É la “Zona” e copre circa 30 km2 dal punto zero, il reattore nucleare.
Fu immediatamente evacuata e abbandonata e qui, mentre foreste di betulle e pioppi sopravvissero, la pineta si trasformò in Foresta Rossa.
A 30 anni di distanza sappiamo che non capitò solo quello.
L’uomo se ne è andato e la “Zona” si è trasformata in una sorta di Parco Naturale involontario.
Ora, senza l’essere umano, ritornano animali come linci, procioni, cavalli di Przewalski, uccelli, alci, cervi, caprioli, cinghiali, volpi rosse, tassi, donnole, lepri, scoiattoli, l’orso bruno e specie a rischio di estinzione.
La popolazione di lupi è sette volte maggiore rispetto alle zone incontaminate circostanti.
Ora, senza l’uomo, sembra che quella zona, disabitata dalla nostra specie, sia popolata dalle altre quanto non sia mai stata.
Ora, senza l’uomo, le piante stanno letteralmente invadendo, come in una giungla post-apocalittica, anche le zone maggiormente colpite dal fall-out nucleare. Crescono sui tetti, si riversano sui terrazzi, spaccano l’asfalto, squarciano i muri, si appropriano di strade a sei corsie.
Come una fenice, quel territorio ora è una delle aree a maggiore biodiversità dell’Ex Unione Sovietica.
E non è tutto.
Stanno ripulendo dalle scorie radioattive, attraverso la loro capacità, unica, di assorbire radionuclidi dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Questo processo viene definito con un termine emblematico: fitorimediazione.
L’Eterno Giardino
La Foresta Rossa si sta trasformando in un Eterno Giardino: mancando per ora lombrichi, batteri e funghi, il naturale processo di marcescenza viene estremamente rallentato. Foglie e residui vegetali rimangono a terra per un tempo che sembra, ai nostri occhi, eterno.
L’unico vero nemico è il fuoco. Assorbendo quello che dall’aria cadde a terra, le piante si sono trasformate in scrigni di radioattività: la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino non devono bruciare. Mai.
Nonostante sembri una citazione di Ian Malcom, la vita vince sempre.
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