Brighton…..where else could you find such a variety in a small area in a short space of time-Brighton è una città balneare inglese. Dennis Hunt – Fotoreportage-Situata a circa un’ora in treno a sud di Londra, è una destinazione molto amata per le gite in giornata. La sua ampia spiaggia di ghiaia è caratterizzata da sale giochi ed edifici in stile regency. Il Brighton Pier, nella sezione centrale del lungomare, è stato inaugurato nel 1899 e ora ha di giostre e punti di ristoro. La città è nota anche per la vita notturna, la scena artistica, i negozi e i festival.
Il termine reportage viene utilizzato per indicare tutto ciò che riguarda lo studio degli eventi di cronaca, di conseguenza il fotoreportage è un tipo di stile fotografico basato sulle opere dei fotoreporter, ovvero di coloro che vanno a creare contenuti specifici per motivi di divulgazione.
In cosa consiste lo stile del fotoreportage
La fotografia permette di accompagnare alcuni dei momenti più belli della propria vita, come ad esempio le cerimonie e i matrimoni. Durante questi momenti è possibile scegliere uno stile fotografico a cui attenersi per andare a sviluppare poi un album fotografico pieno di momenti memorabili e significativi. Ecco esempi di fotoreportage di matrimonio.
Il fotoreportage è proprio uno di questi stili, che consiste nel catturare le circostanze più belle e memorabili dell’evento, cercando di documentare in maniera completamente autentica tutto ciò che accade.
Di conseguenza i fattori che vanno ad influire maggiormente sullo stile del fotoreportage sono quelli che incidono sulla spontaneità dell’attimo ritratto in foto, i cui soggetti sono ripresi nei momenti più interessanti della cerimonia. Un tratto caratteristico del fotoreportage, inoltre, è l’utilizzo del bianco e nero, che permette di accentuare lo stile puramente documentarista e “di cronaca”.
Come avvengono le fotografie in stile reportage
Dato che l’obiettivo principale di questo stile è quello di ritrarre le situazioni nella loro naturalità più totale, uno dei fattori più importanti da prendere in considerazione per eseguire scatti in fotoreportage è cercare sempre di ritrarre le circostanze così come si presentano. Ciò significa che non c’è bisogno di organizzare lo sfondo, di pose stilistiche o di artifici di alcun genere.
Il fotoreporter professionista sa sempre quale angolo utilizzare per mettere in risalto i momenti salienti, senza andare a modificare la naturalezza dello scatto in alcun modo. Le doti di un buon fotografo vengono messe assolutamente alla prova in questo stile fotografico, perché è molto difficile riuscire a sviluppare degli scatti memorabili e allo stesso tempo esteticamente soddisfacenti senza andare ad influire in alcun modo sui soggetti ritratti.
I fattori positivi dello stile fotoreportage
Grazie al fatto che i momenti vengono ritratti così come avvengono, il fotoreportage è sicuramente il metodo migliore per immortalare i ricordi più memorabili in tutta la loro purezza.
Spesso gli album fotografici vengono riempiti di foto studiate a tavolino, che possono sicuramente rappresentare un buon prodotto per quanto riguarda il fattore estetico, ma che hanno poco da regalare per quanto riguarda invece la purezza del ricordo. Lo stile del fotoreportage ha proprio l’obiettivo di riuscire a catturare tutto ciò che accade all’improvviso, spesso senza la completa consapevolezza dei soggetti che vengono ritratti.
Si tratta di un espediente eccezionale per ritrarre alcuni momenti specifici, come un bacio o un abbraccio, oppure il momento della rivelazione di un regalo, della presentazione della sposa al marito e così via.
Campi di applicazione del fotoreportage
Alcuni esempi di fotoreportage possono essere proprio i giornali e i siti di divulgazione di fatti di cronaca, che utilizzano le foto scattate da reporter professionisti che sono riusciti a ritrarre l’argomento di cui si parla all’interno degli articoli di giornale. In queste foto i soggetti sono quasi sempre all’oscuro della presenza del fotoreporter, di conseguenza il loro comportamento non viene manomesso dalla sua presenza.
Inoltre un altro esempio molto affidabile di fotoreportage possono essere i ritratti in ambito bellico, che riescono a rappresentare le scene che si presentano al fotografo in tutta la loro crudezza. Per tutti questi motivi, lo stile del fotoreportage rappresenta sicuramente un ottimo compromesso per riuscire ad immortalare i propri ricordi così come sono avvenuti, senza manomissioni di alcun tipo.
Questo stile fotografico deve essere sicuramente sviluppato da un vero professionista, perché la scelta degli angoli, del dispositivo giusto, delle impostazioni della fotocamera e di tutti gli altri fattori tecnici che influiscono sulla qualità finale della foto vanno ponderati in maniera corretta e molto rapidamente
– Religione soggettiva e oggettiva nel giovane Hegel –
Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura
Hegel
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione francese o la modernità nel suo complesso.
È in nome della religione soggettiva che il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel sviluppa la polemica contro il “freddo intelletto”, i cui astratti e morti dogmi non sono traducibili nella concretezza dell’agire morale e, incapaci di penetrare nell’intimo della soggettività, pretendono di ricondurre la multiforme ricchezza della vita etica, la spontaneità dei sentimenti vissuti a soffocanti schemi dottrinari, fondati unicamente sulla rivelazione positiva. “Nel concetto di religione – scrive Hegel – è implicito che questa non è semplicemente una scienza intorno a Dio, ai suoi attributi (…) il che in ogni caso o potrebbe essere appreso semplicemente con la ragione o esserci noto per altra via (…) ma interessa il cuore ed ha influenza sui nostri sentimenti e sulla determinazione della volontà. Ciò (…) perché i nostri doveri e le leggi acquistano maggior forza dal fatto che ci sono rappresentati come leggi divine” [1]. In questi anni si ripresenta costantemente la critica alla casistica, cui Hegel contrappone appunto la religione soggettiva: “con la raccomandazione di vari e diversi doveri si perde di vista nel singolo l’intero, il tutto, si confonde il sentimento delle molte cose che si dovrebbero fare, non si permette alla coscienza di pervenire alla sua forza e non la si radica nello spirito dalla cui pienezza deve scaturire la virtù ed ogni conformità al dovere” [2]. Il giovane Hegel tende a contrapporre la morale kantiana e gli ideali della Rivoluzione francese al rigido moralismo tardo illuminista e al dogmatismo protestante. Quest’ultimo, pure avendo purificato la religione, rispetto al cattolicesimo, a fede soggettiva, la ha poi costretta in una casistica arida e intellettualistica: “la riforma scoprì il valore della religione soggettiva e mirò a migliorare gli uomini, volendo tradurre quest’arte in un sistema di parole (…) ma oggigiorno si è trovato che la religione non si lascia racchiudere in una dogmatica, mentre la comporta più una religione oggettiva” [3].
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione Francese o la modernità nel suo complesso. Si tratta, del resto, di una tematica presente, in qualche modo, negli scritti hegeliani sin dall’epoca di Stoccarda e derivata in prima luogo dalla filosofia di Jean-Jacques Rousseau.
La critica all’intelletto colpisce, piuttosto, un certo indirizzo dell’illuminismo che ne stravolge gli intenti, accolto tanto nella teologia dogmatica del seminario teologico di Tubinga in cui Hegel si era formato quanto dalla concezione della religione fondata sui postulati della Ragion pratica [4]. Da ciò deriverà la decisa polemica hegeliana nei confronti del dualismo, sul piano storico-positivo, tra felicità e azione conforme all’imperativo categorico, in base alla quale la filosofia critica aveva recuperato la necessità della fede nel sovrasensibile. Come gli scrive Schelling: “è un piacere vedere come essi sanno trarre a proprio vantaggio la prova morale. In un battibaleno spunta fuori il deus ex machina, l’Ente personale, individuale, che siede in cielo!” [5].
Del resto, lo stesso interesse del giovane Hegel per il sentimento, lo spirito del popolo e la religione popolare sono riconducibili alla volontà di contrastare il tentativo della teologia dogmatica di recuperare la rottura prodotta dalla filosofia kantiana con la metafisica scolastica e l’ortodossia, proprio sulla base del secondo postulato della Ragion pratica – poi sviluppato nella Critica del giudizio e nella Religione nei limiti della sola ragione [6]. Proprio a partire dall’insanabile contrapposizione tra imperativo categorico e costituzione sensibile dell’uomo, tra azione morale e sensibilità, Kant aveva postulato la necessità di un garante sovrasensibile dell’unità tra questi due momenti [7]. Per ora, Hegel si limita a confutare la necessità dello scarto tra azione morale e conseguimento della felicità, riprendendo la tesi che l’illuminismo attribuiva a Socrate: “se si assume il soddisfacimento dell’impulso alla felicità come fine supremo della vita, purché lo si sappia ben calcolare, sortiranno, secondo l’apparenza esterna, i medesimi effetti di quando è la legge della ragione a determinare la nostra volontà” [8].
Tuttavia Hegel, riaccostandosi alla filosofia critica, rifiuta le estreme conseguenze di una tesi che, nel tentativo di stabilire a priori il comportamento corrispondente a ogni caso empirico, aveva condotto il tardo illuminismo a sviluppare una precettistica morale che finiva per essere agevolmente recuperata dal moralismo radicalmente antistorico dominante al seminario di Tubinga [9].
Da ciò deriva, nella riflessione hegeliana, l’esigenza di distinguere nettamente all’interno della tradizione illuminista le tendenze degne di essere sviluppate da quelle da accantonare. “Qualcosa di diverso dall’illuminamento – osserva Hegel – inteso come ragionamento, è la saggezza. La saggezza non è scienza; è un’elevazione dell’anima che, con l’esperienza legata alla riflessione, si è innalzata oltre la dipendenza dalle opinioni e dalle impressioni della sensibilità” [10]. Si tratta di una critica presente non solo in Rousseau, ma nello stesso Kant che, già nella prima Critica, aveva decisamente opposto la saggezza socratica all’intellettualismo della metafisica scolastica. Allo stesso modo non si dà, per Hegel, una semplice opposizione tra illuminismo e saggezza. “Se l’illuminamento – a suo parere – deve effettuare ciò che pretendono i suoi grandi esaltatori, se deve meritare i loro elogi, è vera saggezza, altrimenti rimane comunemente saccenteria” [11]. Così la critica all’intelletto non si pone come negazione semplice, ma determinata: “compito dell’intelletto illuminato – secondo Hegel – è il vagliare la religione oggettiva. Ma, come la sua forza non ha alcuna vera importanza quando si devono produrre il miglioramento degli uomini, l’educazione a grandi e forti pensieri, a nobili sentimenti e ad una decisa autonomia, così anche il prodotto, la religione oggettiva, non ha gran peso a tali fini” [12]. Tanto più che l’intelletto illuminista ha svolto un ruolo fondamentale nella critica rivolta a ogni forma feticistica della religione positiva, a ogni intolleranza fondata unicamente su ragioni storiche, che prescinde completamente dai princìpi universali, cosmopolitici della religione naturale. “L’intelletto – scrive Hegel – è al servizio solo della religione oggettiva. Col chiarire i principi, con l’esporli nella loro purezza, esso ha prodotto splendidi frutti, il Nathan di Lessing, e merita gli elogi con cui sempre lo si esalta” [13].
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 85, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 171.
[2] Ivi, p. 78 e p. 164.
[3] Ivi, p. 76 e p. 160.
[4] A proposito di quest’ultima tendenza, scriverà polemicamente il giovane Schelling: “certo, voi ci dovete ringraziare assai per il rifiuto del vostro sistema. Ora non avete più bisogno di impegnarvi in dimostrazioni acute, difficili da comprendere: noi vi abbiamo aperto una via più breve. A ciò che non siete in grado di dimostrare voi imprimete il marchio della ragion pratica, con la certa sicurezza che la vostra moneta circolerà ovunque domini ancora la ragione umana” Schelling, F.W.J., Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, tr. it. di Semerari G., Laterza, Bari 1995, p. 15.
[5] Hegel, G.W.F., Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), p.14, tr. it. parziale di Manganaro P., Epistolario I(1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 107. Come è stato a ragione osservato: “si trattava di sciogliere l’equivoco logico del Dio morale, creato dai teologi tubinghesi col fraintendimento della Critica e col ricorso a una vuota rappresentazione antropomorfica” Semerari G., Introduzione a Schelling F.W.J., Lettere filosofiche…, op. cit., p. XIX.
[6] Ecco come argomentava a tal proposito Immanuel Kant: “senza dubbio questo lo riscontriamo soltanto nell’idea di un Oggetto, che riunisca in sé la condizione formale di tutti gli scopi, il modo secondo cui dobbiamo proporceli (il dovere) e, nello stesso tempo, tutto il condizionato, concordante con quegli scopi, che noi perseguiamo (la felicità commisurata all’osservanza del dovere): cioè l’idea di un sommo bene nel mondo, per la cui possibilità siamo costretti a supporre un Essere supremo morale, santissimo e onnipotente, solo capace di riunire i due elementi costitutivi” Kant, I., La religione entro i limiti della sola ragione [1793], tr. it. di Poggi A., riveduta da Olivetti M., Laterza, Bari 1995, p. 5. E ancora: “la morale conduce dunque necessariamente alla religione, per la quale si estende così all’idea di un legislatore morale onnipotente, al di sopra dell’umanità, nella cui volontà risiede quel fine ultimo (della creazione del mondo), che può e deve essere nello stesso tempo il fine ultimo dell’uomo” ivi, pp. 6-7.
[7] Lo stesso Johann Gottlieb Fichte, nella prima stesura del 1791 del Saggio in critica di ogni rivelazione aveva postulato, onde non rendere impossibile il sommo bene, “che la natura sensibile sia «sotto la giurisdizione di una qualche natura razionale, pur se non della nostra»; la comunanza di razionalità tra Dio e l’uomo morale permette di prospettarsi quel fine, il sommo bene, appunto” Cesa, C., Introduzione a Fichte [1994], Laterza, Roma-Bari 2001, p. 5.
[8] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 84; Scritti…, op. cit., p. 170.
[9] Hegel polemizza contro la trattatistica morale in quanto inefficace a un reale miglioramento dell’agire umano, ma funzionale unicamente a una maggiore avvedutezza, come diversa è la saccenteria rispetto alla saggezza: “quest’ultima consiste essenzialmente nella liberazione dal pregiudizio, che è intrecciato per lo più con la religione, e soprattutto col condurre gli uomini quanto più vicino è possibile a quei «principi universalmente validi» che sono «a fondamento della religione». Sono – è chiaro – i principi della morale” Mirri, E., Introduzione a Hegel, G.W.F., Scritti…, op. cit., p. 146.
[10] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 96; Scritti…, op. cit., p. 182.
[11] Ivi, p. 98 e p. 183.
[12] Ivi, p. 99 e p. 184.
[13] Ivi, p. 94 e p. 179.
Fonte- Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura-| Via dei Lucani 11, Roma
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA
FIUMICINO – Il Restauro del Castello di Porto
Castello di Porto
Nel 1930 l’Architetto Giuseppe Breccia Fratadocchi riceve l’incarico di restaurare il Castello di Porto presso Fiumicinoed adeguarlo alle esigenze di una nuova destinazione. La Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata che lo aveva appena acquistato dalla Diocesi di Porto e Santa Rufina , Castello un tempo era la sede episcopale. L’antico Episcopio di Porto , fortificato nel XIII secolo da Papa Callisto II e nel XVI secolo da Papa Sisto IV assumendo la forma di Palazzo-Fortezza, aveva conosciuto , nel corso dei secoli, periodi di abbandono e subendo gravi danni , alternati a periodi di rinascita caratterizzati da interventi di riqualificazione e abbellimento sia nel cortile e sia nella chiesa. Al momento della vendita il Castello si presentava in grave stato di degrado e con numerosi episodici rimaneggiamenti e lavori di manutenzione provvisoria. In precedenza Papa Pio XI aveva suggerito il nome dell’Ingegner Carlo Castelli , progettista di sua fiducia, per curare il restauro. La necessità di recuperare il monumento per l’uso di un Istituto religioso a scopo educativo e con annesso appartamento riservato al Vescovo Cardinale , spinge il Cardinale Tommaso Boggiani, Vescovo della Diocesi suburbicaria di Porto, a rivolgersi al giovane allievo dell’Accademico Giovannoni. Già allora le più accreditate teorie del restauro nei casi di riuso di edifici storici auspicavano riusciti percorsi progettuali tali da garantire la vitalità stessa del monumento, in questo caso si trattava cioè di fare del Castello un “Monumento Vivente” sia pure nel rispetto di criteri fisiologici. L’Arch. Breccia segue le teorie del restauro dei monumenti già diffuse in Francia da Louis Cloquet e definite “restauri di innovazione” da Giovannoni. L’Architetto Breccia si entusiasma talmente al tema che, forte della stima del Cardinale Boggiani, costituisce una propria Impresa Edile assumendo il ruolo di progettista , Direttore dei Lavori e impresario al fine di ottenere ogni garanzia sul risultato finale . Nel novembre dello stesso anno, 1930, organizza una visita al Cantiere per il Sindacato Provinciale Fascista Ingegneri. L’esigenza di una nuova camerata proposta nel precedente studio della Diocesi con un corpo di fabbricato aggiunto ad un solo piano sul lato Sud-Ovest, ha il sapore della consueta ed estranea superfetazione la quale verrebbe a turbare l’imponente chiarezza del volume che si erige nella solitudine del paesaggio della foce del Tevere. L’Architetto Breccia opta pertanto per quella che egli considera la sola alternativa possibile: la demolizione della facciata Sud, assai modesta e di chiara fattura ottocentesca a due e tre livelli, e la ricostruzione della stessa sopraelevata di un piano ed avanzata di circa 1,8 metri dal filo della facciata precedente , cioè una soluzione in analogia con gli interventi di riallineamento ,allora frequenti, nelle riconfigurazioni urbanistiche dei centri storici . La nuova facciata, semplice, a intonaco, si caratterizza con elementi propri dell’architettura del Castello; un coronamento con merli nell’antica facciata d’origine poi nascosti dal volume ottocentesco ed il piccolo aggetto dell’ultimo piano , continuo e poggiante su mensole, elemento suggerito da un altro fronte del Castello. L’Architetto Breccia vuole evidenziare bene il nuovo volume aggiunto limitandone l’estensione e lasciando in vista , sul lato destro, il filo dell’antica facciata con una accentuata rientranza. Inoltre elimina la copertura provvisoria a due spioventi del grande torrione sulla via Portuense per sostituirla con un tetto a quattro spioventi che appoggia sulla antica merlatura ripristinata. Anche la torre mozzata dell’angolo Sud-Ovest viene liberata della copertura ad uno spiovente e e ripristinata la merlatura . Il Castello , così liberato da ogni sporadica deformazione , recupera un’immagine che si caratterizza per coerenza stilistica . Il lavoro incontrerà i più ampi consensi , ma L’Architetto Breccia dovrà rinunciare all’attività di costruttore edile , risultata troppo costosa e non compatibile con il suo carattere di appassionato Architetto. Lo stesso Cardinale Boggiani gli commissionerà poi il progetto della propria tomba da realizzarsi a Bosco Marenco (Alessandria). La Congregazione ancora nel dopoguerra si rivolgerà a lui per altri importanti lavori da eseguirsi nel palazzo romano sito in via del Mascherone.
Il Castello di PortoIl Castello di PortoAssociazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage,organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
David Hevia è poeta, giornalista, professore di filosofia e letteratura e direttore della Società degli Scrittori del Chile. Le sue pubblicazioni di poesia sono “Historia de la Desnudez” (2011), “Anoche el Día” (2015) e “La canción del amor” (2018), oltre a vari saggi e l’ultima pubblicazione è “La luna y las pléyades” (2021), la sua traduzione di Saffo.
Todavía
Un beso deambula en tus hombros y es desde su autor a cierta noche que vas, inédita y pretendida, adelantándote en cada paso a lo que hicimos y lo que no. Y te abrazo para no caer antes que el despliegue del minuto pose el gris temor en la ventana, y no alcanzo a verte desde lejos, pero amo no verte desde lejos, porque quien te imaginase lejos declina este espacio que tributa el pétalo cobrizo a tus piernas.
Y es desde el dolor de este reproche, desde el peso reducido a asombros, que estás, entre uno y otro acorde, tan quimérica como rendida, digamos que al borde, aunque vestida, digamos como yo ya no. Vamos sin licores esta vez, que a mi embriaguez le basta tu boca, escuchar la canción de tu copa aunque no se entienda con la mía, cumplir el ritual antes del día y latir contra tu desnudez.
Ancora
Un bacio vaga sulle tue spalle ed è dal suo autore in una certa notte che tu vai, inedita e finta, precedendo ad ogni passo ciò che abbiamo fatto e ciò che no. E ti abbraccio per non cadere prima che lo svolgersi del minuto metta la paura grigia nella finestra, e non riesco a vederti da lontano, ma amo non vederti da lontano, perché chi ti immagina lontano rifiuta questo spazio con cui omaggia il petalo ramato le tue gambe.
Ed è dal dolore di questo rimprovero, dal peso ridotto a stupore, che sei, tra un accordo e l’altro, tanto chimerica quanto arrendevole, diciamo sull’orlo, seppur vestita, diciamo come io non più. Facciamo a meno dei liquori questa volta, che alla mia ubriachezza basta la tua bocca, ascoltare la canzone del tuo bicchiere anche se non c’è intesa con la mia, compiere il rituale prima del giorno e battere contro la tua nudità.
Cárcel de mujeres
Y tú me preguntas cómo es esto de venir a enseñar en las celdas. Yo te contesto de prisa, antes que el guardia me vea, pero sobre todo para que tú veas que lo más triste aquí no está en el egoísmo de la luz natural ni de la luz artificial. Tampoco en el disparo reumático de las regaderas, ni en los guantos de goma haciendo su redada en las vaginas, ni en el sarcasmo uniformado apuntando a las vaginas, ni en el gas pimienta entrando en las vaginas, ni en las monjas implorando para que no existan las vaginas.
Hasta la soledad estuvo antes de llegar aquí. La pobreza estuvo antes de llegar aquí. La pobreza estuvo con todos sus moretones. La pobreza estuvo con todos sus hijos, aunque aquí todo se reúne en un segundo insoportablemente lento. En un segundo los dueños del mundo arman su laboratorio, su fábrica de la pobreza, del porvenir de la pobreza, tan moderna y masificada que no necesita barrotes.
Y las compañeras no tienen acá cómo decirte, cómo avisarte, cómo explicarte que en lugar de conmiserarte con ellas entiendas que lo triste es cuánto se parece la cárcel a la escuela donde enseñas, o al enorme templo votivo donde se manipula y se manufactura el futuro: el cerco de púas crece frondoso en las grandes avenidas.
Acá ocurren otras cosas. Acá llegan los cuchillos, pero especialmente -si acaso es distinto- llegan funcionarios públicos a inaugurar bibliotecas con libros de autores que no trabajan en la cárcel, pero que en el fondo comen de la cárcel. Acá hay buenos libros; todos sin leer, igual que allá afuera, solo que ese afuera no está muy afuera y cadavez es menos grande.
Entonces enseñar acá es compartir un secreto hermoso que las compañeras hacen crecer en las vaginas para hacer estallar el mundo. Acá no hay gente mirando el techo. Los parientes toman distancia. La prensa toma fotografías. El fiscal toma pruebas. Las gendarmes toman represalias. El médico toma medidas para que las presas tomen calmantes. El perito toma muestras después de cada suicidio. La contraloría toma razón y tú todavía no tomas partido.
Carcere femminile
E tu mi chiedi com’è venire a insegnare nelle celle. Ti rispondo di corsa, prima che la guardia mi veda, ma soprattutto perché tu possa vedere che la cosa più triste qui non sta nell’egoismo della luce naturale né della luce artificiale. Né nel colpo reumatico degli annaffiatoi, né nei guanti di gomma che fanno le loro retate nelle vagine, né nel sarcasmo in uniforme indicando le vagine, né nello spray al peperoncino che entra nelle vagine, né nelle suore che implorano perché le vagine non esistano.
Anche la solitudine c’era prima di arrivare qui. La povertà c’era prima di arrivare qui. La povertà c’era con tutti i suoi lividi. La povertà c’era con tutti i suoi figli, anche se qui tutto si risolve in un secondo insopportabilmente lento. In un secondo i padroni del mondo assemblano il loro laboratorio, la loro fabbrica della povertà, del futuro della povertà, così moderno e massificato che non ha bisogno di sbarre.
E le compagne non hanno qui come dirti, come avvertirti, come spiegarti che invece di commiserarle tu capisca che la cosa triste è quanto è simile il carcere alla scuola dove insegni, o al grande tempio votivo dove si maneggia e si manifattura il futuro: il recinto spinato cresce rigoglioso nei grandi viali.
Qui succedono altre cose. Qui arrivano i coltelli, ma soprattutto -semmai è diverso- arrivano funzionari pubblici per inaugurare biblioteche con libri di autori che non lavorano in carcere, ma che alla fine mangiano del carcere. Qui ci sono buoni libri; tutti non letti, proprio come là fuori, solo che quel fuori non è molto fuori ed è sempre meno grande.
Quindi insegnare qui è condividere un bellissimo segreto che le compagne fanno crescere nelle loro vagine per far esplodere il mondo. Qui non c’è gente che guarda il soffitto. I parenti prendono distanza. La stampa prende foto. Il pubblico ministero prende le prove. I gendarmi si prendono vendette. Il medico prende provvedimenti perché le prigioniere prendano calmanti. L’esperto prende campioni dopo ogni suicidio. L’ufficio di controllo ne prende atto e tu continui a non prendere posizione.
Al doble arco del alba (inédito)
Cuando no estés aquí, vive desnuda allá y mírate a destajo… de mí sabrás en ti.
Por ser terco mendigo de la impía belleza el minuto más mísero me regaló la piel.
Oigo al viento tu nombre dicho en el pétreo eco. Roca aún en el Rímac, arena en el Pacífico; Majestad de lacónicas, troyana tras el rapto.
Me quedo con tu sal, mar del amanecer. Cada pliegue el repliegue de todas mis palabras. Qué veo, me preguntas. Un semblante de luna, un susurro de vuelta, una canción en ciernes.
No hay principio del mundo ni es secreto mi beso. ¡Cuánta certeza cabe en la naturaleza! Los brazos van seguros blandiendo un sacrilegio mientras se alzan tus senos y la brisa dibuja de nuevo las mejillas ancladas al cabello.
Que la palabra, en cambio, responda y se haga cargo de tanto titubeo. Que la palabra muera si no consigue ser, a través del espejo, tu arbolada sonrisa, tu silueta en la espuma, los cristales alados pestañeando al puerto: piernas que hiciste lecho incendiando el océano.
Roja forma del mundo acicalando sábanas, planetario sostén convertido en guirnalda. Jardinea en un sueño la alianza de los labios y tú me llevas rauda al doble arco del alba para que sea carne la amada oscuridad.
Despedaza el silencio de cualquier madrugada. El reloj solo alarma. Haz ya que con tu voz una ciudadanía despierte entre nosotros, y haya piel y repliegue, y espuma y mar y beso.
Que siga la palabra tan sorda como muda. Ella quiere vestirte y yo voy por tus pétalos.
Al doppio arco dell’alba (inedito)
Quando non sei qui, vivi nuda là e guardati a cottimo… di me saprai in te.
Per essere testardo mendicante di empia bellezza il minuto più miserabile mi ha regalato la pelle.
Sento nel vento il tuo nome detto nella pietrosa eco. Roccia ancora nel Rímac, sabbia nel Pacifico; Maestà di laconiche, troiana dopo il rapimento.
Rimango con il tuo sale, mare del sorgere del sole. Ogni piega il ripiegamento di tutte le mie parole. Cosa vedo, mi chiedi. Un volto della luna, un sussurro di ritorno, una canzone in divenire.
Non c’è inizio del mondo né è il mio bacio segreto. Quanta certezza c’è nella natura! Le braccia stanno con sicurezza brandendo un sacrilegio mentre i tuoi seni si alzano e la brezza disegna di nuovo le guance ancorate ai capelli.
Che la parola, invece, risponda e si faccia carico di tanta esitazione. Che la parola muoia se non riesce ad essere, attraverso lo specchio, il tuo boscoso sorriso, la tua silhouette nella schiuma, i cristalli alati che lampeggiano al porto: gambe che hai reso letto dando fuoco all’oceano.
Rossa forma del mondo agghindando lenzuola, supporto planetario trasformato in ghirlanda. Coltiva in sogno l’alleanza delle labbra e mi porti veloce al doppio arco dell’alba perché sia carne l’amata oscurità.
Si infrange il silenzio di qualunque alba. L’orologio allarma soltanto. Fa’ già che con la voce una cittadinanza si risvegli tra di noi e ci sia pelle e ripiegamento, e schiuma e mare e bacio.
Che la parola segua tanto sorda quanto muta. Lei vuole vestirti e io vengo per i tuoi petali.
Nella foto la Petra tou Romiou, conosciuta anche come Roccia di Afrodite. È un faraglione marino a Paphos, Cipro. Secondo la mitologia greca è il luogo dove nacque la dea della bellezza. Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay.
Afrodite nacque donna adulta dalla spuma del mare (secondo Esiodo); crea profonda commozione in tutto ciò su cui si posano i suoi sensi, liberando così anche l’artista come un fiore in sboccio. È questa consapevolezza che si intuisce nella ricerca che accompagna la vita di David Hevia, come poeta, saggista e fotografo. La presente raccolta di poesie è un omaggio alla donna, desiderata e ammirata nella sua vastità; come vaso del mondo – contenitrice e insieme giardiniera grazie alla quale esso fiorisce. Tutto si specchia in lei, lei esprime e incarna ogni cosa. Dalla luna, al bosco, all’oceano, è come se acquisissero profondità attraverso il sorriso, la pelle di una donna. Come se, per parlare dell’universo, uno non potesse fare altro che cercare nella donna l’ampiezza per riuscire a farlo. O forse è viceversa. L’amore della canzone è antico, mitologico. Attinge a incertezze confortanti solo per il viaggiatore che riconosce la tessitrice resiliente, la conquistatrice per opposti, il gemito della sirena come l’oltraggio da risanare.
Biografia di David Hevia è poeta, giornalista, professore di filosofia e letteratura e direttore della Società degli Scrittori del Chile. Le sue pubblicazioni di poesia sono “Historia de la Desnudez” (2011), “Anoche el Día” (2015) e “La canción del amor” (2018), oltre a vari saggi e l’ultima pubblicazione è “La luna y las pléyades” (2021), la sua traduzione di Saffo.
RIVISTA clanDestino
RIVISTA clanDestino nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Francesca Saladino – POESIE inedite pubblicate dalla Rivista Atelier
Breve biografia di Francesca Saladinonasce e vive a Caserta dal 1994, laureanda in psicologia clinica presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli della stessa città, porta avanti un progetto di poesia estemporanea componendo “ritratti poetici” ispirati da un breve colloquio col committente. È stata co-fondatrice del collettivo campano CASPAR per la diffusione e la valorizzazione della poesia orale e performativa sul territorio. In collaborazione con Officina Teatro ha ideato ed organizzato “Pop Poetry”, rassegna teatrale di spettacoli in versi e spoken poetry. Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta poetica, che comprenderà i componimenti nati negli ultimi due anni.
Ho due diavoli sulle spalle
che mi spezzano il collo a colpi
sul bordo del tavolo a cui siedo con lei.
Mi girano le orecchie e i piedi,
mi spostano i nei ridendo
e di noi vedo soltanto
futuri senza sonoro
in cui non puoi riconoscermi. Loro
hanno il profumo del primo vitello
che ho mangiato piangendo,
profumo di alloro. Si leccano i calli,
masticano poco vecchio tabacco
e fanghiglia mista a feci.
Me lo sputano in bocca
imitando i piccioni coi loro piccoli.
Io lo ingoio tutto, avida e putrida,
nuda in un angolo come i polli,
come una vacca il giorno del macello,
a contarmi i capelli, a tirarmi i denti.
*
2.
La quinta figlia femmina
legata nella stalla
di fianco alle mucche
ha dovuto imparare
a infilare il dito nell’ano
della gallina – per sentirne l’uovo.
Sfilare nuda
con gli scarafaggi in testa.
Scuoiare conigli
e farsi piacere le cavallette.
Ecco,
la nostra condizione per essere amati.
L’ora del bagno,
qualcosa di cui non si deve parlare.
Come il desiderio d’essere morta
per non attirare più l’attenzione.
Chi ha il cuore tenero
non sa proteggersi.
Qualcuno forse
sì, servendo allo scopo maggiore.
Non si vive di assoluti
quando si ha bisogno
disperato d’amore.
*
3.
Carezza la pelle dell’albero
senza arrossire, pronuncia
scoprendone il corpo
le cicatrici:
“corteccia”, “radici”.
Tieniti stretto
al frutto, al tempo
come i serpenti.
Scandita tra i denti
la resina tronca
di netto l’abbraccio,
pendono, legati a un laccio
i rami, i morti, i canti.
*
4.
Ho nascosto la fonte
sotto l’occhio celeste
del primo assente,
una torre di corpi
putrefatti, mentre
attorno a me scorre
sperma pesante e corre
aborrito nella pozza
del dover fare, dover essere,
sboccia dal suolo di sborra
la meraviglia:
piccola dea figlia, bocca infernale
aperta come aiuole da calpestare
e nel profumo autunnale
d’orrore che piove
anche i diavoli sono in fiore
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” a cura di Simonetta Losi
Betti Editrice
”
Dall’Introduzione del libro di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata”:«Il mio incontro con Vittoria Gazzei Barbetti, nata a Siena il 25 ottobre 1892 e morta il 30 marzo 1934, ha quella non casuale casualità che ha contraddistinto spesso le mie scoperte in biblioteca e negli archivi. Sembra che a un certo punto dalle carte si levi un fumo sottile, azzurrino, che ricompone i pensieri che hanno mosso la scrittura, la calligrafia, il manoscritto. Ogni inedito è un una sorta di messaggio in bottiglia nel mare dell’oblio, che cerca la terraferma di una rivisitazione, di una riscoperta, di un affettuoso entusiasmo. È così che si inizia a dialogare con l’autore, è così che si ascolta la sua storia o, come in questo caso, la storia che ci ha voluto narrare. L’dea di pubblicare il romanzo inedito di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” nasce dall’interesse per questa sfortunata figura di donna che ha origine da un articolo pubblicato sulla rivista “Il Carroccio”. Studi successivi hanno portato alla pubblicazione di un contributo sulla rivista dell’Accademia dei Rozzi. In occasione di queste ricerche è avvenuta la scoperta, all’interno del Fondo Barbetti custodito dalla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, del romanzo dattiloscritto che oggi, dopo quasi un secolo, vede la luce».
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata”
A cura di Simonetta Losi
Simonetta Losi
Simonetta Losi è nata a Siena il 18 febbraio 1963.E’ laureata in Lettere e lavora come collaboratore ed esperto linguistico all’Università per Stranieri di Siena. All’attività di insegnamento accompagna quella di aggiornamento e formazione professionale per docenti di italiano all’estero. E’ giornalista pubblicista e collabora a varie testate.
Betti Editrice
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei. Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
«Per una benvenuta dismisura». Estasi, voce e follia nella poesia di Claudia Ruggeri
di Germana Dragonieri
Hölderlin: “siamo un segno senza significato”: / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso?
Andrea Zanzotto, La beltà
Life’s […] a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing
William Shakespeare, Machbeth
Pallaksch. Pallaksch
Paul Celan, Tubinga, gennaio
Una comune radice indoeuropea (*bhl) tiene insieme le parole flatus (“fiato”, “soffio”, “respiro”, poi “suono”) e follis intorno all’idea di un fluire sonoro, ritmico, vocale (flumen, fluere, fluxus, flectere, flexio) ingovernabile: «il follis», ci informa Corrado Bologna, è infatti «il “mantice”, il sacco vuoto e quindi ripieno di aria sonora; da cui, per estensione metaforica, il “folle”, dal “movimento incontrollato”, l’uomo sacco, “ripieno di vuoto”» (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 2000, p. XXII). Il folle è quindi l’uomo-vuoto che però risuona, che emette il flatum, la phoné, la voce: vale a dire il significante puro e libero che precede qualsiasi opposizione di distinti, qualsiasi significato. Il poeta è, in questo senso, un follis: qualcuno che non parla ma è parlato dalla propria voce; qualcuno la cui parola – lungi dal pretendere di affermare o distinguere, di «separare il no dal sì», per citare Celan (in Parla anche tu) – piuttosto siflette, oscillando indifferentemente tra il sì e il no, seguendo il flusso vitalissimo del significante: Pallaksch. Pallaksch[1].
Claudia Ruggeri
Non è dunque un caso che una poeta della voce qual è stata Claudia Ruggeri (Napoli 1967 – Lecce 1996) apra la propria plaquette-poemetto inferno minore (1988-1990) con un ciclo di componimenti intitolato Il Matto (prosette). Tratto distintivo della sua scrittura – insieme a quell’ipercitazionismo che aveva suscitato nel dedicatario Fortini l’impressione, alquanto miope, di una poesia «ingioiellata», eccessiva e immatura – è proprio il predominio da lei accordato al suono-significante sul senso-significato, del quale restituiscono una traccia sensibile anche le registrazioni delle sue memorabili letture in pubblico. «Il mio fine», scrive la poeta in una prosa significativamente intitolata Elogio della follia, «non è quello di partecipare al lettore la genesi passionale dei miei versi, quanto l’indurlo ad ascoltare un istante di sé. […] Non è da cercare di comprendere il senso che io ho descritto con la parola, quanto il risalire ad un senso personale ed appassionato graziato dal solo ritmo».
Il senso graziato, salvato dal ritmo: così l’autrice delega alla tessitura fonico-linguistica dei propri componimenti – straripanti di figure di suono quali assonanze, allitterazioni, poliptoti, rime al mezzo, anadiplosi, omeoteleuti e spesso composti proprio in vista di un’esecuzione orale – il compito di creare una consequenzialità non più rinvenibile, perché programmaticamente occultata e stravolta, sul piano della punteggiatura, della sintassi e delle funzioni del discorso. Ne risulta una sorta di «scrittura ad alta voce» (Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1974, p. 65): un dettato poetico privo di nessi logici, imperscrutabile e oscuro sul piano del significato, che chiede di essere ascoltato prima che decifrato, e che domanda al pubblico quell’atto di «compartecipazione» e «co-autorialità» che sempre si produce all’interno di una comunità d’ascolto, di fronte a una performance (Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 290).
«ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso…», recita l’incipit di il Matto II. «Parlare», «senza meta», «caso»: tre parole-chiave nella poetica ruggeriana, tutte contenute in quella radice *bhl, nello spazio semantico che intercorre tra il flatus e il follis. La poesia è infatti per l’autrice soprattutto un «suono mago» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]), un flatus follis: magico e mai padroneggiabile dettato, attività involontaria, impersonale e «senza meta» come la vita poetica del pazzo che, scrive Agamben a proposito di Hölderlin, è tale in quanto «vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare» (La follia di Hölderlin, Quodlibet, Macerata, p. 223). «Soffriva di una mancanza di consequenzialità nel pensiero…», riferisce Thedor Vischer a proposito di un incontro col poeta tedesco (ivi, p. 130).
Sull’onda di una simile mancanza di consequenzialità e seguendo più il principio di casualità che quello di causalità, anche la poesia di Ruggeri non dice, bensì vive secondo un dettato: in essa la φωνή (“parola che non afferma e non nega, ma accenna”), la voce, il ritmo e il caos prevalgono sul λόγος (“parola che afferma” o “che nega”) il discorso, la sintassi, l’ordine. Come per Celan «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore» (in Svolta del respiro), così anche per la poeta salentina il fragore e il suono prevalgono sulla metafora e sul senso quali portatori di una verità in persona, corporea e insindacabile, che non afferma ma piuttosto accenna, balbetta, canta.
Di questo predominio della voce sul senso è emblematico il gusto, mutuato in parte dalla poetica di André Breton e dei surrealisti spagnoli tradotti dal conterraneo Vittorio Bodini, per l’ecolalìa e per il suo corrispettivo retorico, l’anadiplosi: ovvero per la ripetizione di una o più parole della frase e/o del verso, tesa a simulare il «richiamo disanimale» del Matto, il linguaggio follis dei malati mentali: «non son non son castelli ma qui ma qui ti specchia»; «e il biancore il biancore che spossa» (in il Matto IV). Come il mantra della mistica buddhista o la “preghiera del cuore” del misticismo ortodosso – che prevedono la ripetizione incessante di una stessa formula secondo il ritmo del respiro, allo scopo di meglio «discendere dentro il proprio cuore» (Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano, 1973, p. 16) –, anche le poesie-preghiere-lalìe ruggeriane agiscono più sul piano del corpo e del respiro che su quello della comunicazione funzionale, mostrando peraltro lo stretto legame tra oralità e orazione: «nel mio cervello elettrico / solo un circuito ancora regge il carico / quello della preghiera» (in Al padrone).
Pure l’eccesso di significati di cui la fitta rete intertestuale di riferimenti e citazioni carica la sua poesia, lungi dall’essere solamente il sintomo di un patologico horror vacui, risponde invece alla necessità profonda di neutralizzare i significati stessi, per farne nenia pre-/in-significante, melodia a servizio di un estatico “sapere senza conoscenza”. Come avviene nell’arte barocca – della quale l’autrice aveva peraltro un esempio vivo nella sua città (Lecce) e un eccellente interprete e studioso in Bodini –, anche nella sua poesia l’eccesso e l’iper-saturazione della pagina mirano a lanciare chi la scrive verso lo smisurato, l’infinito; se si vuole, verso un Dio che non è che «la parola che, in ogni civiltà, ha avuto la funzione di indicare esattamente questa dismisura» del sentire e del sapere umani (Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella Editore, Bologna, 2022, p. 14).
Proprio come le guglie barocche, i versi di Claudia sono una cosa stretta e altissima che trascina estaticamente verso l’alto: «e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime» (in [Napoli l’ebbi strana ed il porto]); «T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli» (in Lamento della sposa barocca). Verso l’alto – o verso il basso, indifferentemente: l’opera ruggeriana – rimasta inedita durante la vita dell’autrice e pubblicata integralmente solo nel 2020 con la curatela di Annalucia Cudazzo (Musicaos, Lecce) – racconta infatti da un lato di una catàbasi nel caos del proprio inferno minore (la depressione, la debilitazione fisica e mentale), dall’altro del tentativo di un’ascesa spirituale, che si intensifica a partire dalla seconda e ultima raccolta, )e pagine del travaso. qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo, la cui stesura coincide non a caso con gli ultimi e durissimi anni della sua vita (1990-1996). Un doppio e simultaneo movimento, insomma, verso quella che lei stessa chiama «una benvenuta dismisura» (in lettera al Matto sul senso dei nostri incontri).
Per capire (sentire) questa poesia vertiginosa e barocca, bisogna allora fare proprio l’insegnamento di Wittgenstein e «gettar via la scala dopo averla usata»: rinunciare al senso logico di ciascuna frase, dopo essere ascesi o discesi «per essa – su di essa – oltre essa» (Tractatus logico-philosophicus, 6.54). Il trobar clus, dotto e pluristilistico di Ruggeri – il cui registro poetico spazia agilmente dall’aulico al volgare, dal colloquiale all’arcaico, dalle lingue straniere al dialetto locale – è teso infatti non tanto a centrare un significato, quanto a moltiplicarlo fino a rimuoverlo, al fine di conservare l’equivocità del senso propria della lingua poetica: «mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati», si legge in [che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo]. Tenendosi in limine, ovvero non introducendo nella in-flessione della voce la pietra dura del significato, la poesia sprigiona infatti quell’«eccesso semiotico» che rende possibile «l’interminabilità del processo di attribuzione di senso» che la caratterizza come genere (Franco Bifo Berardi, Respirare. Caos e poesia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019 p. 21).
Era proprio alla Dismisura, al Vuoto, a Dio o un dio che Ruggeri parlava – e a quella figura-tarocco del Matto che è di tutto questo una sorta di simbolo totemico: «ò spensierato ò grande», si legge ancora in il Matto II. La sua scrittura è una lode allo spensierato, ovvero al senza-pensiero, all’insensato, al folle, il cui linguaggio non può che prendere forma di preghiera, canto o poesia: di una lingua, insomma, balbettante, innocua, anti-economica e smisurata. È infatti, a mio avviso, anche e soprattutto della lingua, della voce e della poesia il «folle volo» cui la poeta si riferisce – citando Dante – in uno dei suoi ultimi componimenti, e che presagisce il (non più metaforico) salto nel vuoto con cui si ucciderà, gettandosi dal balcone della casa dove viveva con la madre, a Lecce, il 27 ottobre 1996, a soli 29 anni: «e volli / il ‘folle volo’ cieca sicura tuta / volli la fine dell’era delle streghe volli // il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il libro» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]).
Sono versi testamentari, ultimi, che depongono per sempre la volontà di dire e quindi di essere: «mi tolgo / dal dettaglio di questi ultimi versi» (in …[(i tuoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua]). L’omonimìa tra il corpo e il testo, tipico delle scritture performative e orali come la sua, si spinge nel caso di Claudia fino all’estremo più tragico: «E, vedi, il nostro corpo / il nostro corpo soltanto può dire: bianco, tellina, lontano / vento», recitano i versi altrettanto ultimi, scritti cioè a ridosso della morte, di un altro poeta che ci ha lasciati troppo presto, e altrettanto colpevolmente dimenticato dalla critica ufficiale (Antonio Santori, La linea alba, Marsilio, Venezia, 2007 p. 98). Finita l’era delle streghe, finito cioè l’incanto estatico dello scrivere-dire poetico, anche quel corpo che soltanto può dire si appresta a finire e si spegne, tirato giù – nel caso di Claudia – dal peso intollerabile delle malattie, della morte del padre e di alcuni amici (tra cui il poeta Dario Bellezza, portato via dall’AIDS nello stesso anno); soprattutto, dal peso dell’incomprensione e dell’isolamento intellettuali e umani che l’avevano spinta a definirsi una rosa-fungo che «non si addice ai prati».
Tirata giù, infine, da «un’immensa nostalgia» di altrove: come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, l’autrice a ridosso della morte sa ormai di essere finita «in basso tra quelli che non sono più leggeri, ed hanno completamente abolito nei loro sogni la funzione del volo: quando si trovano nel vuoto non ricordano più che si vola e sono portati giù dalla loro immensa nostalgia» (in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. XXXIII).
“…
“mi tengo in limine, mi conservo l’equivoco
degli stili incrociati ché nel pieno rumore
dell’infrenabile selva, altro splendore, sai,
altre memorie, altro si lega si strega si ride;
prima della parola ò autore prima
della parola che ti erra e che ti erra
e che ti sbenda, prima che smazzata che ti mette
nella legge e tutto inizia
a muoversi non esprimendo non misurando delimitando a rito;
quale sicura sicura andatura,
quale percorso per entro inchiostri spinti
contraffarà l’ingorgo and so stay there my art
e questo libro senza controllo e questa ottava
inappagata questa mandragora murata, e nondimeno tu
dormi incastrata, qui, nella terra nulla dove la rosa
è un fungo e non si addice ai prati
[che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo], vv. 20-35, da ) e pagine del travaso, in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. 47.
[1]Pallaksch è una parola senza senso cui, stando alla testimonianza del suo primo biografo ed editore, Cristoph Theodor Schwab, Hölderlin attribuiva talora il significato di “sì”, talaltra di “no”.
Caschetto nero, naso appuntito, morbide spalle, fianchi che sa come agitare per meglio incantare il suo pubblico: tutto questo è Kiki, cantante, ballerina, modella; Kiki dall’eleganza ferina di un cervo; Kiki trasportata dalla gioia. Kiki, stella delle notti di Montparnasse, sulla Rive Gauche della Parigi degli anni Venti, una città la cui luce, negli anni fra le due guerre, brilla tanto da accecare. Ma Kiki, nata Alice Ernestine Prin, figlia illegittima dalle origini povere e oscure, è anche qualcos’altro per la platea bohémienne che assiste a quegli spettacoli: la compagna e musa di uno dei piú dirompenti artisti dell’epoca, Man Ray. S’incontrano in un caffè, nel 1921. Kiki è esuberante e provocatoria, a quel tempo la preferita da pittori come Calder e Modigliani; Man Ray è guardingo, taciturno, capace di pronunciare in francese solo poche frasi. Ma tanto basta a far scoppiare la passione: è l’inizio di una relazione romantica e artistica che non ha pari fra i contemporanei. Kiki è al suo fianco durante tante avventure creative che costruiranno la fama di Man Ray per la posterità, dal Violon d’Ingres a Noire et blanche, e questo è tutto ciò che il mondo ricorda di lei. Ma la verità, dispiegata per noi in queste pagine da Mark Braude, è che Kiki fu molto di piú. Non soltanto musa, modella e cantante, capace con la sua voce di consolare gli afflitti ubriachi nelle notti vellutate di Parigi, ma anche artista magnetica e irresistibile, pittrice dalla creatività esplosiva, che attirava le folle durante le proprie esposizioni, attrice nei primi film surrealisti, il cui memoir, corredato da un’introduzione di Ernest Hemingway, finí sulle prime pagine di tutti i quotidiani francesi. Una figura imprendibile, con cui la storia è stata ingenerosa. Con questa biografia, che è stata definita «un gioiello anni Venti» (Air Mail), «tanto irresistibile quanto dovuta» (Chicago Review of Books) e «di grande spessore storico» (National Book Review), Braude mescola ricerca accurata a una prosa brillante e poetica, dispiegando il racconto di una vita eccezionale che sfida tutti i nostri preconcetti sugli artisti e le loro muse e mettendo in discussione il confine, spesso poroso, fra i due.
Beat Edizioni-info@beatedizioni.it
RECENSIONI
«L’esuberante biografia di Braude ribilancia i pesi nella storia della Rive Gauche parigina, storia nella quale Kiki – modella e musa – viene considerata troppe volte soltanto un personaggio secondario». The New York Times
«Con una prosa vibrante, ammaliante quanto la sua stessa protagonista, questa avvincente biografia restituisce a Kiki il suo posto legittimo: quello di fulcro, di stella irradiante di Montparnasse». Toronto Star
«Un’inebriante scorribanda fra le gallerie e i nightclub della Francia fra le due guerre». Vogue
«Un libro irresistibile, come irresistibile fu Kiki». Jim Jarmusch
Risvolto-Pietro Citati:«Uno dei libri più belli di Katja Petrowskaja, concentrati e drammatici della recente letteratura europea».
«Cherr Offizehr, cominciò babuška con la sua in confondibile pronuncia aspirata e in una lingua ibrida, ma convinta di parlare tedesco, signor ufficiale, sia così gentile, mi dica che cosa devo fare? Ho visto gli avvisi con le instruktzies per gli ebrei, ma fatico a camminare, non riesco a camminare così svelta.
«Le risposero con una rivoltellata: la noncuranza d’un atto di routine – senza interrompere la conversazione, senza voltarsi del tutto, così, incidentalmente. Oppure no, no. Magari lei aveva chiesto: Sia gentile, Cherr Offizehr, potrebbe dirmi per cortesia come si arriva a Babij Jar? Una richiesta davvero seccante. Chi mai ha voglia di rispondere a domande così stupide?».
Katja Petrowskaja-Forse Esther-
In copertina-La madre dell’autrice ritratta da Miron Petrovskij (1962).
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Nel 1999 si è trasferita in Germania dove vive con il marito e le due figlie a Berlino[3] e lavorando come giornalista per vari media russi, come la rivista Snob, e per quotidiani in lingua tedesca quali il Neue Zürcher Zeitung. Dal 2011 scrive anche la rubrica “La diva dell’Ovest-Est” per il giornale domenicale Frankfurter Allgemeine Zeitung.[4][5] Katja Petrowskaja scrive i suoi testi in tedesco e non nella sua lingua madre, ucraino o russo. Suo marito e la critica letteraria Sieglinde Geisel sono coinvolti nella revisione approfondita dei suoi testi.[6]
Nel 2010 ha ricevuto la borsa di studio Grenzgänger della Fondazione Robert Bosch per la ricerca sul suo lavoro Forse Esther e nel 2013 la borsa di studio della Künstlerhaus Ahrenshoop.[7]
Per il libro fotografico The Elect, pubblicato nel 2012 con il titolo Die Auserwählten. Ein Sommer im Ferienlager in Orlionok, ha accompagnato la fotografa Anita Back al campo di vacanze per bambini e giovani di Orlënok: vi descrive la ricerca di un pezzo della sua infanzia sovietica.[8][9]
Nel 2013, su invito di Hildegard Elisabeth Keller, ha preso parte al concorso Ingeborg Bachmann Prize e ha vinto il premio principale con un estratto dalla sua opera Forse Esther, la storia di una ragazza che somiglia alla sua bisnonna, rapita a Kiev nel 1941 e uccisa nel massacro di Babij Jar.[10][11] Un romanzo quindi in parte autobiografico in cui la scrittrice racconta il genocidio degli ebrei a Kiev da parte dei Nazionalsocialisti ripercorrendo l’odissea di una famiglia ebrea dall’impero asburgico a quello sovietico.[12] La giuria annota che il testo è “l’appropriazione di una storia da parte delle generazioni successive” e “un grande dono alla lingua tedesca”.[13] Con Forse Esther nel 2015 ha ricevuto anche il Premio Strega Europeo[14] e il Schubart-Literaturpreis.[15]
Nell’ottobre 2015 ha realizzato un progetto presso il Centro internazionale di ricerca per gli studi culturali di Vienna dal titolo provvisorio “Tutto ciò che accade” sul tema delle foto e su come gli spettatori le vedono.
Opere
Die Auserwählten. Ein Sommer im Ferienlager von Orlionok. Bildreportage von Anita Back mit einem Essay von Katja Petrowskaja und einem Vorwort von Joachim Jäger. Braus, Berlin 2012, ISBN 978-3-86228-029-2
Mitwirkende am Erlebnisbericht Dity vijny : spohady očevydciv z Ukraïny ta Nimeččyny = Kinder des Krieges : biografische Aufzeichnungen aus der Ukraine und Deutschland. Anastasija Vasylivna Hulej und Peter Wetzel (Hrsg.), Katja Petrowskaja (Mitwirkende), Jurko Prochasʹko (Übersetzer). Kiew: Vydavnyctvo “Feniks” [2018], 351 Seiten, Illustrationen. ISBN 978-966-136-556-7
Tausendundein Buch. In: Katharina Raabe, Frank Wegner (Hrsg.): Warum Lesen? Mindestens 24 Gründe. Suhrkamp, Berlin 2020, ISBN 978-3-518-07399-5, S. 15–30 (Anthologie).
La foto mi guardava (Das Foto schaute mich an. Kolumnen. Suhrkamp, Berlin 2022), trad. di Ada Vigliani, Collana Fabula, Milano, Adelphi, 2024, ISBN 978-88-459-3877-1.
Premi e riconoscimenti
Ingeborg-Bachmann-Preis: 2013 vincitrice con Forse Esther
Aspekte-Literaturpreis: 2014 vincitrice con Forse Esther
RIETI-Al via la mostra fotografica di Francesco Galli: ”Esplorazione visiva della Bassa Sabina”-
RIETI-Il 6 giugno verrà inaugurata presso l’OpenHub Lazio la mostra fotografica “Quando scorre l’acqua brucia la storia: Paesaggi lungo il torrente Farfa”, un progetto ideato e realizzato dal fotografo Francesco Galli. La mostra offre uno spaccato visivo dei comuni della Bassa Sabina, con immagini catturate tra l’autunno del 2008 e l’estate del 2009.
Le fotografie di Galli, realizzate interamente su pellicola e stampate con tecnica analogica ai sali d’argento, documentano il paesaggio e la trasformazione dei luoghi lungo il torrente Farfa. “Un paesaggio nasce dal sentimento per un luogo,” afferma Galli nei suoi appunti di lavoro, sottolineando come il rapporto tra la comunità e il territorio sia alla base della sua ricerca visiva.
La mostra, che si terrà presso l’OpenHub Lazio in Via Giuseppe Pennesi 2 a Rieti, sarà aperta al pubblico fino al 28 giugno con ingresso libero. Gli orari di apertura sono dal lunedì al venerdì, dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 18:00.
L’evento di inaugurazione, previsto per le ore 18:00 del 6 giugno, sarà accompagnato da un incontro pubblico intitolato “Dal territorio al paesaggio. I luoghi lungo il torrente Farfa nelle fotografie di Francesco Galli”. Durante l’incontro, esperti di vari settori discuteranno del rapporto tra territorio e rappresentazione visiva, tra cui Elisa Resegotti, paesaggista e curatrice d’arte, Gaetano Linardi, dottore forestale, e Pablo De Paola, ingegnere ambientale esperto del fiume Farfa.
Francesco Galli, nato a Viterbo nel 1967, è un fotografo e regista di documentari video con una lunga carriera alle spalle. Laureato in Architettura presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Galli ha documentato eventi di cronaca, cultura e sport, nonché condotto ricerche etnografiche sulle tradizioni popolari. Negli anni Novanta si è affermato come fotografo di teatro, per poi dedicarsi alla fotografia d’architettura e di paesaggio, collaborando con importanti istituzioni e realizzando numerose mostre e documentari.
L’OpenHub Lazio, promotore della mostra, è un progetto finanziato dalla Regione Lazio e dal Fondo Sociale Europeo, volto a creare una rete di spazi di cultura, socialità e lavoro nel territorio regionale. Questo spazio mira a promuovere l’interazione e la crescita del capitale culturale e umano attraverso laboratori formativi, networking e opportunità di orientamento per tutte le generazioni.
Per maggiori informazioni sulla mostra e sugli eventi correlati, è possibile contattare l’ufficio stampa all’indirizzo email stampacondizioniavverse@gmail.com o chiamare il numero 329.9317192.
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