Gli otto racconti che compongono questa raccolta restituiscono un profilo di eleganza alla narrativa contemporanea. Devono questo privilegio a una scrittura pulita, impeccabile nella scelta delle parole e capace di dipingere scenari e sensazioni in pochi essenziali tratti.
Al centro della vicenda, spesso un individuo soltanto: i suoi gesti quotidiani, il suo stare e fare che prendono uguale e giusto tempo nella narrazione, all’interno della quale si dipanano le sfumature personali, i fatti, i non detti e i significati che le cose assumono per ciascuno, viste dall’interno, e per gli altri che vi partecipano da fuori.
E gli spazi: un Sud senza tempo che ci sembra di conoscere da sempre, racchiuso nel dettaglio di una ringhiera di ferro o nei gessi dei soffitti che appaiono “come dune di sale” agli occhi del protagonista. Come se tutta la vita fosse fare due passi nel quartiere, un calcio al pallone, affacciarsi al terrazzino a veder scorrere la propria storia, compresa la sua fine.
Biografia dell’autore
Nicola Guarino, nasce nel 1958 ad Avellino, ultimo di una famiglia numerosa che si trasferisce ben presto a Napoli. Qui compie gli studi classici e, in seguito, si laurea in Giurisprudenza alla Federico II. Negli anni del liceo collabora con l’Unità e Paese Sera e poi, per mantenersi durante gli studi universitari, lavora all’ippodromo di Agnano. Diventato avvocato, ha fatto parte del Consiglio nazionale di Legambiente. Appassionato di cinema ha curato diverse rassegne e festival sia a Napoli che a Parigi, città in cui vive dal 2004 e in cui insegna lingua italiana all’Università della Sorbona e a Créteil Paris 12. È tra i fondatori della testata online Altritaliani.net.
Renée Vivien, pseudonimo di Pauline Tarn (Londra, 11 giugno 1877 – Parigi, 18 novembre 1909), è stata una poetessa britannica che scrisse in francese, soprannominata “Saffo 1900”. Si trasferì giovanissima in Francia. Lì venne a contatto con l’ambiente articonformista parigino. La Vivien era apertamente lesbica, viveva lussuosamente e amava viaggiare. Morì a trentadue anni a causa di una pleurite contratta a Londra, ma le sue condizioni erano già deboli e precarie a causa di continui digiuni..La Tarn aderì ai modi del Simbolismo, Parnassianesimo e fu anzi fra gli ultimi poeti ad aderire a tale scuola.
Somiglianza inquietante
Ho visto sulla tua fronte bassa il fascino del serpente. Le tue labbra hanno inumidito il sangue di una ferita, e qualcosa dentro mi disgusta e si pente mentre il tuo freddo bacio mi punge con un morso.
Uno sguardo da vipera è nei tuoi occhi socchiusi, e la tua testa furtiva e piatta si raddrizza più minacciosa dopo il languore del riposo. Ho sentito il veleno in fondo alla tua carezza.
Duranti i giorni d’inverno nervosi e ghiacciati, tu sogni i tepori di profonde vallate, e ci si immagina, al vedere il tuo lungo corpo ondulato, delle scaglie d’oro lentamente spiegate.
Ti odio, ma la tua plastica e luminosa bellezza mi prende e m’affascina e m’attira senza fine, e il mio cuore, pieno di spavento davanti alla tua crudeltà, ti disprezza e t’adora, o Rettile e Dea
Versi d’amore
Tu conservi negli occhi la voluttà delle notti, o gioia inaspettata al termine delle solitudini! Il tuo bacio è come il sapore dei frutti e la tua voce fa sognare meravigliosi preludi mormorati dal mare nella bellezza delle notti.
Tu porti sulla fronte il languore e l’ebbrezza, i giuramenti eterni e le confessioni d’amore, sembri evocare la timida carezza il cui ardore trafuga la luminosità del giorno e ti lascia sulla fronte l’ebbrezza e il languore
I solitari
Coloro che hanno per mantello lenzuoli funerari provano la voluttà divina di essere solitari. La loro castità ha pena dell’ebbrezza delle coppie della stretta di mano, dei passi dal ritmo lieve. Coloro che nascondono la fronte nei lenzuoli funerari sanno la voluttà divina di essere solitari. Contemplano l’aurora e l’aspetto della vita senza orrore, e chi li compatisce prova invidia. Coloro che cercano la pace della sera e dei lenzuoli funerari conoscono la spaventosa ebbrezza di essere solitari. Sono i beneamati della sera e del mistero. Ascoltano nascere le rose sottoterra e percepiscono l’eco dei colori, il riflesso dei suoni… Si muovo in un’atmosfera grigio-viola. Gustano il sapore del vento e della notte, hanno occhi più belli delle torce funerarie.
La poesia di Renée Vivien fu per molti motivi celata, ancora oggi è sconosciuta, e proprio per questo motivo è interessante scoprirla e apprezzarla. Vivien scrisse del suo amore omosessuale per Natalie Clifford Barney, condannò nei suoi versi certi schemi patriarcali e maschilisti, creò addirittura un salotto letterario di sole donne in risposta all’Accademia francese che ne escludeva la partecipazione. Della sua poesia tradotta in italiano non abbiamo moltissimo, ma ricordiamo Cenere e polvere, a cura di Teresa Campi.
Professore Nicola Cabibbo e la riabilitazione di Galileo.
Articolo dell’Ingegnere Andrea Natile.
In qualità di presidente della Pontificia Accademia delle scienze, che ha il compito di consigliare il pontefice su tutte le tematiche scientifiche, Nicola Cabibbo ha più volte avuto l’occasione di esprimere le sue opinioni sul rapporto fra fede e scienza. E’ intervenuto nel complesso dibattito fra teoria dell’evoluzione e interpretazione letterale del testo biblico per sottolineare la posizione della Chiesa cattolica in merito.
Durante la sua permanenza all’accademia, e sotto il pontificato di papa Giovanni Paolo II, sono avvenute sia la definitiva riabilitazione di Galileo Galilei, sia la sostanziale ammissione che la teoria dell’evoluzione non è in contrasto con la dottrina cattolica.
A chi manifestava contro l’insegnamento della teoria di Darwin nelle scuole e la presenza nei libri di testo della teoria dell’evoluzione rispose:
«Oggi tra gli scienziati cattolici è chiarissimo che si può benissimo credere nell’evoluzionismo e nella Creazione. Dire il contrario è come sostenere che la Terra è piatta o il Sole si muove perché così diceva la Bibbia.»
(Nicola Cabibbo)
Nicola Cabibbo Roma, 10 aprile 1935 è stato un importante fisico italiano, maestro, tra gli altri del recente premio Nobel, Giorgio Parisi.
I suoi studi sull’interazione debole, nati per spiegare il comportamento delle particelle strane, ha portato all’introduzione nella fisica delle particelle dell’angolo di Cabibbo.
Si laurea in fisica nel 1958 con una tesi sul decadimento dei muoni e le interazioni deboli e diviene subito ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare prima a Roma e poi ai laboratori nazionali di Frascati.
Ricercatore al CERN di Ginevra, nel 1963, pubblica l’articolo che lo renderà famoso nella comunità scientifica. Propone l’introduzione dell’angolo di Cabibbo per spiegare i cambiamenti di sapore dei quark durante le interazioni deboli. Questo articolo, nel 2006, è stato valutato come la pubblicazione più citata di tutti i tempi.
Nel 1966 alla Sapienza di Roma ottiene la cattedra di fisica teorica per poi diventare professore ordinario di fisica delle particelle elementari.
Continua i suoi periodi di studio e insegnamento all’estero: è componente dell’Institute for Advanced Study di Princeton, visiting professor alle università di Parigi, New York, Syracuse, ed è nuovamente al CERN dal 2003 al 2004.
Il suo impegno non solo accademico, gli ha visto ricoprire importanti incarichi istituzionali; è stato presidente dell’INFN, e presidente dell’ENEA, socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, e membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d’America.
Dal 9 giugno 1986 è stato membro e dal 1993 presidente della Pontificia Accademia delle Scienze
Nicola Cabibbo, che da lungo tempo soffriva di una malattia tumorale, è morto la sera del 16 agosto 2010 all’Ospedale Fatebenefratelli di Roma.
Giorgio Parisi, lo cita con affetto durante il discorso di ringraziamento per il conferimento del premio Nobel per la fisica 2021.
E’ passata un po’ d’acqua sotto i ponti dai tempi in cui il Cardinale Bellarmino disse a Galileo che non era prudente esprimere certe eresie. Anche la Chiesa deve adeguarsi.
Giulio Raimondo Mazzarino “Diavolo “ di un Cardinale!
Articolo di Anselmo Pagani
Il “Maitre du jeu” della politica europea verso la metà del XVII secolo fu un italiano, di rosso vestito e con una berretta sul capo.
Nato il 14 luglio del 1602 nel borgo abruzzese di Pescina, in una famiglia appartenente alla piccola nobiltà locale, Giulio Raimondo Mazzarino fu mandato dal padre Pietro a studiare presso il gesuitico Collegio Romano, dove si laureò in “Utroque Iure”.
Uomo accattivante, raffinato nei modi e di bella presenza, come testimoniato dai suoi ritratti, si fece presto notare dal clan dei Colonna che l’introdussero presso la corte di Papa Urbano VIII, il quale ne intuì il talento inserendolo nel Corpo Diplomatico pontificio.
Per il nostro Giulio fu l’inizio di una sfolgorante carriera, in principio come Nunzio Apostolico presso le corti di Madrid e poi di Parigi.
A lui in particolare si dovette il Trattato di Cherasco, col quale nel 1631 fu regolata l’annosa questione della successione nel Ducato di Mantova, che tanti lutti e devastazioni aveva portato in Pianura Padana.
Fattosi tonsurare e ricevuti gli ordini minori, senza però mai diventare prete, Mazzarino entrò nelle grazie del Card. De Richelieu, machiavellico primo ministro di Luigi XIII di Francia, che ne fece il suo discepolo prediletto tanto da procurargli nel 1641 la nomina cardinalizia.
Alla morte, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro fra la fine del 1642 e l’inizio del 1643, sia del Cardinale che del Re, Mazzarino divenne l’incontrastato “dominus” della politica francese come tutore – insieme alla madre Anna d’Austria della quale forse fu pure l’amante – del giovanissimo Luigi XIV, che in lui vide una sorta di “Magister vitae”, tanto da farne l’unico primo ministro dei suoi 70 anni di regno.
Da solo, riuscì a garantire altri 140 anni al trono dei Borbone, disinnescando il pericolo costituito dalle cosiddette “Fronde”, grazie alla sua inimitabile capacità di mettere i nemici gli uni contro gli altri, così spezzandone il fronte comune.
Fu anche uno dei principali artefici della Pace di Vestfalia del 1648, che mise fine alla terribile Guerra dei Trent’Anni, e poi del Trattato dei Pirenei del 1659, che riportò il sereno fra Francia e Spagna con una pace plasticamente sancita dal matrimonio fra Luigi XIV e sua cugina, l’Infanta di Spagna Maria Teresa, per combinare il quale lo scaltro Cardinale non esitò a praticare l’italianissima politica dei “due forni”.
Vittima designata di questa macchinazione fu la Principessa Margherita di Savoia, convocata a Lione con la promessa di farla diventare Regina di Francia, salvo poi venir rimandata a Torino piena soltanto di regali e belle parole, perché nel frattempo gli Spagnoli, pur di piazzare su quel trono tanto prestigioso la loro candidata, avevano finito con l’accettare condizioni giudicate in un primo tempo irricevibili.
Mecenate illuminato, il Cardinale investì le enormi tangenti ricavate dall’attribuzione di appalti pubblici collezionando un’impressionante serie d’opere d’arte custodite nel bel mezzo di Parigi, nel suo “Palais Cardinal” (attuale “Palais Royal”), fra cui anche una “Bibbia a 42 righe” stampata da Gutenberg, ancora oggi nota come la “Mazzarina”.
Per uno scrupolo di coscienza, prima di morire decise di lasciare in eredità le sue ingenti ricchezze al figlioccio Luigi XIV, forse perché pentito di avergli rubato tanto.
In compenso il giovane sovrano, quando il Cardinale spirò il 9 marzo del 1661, versò forse le uniche lacrime sincere della sua vita, tanto gli era affezionato.
Accompagna questo scritto il “Ritratto del Cardinale Giulio Mazzarino” di Pierre Mignard, 1659, Museo Condé, Castello di Chantilly, Francia.
Frida Kalho -Viva la vida, il sogno e la rivoluzione-
Articolo di Sara Rotondi-Ass. La Città Futura
Una delle più grandi pittrici del Ventesimo secolo: la ‘pintora mexicana’ per eccellenza, intensa, meravigliosa e potente. Quelli della sua generazione potrebbero tracciare un diagramma della loro vita. A Palazzo Albergati di Bologna entra Frida Kahlo al secolo Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio1907 – Coyoacán,13 luglio 1954). La mostra su Frida inaugurata lo scorso 19 novembre, sarà visibile fino al prossimo marzo 2017. Che dire, imperdibile.
Ritratti, autoritratti, la storia dell’artista a tutto tondo che si fonde in maniera inscindibile con la storia della donna. E accanto a lei, a fare da sfondo, gli uomini (e le donne) di Frida: su tutti, il pittore e ‘muralista’ Diego Rivera e la cantante Chavela Vargas che alla veneranda età di 83 anni calcola di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. I grandi amor fou.
Lungi dal ripercorrere la biografia, tracciamo una linea ‘umile’ sul suo grande spessore umano e intellettuale. Dai suoi ideali di amore (quelli veri lontani da beceri romanticismi) all’amore per la libertà.
Ciò che l’acqua mi ha dato. Intensa e piena di passione la sua carriera pittorica, in cui la sua opera non è circoscritta alla semplice narrazione di eventi, ma è anche ricerca interiore. Opere che si uniscono con la tradizione messicana e con il surrealismo. Andrè Breton, in occasione di una mostra a Parigi nel 1939 afferma che Frida è “una surrealista creatasi con le proprie mani e un raro punto di contatto tra l’ambito artistico e quello politico, che speriamo un giorno si possa fondere in un’unica coscienza rivoluzionaria” [1]. Un surrealismo che emerge nel quadro Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità, memoria e dolore fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell’artista.
Morte e ciclo dell’esistenza. Nella sua opera emerge il dolore, l’erotismo represso (segno di vitalità immune e repressione borghese), subconscio ma anche morte. Citiamo una delle sue opere più famose dove il concetto dell’inazione collegata alla morte è intenso e struggente. Il sogno (1940) Frida Kahlo dorme e lo scheletro è sveglio, vigile. Intorno ci sono delle nuvole, il sonno di Frida è tranquillo, mentre su di lei crescono delle piante che rappresentano la vita. Per l’artista la morte è una rinascita, forma di ringraziamento per la vita e una sorta di celebrazione del ciclo vitale dell’esistenza. La morte è quindi un processo, un cammino verso qualcosa d’altro.
Autoritratto con i capelli tagliati. Fervida femminista, in un dipinto del 1940 affiora il sui ideale di donna con una vera e propria esegesi della definizione culturale delle donne. Adottando trasgressivamente alcuni elementi dell’esteriorità maschile, denuncia apertamente come il potere sia una sorta di travestimento.
Avventura, passione, tequila, e revolución: spirito politico e comunismo. Non solo pittrice, ma anche grande attività per gli ideali libertari dell’epoca. Frida è una comunista convinta che si è battuta contro le ingiustizie e l’omogeneità del sistema: nel 1928 diventa un’attivista del Partito Comunista Messicano per sostenere la lotta di classe armata partecipando a numerose manifestazioni con adeguato physique du rôle.
L’amore come essenza della vita: Ti meriti un amore “Non so scrivere lettere d’amore” affermava Frida Kahlo. Ma in realtà poche donne hanno saputo giocare con le parole e le emozioni come ha fatto lei. Il tutto in un lirismo struggente. “Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza… L’amore è come un profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo” scrive in una splendida missiva a Josè Bartoli nel 1946. L’amore, quello passionale, quello unico, quello che ti crea dipendenza anche quando si trasforma in sofferenza: “Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai la ridicola, che rispetti il tuo essere libera, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”.
Tutto questo e Frida: amore e rivoluzione.
Opere:
Autoritratto con vestito di velluto – (1926) – collezione privata
Autoritratto – (1926)
Ritratto di Alicia Galant – (1927) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Miguel N. Lira – (1927) – Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
L’autobus – (1929) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto – (1930)
Autorretratto con mono (autoritratto con scimmia) – (1930) – Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (New York)
Frida e Diego – (1931) – San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
Ritratto di Eva Frederick – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Luther Burbank – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) – (1932) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti – (1932)
La mia nascita – (1932)
Il mio vestito è appeso là (o New York) – (1933)
Qualche piccola punzecchiatura – (1935) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
I miei nonni, i miei genitori e io – (1936)
Autoritratto dedicato a Lev Trockij – (1934) – National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
Frida e l’aborto – (1936) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo defunto Dimas Rosas all’età di tre anni – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La mia balia e io – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ricordo – (1937)
Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato – (1938)
I frutti del cuore – (1938)
Il cane itzcuintli con me – (1938)
Quattro abitanti del Messico – (1938)
Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) – (1939) – Collezione Privata
Il suicidio di Dorothy Hale – (1939) – Phoenix Art Museum, Phoenix
Le due Frida – (1939) – Museo de Arte Moderno, Città del Messico
Autoritratto con collana di spine – (1940)
Autoritratto con i capelli tagliati – (1940) – Museum of Modern Art, New York
Autoritratto con scimmia – (1940)
Autoritratto per il Dr. Eloesser – (1940)
Il sogno (o Il letto) – (1940)
Cesto di fiori – (1941)
Io con i miei pappagalli – (1941)
Autoritratto con scimmia e pappagallo – (1942)
Autoritratto con scimmie – (1943)
La novella sposa che si spaventa all’aprirsi della vita – (1943)
Retablo – (1943 circa)
Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) – (1943)
Pensando alla morte (1943) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Radici (1943) – Collezione privata
Diego e Frida 1929-1944 – (1944)
Fantasia – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il fiore della vita – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La colonna spezzata – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Donna Rosita Morillo – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il pulcino – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La maschera – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Mosè (o Il nucleo solare) – (1945)
Ritratto con scimmia – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Senza speranza – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo cervo – (1946)
Autoritratto con i capelli sciolti – (1947)
Albero della speranza mantieniti saldo – (1946)
Il sole e la vita – (1947)
Autoritratto – (1948)
Diego e io – (1949) – Collezione privata
L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl – (1949)
Autoritratto con ritratto del Dr. Farill – (1951)
Ritratto di mio padre – (1951) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Perché voglio i piedi se ho le ali per volare – (1953) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Autoritratto con Diego nel mio Cuore – (1953-1954) – Collezione Privata
Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Il cerchio – (1954 circa) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il marxismo guarirà gli infermi – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Viva la vita – (1954) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.
Note:
[1] In Andrè Breton, Le Surréalisme et la Peinture, Éditions Gallimard, Parigi 1965; tr. it. di Ettore Capriolo, Il Surrealismo e la Pittura, Marchi Editore, Firenze 1966, “Frida Kahlo”, p. 143.
Fonte- Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi-
Biografia di Frida Kahlo a cura di Irene Bertazzo-
Fonte-ENCICLOPEDIA DELLE DONNE-
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón nasce da genitori ebrei tedeschi emigrati dall’Ungheria a Città del Messico, il 6 luglio del 1907, anche se lei dichiarava di essere nata nel 1910, con la rivoluzione, con il nuovo Messico.
Del padre, Frida dice «grazie a mio padre ebbi un’infanzia meravigliosa, infatti, pur essendo molto malato (ogni mese e mezzo aveva un attacco epilettico, nda) fu per me un magnifico modello di tenerezza, bravura (come fotografo e pittore, nda) e soprattutto di comprensione per tutti i miei problemi».
Della madre, invece, diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico.
A 6 anni Frida si ammala di poliomelite: piede e gamba destra rimangono deformi, tanto che Frida li nasconde prima con pantaloni e poi con lunghe gonne messicane. Così, se quando è piccola viene soprannominata dagli altri bambini “Frida pata de palo” (gamba di legno), quando diventa grande è ammirata per il suo aspetto esotico.
Nel 1922, dopo il liceo presso il Colegio Alemán, la scuola tedesca in Messico, Frida si iscrive alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico con l’obiettivo di diventare medico.
Durante questo periodo Frida fa parte dei “cachucas”, un gruppo di studenti che sostiene le idee socialiste nazionaliste del ministro della pubblica istruzione, Vasconcelos, richiedendo riforme scolastiche; inoltre mostra interesse per le arti figurative ma non ha ancora pensato di intraprendere la carriera artistica.
Il 17 settembre 1925, l’autobus diretto a Coyoacàn, su cui Frida Kahlo era salita con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, per tornare a casa dopo la scuola, si scontra con un tram.
«Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono.. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro».
Frida rimane tra le aste metalliche del tram. Il corrimano si spezza e la trapassa da parte a parte… Alejandro la raccoglie e nota che Frida ha un pezzo di metallo piantato nel corpo. Un uomo appoggia un ginocchio sul corpo di Frida ed estrae il pezzo di metallo.
La prima diagnosi seria sopraggiunge un anno dopo l’incidente: frattura della terza e della quarta vertebra lombare, tre fratture del bacino, undici fratture al piede destro, lussazione del gomito sinistro, ferita profonda dell’addome, prodotta da una barra di ferro entrata dall’anca destra e uscita dal sesso, strappando il labbro sinistro. Peritonite acuta. All’ammalata viene prescritto di portare un busto di gesso per 9 mesi, e il completo riposo a letto per almeno 2 mesi dopo le dimissioni dall’ospedale.
«Da molti anni mio padre teneva…una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza.. nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela…Mia madre fece preparare un cavalletto, da applicare al mio letto, perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta. Così cominciai a dipingere il mio primo quadro».
La madre di Frida, Matilde, poi trasforma il letto di Frida in un letto a baldacchino e ci monta sopra un enorme specchio, in modo che Frida, immobilizzata, possa almeno vedersi.
Così nascono quegli autoritratti che ce la ricordano, con i suoi occhi sovrastati dalle sopracciglia scure, particolarmente marcate, che si uniscono alla radice del naso come ali d’uccello: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio».
Con queste rappresentazioni Frida infrange i tabù relativi al corpo e alla sessualità femminile. Diego Rivera, suo futuro marito, dirà di lei «la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta ed inesorabile schiettezza, in modo spietato ma al contempo pacato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne».
Via via che i mesi passano, Frida si dedica con crescente consapevolezza alla pittura. Avanza lentamente, produce a piccole dosi e piccoli formati: ciò che la sua salute le permette di fare, a seconda del fatto che riesca a star seduta o solamente distesa: «i miei quadri sono dipinti bene, non con leggerezza bensì con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore».
Più di un anno dopo, verso la fine del 1927 si riprende, tanto da poter condurre una vita abbastanza normale, nonostante i dolori dovuti ai vari busti, e le cicatrici derivate dalle diverse operazioni.
Nel 1928 Frida si unisce ad un gruppo di artisti e di intellettuali che sostengono un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo e legata all’espressione popolare: il mexicanismo, che si esprime nella pittura murale, particolarmente incoraggiata dallo Stato anche per le sue finalità edificanti e la possibilità di raccontare la storia nazionale anche alla grande massa analfabeta.
Frida, dal canto suo, per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo; il mondo contenuto nelle opere di Frida si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana; vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati nella fede del popolo; negli autoritratti, inoltre, Frida si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio. Del Messico, poi, ritroviamo, nelle opere di Frida, la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
Nei primi mesi del 1928, German del Campo, uno dei suoi amici del movimento studentesco, le fa conoscere un gruppo di giovani raccolto intorno al comunista cubano Julio Antonio Mella, che si trova in esilio in Messico e che ha una relazione con la fotografa Tina Modotti. È proprio Tina a far conoscere a Frida Diego Rivera: un pittore e muralista molto famoso, anche se i due, in realtà si erano già conosciuti nel 1923, mentre Diego lavorava nell’anfiteatro Bolivar. Di quell’incontro Diego ricorda di questa ragazza «…aveva una dignità e una sicurezza di sé del tutto inusuali e negli occhi le brillava uno strano fuoco».
Quando Frida incontra Diego per la seconda volta, lui è un uomo pesante, gigantesco, Frida lo prende in giro chiamandolo “elefante”: è già stato sposato due volte e ha quattro figli.
Il 21 agosto del 1929 si sposano. Lei ha 22 anni, lui quasi 43.
A causa della malformazione pelvica, dovuta all’incidente, Frida non riesce a portare a termine le sue gravidanze, e così, 3 mesi dopo il matrimonio, Frida deve abortire. È la prima volta. Nel novembre del 1930 Frida e Diego si trasferiscono per 4 anni negli Stati Uniti per motivi artistici e politici. A Detroit Frida rimane incinta per la seconda volta, ma la tripla frattura delle ossa del bacino ostacola la corretta posizione del bambino. Frida decide comunque di tenere il bambino, nonostante la sua pessima condizione fisica ed il rischio. Tuttavia, il 4 luglio perde il bambino per un aborto spontaneo.
Nel 1934 ritornano in Messico, Frida è costretta ad abortire per la terza volta, e si separa da Diego che, nel frattempo, aveva avuto diverse avventure con altre donne, compresa la sorella di Frida, Cristina.
Frida comincia ad avere rapporti con altri uomini e con donne e ad essere molto attiva anche dal punto di vista politico. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile e se, Tina Modotti, l’amica di Frida, lascia immediatamente Mosca per andare in Spagna, lei si impegna a distanza nella lotta per la difesa della Repubblica Spagnola, organizzando riunioni, scrivendo lettere, raccogliendo viveri di prima necessità, pacchi di vestiti e di medicine per inviarli al fronte.
Nel 1937, poi, nella sua Casa Azul, ospita Lev e Natalja Trotskij, i quali sono in viaggio dal 1929, espulsi dall’Unione Sovietica.
Negli anni Quaranta, la fama di Frida è talmente grande che le sue opere vengono richieste per quasi tutte le mostre collettive allestite in Messico.
Nel 1943 viene chiamata ad insegnare, assieme ad altri artisti, alla nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda. Frida, per ragioni di salute, è presto costretta a tenere le lezioni nella sua casa. I suoi metodi sono poco ortodossi: «Muchacos, chiusi qui dentro, a scuola, non possiamo fare niente. Andiamo fuori, in strada, dipingiamo la vita della strada». I suoi alunni la ricordano: «l’unico aiuto che ci dava era quello di stimolarci….non diceva niente sul modo in cui dovevamo dipingere o sullo stile, come faceva il maestro Diego…Ci insegnò soprattutto l’amore per la gente, ci fece amare l’arte popolare».
Nel 1950 subisce sette operazioni alla colonna vertebrale e trascorre nove mesi in ospedale. Dopo il 1951, a causa dei dolori, non riesce più a lavorare se non ricorrendo a farmaci antidolorifici; forse è proprio dovuta a questi la pennellata più morbida, meno accurata, il colore più spesso e l’esecuzione più imprecisa dei dettagli.
Nel 1953, alla sua prima mostra personale, allestita dalla amica fotografa Lola Alvarez Bravo, partecipa sdraiata su un letto, dato che se i medici le hanno assolutamente proibito di alzarsi. È Diego ad avere l’idea di trasportare il grande letto a baldacchino di Frida fin nel centro di Città del Messico. Stordita dai farmaci, partecipa alla festa rimanendo a letto, bevendo e cantando con il pubblico accorso numeroso. Nell’agosto dello stesso anno, i medici decidono di amputarle la gamba destra fino al ginocchio.
Nel 1954 si ammala di polmonite. Durante la convalescenza, il 2 luglio, partecipa ad un dimostrazione contro l’intervento statunitense in Guatemala, reggendo un cartello con il simbolo della colomba che reca un messaggio di pace. Muore per embolia polmonare la notte del 13 luglio, nella sua Casa Azul, sette giorni dopo il suo quarantasettesimo compleanno. La sera prima di morire, con le parole «sento che presto ti lascerò», aveva dato a Diego il regalo per le loro nozze d’argento.
ENCICLOPEDIA DELLE DONNE
Contatti
Redazione redazione@enciclopediadelledonne.it
Ufficio stampa
IDN Media Relations di Isabella Di Nolfo
Milano, t. 02 70104488 idn@idnmediarelations.it
SOCIETA’ PER L’ENCICLOPEDIA DELLE DONNE APS
VIA DEGLI SCIPIONI, 6
20129 – MILANO
P.IVA 07734790962
COD. FISC. 97562510152
CODICE UNIVOCO – M5UXCR1
PEC – enciclopediadelledonne@pec.it
-Le Lettere per la pace in Việt Nam di Hồ Chí Minh –
-Anteo Edizioni-
Recensione del volume Lettere per la pace in Việt Nam (Anteo Edizioni, 2021),una raccolta di lettere scritte dal leader vietnamita Hồ Chí Minh tra il 1946 e il 1969, mentre il Việt Nam si trovava a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.Articolo di Giulio Chinappi
La figura di Hồ Chí Minh ha un enorme significato per la storia contemporanea del Việt Nam, difficilmente paragonabile a quella di un qualsiasi personaggio storico italiano occidentale. Il nome di Hồ Chí Minh ha infatti assunto un’importanza tale da poter essere di fatto identificato con il Việt Nam stesso. In “Lettere per la pace in Việt Nam” (Anteo Edizioni, 2021), una raccolta di ottantacinque lettere selezionate da Nguyễn Anh Minh e tradotte in italiano da Sandra Scagliotti e Trần Doãn Trang, abbiamo l’opportunità di ripercorrere l’incessante lotta di Hồ Chí Minh per la liberazione, la riunificazione e la pacificazione della sua patria, in oltre vent’anni nei quali il Việt Nam si è trovato a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.
Tuttavia, la lotta di Hồ Chí Minh non ha riguardato solamente il Việt Nam, ma ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i popoli del mondo oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo delle potenze capitalistiche occidentali: “Il Presidente, combinando la forza del popolo con una peculiare contingenza storica, ha incarnato l’integrazione tra il vero patriottismo e il più fedele e trasparente internazionalismo dei lavoratori e della classe operaia; egli ha sempre pensato che la costruzione di una pace autentica a livello mondiale dovesse necessariamente fondarsi sul principio del rispetto dei diritti fondamentali di tutti i popoli e che, in seno alle relazioni internazionali, eguaglianza e democrazia dovessero costituire la necessaria alternativa alla guerra, per garantire a ogni nazione il diritto di decidere il proprio destino in base ai valori culturali nazionali, nel rispetto delle scelte di sviluppo di ogni Stato e senza alcuna interferenza negli affari interni delle altre nazioni” si legge nella prefazione della casa editrice vietnamita.
La rassegna delle lettere indirizzate ai leader, ai governi, alle assemblee nazionali, a presidenti, politici, militari, prigionieri e ai popoli di tutti i paesi del mondo si apre in un contesto nel quale, terminata la seconda guerra mondiale, la Francia stava tentando di rioccupare militarmente le sue ex colonie asiatiche, sebbene il Vietnam avesse dichiarato la propria indipendenza il 2 settembre 1945.
Nonostante i crimini commessi dai colonialisti francesi – poi reiterati in forme ancora più disumane dagli imperialisti statunitensi – Hồ Chí Minh ha sempre mantenuto la chiara distinzione tra l’operato dei governi e i popoli di quei paesi, come si evince già nella lettera indirizzata ai francesi d’Indocina nel 1946: “Noi non detestiamo il popolo francese. Anzi, ammiriamo questo grande popolo perché è stato il primo a divulgare i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, e perché è un popolo dedito alla cultura, alla scienza e alla civiltà. La nostra battaglia non volge contro il popolo francese, né contro i francesi leali e onesti, ma contro la crudele dominazione del colonialismo francese in Indocina”. Da queste parole di evince anche il retaggio culturale di Hồ Chí Minh, che, come molti leader rivoluzionari vietnamiti, aveva paradossalmente formato la propria coscienza politica grazie agli insegnamenti della scuola coloniale francese che esaltava i valori della rivoluzione del 1789. “Sapete bene che tale dominazione non offre alcun vantaggio alla Francia, né, tantomeno ai cittadini francesi. Tale dominazione arricchisce gli avidi colonialisti, ma infama la Francia” (p. 3).
Hồ Chí Minh manterrà sempre stretti contatti con le forze sociali progressiste in Francia, in particolare con il Partito Comunista Francese (PCF), ritenendo l’azione dello stesso un sostegno fondamentale alla causa vietnamita, come si evince dalla breve lettera inviata al segretario del PCF Maurice Thorez (p. 21). Una lettera molto più consistente è invece quella inviata il 22 settembre 1946 all’Unione delle donne francesi: “Voi, care Signore, amate il vostro paese e desiderate che sia indipendente e unito. Sono sicuro che, per difenderlo, sareste disposte a combattere contro chiunque cercasse di violarne l’indipendenza e l’unità” si legge nel testo. “Anche noi siamo così, amiamo il nostro paese e lo desideriamo indipendente e unito. Potete forse biasimarci perché abbiamo lottato contro coloro che hanno tentato di conquistare la nostra patria e dividere il nostro popolo? I francesi hanno subito il dolore dell’occupazione per quattro anni; quattro anni in cui hanno lottato con la resistenza e la guerriglia. I vietnamiti hanno subito il dolore dell’occupazione per oltre 80 anni, e, a loro volta, hanno lottato con la resistenza e combattuto con la guerriglia. Se i francesi che hanno partecipato alla resistenza sono considerati eroi, perché i guerriglieri vietnamiti dovrebbero essere considerati ladri e assassini?” (p. 22).
In un primo momento, Hồ Chí Minh si rivolge in alcune lettere al presidente statunitense Harry Truman per cercare sostegno nella sua lotta anticolonialista, dopo che lo stesso Truman aveva presentato i “12 punti” della politica estera statunitense, nei quali si indicava il diritto dei popoli all’indipendenza e all’autodeterminazione. Tuttavia, la cosiddetta “dottrina Truman” si rivelò ben presto uno strumento volto unicamente a evitare l’espansione del comunismo nel mondo, e le parole “indipendenza” e “autodeterminazione” solamente uno specchietto per le allodole per coprire le mire imperialiste di Washington.
Nonostante le grandi difficoltà e l’ostilità delle forze imperialiste mondiali, Hồ Chí Minh riaffermerà a più riprese la risolutezza del governo e del popolo vietnamita nella lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione: “Il colonialismo francese intende nuovamente occupare il nostro paese; questo è un fatto oramai chiaro e innegabile. Ora il popolo vietnamita si trova a un bivio: potrebbe arrendersi e piegarsi alla schiavitù oppure continuare a lottare fino alla fine, per riacquistare la libertà e l’indipendenza. No, il popolo vietnamita non si arrenderà! Non permetterà mai più ai francesi di tornare a dominarlo. No! Il popolo vietnamita non tornerà più schiavo. Il popolo vietnamita è disposto a morire piuttosto che rinunciare all’indipendenza e alla libertà” (p. 28). E ancora: “Mentre la Francia è forte materialmente, noi siamo mentalmente determinati alla vittoria e risolutamente decisi nel combattere per la nostra libertà” (p. 33).
A partire dal 1951, l’ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Vietnam divenne sempre più evidente. La dottrina Truman aveva portato allo scoppio della guerra di Corea, e Washington covava già il piano di sostituirsi alla Francia come potenza egemone nella regione indocinese, qualora Parigi avesse fallito nel suo intento. “Lei, Presidente, erede di grandi leader come Washington, Lincoln e Roosevelt, parla spesso di pace e giustizia, ma nei Suoi atti concreti verso il Việt Nam, si mostra in totale divergenza da rettitudine e concordia” scrive Hồ Chí Minh in una nuova lettera rivolta a Truman, specificando che costui “ha ordito una cospirazione per trasformare il Sud vietnamita in una base militare, colonia degli Stati Uniti” (p. 62).
In una missiva successiva, il presidente vietnamita aggiunge, rivolgendosi al suo omologo statunitense: “Lei ha affermato che gli Stati Uniti non interferiscono negli affari interni degli altri paesi. Ogni anno, gli Stati Uniti spendono centinaia di milioni di dollari per introdurre spie nei paesi stranieri e concorrono con oltre duemila milioni di dollari ad armare i paesi filoamericani per prepararsi alla guerra: gli Stati Uniti posseggono 250 basi militari in diversi paesi. Non è forse questa un’interferenza?” (p. 64).
Il 7 maggio 1954, i vietnamiti sconfissero i francesi nella storica battaglia di Ðiện Biên Phủ, ponendo fine per sempre alle mire coloniali di Parigi in Asia. In quello stesso momento, gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno del Vietnam: “Noi vietnamiti abbiamo versato il nostro sangue per rovesciare il regime coloniale francese; ma poi, l’imperialismo americano, con i suoi dollari e i suoi inganni ha plasmato nel Sud del Việt Nam un feroce governo dittatoriale fantoccio” si legge in una lettera rivolta a John F. Kennedy (p. 65).
In una lettera del 30 aprile 1966 rivolta al senatore statunitense Michael Joseph Mansfield, Hồ Chí Minh chiede retoricamente: “Secondo Lei, quando un gruppo di scellerati criminali venuto da lontano, attacca massicciamente un villaggio di contadini, a chi va la colpa dell’invasione? Agli abitanti del villaggio o ai criminali?” (p. 91). E continua affermando: “Che benefici potrà mai apportare al popolo americano una guerra così illogica? Decine di migliaia di giovani americani muoiono in campi di battaglia lontani da casa, lasciando decine e decine di vedove e orfani. Negli Stati Uniti le tasse stanno diventando più pesanti e il costo della vita aumenta sempre più. L’inflazione si aggrava. L’onore degli Stati Uniti è in gioco. Anche con altre migliaia di bombardieri e decine di migliaia di soldati, l’America è destinata a fallire” (p. 92).
Allo stesso tempo, Hồ Chí Minh curò particolarmente le relazioni con i leader e i partiti degli altri paesi socialisti, come si evince da una serie di lettere di questo tipo: “Noi tutti siamo altresì grati all’Unione Sovietica, alla Cina e agli altri paesi socialisti che hanno sostenuto il popolo vietnamita contro l’invasione imperialista americana, che lo hanno aiutato a proteggere l’indipendenza nazionale, a difendere l’avamposto del blocco socialista nel Sudest asiatico e a contribuire alla tutela della pace nel mondo” leggiamo nella missiva inviata al Partito Socialista Operaio Ungherese in occasione del suo IX Congresso (p. 102).
L’ultimo presidente statunitense con il quale Hồ Chí Minh ebbe a che fare fu Lyndon Johnson, al quale rivolse una dura lettera il 15 febbraio 1967: “Il Việt Nam dista migliaia di chilometri dall’America. Il popolo vietnamita non ha mai nemmeno sfiorato l’America. Ma, contrariamente all’impegno assunto nel 1954, dai suoi rappresentanti alla Conferenza di Ginevra, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di intervenire in Việt Nam; con ininterrotte provocazioni e un continuo incremento della guerra d’invasione nel Sud, cercano di dividere in modo permanente il paese e trasformare il Sud in una nuova colonia, base militare statunitense. […] Nella Sua lettera, Presidente, Lei si dice addolorato per la situazione di sofferenza e distruzione in Việt Nam Vorrei porLe una domanda: chi ha causato crimini così atroci? L’esercito americano e le forze dei paesi vassalli dell’America! Questa è la riposta” (p. 107).
Chiudiamo questa nostra breve rassegna con la lettera inviata nel marzo del 1967 al popolo italiano, che certamente, soprattutto grazie all’azione del Partito Comunista Italiano, fu sempre tra i maggiori sostenitori della causa vietnamita: “Il popolo italiano, con entusiasmo e con ogni mezzo, ha sostenuto la nostra resistenza contro l’aggressione americana. Vogliamo esprimere i nostri più sinceri ringraziamenti agli amici italiani. Ci auguriamo che il popolo italiano possa ulteriormente rafforzare il suo sostegno alla nostra lotta e, a gran voce, chiedere che gli invasori statunitensi cessino totalmente i bombardamenti e ogni atto di violenza contro la Repubblica Democratica del Việt Nam” (p. 116).
Hồ Chí Minh scomparve il 2 settembre 1969, nello stesso giorno in cui, 24 anni prima, aveva dichiarato l’indipendenza della Repubblica Democratica del Việt Nam. Il fondatore del Việt Nam indipendente non riuscì dunque a vedere la vittoria che sarebbe giunta solamente nel 1975, quando gli imperialisti statunitensi furono definitivamente cacciati e il paese venne riunificato sotto la bandiera della Repubblica Socialista del Việt Nam.
Articolo di Giulio Chinappi
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.