L’inciviltà dell’irrazionalità Di difficile collocazione come genere letterario, “A COME ATEA” di Carla Corsetti è un saggio diretto in particolar modo ai popoli del primo mondo questo primo mondo che detiene – forse ancora per poco – il primato geopolitico, tecnologico, scientifico, economico, militare, e culturale dell’intero pianeta. Per ogni lettera dell’alfabeto, l’autrice ha trattato alcune parole particolarmente significative che le hanno permesso di sviluppare le sue riflessioni di lucida pensatrice.
Questo glossario delle opinioni non è frutto solamente di una mente acuta che sa scandagliare la storia, le cause della violenza e della corruzione nel mondo, la spietatezza e la follia dell’essere umano ma anche frutto d’un cuore caldo che ama l’essere umano, che ha osservato con meraviglia gli occhi innocenti dei bambini e sa che nasciamo tutti puri, ma poi la nostra storia, la nostra cultura, l’ambiente in cui cresciamo e viviamo, producono schegge impazzite, generano il “male” quel “male” che in natura non esiste. La prima lettera di questo saggio-glossario è proprio “Atea”, e l’ateismo viene definito come il fondamento della costruzione critica di ogni individuo razionale.
Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Chi scrive questa prefazione è anch’egli ateo, ateo nato in un paesino del sud Italia ed educato in compagnia di tutti i sacramenti che la tradizione cattolica gli riservava. Poi sono cresciuto, le fiabe dell’infanzia sono svanite assieme alla fiaba di Betlemme, e la mia vita – mente fredda e cuore caldo, razionalità e sentimento – ha cominciato a trovare la sua armonia. E ogni giorno che mi sveglio sono felice di essere nato, di aver conosciuto la vita. E sono grato all’evoluzione che – attraverso 4 milioni di anni – ha portato la mia mente a ragionare in questo modo.
Vado proprio d’accordo con la mia mente di ateo, perché la mia vita è una continua scoperta, un viaggio responsabile, con la consapevolezza che gran parte di quello che accade a me, alla mia famiglia, al popolo a cui appartengo e alla specie umana, dipende dalle mie azioni, dall’agire di noi uomini e non da un fantomatico dio.
Le statistiche ufficiali dicono che gli atei dichiarati nel mondo sono un terzo del totale della popolazione mondiale, ma probabilmente siamo molti di più in quanto gli atei non fanno mai sfoggio del loro pensiero.
Credo che l’umanità intera possa contare sulla razionalità degli atei, sul loro equilibrio, sulla loro continua ricerca di armonia fra la loro essenza e madre natura che ci ha donato la vita.
Ma essere atei nella tollerante terra nordeuropea è un conto, altra faccenda lo è nell’ultima roccaforte della chiesa cattolica, l’organizzazione più astuta e spietata prodotta dalla specie umana, che – oltre ad aver imprigionato, torturato, bruciato vivi popoli interi – ha incatenato la mente degli uomini per manovrarli, dominarli, depredarli: la nostra povera disgraziatissima Italia, nazione la cui presenza del clero è alla base della corruzione morale che trasversalmente si spalma su tutta la società italiana.
La nostra autrice ci parla con la purezza delle sue idee, mettendo a nostra disposizione una visione dettagliata e generale di tutti i problemi che tratta visione rafforzata dai suoi studi di giurista, che rendono questo testo unico, profondo, a mio parere appassionante. Le tematiche potrebbero già incuriosire solo scorrendo parte del complesso e variegato indice (bibbia, crocifisso, divorzio, donne, famiglia, giustizia, homo sapiens, Islam, libertà di coscienza, mafia, origini, Rinascita Democratica, stato ateo, testamento biologico, unità d’Italia, etc. etc.) ma in realtà le materie trattate racchiudono un principio comune a tutte: far conoscere eventi che davamo per scontati ma che non avevamo mai veramente approfondito, particolari inediti, un grido d’allarme percependo in ogni pagina la motivazione di questo grido: accendere la favilla della speranza tenendo ben chiara una visione dello Stato imperniata su un sistema riconducibile essenzialmente ai diritti fondamentali dell’uomo.
Carla Corsetti non risparmia nulla e nessuno, né il modello comunista né quello neoliberista, entrambi responsabili della povertà di milioni di esseri umani. Né la FIAT (che non conosce la dignità umana) né la classe politica, che aggrava sempre più quella classe lavoratrice economicamente disagiata che per giunta l’ha appoggiata. Alla voce “Giustizia”, l’autrice offre una denunzia implacabile, spietata, così come richiede la gravissima situazione del nostro paese declamando che dopo aver distrutto la scuola, ora hanno distrutto la giustizia civile. E sull’Ordine dei Giornalisti, ci dice che sono pochissimi a farne parte, in quanto quasi tutti gli iscritti o sono politici di mestiere, oppure persone assoldate da bancari o industriali. Un trattamento di particolare durezza Carla Corsetti riserva a tutte le religioni, in special modo a quelle monoteiste, per il loro controllo della sessualità, soprattutto quella della donna per poter avere il controllo sull’intera comunità. E ricorda il proverbio africano: Se darai l’istruzione a un uomo formerai un individuo, se darai istruzione a una donna formerai una società.
Dopo aver paragonato la Lega Nord al Partito fascista per l’odio razziale che fa nutrire contro gli immigrati ci propone una riflessione ch’è anche un augurio, affinché contro l’abbrutimento della barbarie leghista sgorghi il germe del riscatto proprio nell’intelletto di quei ragazzi che non si faranno plagiare dalla follia razzista dei loro genitori: noi non abbiamo fretta e sapremo aspettarli dentro gli infiniti spazi della civiltà.
Ecco, questa frase offre al saggio sociologico-politico “A COME ATEA” una sensazione d’aria fresca, confermandoci che la nostra autrice si occupa di tutte le possibilità della natura umana. Carla Corsetti, inoltre, ci fa incontrare personaggi incredibili come Anna Maria Mozzoni, antesignana dell’emancipazione femminile che lottò affinché le donne potessero votare nel 1876, puntualizzando che esiste un universo femminile distante dal marciume imperante.
La condizione delle donne è un parametro imprescindibile per misurare il grado di civiltà di una Nazione ed è arrivato il tempo che anche gli uomini ne prendano atto.
Fra le pagine più terribili di questo libro-denuncia, ci sono quelle dedicate alla tessera 1816, che testimonia che Silvio Berlusconi faceva parte dal 1978 del programma eversivo “Rinascita Democratica”, promossa dalla loggia massonica P2 (Propaganda Due) capeggiata da Licio Gelli.
Poi la nostra autrice ci offre una dissertazione sullo “Stato Ateo”, premettendo che imporre l’ateismo è un crimine contro l’umanità, come pure imporre una religione è un crimine contro l’umanità (e riflettendo che spesso per “Stato ateo” il pensiero va immediatamente agli Stati comunisti che imposero l’ateismo con la violenza). Mentre gli Stati atei potranno differenziarsi tra dittatoriali e democratici, quelli teocratici saranno necessariamente dittatoriali non potendo contenere in sé il germe della libertà di pensiero, fonte, di per sé, di spinte democratiche.
È la tensione unitaria che tiene avvinto questo singolare glossario delle opinioni che rivela lo struggente balenio del cuore caldo dell’autrice, che fa pulsare la sua razionalità in modo così genuino, puro, che le fa studiare con attenzione il progetto della Commissione Europea EXREL (la cui finalità era quella di prevedere l’evoluzione delle religioni e di conoscere con quali meccanismi potranno evolversi nelle società future).
Carla Corsetti, ben conscia della responsabilità affidata a questo libro, pur sapendo che l’Italia non ha partecipato al progetto EXREL e che nessuno ne abbia parlato, leva la sua penna dalle ali di fiamma soprattutto contro le religioni – inesauribili moltiplicatori di povertà – e ci lascia col sostegno della sua nobile istanza affinché i governi più evoluti impediscano, nel futuro, che le nostre società possano degenerare nell’inciviltà dell’irrazionalità ritrovando quell’idea universale capace di unire il mondo.
Prefazione di Adriano Petta
Breve biografia di Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Carla Corsetti nasce a Roma nel 1962. Ha conseguito la maturità classica e si è laureata in Giurisprudenza. Ha accompagnato gli studi universitari con un assiduo tirocinio nello studio legale del padre. Esercita la professione di avvocato. E’ sposata e madre di due figli. Si è sempre occupata di politica ed ha ricoperto il ruolo di consigliere comunale nel 1993 in una lista civica di centro-sinistra. Nel 2009 ha fondato Democrazia Atea e attualmente ne è il Segretario nazionale. Si dichiara atea dalla nascita e ritiene che essere anticlericali sia un dovere morale.
Per le nozze del sig. avv. Giuseppe Bongiovanni di Reggio nell’Emilia colla signora Fanny Bolasco Pintor-Pasella di Cagliari. Versi, Reggio-Emilia, Tipi di S. Calderini e figlio, 1881.
Studio su Gian Vincenzo Gravina, prefazione di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, 1885.
Dell’ode alla musa di Giuseppe Parini, Firenze, Sansoni, 1889.
Il canto XIX dell’Inferno letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1900.
Prose critiche di storia e d’arte, Firenze, Sansoni, 1900.
La bella donna del Paradiso terrestre, Firenze, Ufficio della Rassegna nazionale, 1901.
Il canto XI del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1903?
Il canto XII del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1912?
Nostra maggior musa, Firenze, G. C. Sansoni, 1921.
Curatele
Antonio Canova, Sei lettere autografe di Antonio Canova tratte dal Museo civico e raccolta Correr di Venezia da A. Bertoldi, Venezia, Tip. del commercio di M. Visentini, 1879.
Giuseppe Parini, Le odi illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1890.
Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1891.
Alessandro Manzoni, Poesie liriche con note storiche e dichiarative di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1892.
Vincenzo Monti, Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti raccolte, ordinate e illustrate da Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti, Torino-Roma, L. Roux e c., 1893-1896.
Pietro Giordani, Venti lettere inedite di Pietro Giordani con un discorso di Alfonso Bertoldi, Reggio nell’Emilia, Stab. degli Artigianelli, 1895.
Alessandro Manzoni, Prose minori. Lettere inedite e sparse. Pensieri e sentenze con note di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1896.
Ugo Foscolo, Tre lettere inedite di Ugo Foscolo, a cura di Alfonso Bertoldi, Prato, Tip. Giachetti, figlio e C., 1903.
Alfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEBiblioteca DEA SABINA- Alfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANE-Rivista PAN n°7 del 1935
Biografia di Vincenzo Monti nacque ad Alfonsine, borgo romagnolo facente parte dei dominii dello Stato Pontificio (attualmente in provincia di Ravenna), il 19 febbraio del 1754, figlio di Fedele Maria Monti, un perito agrimensore, e Domenica Maria Mazzari, entrambi proprietari d’un podere nei pressi della zona. Aveva tre fratelli maggiori, Cesare, che fu prete, Giovan Battista, frate cappuccino, e Francesc’Antonio, oltre che cinque sorelle, tre delle quali, Lucia Dorotea, Rosa Geltrude e Maria Maddalena, diventeranno monache. Narrano i biografi che all’età di cinque anni cadde nel fosso del mulino della proprietà, salvandosi miracolosamente.[1]
Ad otto anni fu condotto nella vicina Fusignano, dove ebbe come maestro don Pietro Santoni (1736-1823), che era anche un rinomato poeta dialettale. Nel 1766 entrò nel seminario di Faenza, studiando latino con il famoso Francesco Contoli.[2] Vi rimase dai dodici ai diciassette anni (a tredici prese la tonsura) e nel 1771 manifestò l’intenzione di entrare nell’Ordine Francescano. Privo però di una vera vocazione, accantonò presto l’idea, trasferendosi con il fratello Francesc’Antonio a Ferrara, dove studiò diritto e medicina presso l’Università degli Studi. Dovette lottare per abbandonare definitivamente il borgo natìo, dove la famiglia, totalmente insensibile alla letteratura, voleva trattenerlo. Molto interessante al proposito appare la lettera che il giovane Monti scrisse, nel 1773, all’abate longianeseGirolamo Ferri, suo professore nel seminario faentino:
«La dittatura è passata ai miei fratelli, che hanno intenzione risoluta di levarmi da Ferrara…
Signor Maestro, … se ella scopre per accidente un nicchio, io sono in caso d’entrarvi dentro
a piè pari, e in qualità di quel che si vuole, e presso chiunque.»
(Lettera a Girolamo Ferri, 1773)
Niccolò Tommaseo: apprezzò particolarmente i primi componimenti latini del Monti
Si intravedono subito alcuni elementi chiave della sua personalità, fra cui la tendenza ad accomodarsi a diversi fini a seconda delle esigenze personali. Soprattutto per questo approfondì gli studi biblici, emergenti nella prima parte della sua produzione.
Dimostrò comunque un talento sorprendente e precoce per le lettere e già nel luglio 1775 venne ammesso all’Accademia dell’Arcadia con il soprannome di Antonide Saturniano, ingraziandosi, bello d’aspetto,[3] le prime protettrici, l’anziana marchesa Trotti Bevilacqua[4] e la contessa Cicognini. Cominciò a scrivere versi latini di argomento sacro per farsi notare dagli ambienti ecclesiastici (non si dimentichi poi che a Ferrara spopolavano gli apprezzatissimi e pii poeti Alfonso Varano e Onofrio Minzoni), ma sin d’ora vi si mescolò il profano, come si evince dal Nuovo amore, canzonetta in quartine dello stesso 1775, in cui con un finto pathos unito a distacco si fa riferimento all’amore per una “bella toscanella” conosciuta nel collegio di Santa Trinita di Firenze, dov’era compagna della sorella.[5] Questa infatuazione giovanile evidentemente non fu gran cosa e, quando arriveranno le pene vere d’amore, più avanti, si noterà la differenza.[6]
Esordì con componimenti di vario tipo, tra cui si possono ricordare i sonetti Il matrimonio alla moda e Il ratto di Orizia, debitori di Parini il primo, di Giuliano Cassiani (e del suo Ratto di Proserpina) il secondo, in conformità ai fermenti arcadici del periodo. Copiosa fu ai primordi anche la produzione latina, che delizierà Niccolò Tommaseo.
Poté pubblicare l’anno successivo il suo primo libro, La visione di Ezechiello (in onore di don Francesco Filippo Giannotti, arcivescovo di Minerbio, che aveva visto predicare a Ferrara), impostato sul modello varaniano delle Visioni sacre e morali, che godeva di molta fortuna all’epoca, specialmente nell’entourage arcadico.[7] Di stesso stampo sono altre due Visioni coeve, dedicate ancora ad alti prelati.
Sin dall’inizio si manifesta una tendenza spesso ricorrente nel Monti: la rielaborazione di modelli precedenti. Il poeta non inventa nulla di nuovo, ma nuovo è il modo in cui fonde assieme le fonti, creando così uno stile affatto peculiare. Qui ovviamente è l’Arcadia a dominare (e il suo stile non abbandonerà mai l’ala dell’Accademia) e non si può tacere l’ammirazione nutrita in questo momento per Frugoni, ma evidenti, come si può intuire già dal titolo, sono anche le citazioni bibliche, come fin dall’inizio Dante (soprattutto) e Petrarca sono nomi imprescindibili del suo repertorio.
Il 26 maggio 1778, al seguito del legato pontificio a Ferrara – il cardinale Scipione Borghese – si recò a Roma, per cercare gloria e fuggire l’angustia di un mondo divenutogli troppo stretto, e vi ottenne l’appoggio del celebre archeologoEnnio Quirino Visconti, cui dedicò l’anno seguente un saggio di poesie dall’influsso metastasiano (si consideri solo il titolo dell’ultimo componimento, Giunone placata, che ricorda la Didone abbandonata). Vide la luce, nello stesso anno del Saggio, anche la Prosopopea di Pericle, poema d’occasione suggerito a Monti da Visconti, in seguito al ritrovamento in marzo, in una villa di Tivoli, di un’erma del condottiero ateniese. Tutto ciò funse da pretesto per glorificare l’età presente, considerata superiore a quella classica.
Le opere di questo periodo sono fortemente influenzate dalla necessità di emanciparsi economicamente dalla famiglia ed è quindi naturale che in esse prevalga il tono adulatorio, all’interno, tuttavia, di una cornice stilistica armoniosa e cristallina, in cui gli stilemi neoclassici predominano, anche se non mancano contaminazioni provenienti dalla letteratura sepolcrale e dall’incipiente gusto romantico. In ogni caso, come già a Ferrara, l’intento è quello di sfruttare le occasioni contingenti per accattivarsi la protezione dei potenti.
Per qualche mese, tuttavia, la produzione poetica fu trascurabile e Monti si diede alla lettura di alcuni filosofi, tra i quali Locke, Leibniz, Condillac ed Helvetius.[9]
Nel 1781 il papa romagnolo Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi, mecenate e poeta dilettante, aveva chiamato a Roma il nipote Luigi Onesti, unendolo in matrimonio con la quindicenne Costanza Falconieri, che possedeva una ricca dote. L’evento suscitò un profluvio di componimenti arcadici, tra i quali quello del Monti, il poemetto in terzine La bellezza dell’universo, che incantò la platea del Bosco Parrasio e meritò la stima del pontefice, che lo nominò segretario del nipote principe Luigi Onesti (cui era ora stato associato il cognome Braschi), facendolo entrare nelle grazie dell’ambiente papalino.
Un cardinale francese, nel frattempo, gli commissionò, dietro lauta ricompensa, l’ennesima prestazione d’occasione; si tratta di due cantate in onore del Delfino di Francia (una delle quali musicata dal Cimarosa) che era appena venuto alla luce, Luigi Giuseppe.
Infausto nelle intenzioni e nell’esito fu Il Pellegrino Apostolico (1782), in cui con tono enfatico, in due canti, celebrò il successo della visita papale a Vienna, dove Pio VI incontrò l’ostile Giuseppe II, nella speranza di giungere ad una conciliazione. Il poema celebra il successo della spedizione, ma in realtà ben presto la visita si rivelò un fallimento e valse anche molte critiche al vescovo di Roma.
I Pensieri d’amore, un’apertura romantica?
Il suo stile abbandonò la fredda adulazione con gli endecasillabi sciolti Al principe Sigismondo Chigi e ancor più con i celebri Pensieri d’Amore, dove freme di passione disperata per una giovinetta che la critica ha identificato nell’educanda Carlotta Stewart, che Monti aveva conosciuto tra settembre e ottobre a Firenze nella casa della livornese Fortunata Sulgher Fantastici[10] e che aveva pensato di sposare, salvo incontrare il diniego dei parenti di lei, ricchi assai più del poeta, che a Roma viveva ancora miseramente. Fortunata e il principe Sigismondo Chigi furono confidenti delle pene amorose del poeta. Il Chigi (Roma 1736 – Padova 1793), Custode del Conclave, ebbe fama di liberale e molto amava la poesia, che praticò con successo, ricevendo anche i complimenti del Visconti. Spirito libero e aperto, si sposò due volte e dovette subire l’accusa, falsa, di aver avvelenato un cardinale per gelosia.[11]
Il modello delle due opere è da ricercare senz’altro nel Werther, che Monti lesse nell’anonima traduzione francese, e con cui condivideva il nome della protagonista femminile. I Pensieri d’amore adottano uno stile più malinconico e sincero e costituiscono le prime avvisaglie di un avvicinamento, forse non emotivo ma certamente formale, alla poetica romantica, tanto che lo stesso Leopardi ne trarrà ispirazione per alcuni dei suoi componimenti più famosi,[12] come si evince da questi versi:
«Alta è la notte, ed in profonda calma
dorme il mondo sepolto,
…Io balzo fuori dalle piume, e guardo;
e traverso alle nubi, che del vento
squarcia e sospinge l’iracondo soffio,
veggo del ciel per gl’interrotti campi
qua e là deserte scintillar le stelle.
Oh vaghe stelle!…»
(Pensieri d’amore, VIII, 124-132)
Ritorno al neoclassicismo
Testa di Feronia. Reperto datato ultimo quarto del II secolo a.C. e originario di Punta di Leano, Terracina
Tuttavia è ancora presto, la sua poesia rimane nel solco della tradizione arcadica e in sintonia con la lezione degli illuministi. Monti continua a frequentare l’Accademia e qui recita le due opere successive, il sonetto Sopra la morte (alla fine saranno quattro, e vedranno la luce nel 1788), molto popolare all’epoca, e l’ode Al signor di Montgolfier, scritta in quartine. Essa trasse spunto dal secondo volo aerostatico della storia con equipaggio, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. In una comunione stupita col popolo, Monti ne trae un’opera sincera, non commissionata, imbastita sul paragone tra le imprese della nave Argo e quelle della mongolfiera, in un parallelo volto ad esaltare, come nella Prosopopea, la modernità, e, in un afflato del tutto illuminista, il progresso umano. Benché l’opera sia intitolata ai fratelli Montgolfier, che avevano svolto esperimenti analoghi nei mesi precedenti suscitando grande entusiasmo (tra cui il primo volo umano del 21 novembre su Parigi), il volo descritto da Monti nell’opera non fu realizzato dai Montgolfier bensì dal loro rivale Jacques Alexandre César Charles, assieme a Nicolas-Louis Robert, citati espressamente nel testo assieme a Montgolfier.
Nel 1784 cominciò a metter mano a un testo sul quale sarebbe ritornato per tutta la vita, senza mai riuscire a completarlo. Si tratta della Feroniade, il cui titolo rimanda alla ninfa amata da Zeus e perseguitata da Giunone. Anche qui non manca il pretesto: questa volta si vuole glorificare l’intenzione di Pio VI di bonificare le paludi dell’Agro Pontino, opera che non ebbe lieto esito ma suscitò grande risonanza e anticipò la famosa bonifica mussoliniana. L’opera che ci è stata tramandata conta ben 2000 versi sciolti. L’idea per il tema venne al Monti nel corso delle battute di caccia che conduceva assieme al principe Braschi Onesti nella zona di Terracina, dove vide la fontana Feronia citata da Orazio e si lavò anch’egli ora manusque[13] (le mani e il volto, perché qui ora è naturalmente da intendersi come sineddoche). La critica ha ravvisato gli innumerevoli rimandi stilistici e tematici a Virgilio, mentre Carducci ha parlato di influenza omerica.[14] In ogni caso, sono testimonianze che ben rilevano il gusto neoclassico dell’opera.
Tra il maggio del 1781 e quello del 1783Vittorio Alfieri trascorse il suo secondo soggiorno romano e nell’Urbe fece conoscere alcune delle sue tragedie (sono in particolare gli anni della composizione del Saul, recitato in Arcadia il 3 giugno 1783 alla presenza anche di Monti). Monti, che per Alfieri nutriva un’ammirazione mista a invidia,[15] pensò di virare verso il genere tragico, cercando di soddisfare il pubblico che per opere di questo tipo chiedeva, come ebbe a rilevare Francesco De Sanctis, uno stile che fosse una via di mezzo tra la durezza alfieriana e l’espressività metastasiana.
In questo modo nacque l’Aristodemo, storia dei tormenti di un padre che ha ucciso la figlia per ambizione. La fonte è classica: ci narra la storia in poche righe il greco Pausania, e l’argomento era già stato messo in tragedia nel secolo precedente da Carlo de’ Dottori in un’opera che offre alcuni spunti ravvisabili nel testo montiano.[16] L’opera, rappresentata il 16 gennaio 1787 al Teatro Valle (la prima assoluta risale all’anno precedente, a Parma), riscosse un ampio successo, per quanto non siano poi mancate, in un secondo momento, delle voci critiche. In ogni caso Monti era sempre più protagonista indiscusso della vita letteraria romana. A Parma, inoltre, l’opera fu pubblicata per i tipi di Giambattista Bodoni, editore di prestigio nella città che veniva definita “Atene d’Italia”.
Nell’Aristodemo il rimorso è il vero protagonista del testo, in un’atmosfera a metà strada tra il Racconto d’inverno e Delitto e castigo (seppur non allo stesso livello di pathos e di introspezione psicologica, perché Monti è sempre più leggero, anche quando è solenne) e nella compresenza di varie fonti ispiratrici; oltre a Dante, Petrarca o lo stesso Alfieri, sono ravvisabili le sirene del Nord, tali da giustificare la definizione, per l’opera, di “tragedia sepolcrale”.[17]
Fu durante una rappresentazione privata dell’opera, nel 1786, che il poeta si invaghì della sedicenne Teresa Pichler, che aveva recitato assieme a lui. Questo fu il preludio alle nozze di cinque anni più tardi.[18]
Sull’onda del successo scrisse ancora due tragedie, una modesta, Galeotto Manfredi (1787), e una di maggior spessore, Caio Gracco, che ebbe una gestazione più lunga (1788-1800). La commissione del Galeotto fu assegnata al poeta da Costanza Falconieri, che desiderava una vicenda “domestica”. La trama è tratta dalle Istorie Fiorentine del Machiavelli, dove si narra di come la moglie di Galeotto, signore di Faenza, e figlia di Bentivoglio, signore di Bologna – corrispondente nella realtà a Francesca Bentivoglio e portata sulla scena con il nome di Matilde -, avesse ordito e portato a compimento nel 1488 un complotto per uccidere il consorte, «o per gelosia, o per essere male dal marito trattata, o per sua cattiva natura».[19] Monti, nell’Avvertimento anteposto al testo, dichiara di aver scelto la prima ipotesi, vista la libertà in cui lo lasciavano le varie teorie di Machiavelli.[20]
In una tessitura che richiama un po’ troppo da vicino l’Otelloshakespeariano, Monti non manca di fare polemica, nascondendosi nel personaggio del fido Ubaldo, cui fa da contraltare il traditore Zambrino, sotto le cui spoglie si cela Lattanzi, rivale del poeta. Nonostante ci siano quindi accenti veritieri, l’opera non riscosse successo e il poeta stesso la definì mediocre.[21]
Il Caio Gracco, di cui Plutarco è la fonte principale, riscosse grandi apprezzamenti nella prima milanese del 1802, ma già nel 1788 mostrò i primi fermenti giacobini del poeta, poi temporaneamente rinnegati, mentre la Rivoluzione francese era nell’aria. Si notano però anche tendenze patriottiche, nel riconoscimento della comune origine italica, in un anticipo risorgimentale.
L’ode introduttiva all’Aminta
Nell’aprile 1788 ci fu una nuova collaborazione con Bodoni, che voleva ristampare l’Aminta di Torquato Tasso in occasione delle nozze della figlia ultimogenita della marchesa Anna Malaspina della Bastia, Giuseppa Amalia, con il conte Artaserse Bajardi di Parma (av. 1765-1812). Bodoni chiese al Monti alcuni versi di dedica dell’opera. Nacque così l’ode Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia, dove, oltre alle virtù di bellezza e ingegno della nobildonna, si celebrano i meriti della famiglia Malaspina, che ospitò l’esule Dante nel 1306 e che come tale è rimasta protettrice della poesia, tanto che la marchesa prese sotto la sua ala Carlo Innocenzo Frugoni. Questi è qui paragonato a Pindaro e Orazio, nei consueti toni spropositati che in questo caso, nella denuncia degli imitatori del Frugoni, pare volessero colpire in particolare il poeta Angelo Mazza, che aveva stroncato l’Aristodemo.[22] L’ode, composta in endecasillabi sciolti e pubblicata anonima nel 1789, sovrabbonda di riferimenti mitologici ed eleva l’opera tassesca a emblema dell’amore stesso.
Monti reazionario, la Bassvilliana
Il conte Giulio Perticari sposò la figlia di Monti nel 1812 e fu per lui un aiuto nello studio oltre che fraterno amico
«Libertà che stolta
in Dio medesmo l’empie mani adopra.»
(Bassvilliana, vv. 116-117)
Il 3 luglio 1791 sposò Teresa Pikler (Roma, 3 giugno 1769 – Milano, 19 maggio 1834), o meglio Pichler[23] figlia di Giovanni Pichler (1734–1791) famoso intagliatore di gemme della città, ma oriundo tirolese, e di Antonia Selli, romana. La celebrazione fu sobria, lontana dai clamori della ribalta, e si tenne nella chiesa di san Lorenzo in Lucina. Dal matrimonio nacquero due figli, Costanza[24], che poi sposerà il conte Giulio Perticari e coltiverà le lettere entrando anche in Arcadia,[25] e Giovan Francesco (1794-1796), ma quest’ultimo morirà in tenera età. Alla moglie rimase profondamente fedele per il resto dei suoi giorni.
Nel 1793 due artisti lionesi furono arrestati a Roma e rilasciati dal Pontefice. Da Napoli furono inviati due diplomatici francesi quali rappresentanti in missione, Nicolas Hugon detto Bassville (noto come Hugo Basseville), e La Flotte, per ringraziare il Papa. Tuttavia il 14 gennaio 1793 uno di loro, il Basseville, già inviso alla popolazione cattolica, uscì nella pubblica via esibendo il simbolo dei rivoluzionari francesi, la coccarda, stimolando la reazione della folla e subendo il linciaggio. Le guardie pontificie misero La Flotte in salvo, mentre Bassville, colpito alla gola e sottratto alla folla, morì poche ore dopo, pentendosi e confessandosi. L’episodio esaltò gli impulsi antirivoluzionari che si agitavano in Italia e in particolar modo a Roma. Una miriade di opere fu composta per sottolineare la divina punizione cui la sacrilega Francia era andata incontro. La voce più alta la leva Monti nella celebre Cantica in morte di Ugo di Basseville (1793), più comunemente nota come Bassvilliana, composta tra il gennaio e l’agosto di quell’anno. Senza contraddire le proprie basi arcadiche, il poeta traspone i ghiribizzi del suo stile elevato ed etereo in un componimento che ha una portata certamente maggiore rispetto a quelli precedenti. Il successo è immediato, tanto da portare a 18 edizioni nel giro di sei mesi.
Il modello della Bassvilliana, scritta in terzine e in terza rima, è certamente dantesco, ma non manca l’influenza, a livello schematico, della Messiade di Klopstock, che in quegli anni aveva anche pensato di tradurre dal francese (essendo privo di conoscenze del tedesco).[26] Nel nostro «lungo e sproporzionato poema»,[27] un angelo preleva a Roma l’anima del Bassville appena spirato e la porta in terra di Francia, mostrandole i disastri causati dalla Rivoluzione, e provocandone un pianto dirotto alla vista dell’uccisione di Luigi XVI (21 gennaio 1793).
Luigi XVI di Francia
Vengono attaccati gli illuministi più famosi, le cui ombre appaiono come avversari (Voltaire, Diderot, Rousseau, d’Holbach, Bayle…) mentre il re, raffigurato come un santo martire, concede il perdono a Basseville. Il poema piacque al mondo cattolico reazionario e controrivoluzionario. Monti tuttavia, probabilmente già dubbioso e incline a cambiare il proprio pensiero (come avrebbe fatto appena due anni dopo), si fermò al quarto Canto, e passò alla composizione di un’opera più incline ai suoi favoleggiamenti mitici, La Musogonia (1793-1797, in ottave), lasciata anch’essa a metà e foriera di spunti per le opere non lontane di Manzoni (Urania) e Foscolo (Le Grazie).
Indicativa è la chiusa del poema, modificata più volte, indirizzata prima a Francesco II d’Austria e poi a Napoleone, cui si chiede di intercedere per l’Italia. Monti non ebbe mai tentennamenti nel proprio attaccamento alla patria, anche se si volse a diversi “protettori” a seconda dei momenti storici.
Il Maresciallo Auguste de Marmont
Già in odore di simpatie rivoluzionarie, in procinto di aderire alle idee illuministe e giacobine che poco prima deprecava, cercò di trovare pace nel completamento di un’ode già iniziata nel 1792, Invito di un solitario ad un cittadino, chiaramente debitrice della commedia shakespeariana Come vi piace.[28] Questo componimento montiano segue lo schema dell’ode saffica, variandone leggermente le caratteristiche; manca infatti la cesura di quinta negli endecasillabi, mentre il verso conclusivo delle strofe è un settenario e non un quinario. Nell’ode un imprecisato abitatore delle campagne invita un altrettanto anonimo cittadino a fuggire dalle preoccupazioni della corte e dei suoi intrighi, per rifugiarsi in un mondo bucolico dove regna la pace e dove i soli timori sono quelli causati dal cambiamento delle stagioni. In questa ricerca di pace, forse, è ravvisabile il vero Monti.
Inizialmente quindi su posizioni contrarie alla rivoluzione francese, che trovarono spazio anche ne La Feroniade e ne La Musogonia (nello stesso Invito Napoleone è avvertito come minaccia), Monti diede tuttavia presto spazio nuovamente allo spirito che spesso lo contraddistinse: appoggiare il più forte per salvare la pelle. Gli sconvolgimenti politici e l’ormai evidente affermazione di Napoleone (1796) lo portarono a schierarsi dalla sua parte e ad accogliere nella sua casa romana il maresciallo Marmont, che era giunto nell’Urbe per ratificare i patti di Tolentino con cui si umiliava la figura del pontefice. Scrisse anche in questo periodo un sonetto anonimo, Contro la Chiesa dei Papi, in cui preconizza la giusta punizione per una Istituzione che si era allontanata dal proprio spirito originario.
Il Monti, che pure nel frattempo continuava a tenere il piede in due staffe (era ancora stipendiato dalla corte del Papa e cercava di mantenerne i favori fino alla fine), si vide costretto ad abbandonare Roma, dove troppi ormai sarebbero stati i rischi. Fu così che nella notte del 3 marzo 1797 fuggì nella carrozza di Marmont alla volta di Firenze.
Il periodo milanese
L’ardore giacobino: Il Prometeo
«Dolce dell’alme universal sospiro,
Libertà, santa dea.»
(Il fanatismo, vv. 1-2)
Dopo un breve soggiorno fiorentino, dove fu bene accolto e recitò con gran clamore il primo canto del Prometeo nel salotto della marchesa Venturi,[29] e dopo essere passato per Bologna (dove conobbe Foscolo, con cui fu legato da profonda amicizia, e dove lo raggiunsero la moglie e la figlia) e Venezia, il 18 luglio 1797, solo pochi giorni dopo la proclamazione della costituzione della Repubblica Cisalpina, egli giunse a Milano. Il momento è opportuno per un voltafaccia: in modo da cancellare il ricordo della Bassvilliana scrisse tre poemetti in terzine dantesche per rinnegarla (Il Fanatismo, La Superstizione e Il Pericolo, dove divinizza Napoleone ma ancor più si scaglia contro i suoi antichi protettori) e soprattutto il Prometeo, dedicato a Napoleone e rimasto incompiuto all’inizio del quarto canto. Queste opere sono strettamente contemporanee alla lettera inviata da Bologna il 18 giugno 1797 a Francesco Saverio Salfi, in cui Monti cercava di giustificare le proprie scelte passate dicendo di non aver avuto libertà d’opinione. L’autoumiliazione arrivò fino a definire la propria Bassvilliana “miserabile rapsodia”.[30]
A Bologna conobbe Foscolo, cui fu legato, soprattutto nei primi anni, da stima reciproca e da affinità letteraria
Il Prometeo fu il primo testo di un grande ciclo di opere volte a celebrare l’epopea napoleonica, quasi quindi un’introduzione della medesima.[31] Si tratta forse dell’opera montiana più famosa, e il Còrso vi viene esaltato anche oltre i consueti eccessi del poeta romagnolo. Il personaggio del mito viene paragonato, nella dedica, al Bonaparte; come quello si ribellò a Giove e portò il fuoco agli uomini, così questi si rivoltò contro i potenti della terra per dispensare libertà. Si immagina, nel testo, che Prometeo, accompagnato dal fratello Epimeteo, vada tra i popoli profetizzando la venuta di Napoleone, e scenda fin nell’Erebo ad annunciare la notizia.
La consueta felicità artistica non si coniuga, in quest’opera, come nelle altre, con una coerenza strutturale, e soprattutto il protagonista pare inconsistente e privato della drammaticità che ci aveva restituito Eschilo.[32]
L’arrivo del Bonaparte è visto da Monti in questa fase come unica speranza perché l’Italia trovi coesione interna e libertà. Napoleone diviene pari a un Dio dell’Antichità, senza rivali degni in terra. Così anche senza pietà il Monti trasforma gli elogi di cui aveva ricoperto il Papa e il re in altrettanto forti vituperi (rispettivamente in un sonetto e in un inno). Elogi senza freno emergono dalla canzone Per il congresso di Udine, sempre del 1797, dove Napoleone è il “Prometeo nuovo”, ancora una volta. Persino l’onta di Campoformio, che tanto indignò Foscolo, lo porta, in una canzonetta metastasiana dal titolo La pace di Campoformio, a scusare il tradimento in quanto, almeno, è giunta la pace.
In questo periodo Monti subì attacchi da più parti. Il 13 febbraio 1798Giuseppe Lattanzi, poeta romano e suo nemico giurato da tempo, aveva sottoposto al Gran Consiglio una legge secondo cui non avrebbe potuto ricoprire cariche pubbliche chi avesse pubblicato opere antirivoluzionarie dopo il settembre 1792, il che avrebbe precluso ogni carriera diplomatica all’autore della Bassvilliana. La legge fu approvata, ma per fortuna del Monti rimase lettera morta, e questi poté quindi diventare addetto alla Segreteria del Direttorio al dipartimento dell’Estero e dell’Interno della Cisalpina.[34] Siccome le invettive contro Monti continuavano, intervenne nella diatriba Foscolo, con uno scritto in sua difesa.[35] Anche per opera dell’Appiani e di altri, la contesa si sedò infine nel giro di qualche mese.
Per tutta la vita il carattere di Monti fu assai bilioso, ed egli si impegnò in innumerevoli contese letterarie, salvo spesso riconciliarsi con i suoi avversari, secondo il suo ormai ben noto carattere, e secondo l’autodefinizione di Irasci celerem, tamen ut placabilis essem (cioè “Veloce all’ira, altrettanto alla riconciliazione”) contenuta nella Proposta descritta più sotto.
Tra tutti, il bersaglio preferito fu Francesco Gianni, ma non si dimentichino Saverio Bettinelli e altri il cui nome resiste oggi solo grazie a queste beghe di basso livello. Sarebbe stato assai più saggio, disse Pietro Giordani, tacere, lasciando così cadere nell’oblio avversari che tentavano solo di godere di una fama altrimenti impossibile. Ma Monti era «un idrofobo — bofonchiava, il 7 agosto 1816, un Angelo Anelli da Desenzano — bisogna compiangerlo, stargli lontano, e quando si accosta per mordere, difendersi, per non essere offesi, a spada tratta»,[36] e più di tutti lo stroncò Vincenzo Cuoco, che, nel suo Platone in Italia, lo definì divorato dalla bile.[37]
Anche il rapporto con Foscolo andò deteriorando, a partire dal momento in cui questi criticò aspramente la Palingenesi politica (vedere sotto) nelle lettere a Isabella Teotochi Albrizzi. L’anno successivo, nel 1810, litigarono per futili motivi in casa del ministro Antonio Veneri, e anche dall’Inghilterra il poeta zacintio si fece sentire, collaborando a un Essay di John Cam Hobhouse, dove il Monti è condannato come adulatore spudorato e senza principi. Probabilmente giocò un ruolo anche la possibile relazione sentimentale che si diceva esserci tra il giovane Foscolo e la moglie di Monti, Teresa.[38]
Tornati gli austriaci a Milano nel corso della campagna d’Egitto, si aprì la serie delle vendette contro i promotori della Rivoluzione. Coloro che non furono deportati scapparono. Fra questi era Monti, che intraprese un’avventurosa fuga, con pochi denari in tasca, attraverso il Piemonte per giungere a Chambéry, dove condivise le ultime cinque lire con un povero, dimostrando sostanziale bontà d’animo.[39] Qui lo raggiunsero la moglie e la figlia, e insieme arrivarono a Parigi. Nella capitale francese il poeta soffrì per l’oblio nel quale era caduto, e rimpianse la patria lontana. Rese l’esilio meno duro l’amicizia con alcuni valenti uomini di cultura.
Al periodo parigino risale la Mascheroniana, opera in cinque canti in terzine sulla falsariga della Bassvilliana, rimasta incompleta e scritta in occasione della morte dell’amico scrittore, sacerdote e naturalista illuminista Lorenzo Mascheroni, avvenuta il 14 luglio 1800. Il poema svela un Monti moderato, quindi più autentico, deluso sia dai primi che dai secondi entusiasmi, ossia la corte papale e Napoleone, per quanto non manchi la lode a quest’ultimo, dispensatore di pace. Tuttavia l’ispirazione non raggiunge le vette dell’opera-modello, e nelle vicende post mortem di Mascheroni, in un Paradiso immobile abitato da alcune anime a lui culturalmente affini (quali Pietro Verri, Parini, Spallanzani, Beccaria), si avverte uno stridore con il contesto storico che mal si adattava a vagheggiamenti astratti. Ci si duole delle sorti italiche, ma in una situazione astratta, cui a torto si è paragonata l’opera dantesca, perché qui non vi è nulla di soprannaturale. Non mancano tuttavia belle pagine, come quelle dedicate a Parini.[40]
In ogni caso, in una lettera Stendhal raccontò come molti anni dopo, a Milano, durante un pranzo in casa di Ludovico di BremeByron fosse rimasto estasiato nell’ascolto dei versi montiani, segno che la pulizia delle immagini e lo stile classicheggiante continuavano a sostenere il poeta, frutto di un’innata vena lirica.[41]
Il ritorno in patria
Quando Napoleone riprese il controllo della Cisalpina, Monti si lasciò andare ad una canzonetta entusiasta, preludio a un prossimo ritorno in Italia e sincero giubilo per le sorti dell’amata patria: si tratta di Per la liberazione dell’Italia, uno dei suoi componimenti più popolari.
Dopo la battaglia di Marengo, del 14 giugno 1800 Monti si vide infine premiato, e Napoleone ne fece il proprio aedo, il proprio poeta di corte, assegnandogli anche la cattedra di Eloquenza presso l’Università degli Studi di Pavia, che il 25 giugno 1800 fece riaprire dopo la chiusura imposta dagli Austro-Russi. Monti inizierà l’insegnamento solo nel 1802, in quanto decise di rimanere ancora qualche mese in Francia, dove completò l’ultima tragedia, il Caio Gracco, e dove terminò la traduzione de La pucelle d’Orléans di Voltaire.
All’Università di Pavia
Lapide al’interno dell’ateneoL’Università di Pavia dove Monti insegnò tra il 1802 e il 1804
Nel 1802 Monti si insedia all’Università degli Studi di Pavia con la prolusione del 24 marzo, e vi tiene lezioni tra il 1802 e il novembre 1804, ricevendo in seguito la nomina di poeta del governo italico. In questo periodo delle lezioni pavesi Monti si discosta nettamente dai giovanili ardori per i moderni di marca illuminista. Nelle sue lezioni la capacità di “invenzione”, in pratica l’originalità, è accordata solo agli antichi. Il “progresso” concerne le sole scienze; nella poesia non si ha progresso, semmai “regresso” poiché i suoi elementi furono già interamente scoperti dagli antichi.
Di questo magistero pavese ben poco ci è giunto: Monti ricevette numerose censure, oltre all’impedimento della stampa degli ultimi due capitoli della Mascheroniana, pubblicati solo postumi. Questo Monti censurato ci appare distante da quello voluto da De Sanctis, “segretario dell’opinione dominante”; se il governo dovette ripetutamente impedirne gli scritti, è palmare che Monti non ne promuoveva gli interessi. Dunque neanche esatto è definire Monti come “poeta del consenso”.
Delle lezioni pavesi ne sono pervenute solo nove e il frammento di una decima. La lezione VI è consacrata a Socrate (anche la V gli era stata dedicata) e risponde all’obiettivo di promuovere modelli ideologico-letterari “convenienti”. Monti scarta Demostene, nonostante sia un classico giudicato come “modello di eloquenza”: ciò perché lo ritiene inadatto ad essere proposto alla meditazione degli allievi. La sua eloquenza gli appare quasi tutta deliberativa e politica, “pericolosa” per l’attuale forma di stato: non più una “turbolenta democrazia” ma una “tranquilla e temperata repubblica”. “Non più di Demosteni c’è bisogno, ma di Socrati”.[42]
Nel 1804 fu sostituito da Luigi Ferretti, cui non risparmiò polemiche, e sulla cattedra nel 1808 si insediò Ugo Foscolo, che fu subito allontanato per le sue posizioni anti-napoleoniche.
L’aedo di Napoleone
Madame de Staël
Alla fine del 1804 il Nostro fece una nuova importante conoscenza. Il 30 dicembre giunse a Milano Madame de Staël, accompagnata dai tre figli e dal loro precettore, Friedrich Schlegel. Mandato un invito a Monti, si conobbero il giorno dopo: si legarono subito di una forte amicizia, testimoniata dalla fitta corrispondenza del periodo successivo[43], e dalla visita che il poeta farà alla donna a Coppet nel novembre 1805.[44]
Dopo che Napoleone s’incoronò Re d’Italia nel 1805 Monti divenne Istoriografo del Regno e poeta ufficiale di corte, percependo 6000 zecchini annui. Fu anche insignito della Legion d’Onore.[45] Compose molte opere inneggianti a Bonaparte, alle sue vittorie e alla sua politica. L’incoronazione fu il motivo de Il beneficio (1805), commissionato dal governo e sorta di investitura a poeta cortigiano, in cui richiama dall’oltretomba lo spirito di alcuni grandi italiani (tra questi Dante) che individuano nel nuovo re l’unica salvezza. Bodoni ne curò quattro edizioni a spese del governo, fra cui una in folio.
Sopra tutti famoso è il poema Il Bardo della Selva nera (1806), scritto di ritorno da un viaggio in Germania dove aveva fatto parte della delegazione congratulatasi con Napoleone per i recenti successi. Monti tenne fede alla tradizione di lasciare le opere incompiute, e anche qui si fermò, stavolta al principio del canto ottavo. L’opera si ispirò a un testo del poeta sepolcrale inglese Thomas Gray, intitolata appunto Il Bardo.[46]
Gli otto canti (dei quali i primi quattro in versi sciolti e i rimanenti in ottave) volevano cominciare un’opera di elogio totale a Napoleone, di cui si dovevano celebrare tutte le gesta. In questo senso si può leggere la fatica di cui Monti ci dà notizia al principio dell’anno: “[..]un lungo e grande lavoro che mi tiene occupato giorno e notte e Dio sa quando potrò terminarlo [..] ho intrapreso un poema, il cui piano abbraccia tutte le imprese di questo grand’uomo. Ora vedete se ne ho per un pezzo”.[47]
La storia si apre sulla discesa del Bardo Ullino, assieme alla figlia Malvina (sono tutti nomi ossianeschi), verso i resti del campo di battaglia di Albeck, dove il combattimento è appena finito. Qui salvano un giovane ferito, Terigi, e gli danno rifugio. Terigi e Malvina si innamorano, e il soldato comincia a narrare le proprie vicende celebrando il Bonaparte. Tuttavia fa solo in tempo a riportare il successo di Albeck e ad accennare a quello di Austerlitz, perché poi l’opera si interrompe.
Giuseppina di Leuchtenberg andò sposa al re Oscar I di Svezia
Il poema rimane un abbozzo, e sembra quasi un’accozzaglia di cose che gravitano attorno ad un intreccio amoroso che poco aveva a che spartire con l’intenzione dell’opera.[48] Tuttavia, come sempre, si possono cogliere pregi in singoli passaggi, e la variazione di metro dimostra una volta di più come Monti fosse “davvero il Signore d’ogni metro e d’ogni forma”.[48] Del resto, l’opera piacque a Napoleone, che solo si dolse di non comprendere appieno la lingua italiana per gustarne le meraviglie poetiche.[49]
Nel 1782 fu iniziato in Massoneria nella Loggia “La Sincera” di Forlì. Divenne poi membro della Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia, la stessa loggia di Ugo Foscolo[50], il 5 ottobre 1806, giorno in cui è ufficialmente costituita la loggia massonica Reale Eugenio a Milano, Vincenzo Monti vi recita la cantata L’Asilo della Verità.[51]
Quando Napoleone vendicò in Prussia le sconfitte contro Federico II, il poeta diede alla luce il breve componimento La spada di Federico II, dove, nel rispetto del vinto sovrano ma sempre nell’adulazione esagerata di Napoleone, il Còrso impugna la spada del nemico e la porta in patria per consegnarla al Palazzo degli Invalidi.
L’ode In occasione del parto della vice-regina d’Italia risale al marzo del 1807 e celebra la nascita di Giuseppina, figlia primogenita di Eugenio di Beauharnais (che Napoleone adottò come figlio e fece viceré) e della sua sposa Augusta Amalia, bavarese. Si intrecciano, al solito, riferimenti mitologici e storici, in una struttura che piacque ad Alessandro Manzoni[52] ma fu implicitamente derisa da Ugo Foscolo.[53]
C’è ancora spazio per La Palingenesi politica, poemetto nel quale Foscolo ha visto una derivazione dalla Pronea di Melchiorre Cesarotti, e che non ha mancato di definire “delirio”.[54] Qui, come Dio ha dato ordine alle cose, così dal caos politico si giunge, per merito dell’imperatore, all’unità delle nazioni (esattamente come avviene nel testo cesarottiano).
Non c’è più freno all’adulazione né capacità di sganciarsi dalle trite apparizioni o dalle ritrite immagini mitologiche. Monti sembra aver smarrito la vena fantastica, forse anche per la difficoltà a sostenere un idolo al quale non sapeva più bene cosa dire. Le propaggini epigonali dell’epopea sono del 1810, La Ierogamia in Creta (in occasione delle nozze viennesi di Napoleone con Maria Luisa), e del 1811, l’anacreontica (barbara come l’Invito descritto sopra) Le api panacridi in Alvisopoli, scritta su commissione del senatore del regno Alvise Mocenigo per celebrare la nascita di Napoleone Francesco, definito “re di Roma”, che, pur piacendo a Pietro Giordani,[55] confermò una stanchezza che sembrava irreversibile, ma che ben presto mostrò altri risvolti, non appena Monti si affrancò dal posticcio ruolo di poeta cesareo.
Il traduttore
«Questi è Monti poeta e cavaliero,
Gran traduttor dei traduttor d’Omero.»
I migliori risultati poetici del Monti sono in realtà costituiti dalle traduzioni, laddove non è frenato dall’esigenza di celebrare o adulare smodatamente, sicché può liberamente mettere in mostra il suo talento dialettico e formale, la sua eleganza compositiva: tra il 1798 e 1799, in una fase di profondo distacco dal suo passato papalino, cura la traduzione in ottave dell’irriverente poema satirico di VoltaireLa Pucelle d’Orléans, sulle vicende di Giovanna d’Arco, in chiave sorprendentemente comica e piena di ritmo (il lavoro sarà poi pubblicato postumo nel 1878).
Un’altra prova di virtuosismo è costituita dalla versione delle Satire di Persio (1803), ma è la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti, terminata e pubblicata nel 1810, il suo vero capolavoro.
Sin dai primi anni il testo fu per Monti un’ossessione, e già molto tempo addietro, tra il 1788 e il 1790, aveva fatto una traduzione di alcuni canti.[57] Originariamente, aveva adottato l’ottava, che utilizzò per recitare i canti I e VIII in Arcadia,[58] ma nel 1806 optò definitivamente per l’endecasillabo sciolto,[59] in cui, come detto, fu eseguita la traduzione completa.
Essa non offre sempre un’immagine fedele del testo omerico, ma un suo travestimento in equilibrate forme neoclassiche. Il mondo eroico è rappresentato con continui effetti trionfali, i sentimenti dei personaggi si arricchiscono di sfumature intimiste e malinconiche. Una traduzione che pare costruita sulla misura dell’Italia napoleonica, tra gli echi delle guerre europee e lo spirito militare che penetrava anche nell’Italia prerisorgimentale. Monti, pur conoscendo relativamente il greco, non lo padroneggiava di certo al punto da intendere l’originale. Per questo è ancor più sorprendente il risultato ottenuto; Monti ebbe la capacità di cogliere lo spirito originario dell’opera, e così poté mirabilmente restituirlo. Essendo un’opera di diletto, lontana da scadenze temporali o esigenze encomiastiche, il poeta seppe sguazzarvici, forte di un animo molto a proprio agio quando ha a che fare con le vicende mitologiche, a tal punto che la poesia omerica si illumina per mezzo dell’arte montiana.[60] Celeberrimo è il proemio:
«Cantami o Diva, del Pelide Achille,
l’ira funesta, che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempia), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atrìde e il divo Achille.»
Dopo la sconfitta di Napoleone, Monti non si fece scrupoli nel dedicare pari lodi al nuovo sovrano, l’imperatore d’Austria e Re del Lombardo-VenetoFrancesco I, e ne fu ricompensato conservando il ruolo di poeta di corte, anche se gli zecchini annui si ridussero a 1200. Ci fu tuttavia minore entusiasmo, e tutto ciò che partorì furono due azioni drammatiche rappresentate alla Scala, rispettivamente il 15 maggio 1815 e il 6 gennaio 1816, intitolate Il mistico omaggio e Il ritorno di Astrea.
Il Monti di questi anni rivendica il merito di una “riforma” letteraria intervenuta nel ventennio tra la Bassvilliana e la sua traduzione dell’Iliade, passando per la Mascheroniana; una ripresa dello studio dei classici, e di Dante. Lo afferma in una lettera del 1815, rispondendo all’invito di scrivere lui una prefazione alla Biblioteca Italiana, periodico voluto dall’Austria.
Nella lettera dice anche che due ostacoli lo disturbano: la parte scientifica, per la quale ha bisogno che “altri gli forniscano il materiale”, e il suo riconoscersi come personaggio fondamentale per la letteratura di allora, e quindi la prospettiva di ritrovarsi a parlare di sé stesso nella prefazione (non volendosi dare meriti altrui ma nemmeno omettere ciò di cui si crede meritevole). Importante è la parola “Riforma”, che veniva utilizzata in origine per il Neoclassicismo; ma Monti fa partire questa riforma dal 1793 (il Neoclassicismo nasce secondo Carducci con la pace di Aquisgrana nel 1748 e per gli studiosi più recenti con le scoperte di Pompei e gli scritti di Winckelmann) e la fa concludere al più tardi nel 1812; la descrive come riforma esclusivamente letteraria e quindi in niente debitrice a Winckelmann, alle arti, all’archeologia.
“Riforma” è una parola d’autore. Questo convalida le tesi di Carducci, sul fatto che quello che noi chiamiamo Neoclassicismo si occupasse non della vecchia letteratura (De Sanctis) ma della nuova letteratura. Monti vede il futuro nel passato: per lui il poeta più attuale è Dante. Spezza così il primato petrarchesco di allora in favore di Dante che era considerato duro, aspro, talvolta sgradevole, affiancandovi Omero, “il più grande dei poeti”.
Ancora nel 1815 Monti rifiutò di assumere la direzione della Biblioteca Italiana, e questa fu assunta dall’Acerbi.
Quattro anni più tardi compose un inno a lode di Francesco, Invito a Pallade.
Nel 1822 morì il genero Giulio Perticari, che il poeta considerava come un figlio nonostante un precedente litigio, e a questo dolore si unì la diffamazione cui la figlia Costanza andò incontro, accusata di aver trascurato il marito o addirittura di averlo ucciso. Alcune voci pretesero addirittura l’esistenza di una complicità del padre nel presunto complotto. Addolorata, Costanza tornò a vivere con i genitori.
Nel 1825 la “tenera amica”[64]Antonietta Costa, marchesa genovese, chiese a Monti un componimento in occasione delle nozze del figlio Bartolomeo con la marchesa Maria Francesca Durazzo. Da ciò nacque il Sermone sulla mitologia, poemetto in sciolti, feroce invettiva contro le manifestazioni orride e macabre del romanticismo nordico, colpevole di aver scalzato gli dèi dalla poesia. In particolare depreca la traduzione della Lenore di Gottfried August Bürger fatta da Giovanni Berchet e il ritorno in auge dei temi ossianico–cimiteriali di gusto lugubre preromantico. Evidenti paiono i richiami ad alcune opere critiche di Voltaire[65] ma anche all’ode Gli Dèi della Grecia che Friedrich Schiller aveva pubblicato nel 1788. Ad avvalorare tale tesi è il poeta stesso, definendo Schiller secondo solo a Shakespeare nella gerarchia delle sue preferenze letterarie.[66] Vanno ravvisati anche rimandi all’inno Alla Primavera di Leopardi (1824).[67] Monti prende così posizione classicista nella polemica anti-romantica suscitata da Madame de Staël.
Come si può facilmente immaginare, l’opera non lasciò indifferenti, e in parecchi, ritenendo un simile gusto neoclassico ormai fuori dal tempo, scrissero opere polemiche in risposta al Sermone: la più famosa è quella di Niccolò Tommaseo[68]. Può apparire quindi sorprendente che il vecchio Monti si dimostri ancora così chiuso al gusto romantico, dopo certe virate del passato e della stessa senilità, ma intelligentemente Cesare Cantù dimostrò come fossero qui colpite solo le manifestazioni macabre del Romanticismo (nonostante il montiano Aristodemo che ricordava direttamente Edward Young), antitetiche alla concezione “diurna e solare” della poesia montiana.
Nello stesso anno vibrò di sincera gioia nel celebrare le nozze delle due ultime figlie di Gian Giacomo Trivulzio, Elena e Vittoria, cui dedicò l’idillio Le nozze di Cadmo ed Ermione, dove, alla presenza degli Dèi, esclusa Giunone, si esaltano i protagonisti e con essi la scrittura, di cui Cadmo, il mitico fondatore di Tebe, si dice fosse stato l’inventore.
Il ritratto di Costanza Monti Perticari dipinto da Filippo Agricola
Contemporaneamente, Monti scriveva anche canzoni più intime e familiari, come il dolcissimo sonetto Per un dipinto dell’Agricola, dedicato alla figlia Costanza, che era stata ritratta dal pittore, o come la canzone liberaPel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler, composta tra il settembre e l’ottobre del 1826. Qui, la moglie e la figlia vengono definite solo conforto alla vecchiaia del poeta, e solo motivo di dispiacere per il prossimo abbandono di un mondo che riserva solo sofferenze. Era come se “la vecchiezza, non che inaridisse la vena dell’affetto, anzi le fece più abbondante. Così, negli ultimi anni del suo vivere, egli era l’aquila che, stanca di tanti arditissimi voli, stanca di alzar le penne fino al sole o di mescersi coi nembi e le procelle, ritornava al nido per riposarvisi, chiudendo le grandi ali sul capo dei suoi cari”. Nell’opera Monti ripercorre anche la propria vicenda letteraria e umana.[69]
Si schierò quindi in difesa dell’uso in letteratura della mitologia e della tradizione classica, ma al tempo stesso mantenne buoni rapporti con gli esponenti delle nuove tendenze romantiche e nel 1827 espresse giudizi entusiastici sulla lettura dei Promessi Sposi. Si inserì nella disputa sulla questione della lingua, ponendosi su posizioni fortemente avverse al padre Antonio Cesari e ai puristi, sminuendo il Trecento per passare in rassegna tutti gli uomini di cultura del Settecento.[70] In questa linea si situano i sette volumi della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, in cui, variando con maestria i toni del discorso, attacca i cruscanti mostrando molti errori da loro commessi in merito a singoli vocaboli.
Negli ultimi anni di vita, a partire dal 1816 e fino alla morte, ritornò sul poema in tre canti in endecasillabi sciolti La Feroniade, iniziato già nel periodo romano per esaltare i progetti di bonifica delle paludi pontine, e ora ripreso con ossessiva cura formale, ma comunque non concluso e stampato postumo nel 1832. La Feroniade è anche un modo di affermare una sua estraneità alla storia e al presente, proprio da parte di uno scrittore che aveva costruito la sua carriera sulla partecipazione della letteratura alle trasformazioni politiche.
Lapide sulla casa in cui morì Vincenzo Monti in via Giuseppe Verdi a Milano
Monti perse gradualmente l’uso della vista e dell’udito, e nell’aprile del 1826 subì un attacco di ictus con emiplegia che paralizzò la parte sinistra della sua persona. L’attacco si ripeté nel maggio 1827, e l’agonia dell’ultimo anno fu alleviata, oltre che dai cari, anche dalle visite di Alessandro Manzoni.[71]
Chiesti i sacramenti, morì in pace. Così Paride Zajotti ci narra il suo ultimo momento di vita, il 13 ottobre 1828, a Milano:
«La mattina del 13 a sette ore e qualche minuto il Monti mandò senz’affanno un facile sospiro, e chinò lievemente la testa; tutti stavano immoti e tacevano: un grido della figlia ruppe quel tetro silenzio. Vincenzo Monti era passato.»
Vincenzo Monti è stato molto criticato per i continui cambiamenti di credo politico (su tutti valga il giudizio espresso dal De Sanctis che lo bolla come «il segretario dell’opinione dominante»)[74]. Cesare Cantù ha voluto definire la famosa lettera al Salfi “inescusabile documento”.[75] Tuttavia le posizioni sono state discordi e si è spesso riconosciuta una coerenza nell’attaccamento alla patria, cui sacrificò le sue opinioni di facciata.[76] Ancora, un paladino della critica fascista come Vittorio Cian ha addossato tutta la responsabilità alla sete mondana della moglie Teresa Pikler, che avrebbe indirizzato il succube marito verso il potente di turno.[77]
I suoi repentini mutamenti di posizione non furono ben visti da Giacomo Leopardi, che lo definì «poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo», anche se certamente le basi della formazione giovanile leopardiana, neoclassica, non possono essere disgiunte dalla lezione montiana. Nello stesso Zibaldone, in fondo si parla per lui anche di “volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa o dignitosa grazia del verso”, specialmente “nelle Cantiche”.
Del Nostro fu più volte criticata l’ispirazione poetica, dovuta per lo più al bisogno di denaro, ma gli si riconoscevano grandi doti di poeta. Su una posizione abbastanza critica fu Ugo Foscolo, che ironizzò su Monti chiamandolo “gran traduttor dei traduttor d’Omero”, in quanto aveva tradotto l’Iliade senza sapere il greco, ma rielaborando semplicemente in maniera poetica le traduzioni precedenti, soprattutto latine. Tra loro, nonostante tutto, si era stabilita qualche affinità di pensiero. Foscolo difese spesso Monti all’interno di polemiche letterarie, e ammirò sopra tutte le opere montiane La Feroniade.[78] Questo poema fu unanimemente apprezzato, e il Giordani arrivò a dire: “Oh quanto è maggiore d’ogni altra sua cosa! Veramente questa lo manifesterebbe il primo de’ poeti viventi in Europa”.[79]
Foscolo ebbe spesso, come visto, opinioni contrarie al Monti, in specie laddove questi elogiava Bonaparte, né si dimentichi il ruolo profondamente diverso esercitato dai due nella storia della letteratura italiana. Foscolo infatti, più inquieto e ribelle, tese a una forma di intellettuale nuovo, cui era estraneo Monti, ancora legato alla vecchia immagine dell’uomo di cultura e meno percorso da spiriti anticonformisti, che non facevano parte della sua natura.
Tra i contemporanei, Monti godette di particolare favore presso Stendhal, che in merito alla produzione tragica ebbe l’ardire di definirlo “Racine d’Italie”.[80] Vanno ricordati anche gli elogi di Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini in merito alla Bassvilliana. Il primo fu “entusiasta appassionato” del poema mentre l’abate disse: “Costui minaccia di cader sempre colla repentina sublimità de’ suoi voli, ma non cade mai”.[81] Alfieri apprezzò anche le tragedie montiane, in particolare l’Aristodemo, quella che più si avvicina al suo spirito per profondità drammatica.
Secondo Giuseppe Mazzini, Monti rappresenta l’ultimo esponente della corrente neoclassica, ormai soppiantata da quella romantica. Il poeta romagnolo avrebbe avuto, sempre secondo Mazzini, solo epigoni che non vale la pena ricordare, eccezion fatta per il brescianoCesare Arici.[82]
In seguito, all’interno di una critica spesso discorde, si sono levate, a lode convinta del poeta, le voci di Tommaseo (che definì “immortali” i Pensieri d’amore[83] ) e di Giosuè Carducci, che apprezzò in particolar modo i temi classicheggianti e il linguaggio arcadico. Carducci curò, tra il 1858 e il 1885, varie edizioni delle poesie montiane, e sul suo esempio lo studioso reggiano Alfonso Bertoldi, allievo di Carducci all’Ateneo bolognese, diede alla luce, anche in collaborazione con Giuseppe Mazzatinti, due edizioni delle poesie e una, monumentale e completa, dell’Epistolario, comprendente lettere scritte tra il 1771 e il 1828.[84] Bertoldi fu il primo a restituirci nella loro interezza i carteggi del poeta. Inoltre, con la cura propria della critica positivista, diede notizie molto precise sulle varie opere, anteponendo a ciascuna un cappello introduttivo in cui, oltre all’occasione che aveva generato il componimento specifico, forniva un breve quadro della situazione storica.[85] Il lavoro bertoldiano è stato il modello degli studi del secolo successivo.[86] Si è vista una particolare fioritura delle opere critiche negli anni a cavallo del 1930, per celebrare il centenario della morte di Monti.
1788 – Sulla morte di Giuda (sonetti), Alla marchesa Malaspina della Bastia (ode)
1793 – Bassvilliana (poema incompiuto), Invito di un solitario a un cittadino
1797 – La Musogonia (poema incompiuto, iniziato nel 1793), Prometeo (poema incompiuto), Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo (poemetti), Per il congresso di Udine (canzone)
1799 – Nell’anniversario del supplizio di Luigi XVI (inno)
1800 – Per la liberazione dell’Italia (canzonetta), Dopo la battaglia di Marengo, traduzione dell’opera di VoltaireLa Pucelle d’Orléans → La pulcella d’Orleans
^Alfonso Bertoldi (a cura di) in Vincenzo Monti, Poesie, Firenze, Sansoni, 1957, pp.28 e segg., cfr. anche E.Q.Visconti, Due discorsi inediti, Milano, Resnati, 1841
^Rodolfo Renier, in Fanfulla della domenica, n. del 15 novembre 1903
^Così chiamata in onore della protettrice montiana
^Con il nome di Telesilla Meonia; di grande ingegno e cultura, scrisse anche un poemetto in ottava rima, L’origine della rosa, che tanto rese fiero il padre, come si evince dalle lettere al Perticari e al Lampredi
^Veneri, pp.87 e segg.; cfr anche l’opinione di Arturo Graf e di Carlo Steiner
^Introduzione al Canto I della Bassvilliana in: Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi. A cura di Alfonso Bertoldi. Firenze, Sansoni, 1891.
^Bevilacqua, p.163; è L’Esame su le accuse contro Vincenzo Monti, in cui, oltre a difendere il cantore, si scaglia aspramente contro i detrattori
^Cesare Cantù, Biografia di Vincenzo Monti, Torino, Utet, 1861, p.120
^L’intero brano del Cuoco contro Nicorio [i.e. V. Monti], contenuto solo in alcuni esemplari dell’opera, è riportato in: Guido Bustico, Bibliografia di Vincenzo Monti, Firenze, Olschki, 1924, p.133.
^Per le tappe della diatriba con Foscolo vedere Bevilacqua, pp.163-168
^Tutte le lezioni pavesi che ci sono pervenute si possono leggere in Vincenzo Monti, Prose scelte. Lezioni d’Eloquenza e Lettere (prefazione di Lodovico Corio), Milano, Sonzogno, 1891
^I. Morosini, Lettres inédites de M.me de Staël a V. Monti, 1805, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. XLVI, 1905, pp. 1-64
^M. Borgese, Costanza Perticari nei tempi di Vincenzo Monti, Firenze 1941, pp. 51-55
^Nel 1807 scrisse l’epigramma Te deum; Gamelie Dee, per deridere coloro che avevano celebrato la nascita di Giuseppina. L’ode montiana cominciava con le parole “Fra le Gamelie vergini”
^Giordani a Monti, 6 maggio 1811, in Lettere inedite del Foscolo, del Giordani e della signora de Stael a V.M. (a cura di Giovanni e Achille Monti) Livorno, Vigo, p.168
^Si trascrive il testo stabilito nell’Edizione nazionale, vol. II, U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bezzola, Firenze, F. Le Monnier, 1961, p. 446: Epigramma IX. Contro Vincenzo Monti. La prima attestazione dell’epigramma foscoliano, tanto elegante quanto sferzante, si trova in una lettera di Camillo Ugoni a Giovita Scalvini del 1812, riferita in: C. Cantù, Monti e l’età che fu sua, Milano, f.lli Treves, 1879, pp. 185-186: «Monti ignora il greco, lo sai. Foscolo ha scritto sotto al suo ritratto: “Questi è Monti poeta e cavaliero, / Gran traduttor dei traduttor d’Omero.”.
^Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830. (Decennio 1781-1790), Faenza, P. Conti, 1883, p. 506.
^Veneri p.102; per Cunich cfr. Lettera di V.M. a U.Foscolo del 15 aprile 1807. Nello stesso anno M. inviava a Foscolo la traduzione del Canto I, che quest’ultimo unì alla propria nel celebre Esperimento di traduzione dell’Iliade (1807)
^Per l’opera di Pyrker si valse della collaborazione di Andrea Maffei, suo estimatore e imitatore nei versi che scrisse.
^La Casa Museo di Vincenzo Monti, su casemuseoromagna.it, Coordinamento Case Museo dei Poeti e degli Scrittori di Romagna. URL consultato il 1º agosto 2024 (archiviato il 21 giugno 2023).
^Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Rizzoli, Milano 2013, p. 936.
^Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia (1837), in Scritti editi ed inediti, Imola, 1910, VIII, pp.350-5
^Niccolò Tommaseo, Dizionario Estetico, Firenze, Le Monnier, p.692; «I brevi sciolti, amorosi, di dodici o venti versi, che nel fervore della passione sfuggirono al Monti, resteranno, io credo, immortali»
^Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti (a cura di), Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti, Vol I: 1771-1807, L. Roux e c., Torino – Roma 1893; Vol. II: 1808-1828, Roux Frassati e c., Torino 1896; Alfonso Bertoldi (a cura di), Epistolario di Vincenzo Monti, Firenze, Sansoni, sei volumi tra 1928 e 1931
^Vedere la presentazione di Bruno Maier in Vincenzo Monti, Poesie (a cura di A.Bertoldi), Firenze, Sansoni, 1957
Angelo Romano, Vincenzo Monti a Roma, Manziana, Vecchiarelli, 2001.
Angelo Romano, Le polemiche romane di Vincenzo Monti (1778-1797), Manziana, Vecchiarelli, 2005.
Angelo Romano, Bibliografia di Vincenzo Monti (1924-2004), Milano, Cisalpino, 2009.
Alberto Scrocca, Studi sul Monti e sul Manzoni, Napoli, L. Pierro, 1905.
Carlo Steiner, La vita e le opere di Vincenzo Monti, Livorno, Giusti, 1915.
Giorgio Trenta, Delle benemerenze di Vincenzo Monti verso gli studi danteschi e verso la letteratura moderna. Studio comparativo della «Bassvilliana» colla «Divina Commedia», Pisa, Tipografia Editrice Galileiana, 1891.
Quinto Veneri, Vincenzo Monti (1754-1828), Torino, Paravia, 1941.
Leone Vicchi, Della vita e degli scritti di Vincenzo Monti, Cesena, C. Bisazia, 1867.
Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, 4 voll., Faenza , P. Conti (poi Fusignano, E. Morandi), 1879-87.
Vincenzo Monti nella cultura italiana, a cura di Gennaro Barbarisi, 3 voll., Milano, Cisalpino, 2005-06.
Bonaventura Zumbini, Sulle poesie di Vincenzo Monti. Studi, Firenze, succ. Le Monnier, 1886.
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Ferruccio Parri
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Ferruccio Parri -foto segnaletica-
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Ferruccio Parri
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
Ferruccio Parri
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Roccantica in Sabina-già Rocca d’Anticodall’antico nome latino “Rocca de Antiquo“:< poichè se vi ha luogo in Sabina che d’ogni parte vanti tanto di memorie profane de’ secoli di Saturno, che di memorie ecclesiastiche della primitiva chiesa, egli è certamente questa, sia per la sua rocca forte per struttura e natura, per gli avanzi di anticaglie di cui sono dissiminati i dintorno, sia pei trofei antichi della pietà cristiana ne’ scacri templi>.
“………consurgere tecta,
Arcis et Antiquae protes ventura videbit…”
(Massari:Sabiniade, lib.I)
Roccantica: “Dall’Eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo”
Sacro e profano: dall’eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo, nel silenzio dei Monti Sabini.
Le case in pietra compatte tra loro e sovrastate dalla Torre e dal Monastero delle Clarisse, viste dalla valle, fanno già intuire l’atmosfera che si respira tra i vicoli di Roccantica. In questo piccolo borgo, sorto alle pendici dei Monti Sabini e su cui svetta il Monte Pizzuto, una delle cime più alte dell’Appennino Sabino, il tempo sembra essersi fermato. Tra le strette stradine pedonali del centro storico e le piazzette raccolte, si respira un’atmosfera suggestiva e si viene accolti da un rigenerante silenzio. Il borgo, abitato da poco più di 600 persone, custodisce le sue tradizioni storiche legate al periodo medioevale con eventi rievocativi, che animano il borgo nel mese di Agosto, e con una sartoria di abiti medioevali che confeziona vestiti per le celebrazioni di tutta Italia. Anche la rigogliosa natura montana della zona non è da meno, portando con sé storie e leggende. Come nel caso della sorprendente dolina carsica del Revotano, raggiungibile a piedi a pochi chilometri dal borgo, in cui sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Vi facciamo conoscere questo tranquillo borgo della Sabina, luogo di partenza di escursioni e tour naturalistici. Un borgo che nonostante lo spopolamento subìto nel corso degli anni, mantiene fascino e un antico centro storico tra i più integri del Lazio.
Le origini di Roccantica
Le origini accertate del borgo risalgono alla menzione di un “fundus antiquum” che rientra tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa, nell’ 840 dopo Cristo, e in seguito tra quelli di Grimaldo, figlio di Benedetto di Ubaldo dei duchi di Benevento. Fino a questo momento sembra ci fossero solo terreni e abitazioni, senza l’incastellamento. Nel 1061 passò sotto la giurisdizione della Santa Sede, diventando Castra Specialia, castello di proprietà della Chiesa. Fu da subìto fedele a Papa Niccolò II, che qui si rifugiò perché inseguito dalle truppe alleate di Benedetto X. Nel XIV secolo, a differenza di altre comunità sabine, non partecipò alla rivolta contro l’autorità pontificia e nel 1415 fu concessa in feudo agli Orsini. Tornò alla Camera Apostolica nel 1728.
Il borgo in passato si chiamava Rocca d’Antico, derivando probabilmente dal latino Anticus, ‘anteriore’, ‘che sta davanti’. Nel 1923 passa dalla provincia di Perugia in Umbria, alla provincia di Roma nel Lazio, e nel 1927 passa a quella di Rieti, venendo anche accorpata al comune di Aspra Sabina. Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando autonomia comunale.
Cosa vedere a Roccantica
Entrando da una delle tre Porte antiche del borgo, e curiosando tra gli scorci dei vicoli, si raggiungono le chiese gotiche di San Valentino e quella di Santa Caterina D’Alessandria, che conserva affreschi quattrocenteschi che illustrano la vita della Santa. Risalendo sulla cima del borgo, e con una stupenda vista panoramica, c’è la Torre Niccolò II che fungeva da difesa e da vedetta come la triplice cerchia di mura di epoca medioevale. Sempre sulle zone più alte borgo sorge il Monastero delle Clarisse, ex Castello Ursino, e poco distante la piccolissima chiesa di Piedirocca, con all’interno l’affresco raffigurante Maria in trono con Bambino, luogo di pellegrinaggio della popolazione del posto. Per gli amanti delle escursioni, lungo il sentiero che conduce alla gigante dolina carsica del Revotano si incrocia l’Eremo rupestre di San Leonardo che si affaccia a picco su un torrente sottostante e con tracce di affreschi del ‘400.
Da visitare anche il Roseto Vacunae Rosae, un grande giardino botanico dedicato alle rose, con oltre 5mila varietà, allestito con fontane ornamentali, privato ma aperto al pubblico con cadenza stagionale. Nei dintorni del borgo, seguendo il torrente Galatina, nella zona degli Eremi di S.Michele e S. Leonardo, fra boschi rigogliosi si trova la suggestiva cascata Pozze del Diavolo.
Cosa mangiare a Roccantica
Uno dei piatti tipici della cucina locale è il Frittello, a cui è dedicata una sagra nel mese di marzo, che consiste in cavolfiori in pastella fritti. Un altro prodotto pregiato della zona è la castagna rossa del Cicolano, oltre alla produzione dell’olio extra vergine della Sabina. Non mancano i ristoranti dove mangiare bene, anche piatti della tradizione: “Le cucine del Borgo”, “La Trattoria del Compare”, la taverna “La Tana del Branco”. E per gli amanti della cucina vegetariana “La Tacita Country Club”.
Dove dormire a Roccantica
Nel borgo di Roccantica ci sono alcune possibilità di pernottamento. Si può soggiornare all’interno del borgo nella struttura “La Runa House”, un ostello dove sono ammessi anche gli animali. L’ “Agriturismo San Lorenzo” è invece una cascina ristrutturata immersa invece tra vigne e oliveti del borgo. Poco distante dal centro storico di Roccantica ci sono altre soluzioni di pernottamento: “La Casa Nettarina”, a Poggio Mirteto; “La vecchia Quercia”, a Selci; “Agriturismo Nociquerceto”, a Tarano.
Come arrivare a Roccantica da Roma
Per raggiungere Roccantica da Roma: Uscire all’uscita Ponzano Romano-Soratte dell’autostrada A1, proseguire fino alla SS 313 seguendo le indicazioni per Roccantica, svoltare sulla SP 48c.
Roccantica sorge a 457 metri di altezza sul livello del mare, su un costone del Monte Pizzuto, che arriva ad un’altezza di 1.288 m s.l.m., nel territorio comunale il picco del Monte Menicoccio, è di 1.204 m s.l.m
Torre di Niccolò II è ciò che resta delle origini del Borgo, originariamente protetto da una triplice cerchia di mura. Costruita prima dell’anno Mille, la torre ha sezione quadrata ed ha il nome del papa con il quale i Roccolani, parteggiarono contro Benedetto X. Niccolò II ricompensò la fedeltà del popolo con vari privilegi.
Architetture religiose
Sono di notevole interesse le chiese gotiche di San Valentino e di Santa Caterina; quest’ultima è stata affrescata nel 1430 da Pietro Coleberti con otto dipinti sulla vita della santa Caterina d’Alessandria.
Aree naturali
Nel territorio comunale di Roccantica esiste la grande dolina, nota come Revotano, del diametro di circa 250 metri, in cui, secondo una leggenda locale, sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando dignità comunale.
ROCCANTICA in SABINA
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-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
POESIE DI VERA PAVLOVA– Tradotte da Linda Torresin
Vera Pavlova-di ascendenze ebraiche, nasce a Mosca il 4 maggio 1963. Vera Pavlova si laurea con il massimo dei voti presso la prestigiosa Accademia di musica Gnesin, specializzandosi in storia della musica. Lavora come guida al Museo Šaljapin, pubblicando anche saggi di musicologia.
Comincia a scrivere versi a vent’anni, in clinica ostetrica, dopo la nascita della sua prima figlia. Nel 1988 la rivista letteraria “Junost’” pubblica alcuni versi della Pavlova, ma il vero successo arriva nel 1996 dopo la pubblicazione di 72 sue poesie sul quotidiano “Segodnja”. Da allora la Pavlova firmerà ben diciotto libri, tradotti in una ventina di lingue.
Attualmente la poetessa vive tra Mosca e New York.
Vera Anatolyevna Pavlova (‹See Tfd›Russian: Вера Анатольевна Павлова; born 1963)[1][2] is a Russian poet.
Biography
Vera Pavlova was born in Moscow, 1963. She studied at the Oktyabryskaya Revolyutsiya Music College and only started publishing after graduation.[2] She graduated from the Gnessin Academy, specializing in the history of music.
She is the author of twenty collections of poetry, four opera libretti, and lyrics to two cantatas. Her works have been translated into twenty five languages. Her work has been published in The New Yorker.[3]
Vera Anatól’evna Pávlova è nata a Mosca il 4 maggio 1963. Si è diplomata presso l’Istituto Musicale “A.G. Shnitke” e l’Accademia di Musica“Gnesinych”, specializzandosi in storia della musica. Ha cominciato a scrivere poesie a 20 anni, dopo la nascita della prima figlia Natal’ja, oggi cantante lirica. In una intervista ha dichiarato: «La mia prima poesia è stata un messaggio inviato a casa dal reparto maternità dell’ospedale. Avevo appena partorito la mia prima figlia. Fu un genere di felice esperienza mai provata né prima né dopo. La felicità fu così intollerabile, che mi spinse a scrivere una poesia per la prima volta. Da allora scrivo e ricorro alla scrittura ogniqualvolta mi sento intollerabilmente felice o infelice. E poiché la vita mi riserva in abbondanza occasioni per entrambi i sentimenti, negli ultimi ventisei anni ho scritto praticamente senza sosta. Non posso permettermi di stare lontano dalla scrittura. Potrebbe essere chiamata tossico-dipendenza, ma io preferisco chiamarla la mia forma di metabolismo».
Parlando di sé con estrema franchezza, la sua poesia è rivolta principalmente alla vita privata e intima della donna contemporanea. Linda Torresin scrive: «Musicista prima ancora che poetessa, le armonie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame tra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia di Vera Pavlova. La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – è questa per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita».
È una poesia di breve intenso respiro, scritta tutta d’un fiato. Mi fa venire in mente Ars poetica del poeta polacco Leopold Staff, da me tradotta tanti anni fa:
Un’eco dal cuore sussurra:
«Prendimi prima ch’io languisca,
Che diventi diafana, azzurra,
Che impallidisca, che sparisca!»
Come una farfalla l’afferro,
Non per sbalordire il mondo,
Ma per rendere l’attimo eterno,
Perché tu comprenda a fondo…
Ha scritto più di venti raccolte di poesie, cinque libretti d’opera e quattro testi per cantata. È stata tradotta in venticinque lingue. Vive tra Mosca e New York.
Poesie di Vera Pavlova tradotte da Paolo Statuti
* * *
Un hobby? – Ce l’ho: raccolgo
arcobaleni, meteoriti,
sogni, cartoline del paradiso,
conversazioni al buio,
cartellini NON DISTURBARE,
pareri di esperti,
anelli di fidanzamento
e programmi di concerti.
* * *
Alle sette è già buio.
Mi gusto un libro in poltrona.
Una foglia gialla è volata dentro,
ha chiesto asilo.
Da’ ospitalità alla rifugiata
e prendila come segnalibro.
Libro, cosa viene dopo?
Un breve epilogo.
* * *
Piego un gesto amorevole come latta
e costruisco una casa, cominciando dal tetto.
Scrivo ciò che voglio leggere.
Dico ciò che voglio sentire.
Scrivo: la tua amarezza è ardente.
Taccio, ti compatisco per il Braille.
Formiche, entrate in casa, trascinando
la tenerezza cento volte più pesante di voi stesse!
in modo che tu non possa pronunciarla impulsivamente
e, riflettendoci, possa fermarti
a metà…
*
La solitudine è una malattia
trasmissibile sessualmente.
Io ti lascio in pace, e fallo anche tu.
Stiamo un po’ da soli
per parlare di questo e quello
senza dire tutto,
abbracciamoci e capiamo:
chi è solo non si può curare.
*
Mi tieni fra le tue braccia e pensi forse di avermi presa?
Ma io mi libererò del corpo come coda di lucertola,
e tu dovrai cercare tra le stelle
ciò che mi cercavi tra le gambe.
La traduzione è stata condotta sulla base del testo russo pubblicato in: Vera Pavlova, Sem’ knig, Moskva, Eksmo, 2011
Traduzione dal russo di Linda Torresin
NIENTE FUGHE
la poesia concreta di Vera Pavlova
di Linda Torresin
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VERA PAVLOVA Poetessa russa
Per la russa Vera Pavlova (1963), musicista prima ancora che poetessa, le melodie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame fra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia della moscovita, come riassume Pavel Belickij (“Nezavisimaja gazeta”): «La carnalità, col suo gusto e il peso, la quintessenza della carnalità, musica degli umori come musica della vita, carnalità degli amplessi, la vita della carne, la morte della carne e la sua legittima trasfigurazione nella poesia: ecco l’universo poetico di Vera Pavlova». La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – questa è per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita.
Dopo Achmatova e Cvetaeva, la Pavlova si conferma dunque la nuova voce della poesia femminile russa.
Lo Studio di Pirandello ha sede in via Antonio Bosio in un villino costruito intorno agli anni Dieci nell’allora Via Alessandro Torlonia in una zona di Roma immersa nel verde e che ritorna in numerose pagine pirandelliane.
Corrado Alvaro così ricorda il verde che circondava la casa:“Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
L’appartamento è costituito da un ampio soggiorno-studio, da una camera da letto e da una terrazza. L’arredo è quello originale: risale al 1933, quando lo scrittore vi si trasferì al suo rientro in Italia, dopo gli anni trascorsi a Berlino e a Parigi. Parte della mobilia, in stile fiorentino, risale al 1910 e proviene da precedenti abitazioni dello scrittore (una scrivania, due librerie a vetrine, due savonarola). Acquisti successivi furono invece il grande divano, le poltrone, una seconda scrivania, alcune scaffalature e l’intera camera da letto, in stile razionale.
La biblioteca comprende circa 2.000 volumi appartenuti allo scrittore. Lo studio conserva inoltre gli oggetti d’uso, compresa la piccola macchina da scrivere portatile divenuta un inseparabile strumento di lavoro. Tra i quadri figurano quattro opere del figlio Fausto. Numerosi i manoscritti relativi a poesie, romanzi e drammi.
Lo Studio, oltre ad essere il luogo della scrittura (nei primi anni della permanenza in via Bosio, Luigi Pirandello portava a compimento Pensaci Giacomino! e Così è (se vi pare), era anche luogo di conversazione e ritrovo: il divano e le poltrone accoglievano i suoi incontri con i familiari e con le personalità a lui vicine; ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Lucio d’Ambra, Silvio d’Amico, Eduardo De Filippo.
Dalla luminosità e dall’ampiezza dello Studio si passa alla sobrietà di una stanza da letto dalle linee essenziali con un terrazzo dal quale, allora, si potevano scorgere i pini di Villa Torlonia. Gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa della Reale Accademia d’Italia sono ancora conservati nell’armadio.
È in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 Pirandello muore.
Di quel giorno, Corrado Alvaro ha tracciato pagine indimenticabili:
Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. … Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di “povero cristo” … E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. … Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata .. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale.
[Le citazioni di Corrado Alvaro sono tratte dalla Prefazione a Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, pp. 6-41]
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Luigi Pirandello
Biografia di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella contrada Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento) da Caterina Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello. La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune miniere di zolfo. Nel 1886 dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, Luigi Pirandello rientra a Girgenti, per lavorare con il padre nella gestione di una miniera di zolfo. Nel 1886 si iscrive all’Università di Palermo, per poi trasferirsi nel 1887 a Roma dove frequenta la Facoltà di Lettere, nel 1889, a causa di un contrasto con Onorato Occioni, professore di Lingua e Letteratura Latina, si trasferisce all’Università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con la tesi Suoni e sviluppo dei suoni nella parlata di Girgenti.
Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Länder, di cui a Bonn si è innamorato.
Nel 1892, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive grazie ad un assegno mensile del padre. Nell’ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana che lo esorta a scrivere narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L’esclusa. Non abbandona comunque la poesia: escono nel 1895 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portolano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (detta Lietta, 1897) e Fausto (1899).
La vita familiare scorre abbastanza tranquillamente ma a partire dal 1903 l’allagamento della miniera di Aragona condiziona negativamente il tenore di vita familiare, e i disturbi nervosi di Maria Antonietta, fino ad allora latenti, si aggravano. Lo stato di alterazione psichica di Maria Antonietta si riverserà sempre più spesso sulla famiglia. Luigi assiste la moglie fino al 1919, anno in cui la donna verrà ricoverata in una casa di cura (dove resterà fino alla morte nel 1959).
Luigi modifica il rapporto fino ad allora totalmente disinteressato con la letteratura ed inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali. In opposizione all’estetismo dominante, fonda con Ugo Fleres ed altri amici il settimanale letterario «Ariel», dove tra l’altro pubblica il testo teatrale L’epilogo (poi La morsa). Dal 1898 al 1922 insegna Stilistica presso l’Istituto Superiore Femminile di Magistero di Roma.
Nel 1904 esce a puntate sulla «Nuova Antologia» il romanzo Il fu Mattia Pascal; Pirandello riscuote un tale successo che uno dei più importanti editori di Milano, Emilio Treves, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere.
Nel 1908 pubblica due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario ordinario. L’anno successivo pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci; la seconda parte uscirà in volume nel 1913. Del 1911 è anche il romanzo Suo marito. Nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira …, ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano parte volontario, presto viene fatto prigioniero nel campo di Mauthausen prima e in quello di Plan poi. La prigionia di Stefano durerà tre anni, il periodo è testimoniato da un intenso scambio epistolare tra padre e figlio.
Gli anni della Grande Guerra, sono vissuti da Luigi ancora più dolorosamente per la perdita, nel 1915, dell’amata madre Caterina.
Nel 1916 e nel 1917 scrive alcune delle più celebri opere in dialetto siciliano poi tradotte in italiano: Pensaci, Giacuminu!, ‘A birritta cu’ i ciancianeddi, Liolà, ‘A giarra; Cappiddazzu paga tuttu, ‘A vilanza, La patente; sempre nel 1917 scrive Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, L’innesto, Ma non è una cosa seria; nel 1918 – anno in cui viene rappresentato Il giuoco delle parti – esce il primo volume di Maschere nude, titolo sotto cui Pirandello raccoglie i suoi testi teatrali.
Nel 1920 vengono pubblicate Tutto per bene, La Signora Morli, una e due, Come prima, meglio di prima.
Il 1921 è un anno fondamentale per il suo teatro: il 10 maggio la compagnia Dario Niccodemi mette in scena al Teatro Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore: mentre a Roma la commedia da fare viene accolta tra contrasti, Pirandello raggiunge il grande successo internazionale.
Nel 1921 inizia la stesura di Enrico IV che in una lettera a Ruggero Ruggeri egli stesso definisce una delle sue opere più originali; la tragedia di Enrico IV rappresenta il primo incontrastato successo di Luigi Pirandello. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione teatrale prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924).
Nel 1923 Adriano Tilgher pubblica Studi sul teatro contemporaneo con cui offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano in cui chiarisce la presenza nell’opera di Luigi Pirandello del contrasto tra la vita e la forma. A Pirandello inizialmente piacque l’analisi tilgheriana ma nel tempo la ritenne troppo limitante e qualche anno dopo il rapporto tra i due si interruppe.
Nel 1924 Pirandello si iscrive formalmente al partito fascista; l’anno seguente inizia l’esperienza del capocomicato con l’avventura del Teatro d’Arte che durò tre stagioni teatrali, dal 1925 al 1928, prima nella sede stabile del Teatro Odescalchi a Roma poi con l’esperienza della Compagnia nomade che portò nel mondo le innovazioni teatrali dell’autore-regista. Per la serata inaugurale del Teatro d’Arte (2 aprile 1925), Pirandello scelse l’atto unico La Sagra del Signore della Nave composto nel 1924. L’interprete per eccellenza delle sue scene è l’attrice Marta Abba, conosciuta nel 1924 a cui Pirandello resterà legato tutta la vita.
Nonostante l’adesione formale di Pirandello al Partito Fascista, il suo stile di vita ed il pensiero espresso dalla sua arte non erano certo allineati alla “filosofia” fascista, tanto meno lo erano i suoi personaggi; non si può infatti definire Pirandello un intellettuale fascista.
Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila al quale l’autore aveva lavorato per molti anni; nel 1926 e nel 1927 scrive Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Bellavita.
Nel 1928, sciolta la sua Compagnia, Pirandello inizia gli anni del suo volontario esilio, Berlino prima, Parigi poi.
La nuova colonia (1928) inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che prosegue con Lazzaro (1929) e culmina nell’opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929, mentre si trova a Berlino, è nominato membro della Reale Accademia d’Italia, parteciperà all’inaugurazione dell’Accademia alla presenza di Mussolini.
Sempre nel 1929 termina la stesura di O di uno o di nessuno e dell’atto unico Sogno (ma forse no), che verrà rappresentato la prima volta a Lisbona nel 1931; nel gennaio del 1930 a Königsberg avrà invece luogo la prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto; seguono Sgombero (1931), Trovarsi (1932), nel Quando si è qualcuno (1933). Nell’aprile del 1933 prima proiezione a Roma del film Acciajo, tratto dal regista tedesco Walter Ruttmann dallo scenario di Pirandello Gioca, Pietro! (musiche di Gian Francesco Malipiero). Alla fine del 1933 si stabilisce a Roma in un appartamento in via Antonio Bosio, nella stesso villino alloggia il figlio Stefano con la famiglia. Una volta rientrato in Italia, ritorna ad occuparsi del suo progetto di fondare il Teatro di Stato, un teatro d’arte con una sede stabile; fino alla fine dei suoi giorni sperò – invano – che il Partito lo aiutasse concretamente a realizzare il suo grande sogno.
Nel gennaio 1934, a Braunschweig, va in scena l’opera di Malipiero su libretto di Pirandello La favola del figlio cambiato: nonostante il successo di pubblico e di critica le autorità naziste vietano le repliche dell’opera; nel mese di marzo La favola andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Duce il quale, irritato, ne proibisce ogni replica.
Nel mese di ottobre Pirandello presiede il IV Convegno della Fondazione Alessandro Volta dedicato al Teatro Drammatico; per l’occasione metterà in scena La figlia di Iorio di d’Annunzio al Teatro Argentina di Roma.
Il 10 dicembre 1934 a Stoccolma gli viene consegnato il Premio Nobel per la Letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte del dramma e della scena».
Nel 1935 proseguono i suoi tentativi con il Duce per realizzare un Teatro di Stato che non si farà mai, alla fine del 1935 prima rappresentazione di Non si sa come al Teatro Argentina di Roma.
Nel 1936, deluso dal disinteresse del Partito per il suo grande progetto teatrale, Pirandello si dedica alla promozione di Marta Abba sulle scene americane. Numerosi i viaggi in Italia e all’estero, ma anche i momenti trascorsi con i familiari e gli amici più intimi. In dicembre si ammala di polmonite mentre segue le riprese del film di Pierre Chenal L’homme de nulle part tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa di via Antonio Bosio il 10 dicembre 1936.
Tra le sue carte si scoprono le ultime volontà da rispettare. Il giorno dopo la morte, un carro funebre solitario si avvia verso il cimitero del Verano dove il suo corpo verrà cremato. Le ceneri sono conservate al Caos, in una roccia all’ombra del famoso pino solitario non lontano dalla casa natia di fronte al mare africano.
Dina Saponaro – Lucia Torsello, Profilo Biografico,
in Luigi Pirandello, Opere,
a cura di Franca Angelini
Illustrazioni di Mimmo Paladino
Classici Treccani,
I grandi autori delle Letteratura Italiana
Collana diretta da Carlo Maria Ossola,
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, 2012.
MUSEI GRATUITI A ROMA
ROMA- La città eterna offre delle perle di storia e arte senza chiedervi di mettere mano al portafogli. Sono almeno 20 i musei di Roma che prevedono ingresso gratuito tutto l’anno tra cui la collezione privata di Carlo Bilotti, l’imprenditore che ha donato al comune di Roma il proprio “bottino” di opere di DeChirico, Warhol, Rotella e Severini. Anche il museo Napoleonico e della MemoriaGaribaldina, a Roma, sono gratis. Noi però vi consigliamo di visitare lo studio di Pirandello, visto che di arte a cielo aperto farete indigestione a Roma, e considerato che sicuramente avrete scelto di visitare le cose imperdibili come la Cappella Sistina o il Colosseo. E quindi in una Roma “letteraria” e meno iconica e simbolica della sua stessa storia, potete andare a vedere lo studio, che si trova sulla Nomentana, di uno dei maggiori artisti della parola. La casa è stata trasformata in museo e conserva arredi, biblioteca e cimeli originali, così come sono stati lasciati dal Pirandello.
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. Feltrinelli Editore “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
Iole Mancini.Un amore partigiano
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
Robert Capa e Gerda Taro:la fotografia, l’amore, la guerra
in mostra fino al 2 giugno 2024 a CAMERA-
– Centro Italiano per la Fotografia di Torino –
Robert Capa e Gerda Taro
TORINO-A CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino continua la mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, con 120 immagini che raccontano una delle stagioni più intense della storia della fotografia del XX secolo: il rapporto professionale e affettivo fra Robert Capa e Gerda Taro. Dai cafè della Parigi degli anni Trenta ai campi di battaglia della Guerra civile spagnola, il percorso espositivo segue le vicende di Endre – poi francesizzato André – Friedmann e Gerta Pohorylle (questi i loro veri nomi). Fuggita dalla Germania nazista lei, emigrato dall’Ungheria lui, si incontrano nella capitale francese nel 1934. In un momento in cui trovare committenze è sempre più difficile, i due inventano il personaggio di Robert Capa, un famoso fotografo americano arrivato da poco nel continente, alter ego con il quale André si identificherà per il resto della sua vita. Anche Gerta cambia nome e assume quello di Gerda Taro.
La svolta decisiva però arriva nel 1936, con l’inizio del conflitto civile spagnolo. Proprio nello scenario della prima guerra ‘fotografica’ della storia, Capa e Taro realizzano i loro scatti più noti – immagini realizzate seguendo da vicino le battaglie ma anche i momenti di vita quotidiana dei miliziani – trovando in questo impiego terreno fertile per esprimere le proprie idee antifasciste. Un impegno che costerà la vita di Gerda nel luglio del 1937, nel mezzo di una ritirata a Brunete, rendendola la prima reporter a morire sul campo. La mostra è curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, attraverso le fotografie e la riproduzione di alcuni provini della celebre “valigia messicana”, scomparsa dal 1939 e ritrovata a fine anni Novanta, contenente 4.500 negativi scattati in Spagna dai due fotoreporter e dal loro amico David Seymour, detto “Chim”.
Informazioni 14 febbraio – 2 giugno 2024 camera.to
Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)
Lunedì 11.00 – 19.00
Martedì 11.00 – 19.00
Mercoledì 11.00 – 19.00
Giovedì 11.00 – 21.00
Venerdì 11.00 – 19.00
Sabato 11.00 – 19.00
Domenica 11.00 – 19.00
Sede espositiva
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino
Fred Stein, Gerda Taro e Robert Capa, Cafe de Dome, Parigi, 1936
Estate Fred Stein. Courtesy International Center of Photography
Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, nei pressi di Espejo Fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre, 1936
The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010. Courtesy International Center of Photography
Gerda Taro, Miliziana repubblicana si addestra in spiaggia. Fuori Barcellona, 1936
Gift of Cornell and Edith Capa, 1986. Courtesy International Center of Photography
Nota per i suoi reportage di guerra, è anche conosciuta per essere stata la compagna di Robert Capa[1] e per aver stabilito con il fotoreporterungherese un forte sodalizio professionale. È considerata insieme a Capa una dei più importanti fotografi di guerra. La sua morte violenta a 26 anni (fu travolta da un carro armato durante la Guerra civile spagnola [2]) contribuì a mitizzarla come donna rivoluzionaria e coraggiosa caduta per le proprie idee e per il suo lavoro[3].
Biografia di Gerda Taro
Gerda Taro gettyimages-
Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. È portata per lo studio, è una buona giocatrice di tennis, ama vestirsi bene e fin da bambina dimostra di avere un carattere forte. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e di lavoratori. Per questo motivo e per la sua origine ebraica, l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi. Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista Tedesco, interrogata non parla e, grazie al suo passaporto polacco, viene liberata. Con un amico lascia la Germania alla volta di Parigi, mentre i suoi genitori decidono di rifugiarsi in Palestina ed i fratelli in Inghilterra[4].
Gerda Taro i funerali
Nel 1935 a Parigi grazie alla sua intelligenza e adattabilità, la poliglotta Gerta trova lavori come dattilografa e segretaria. Tramite l’amica e coinquilina Ruth conosce l’ungherese Endre Friedman. Come lei è ebreo, comunista, antifascista e ha conosciuto il carcere e sbarca il lunario facendo il fotografo. Endre e Gerta si fidanzano e sarà proprio lui ad iniziarla alla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventano il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna diventano immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come “Regards” o “Vu.”
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici. All’inizio il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente, i due divisero la ‘ragione sociale’ – CAPA – e Endre Friedman adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé[6].
Gerda realizzò, in un periodo in cui Capa era per alcuni giorni a Parigi per rapporti con le agenzie, il suo più importante reportage durante la battaglia di Brunete. All’inizio parve una grande vittoria repubblicana. Il contrattacco franchista ribaltò presto la situazione e Gerda fu allora testimone dei selvaggi bombardamenti dell’aviazione nazionalista, scattando numerose fotografie sempre con estremo rischio per la propria vita.
Testimoni raccontano che spesso incitava lei stessa i combattenti “all’attacco”; la sua fede rivoluzionaria e antifascista era puro slancio. L’articolo che venne pubblicato sulla rivista Regards, diede un grande lustro alla reporter tedesca.
Gerda-Taro-prima-fotogiornalista-guerra-di Spagna
La morte
Al ritorno dal fronte di Brunete, Gerda Taro perse la vita a causa di un terribile incidente. Gerda viaggiava aggrappata al predellino esterno della vettura del generale polacco “Walter” (Karol Świerczewsky), colma di feriti; Walter era un noto comandante delle Brigate Internazionali. Quando aeroplani tedeschi volarono a bassa quota sul convoglio repubblicano mitragliandolo, nel trambusto generale un carro armato urtò l’auto alla quale era aggrappata Gerda, che cadde sotto i cingoli del carro armato restando schiacciata dallo stomaco in giù.
Gerda Taro
Gerda non perse conoscenza e durante il penoso trasferimento, che durò ore, all’ospedale di Madrid ‘El Goloso’ (zona dell’Escorial) si mantenne le viscere in sede con la pressione delle proprie mani; i testimoni ricordano un’incredibile freddezza e coraggio nella ragazza. Alcuni tra i migliori medici delle Brigate Internazionali le trasfusero plasma e tentarono di operarla senza anestetici e senza antibiotici (di cui non vi era disponibilità), di suturare la devastante ferita ma si resero subito conto che ogni tentativo non l’avrebbe mai salvata; il suo organismo non poteva più svolgere alcuna funzione vitale che si protraesse oltre le poche ore.
Gerda Taro_Photo Robert Capa
All’infermiera che dovette vegliarla fu indicato di somministrarle tutta la morfina possibile per non farla soffrire, in quanto il decesso era inevitabile. La ragazza si preoccupava comunque delle proprie macchine fotografiche chiedendo “se si erano rotte”. Restò in vita e vigile sino all’alba del 26 luglio 1937; morì intorno alle ore 5 semplicemente “chiudendo gli occhi”. Gerda aveva 26 anni.
Gerda Taro
Il suo corpo fu traslato a Parigi e, accompagnato da 200.000 persone, fu tumulato al Père-Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un’eroina repubblicana. Allo scultore Alberto Giacometti venne chiesto di realizzare il monumento funebre. Pablo Neruda e Louis Aragon lessero un elogio ‘in memoriam’. Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, prima donna reporter a morire sul lavoro. Da allora anch’egli rischierà sempre la morte sul lavoro, incontrandola poi nel 1954 nella guerra d’Indocina.
Gerda Taro
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria Death in the Making, riunendo molte foto scattate insieme. La sua tomba a Parigi giace dimenticata nella zona del Père-Lachaise dedicata ai rivoluzionari e alla Resistenza, vicino al noto “Mur des Federés”.
Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese censurò l’epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. La tomba, dopo le modifiche occorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta “alla rovescia” rispetto a quando fu costruita. La tomba di Gerda Taro fu l’unica ad essere violata dalla mano nazi-fascista, forse per l’influenza che la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, ancora esercitava sulla crescente Resistenza francese.
Rimasta a lungo nell’ombra del più noto fidanzato Robert Capa e relegata al ruolo di sua compagna (e in qualche cronaca anche di moglie), dalla metà degli anni 1990 Gerda Taro è oggetto di interesse storico per il suo ruolo di giovanissima donna contro-corrente, rivoluzionaria militante sino al sacrificio massimo e protagonista della storia della fotografia e della resistenza al fascismo[6][7][8].
Robert Capa- Nasce in Ungheria da una famiglia ebrea proprietaria di una avviata casa di moda. Capa è un bambino vitale e rissoso che in famiglia viene soprannominato “Cápa”, squalo in ungherese. Ha appena diciassette anni quando viene arrestato per le sue simpatie comuniste; appena liberato abbandona la terra natale alla volta di Berlino. Là s’iscrive all’università alla facoltà di scienze politiche, sognando di diventare giornalista. Per mantenersi trova un impiego presso uno studio fotografico, cosa che lo avvicina al mondo della fotografia. Inizia a collaborare con l’agenzia fotogiornalistica Dephot sotto l’influenza di Simon Guttmann[3]. Autodidatta, nel 1932 è a Copenaghen, dove Lev Trockij tiene una conferenza. Nonostante il divieto di fare fotografie, elude la sorveglianza e realizza alcuni scatti. È il suo primo servizio pubblicato[4].
A causa dell’avvento del nazismo, Capa nel 1933 lascia Berlino per Vienna, per poi, l’anno successivo, partire alla volta di Parigi. Ma in Francia incontra difficoltà nel trovare lavoro come fotografo freelance. Al caffè A Capoulade, nel Quartiere Latino, nel settembre 1934 fa la conoscenza di Gerda Taro, una studentessa tedesca di origine galiziana, anch’essa fotografa autodidatta. Robert e Gerda stabiliscono un solido rapporto sentimentale e professionale[4].
A Parigi Capa conosce anche David Seymour (nato Szymin), che a sua volta lo presenterà ad Henri Cartier-Bresson, tutti giovani fotografi di origini sociali e geografiche diverse, ma legati dal linguaggio dell’immagine. Il suo primo servizio importante è quello del maggio 1936 che documenta le manifestazioni per l’ascesa al potere del Fronte Popolare; una sua foto diventa la copertina della rivista «Vu» (“Visto” in italiano).
Nell’agosto del 1936 Gerda Taro riesce a procurargli un accredito stampa per documentare la guerra civile spagnola ed assieme prendono un aereo per Barcellona.[5] Qui, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, i due inventano il personaggio di “Robert Capa”, un fantomatico fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Lo pseudonimo Robert Capa viene scelto per il suono più familiare all’estero e per l’assonanza con il nome del popolare regista italo-statunitense Frank Capra. Grazie a questo curioso espediente, la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi. All’inizio, in effetti, il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente i due divisero la “ragione sociale” CAPA e Endre Friedmann adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé.
Foto Robert Capa. SPAGNA -Vallecas en 1938
Il 26 luglio 1937 Gerda muore tragicamente a Brunete, nei pressi di Madrid (rimane schiacciata durante un errore di manovra di un carro armato “amico”). L’anno dopo Robert pubblica un libro in omaggio alla sua amata, Death in making, che contiene anche le fotografie, scattate da entrambi, della guerra in Spagna.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta-
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
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