Brano dalla raccolta Murales Castelnuovesi di Franco Leggeri
Castelnuovo, Autoesclusione
Autoesclusione
La scrittura creativa in cattività Epicuro(làthe biòsas) dove il riparo è l’humus fertilissimo per la creazione .
Castelnuovo è, per me, una quarantena senza fine dove è possibile solo immaginare il presente .
Si possono cucire i ricordi e indossarli per attraversare Dedalo in cerca della propria identità. La solitudine e l’esilio è interiorizzato come nella Tristia di Ovidio:”Quod tendabat dicere versus erat”.Trasportare e trasformare la cultura materiale ed immateriale radicata nel mio Castelnuovo.
Il Disagio dell’incertezza , la mia epoca più bella,
ha “creato” il mio scrivere e descrivere.
-Poesia per Castelnuovo-
Tu sei la terra madre dei miei sogni.
Castelnuovo si deve ricordare , vedere come un bel quadro .
E’ vero si dovrebbe leggere almeno una poesia al giorno
allora tu Castelnuovo , la tua visione, sei poesia continua
con le tue finestre accese e decorate da tendine ricamate.
Castelnuovo è luogo e la memoria,
Castelnuovo è un tangibile passato , anche se non troppo remoto,
Allora:
“Le turbolenti mutazioni dei tempi migliori
Le mutilazioni, gli scarti di possibilità
e nelle notti avvicinate dalle mie intenzioni strategiche
mi riconosco in Marx in polemica
sui temi “di fondo” di questa mia terra , idea, irrazionale.
Il possibilismo geniale del mio navigare
tra il passato e l’eterno remoto,
non resta che una debole speranza.
Ma adesso è proclamato il giorno del giusto gioco
tra il metafisico filosofico e il forse dei rimpianti ,
dopo, irresistibilmente e meccanicamente, Dio
sarà all’angolo per complesse manovre di avvicinamento”.
Brano dalla raccolta Murales Castelnuovesi di Franco Leggeri
SPIGOLATURE SABINE GIANFRANCO TROVATO E LE MISTERIOSE SCULTURE DI SELCI
Nel suo «Passeggiate sabine», Gianfranco Trovato, ricercatore, conoscitore e appassionato scrittore di questa nostra terra racconta storie e luoghi della sua amata Sabina. Divertente e istruttiva è quella che riguarda Selci e le misteriose sculture che si trovano appena entrati nel paese.
Fiancheggiando il lato sinistro della chiesa, scrive Trovato, «bisogna fare attenzione a non perdere due rilievi in pietra calcarea posti alla base dell’edificio ecclesiastico. A un primo sguardo non destano molta emozione ma guardandoli meglio, soprattutto se si ha la fortuna di trovarsi in un’ora e in una stagione in cui i raggi solari sono radenti mettendo in risalto ogni dettaglio, si vedranno emergere quelli che sembrano due minacciosi guerrieri rozzamente scolpiti».
Che cosa sono, chi sono? Per Trovato «a un’analisi più attenta e critica le due figure risulteranno essere due immagini di S. Michele Arcangelo, con tanto di ali, spada e serpe-demonio schiacciato sotto i piedi; si tratta certamente di sculture molto antiche, forse di origine longobarda, che meriterebbero le attenzioni di studiosi medievalisti.»
Ma varcando la porta d’ingresso del borgo, scrive ancora Trovato «si è in un altro mondo, in cui le disquisizioni storicheggianti non hanno senso; qui il problema serio era che quelle due figure risultavano ignote, misteriose e inquietanti, aspetti che è meglio risolvere in qualche modo. Il modo più semplice e alla portata della cultura dei Selciani (gli abitanti di Selci) di una volta era quello di addomesticare l’ignoto riconducendolo a dimensioni familiari e magari anche un poco ridicole, quindi in qualche modo esorcizzandolo. Così le due figure scolpite su quelle lastre accanto alle quali i Selciani erano costretti a passare sia di giorno, cosa ancora sopportabile, ma peggio di notte quando le scarse luci stradali creavano ombre inquietanti, sono state felicemente riportate a dimensioni “casalinghe” affibbiandogli i nomignoli di Carnevale e Quaresima.
«“Bene… “, è stata la domanda posta a un gruppetto di anziani che sostavano al sole nei pressi dei due personaggi, “…ma chi dei due è Carnevale e chi Quaresima”? Dopo un attimo di esitazione il sagace portavoce del gruppo sentenziò: “Carnevale cade prima di Quaresima, e quindi il primo che si incontra è Carnevale e l’altro è Quaresima”. Se questa non è saggezza popolare…!».
Ma non ci sono solo Carnevale e Quaresima sui muri di Selci. «Superato felicemente l’ostacolo delle due sculture e continuando a fiancheggiare la chiesa, la via si restringe e diventa un passaggio coperto sovrastato dal campanile a vela che ospita ben tre campane. Subito dopo si è di nuovo allo scoperto e qui ci si deve fermare e volgersi all’indietro osservando il muro ai piedi del campanile; presto si noterà emergere dal muro un marmoreo volto femminile. La delicatezza dei lineamenti di questa scultura, certo una dea, insieme con il candore del marmo in cui è stata scolpita contrastano in modo stridente con il rozzo muro scrostato in cui è inserita; ma è proprio questo che la fa risaltare.
«Nulla di monumentale, nulla di grandioso, è vero, ma questo piccolo dettaglio di Sabina non può lasciare senza emozioni. È da auspicare che volto e muro restino così come sono, il volto al suo posto e il muro scrostato.»
Siamo andati a fotografarlo, il volto della dea, e in effetti è ancora lì…
CASTELNUOVO DI FARFA – FIUME FARFA: “diritto di pesca e diritti rivieraschi.”
libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Prima dell’incastellamento dell’attuale abitato di Castelnuovo, la vita si svolgeva nel “CASTELLI SANTI DONATI” -Nel medioevo la Pesca era consentita tutto l’anno anche nei giorni festivi- Nei corsi d’acqua si erano costruiti appositamente sbarramenti, chiuse , ed erano dotati di attrezzature per la pesca. Vicino al fiume “Farfario” vi erano molte capanne ad uso dei pescatori. L’Abbazia di Farfa era rifornita di pesce salato essiccato che proveniva dai possedimenti marini dell’Abbazia. I luoghi adibiti alla pesca erano chiamati “PISCARIA” come si può leggere nei documenti del 786 e 792 -Fonte cartulari di Farfa. I pescatori del fiume Farfa dovevano versare il 50% del pescato al monaco “PISCIONARIO” che era l’altra faccia del “GRASSATORE” presente alla macellazione del bestiame. I pescatori catturavano i crostacei e piccoli molluschi. La pesca e il consumo del pesce era favorito dalla Chiesa perché il Vangelo riporta parabole con soggetto i pesci. Il consumo del pesce, come allora credenza comune :”Il pesce placa la lussuria , mentre la selvaggina la eccita”. Con il disboscamento finalizzato all’acquisizione di terre da coltivare veniva meno l’utilizzo della caccia per uso alimentare e si intensifico la pesca, la quale come abbiamo detto era favorita dalla Chiesa .La Caccia, sino alla Rivoluzione francese, rimase diritto della nobiltà: ”Il Signore ha sugli uccelli dell’aria e sui pesci dell’acqua”. Gli Abati di Farfa permettevano la caccia nei boschi di loro proprietà dietro il versamento di una :”Decima Volucrum”. Sul fiume Farfa si svolgeva tutta la vita della comunità rurale perché il fiume era la “FORZA MOTRICE” per tutte le attività “industriali”: MULINI, concia delle pelli ecc . sino ad avere a Granica le famose “Ferriere”. Nei trattati, “DIRITTI RIVIERASCHI”, si codifica anche l’uso dell’acqua per l’abbeveraggio del bestiame. I “DIRITTI RIVIERASCHI”, documento del 1903, fu la base per la rivendicazione, e la successiva negoziazione da parte del Comune di Castelnuovo con ACEA la quale sottrae l’acqua del fiume Farfa per alimentare l’ACQUEDOTTO DELLE CAPORE . La trattativa Comune di Castelnuovo e ACEA fu instaurata , discussa e conclusa dal Sindaco Dott. MARIO PORFIRI. Voglio ricordare che i famosi 7lt/sec di acqua e i punti luce dell’illuminazione pubblica, uso gratuito, furono alcuni vantaggi, guadagnati dal Sindaco Dott. Mario Porfiri, che ,ancora oggi, sono a beneficio dei castelnuovesi.Credo che con l’avvento dell’APS tutti i diritti acquisiti dal Sindaco Dott. Mario Porfiri, sembrerebbe che siano andati perduti , così come lo storico acquedotto di CERDOMARE del quale sembrerebbe siano andate “perdute le tracce e l’acqua”.
Il capitolo completo è sul libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Gruppo FAI Sabina-A MAGLIANO IL RACCONTO DELL’ETA’ DEL BRONZO IN SABINA
– VISITA AL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO-
Seconda tappa, domenica 27 novembre, del nostro viaggio nel tempo e nello spazio. Le nostre conferenze con visita, questa volta a Magliano Sabina, nella sala consiliare del Comune, hanno avuto come tema l’età del Bronzo, in Sabina e nelle regioni limitrofe.
Dalla preistoria della Grotta di Battifratta siamo dunque passati alla protostoria; un periodo, quello del Bronzo, lungo circa 1.500 anni, che convenzionalmente viene diviso in tre-quattro fasi, di cui ci hanno parlato con competenza e passione gli archeologi Francesco di Gennaro e Giorgio Filippi, coordinati da Carlo Virili.
Nel Museo Civico Archeologico, che abbiamo visitato alla fine della mattina (e che presto sarà ristrutturato), abbiamo potuto ammirare i reperti del Bronzo finale (vasi, tazze, olle) trovati in varie località sabine, tra cui il nostro Luogo del cuore, il Monte Acuziano.
Ancora un grazie dal profondo del cuore all’amministrazione di Magliano Sabina e al Museo Civico Archeologico, per la loro grande disponibilità. Fare iniziative a Magliano è sempre un piacere.
RIETI- Associazione Polymnia ultimo appuntamento culturale “DONNE NELLA STORIA E NEL MITO”
RIETI-Mercoledì 9 novembre, alle ore 16.30, presso la Sala Consiliare del Comune di Rieti, si terrà il quarto ed ultimo appuntamento culturale previsto dal calendario della rassegna Donne nella Storia e nel Mito, promossa ed organizzata dalla Associazione Polymnia in collaborazione con la Libreria Mondadori book store di Rieti.
L’incontro sarà dedicato alla figura femminile nella civiltà del Medioevo, ed in particolare a donne che scelsero di ribellarsi al ruolo che l’immaginario collettivo di questa età aveva delineato per loro.
Se ne parlerà con la Prof.ssa Maria Serena Mazzi, saggista e docente di Storia medievale all’Università di Ferrara, autrice dell’interessante testo Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo, edito da Il Mulino, che verrà presentato nel corso dell’incontro.
Autorevole studiosa di Medioevo, Serena Mazzi è autrice di studi dedicati in particolare alla storia sociale del Basso medioevo italiano, tra i quali: Salute e societànel Medioevo (Firenze, Olschki, 1983, con Sergio Raveggi), Vita materiale e ceti subalterni nel Medioevo (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991), Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento (Milano, Il Saggiatore, 1991), Oltre l’orizzonte. In viaggio nel Medioevo (Torino, Paravia, 1997), Toscana bella (Torino, Paravia, 1999), La mala vita. Donne pubbliche nel Medioevo (2018), In viaggio nel Medioevo (2019).
L’ingresso all’evento è gratuito e fino ad esaurimento del numero massimo di presenze consentite.
Joan Didion:“Volevo studiare gli oceani, ma scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua”.
In principio fu il viso – il numero, invece, è il 325. Ammetto, a volte vale la regola rabdomantica. La usava anche Iosif Brodskij, per altro. L’opera di uno scrittore è incisa nel suo volto. E quel volto. Mio dio. Occhi tratti dal bosco e conficcati in una donna in vetro – sembra uno spago di ferro, tenuta in piedi con qualche laccio, pronta a esplodere. Joan Didion sembra una formula magica – o una maledizione, è uguale – sullo squarcio delle labbra. Mi pareva bellissima – anni Sessanta, la Corvette, il New Journalism, che abita con devota ferocia, l’incontro con John Gregory Dunne, giornalista di fama, sceneggiatore di film importanti come Panico a Needle Park (1971; con Al Pacino) e L’assoluzione (1981; con Robert De Niro e Robert Duvall). Continuai a guardare le fotografie – l’esordio nel 1963, sulla scia dei trent’anni, con Run, River, poi quel libro mirabile, Slouching Towards Bethlehem, diceva di fondere la concisione di Hemingway allo sguardo di Henry James, alla basilica narrativa di George Eliot. Ora l’hanno mutata in icona. Accade così, negli States – i sopravvissuti diventano idoli. L’anno scorso, al numero 325, la consacrazione. La Library of America comincia a pubblicare la sua opera, 980 pagine, da Run, River a The White Album sotto la sigla “The 1960s & 70s”. In Italia è sommamente pubblicata da il Saggiatore; tra poco assaggeremo il suo ennesimo libro, Political Fictions – come Finzioni politiche, in origine uscito nel 2001 – che raccoglie, dal 1988 al 2000, i testi di Joan sulle elezioni (in particolare: Bill Clinton impantanato nel caso Lewinsky, George Bush, e poi Bush figlio vs. Al Gore). Mi pare bellissima, qualcosa che viene a torturarti – bisogna sempre dubitare di ciò che appare fragile perché, è facile, ti ferirà con millenaria minuzia.
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Lo dice lei, per altro, in Why I Write (1976): “Per molti versi scrivere è il gesto di dire Io, di imporsi agli altri, di dire, ascoltami, guarda ciò che vedo, cambia idea, seguimi. È un gesto aggressivo – perfino ostile. Puoi mascherare gli aggettivi, raffinare le congiunzioni, adottare ellissi, evasioni – e accennare più che pretendere, alludere più che affermare – ma mettere parole su carta resta la tattica del bullo segreto, un’invasione, l’imposizione della legge dello scrittore nello spazio più intimo del lettore”.
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Ma la violenza può voltarsi in pratica sadica. “Scrivo sola. Certo, commetto un atto aggressivo nei miei confronti, sono ostile a me stessa” (1978, alla “Paris Review”). Elusione ed eleganza: il moto del cobra, prima del tocco. Ostilità verso di sé: scrivere come estrarre spine. “La voce. Quella ti viene addosso. Non avevo mai sentito prima una voce narrativa simile. Equilibrio tra distanza e impegno, occhio acuto dell’osservatore, ma anche la percezione di guardare tutto dall’esterno. E poi, la congiunzione tra il materiale personale, confessato, e la storia comune. E poi, l’idea che la narrazione sia aperta, che si stia ancora svolgendo, una volta terminata la lettura. Ha aperto delle possibilità finora inaudite”, dichiara David L. Ulin, che cura l’opera di Joan Didion per la Library of America.
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Estratta a se stessa, Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteratura. L’efficacia della spada si misura da levigatezza e disciplina: addestramento che coincide con un destino. Non è mai facile scrivere, si scrive come si costruisce una sedia, di cui il lettore valuterà il censo. Qui si traduce una intervista a Joan Didion, a cura di Sheila Heti per “The Believer”, era il 2012. La scrittura è ciò che porti in superficie dopo un lungo inabissamento; le parole, in effetti, sono di legno. (d.b.)
***
Da bambina voleva fare l’attrice.
Vero.
D’altronde anche la scrittura è performance: interpreti un personaggio.
Non proprio. Costruisci uno spettacolo intero. Ma, è vero, la scrittura mi è sempre sembrata una sorta di performance.
Qual è la natura di questa performance?
A volte un attore interpreta un personaggio, a volte si esibisce e basta. Con la scrittura non reciti un personaggio. Lo crei. Lo doni al pubblico. Non interpreti nessuno, ostenti le tue idee. “Guardami, eccomi”: dici questo.
Ma questo “io” è stabile o instabile, che distanza c’è, intendo, tra il ruolo dello scrittore e…
…e la persona reale. Non lo so. La persona reale diventa il ruolo che hai scelto di darle.
Si esibisce per sé o per gli altri?
Per me. Ma anche, è ovvio, per chi sceglie di essere coinvolto. Voglio dire, il lettore è il pubblico.
Quanto del suo lavoro è stato creato in risposta o in collaborazione con il pubblico?
Molto. Ho creato uno spettacolo su L’anno del pensiero magico e sono rimasta sorpresa dal modo in cui il pubblico è diventato parte dello spettacolo. Penso che ciò accada anche quando si scrive.
Nel caso della scrittura è diverso, però.
Certo. Ma non riesco a immaginare di scrivere senza l’idea di un lettore. Non più di quanto un attore penserebbe di recitare in assenza di pubblico. Non esiste il vuoto, quando scrivi. Se non hai la percezione di un lettore, nuoti nel vuoto.
Quando ha iniziato a scrivere?
Da bambina. Avevo quattro o cinque anni, mia madre mi dà una grossa lavagna nera, perché mi lamentavo, mi annoiavo. “Scrivi qualcosa, poi me lo leggi”, mi disse. Avevo appena imparato a leggere. Fu un momento emozionante. Scrivere qualcosa per leggerlo!
Le piaceva leggere ciò che scriveva?
Negli anni, sì. Non sempre.
Non sempre…
Il mio primo romanzo. Non mi ha coinvolto perché, molto banalmente, non sono riuscita a fare ciò che avevo in mente. Volevo confinare la cronologia didascalica, volevo confondere i piani. Non avevo esperienza, ho seguito i suggerimenti del mio editor, e ho scritto un libro convenzionale. E questa non è una bella cosa.
Pubblicare non è facile: devi avere fiducia nel tuo pensiero, nel tuo sguardo sulla realtà.
Si impara lavorando, la fiducia. Devi essere certo di ciò che fai, anche se pare ridicolo. Il mio personale punto di fiducia credo di averlo conquistato con Prendila così. Il mio terzo libro. Mio marito mi diceva, ricordo, “Questo libro non ce la farà, non ce la farà, non ce la farà”. La pensavo come lui. Ma ce l’ho fatta. Da quel momento, ho avuto fiducia.
Perché pensavate di non farcela?
Perché era il mio terzo libro. Voglio dire: non credi immediatamente di farcela. Pensi di avere un talento stabile, che si farà ascoltare nel tempo. Se non comunichi subito con un pubblico non sai quando questo potrà accadere.
Qual è stato il primo segnale che la ha convinta di avercela fatta?
Non ricordo esattamente. Ricordo che all’improvviso si parlava del mio libro. La gente ne parlava. Era una cosa che non avevo mai sperimentato prima.
Il successo ha cambiato la sua relazione con quel libro?
Ero felice. Mi ha fatto sentire più in sintonia con quel libro. Ero molto triste mentre lo scrivevo perché era un libro difficile da scrivere per me, soltanto dopo ho realizzato quanto scriverlo mi abbia prostrato. Poi l’ho finito, e improvvisamente è come se un peso si fosse tolto dalla testa. Ero felice.
Forse è difficile trovare un libro ‘facile’ da scrivere.
Già. I libri ti portano sempre dove non vorresti andare.
Negli anni Settanta lei scrive un brillante articolo sui film di Woody Allen – tra cui “Io e Annie” e “Manhattan” – pubblicato dalla “New York Review of Books” dove la parola “relazioni” è sempre messa tra virgolette…
Non mi pareva abbastanza onesto il modo in cui Woody Allen ragionava di relazioni. Film dove gente parla delle proprie relazioni e questa è la sola cosa che capita. Per me non funzionava.
In “The White Album” lei scrive: “Sono entrata nella vita adulta dotata di un’etica essenzialmente romantica; credevo che la salvezza si trovasse negli oneri estremi, nelle vite segnate”. Riguardo a matrimonio e maternità…
Oneri estremi e vite segnate, appunto. Non parlo per esperienza vissuta, ma per ciò che ho visto. Matrimonio e maternità sono una specie di condanna – e una salvezza.
Salvezza da cosa?
Dalla solitudine, dalle estremità della solitudine.
Perché la relazione è intima o per il matrimonio in sé?
Il solo fatto di avere un’altra persona – di rispondere a un’altra persona. Per me è stato molto. Era una specie di romanzo, qualcosa che nel tempo si è rivelato grande.
Penso a “Blue Nights” e a “Verso Betlemme” e mi chiedo se si diventi davvero più frammentati, atomizzati quando si è lontani dalla propria famiglia, senza punti di riferimento.
È così. Poi, bisogna imparare a gestire le proprie rovine. Quei libri sono personali non tanto perché parlano della mia personalità o di ciò che mi è accaduto, ma perché narrano il mio smarrimento, l’incapacità di trovare un filo narrativo.
Scrivere qualcosa di frammentario anziché narrativo invoca un altro tipo di pensiero…
Un modo assolutamente diverso di pensare, sì. Di solito cerchi il tono narrativo, un orientamento. Per molti anni la ricerca della narrazione è stata il mio compito. Poi ho cambiato. Blue Nights nasce dall’idea che la narrativa non sia importante, che narrare non sia il punto fondamentale.
È questa una verità più profonda del narrare?
Così mi si è rivelata. Scrivere, per me, è sempre un modo per giungere a una comprensione che altrimenti resterebbe irraggiungibile. La scrittura ti costringe a pensare. Ti costringe a risolvere dei problemi. Niente viene a noi con facilità. Quindi, se vuoi capire cosa stai pensando devi in qualche modo elaborarlo. E per me scrivere è la sola forma di elaborazione che conosco.
Quando scrive, di solito?
Quando trovo il ritmo del libro.
Ci sono momenti in cui scrive e vorrebbe evitarlo?
Accade. Devono esserci dei momenti in cui scrivi anche se non vorresti.
Che natura ha questa evasione, questo evitare la scrittura?
Non pensare. Non penare pensando.
Se non fosse diventata una scrittrice…
Volevo diventare un oceanografo. Quando vivevo a New York e lavoravo per una rivista, la mia intenzione era diventare oceanografo. Non potevo. Mi sono informata presso la Scripps Institution of Oceanography. Mi hanno detto che mi mancavano dei corsi di scienze. Non avevo seguito quei corsi che mi avrebbero permesso di seguirne altri e di seguirne altri ancora. Quindi, ho abbandonato l’idea di diventare un oceanografo.
Le sarebbe piaciuto…
Scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
Ripropongo un articolo di Alba Sasso che , a mio avviso, è attualissimo.
Lentamente, la Resistenza va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Castelnuovo, Scrivere e dipingere ,con i colori della rabbia , la Storia e l’Orgoglio di noi veri Castelnuovesi.
Articolo di Franco Leggeri, castelnuovese
Castelnuovo di Farfa- 18 settembre 2021–Manovrare le parole come su di una scacchiera. Giocare con l’ironia che mi permette ora la mia età. Alla mia età ti accorgi che tante certezze sono crollate. Io , lo confesso, sono un sopravvissuto dell’Utopia Consumata. Posso giocare , appunto, con l’ironia delle parole. Provo, sì ci provo, a mescolare : ironia, ricordi, fantasia, però facendo attenzione di non cadere nella trappola dei miei avversari politici, questi si, ahimè, che sono tantissimi. Mi trovo a Castelnuovo in mezzo ad una “lotta” impari, ma non impossibile, e ,quindi, non mi rimane che essere un guerrigliero della penna e mutuo la strategia dei vietcong e la trasporto nelle Gole del Farfa che per me sono come il delta del fiume Mekong.
Certo le mie “armi di bambù “sono solo la penna e un foglio bianco. Posso escogitare incursioni con attacchi di parole in forma di poesia e dipingere con la luce ciò che nessuno mi può portare via o proibire. Utilizzo le mie forze mettendole nel moltiplicatore del sistema binario. Muovo i miei attacchi in un campo di battaglia sulla scacchiera dei ricordi e delle cose “storiche” e quindi incancellabili è questa una possibilità di una manovra per avere solo perdite contenute e riparabili.
Questa guerriglia è in essere perché, a mio avviso, l’Orgoglio Castelnuovese soffre di siccità e di affetto nel terreno del “realismo dei ricordi”. Il revisionismo, servo del potere, sta “edificando un muro” un nuovo anno zero della Storia di Castelnuovo.
Nel 2021 Castelnuovo non ha più indigeni e il nostro Camposanto non ha più voce e rappresentanti che scrivano la Storia da consegnare al futuro. Il quadro, l’arazzo Castelnuovo perde ogni giorno fili e sta rimanendo un vessillo incompleto, noi Castelnuovesi stiamo perdendo la nostra identità di appartenenza, siamo rifugiati e clandestini che cercano nel ricordo una traccia per essere ancora degni di chiamarci Castelnuovesi.
Castelnuovo è ancora un Borgo che esiste, noi “superstiti” possiamo solo opporci, resistere, con i ricordi , scrivendo la nostra vera storia come trincea di confine .Noi veri castelnuovesi, quelli dell’Orgoglio Castelnuovese, siamo reclusi all’interno di una linea d’ombra, linea livida che ci soffoca nello “steccato” in cui ci hanno relegato e dove cercano di farci perdere la MEMORIA. Proseguire e rigenerare con nuove idee la “guerriglia” scritta contro le ombre che cercano di cancellare anche la nostra data di nascita .Essere oggi un vero castelnuovese sta per diventare sinonimo di folclore e oggetto e soggetto dei peggiori programmi televisivi. A Castelnuovo stiamo assistendo alla distruzione , un classico delle dittature, ai “falò dei libri della Memoria”. Resistere, insistere e raccontare il VERO CASTELNUOVO, quello che ha impastato la calce con il sangue e ha costruito il NOSTRO ORGOGLIO. Dobbiamo, ancora una volta, iniziare dalla “linea livida”; ricostruire una memoria e celebrare, in maniera liturgica ,con le tavole cronologiche la storia castelnuovese.
Siamo molti o pochi ad essere classificati come castelnuovesi “inquieti”, oppure aggettivati come “vagabondi”.Inquieti e vagabondi sono aggettivi che molti castelnuovesi hanno nella loro biografia. Una biografia che forse è meglio iniziare con “dinamica” per Donne e Uomini castelnuovesi ,“contumaci”, che hanno scritto pagine impressionanti, ciclopiche, per chi ha vissuto nell’epoca in cui Roma era a giorni di viaggio da Castelnuovo. La Biografia di molti castelnuovesi non si può non dare , colorare, una spruzzata di umorismo.Quando parlo, rigorosamente in dialetto, con un castelnuovese di quelli veri, il discorso inizia con il classico:” Te recordi de….” poi ci guardiamo le cicatrici e ce le raccontiamo perché non tutti sono stati fortunati. Vi sono castelnuovesi (uomini e donne) che hanno vissuto una vita da “sottopagati” nella Roma palazzinara e di Borgata come è stata scritta da Pasolini, una Mamma Roma amara .Tornare a Castelnuovo in cerca delle Origini e scopri che il tuo paese ora, forse, non ti accetta più e che i nuovi parolai ti stanno riscrivendo la Storia in cui tu non ci sei, non hai più il “nome all’anagrafe”. Ho l’ossessione identitaria; cerco con la poesia di percorrere un labirinto, Dedalo, spinoso delle Origini; cerco le radici per conservarle , cerco parole senza vincoli per scrive, descrivere emozioni in forma cronologica così per far nascere un racconto fantastico e libero. Certe volte rimescolo i ricordi, li spolvero, per paura di perderne la traccia . Di queste tracce di memoria noi , tutti castelnuovesi, siamo depositari e libri intonsi in questa enorme biblioteca Castelnuovo. Combattiamo contro revisionisti (draghi e serpenti delle peggiori leggende medievali) che cercano un nuovo ANNO ZERO, ma non lo trovano, al fine di oscurare il nostro ORGOGLIO CASTELNUOVESE.
Io non sono e non siamo , noi veri castelnuovesi, schegge impazzite e visionarie. La nostra Storia e le nostre radici affondano nelle vie di Castelnuovo, luogo concreto. Siamo Storia e sangue castelnuovese il nostro albero genealogico sono le epigrafi e lapidi che si leggono, tutti possono leggere, nel nostro Cimitero e nel Monumento ai Nostri Eroi Caduti nelle due guerre mondiali.
Scrivere, io ci provo, con amore perché la scrittura, forse, racconta e disegna un Castelnuovo futuro.
Castelnuovo e i colori della rabbia,
Noi che abbiamo la parola interdetta
aspettiamo le stelle del cielo
per vedere ,da questo ponte della Storia,
l’ultima acqua silenziosa del nostro passato.
In questo spazio infinito dei ricordi
possiamo solo gettare i nostri sassi della rabbia.
Noi non abbiamo voce
perché oscurati e dimenticati
e il nostro respiro è nascosto al sole.
Ora l’ombra del silenzio scivola
e trascina a valle la voce dell’oblio.
A noi Castelnuovesi non resta che imparare
la trama dei racconti
nasconderli nel libro dell’anima
e custodirli nei cassetti della memoria.
Scriveremo e racconteremo
lo “schiaffo della resa”
che le sirene del potere ,
beffandosi del nostro dolore
e il non essere capaci di rifiutare le “monetine“ dell’umiliazione,
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