Poesie di Roberto Carifi (Pistoia, 1948), poeta e scrittore tra i più validi dell’era contemporanea.Esperto di filosofia tedesca e francese, oltre che di buddhismo, l’autore toscano si è formato come psicanalista a Parigi ed a Milano seguendo le lezioni di Jacques Lacan.
Dal 2004 la sua esistenza è stata condizionata dai postumi di un grave ictus. Da allora, si è concentrato nella sua ricerca poetica sulla funzione del dolore nella vita umana.
“Nasco filosofo -spiega egli stesso- con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste, degli uomini, fa un salto verso la verità.”
Scrive su di lui il poeta Giuseppe Conte: “Nella sua formazione, mette insieme il rock e Lacan, la filosofia heideggeriana e la militanza nella critica: è a lui che si devono alcuni dei migliori saggi sulla nuova poesia italiana degli ultimi decenni del Novecento. Nel 1995, partecipa alla fondazione del Mitomodernismo. Il suo percorso poetico è però solitario e unico.”
Secondo il critico letterario Andrea Temporelli, “nessun poeta più di Carifi può oggi vantare un universo simbolico e stilistico così identificato e coerente da trasformarsi in vera e propria koiné”.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito. La mostra a Bologna-
Che Guevara Tú y todos un percorso espositivo per raccontare un personaggio chiave della storia del ‘900, attraverso una ricca e inedita documentazione e con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università IULM nella ricostruzione del contesto storico. Il progetto è stato ideato e realizzato da Simmetrico Cultura, prodotto da ALMA e dal Centro de Estudios Che Guevara de l’Avana, il cui archivio è stato inserito nel 2013 nel registro UNESCO del programma Memoria del mondo.
La mostra è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Maria del Carmen Ariet Garcia e Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui la mostra è dedicata, ed è accompagnata da una “colonna sonora” originale composta da Andrea Guerra. Il percorso espositivo si sviluppa filologicamente su tre livelli di racconto, attraverso cui i visitatori rivivranno i giorni e i luoghi, gli stati d’animo e i pensieri, le azioni personali e gli eventi storici che hanno visto protagonista il Che.
Un livello di narrazione di stampo giornalistico ricostruisce il clima geo-politico; un secondo livello sarà dedicato al contesto biografico con i discorsi pubblici, ai pensieri sull’educazione e sulla politica estera, sull’economia e gli accadimenti privati e pubblici di Ernesto Guevara. Il terzo livello, a-temporale e intimistico, rivelerà gli scritti più personali – dai diari alle lettere a familiari e amici, sino alle inedite registrazioni di poesie – dove dubbi, contraddizioni, riflessioni prendono corpo. Da questo livello narrativo emerge l’uomo, l’intensità delle domande che il Che poneva a sé stesso, la difficile scelta fra l’impegno nella lotta contro l’ingiustizia sociale e la dolorosa rinuncia agli affetti e a una vita di certezze.
Un viaggio straordinario nella vita di uno dei personaggi chiave della storia più recente: Ernesto Guevara, il Che, che si racconta in prima persona.
Centinaia di pensieri, di diari, di lettere ci rivelano intimamente una delle personalità che più profondamente hanno segnato un’epoca.
Il percorso espositivo si chiude con l’installazione dell’artista americano Michael Murphy, uno dei pionieri della Perceptual Art, che ha realizzato appositamente per questa mostra un’enorme ricostruzione multidimensionale, una scultura che si trasforma in un passaggio continuo, dall’immagine del volto del Che a quella della sua firma iconica.
La mostra ha impegnato un team di autori, curatori, cattedratici e archivisti. Negli oltre 24 mesi di lavoro, di cui 3 spesi a Cuba presso la sede del Centro de Estudios Che Guevara, sono stati vagliati oltre 2000 documenti tra fotografie, lettere, cartoline, scritti e manoscritti e sono state visionate oltre 97 ore di documentari e 14 di registrazioni dei discorsi ufficiali.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
Che Guevara: Tú y todos è realizzata da Simmetrico.
Simmetrico Cultura crea e gestisce mostre in Italia e all’estero, mettendo al centro l’uomo, la storia e l’attualità. I suoi progetti espositivi uniscono rigore scientifico, storytelling e tecnologie immersive per un’esperienza coinvolgente. Grazie a contenuti interattivi e social media, le mostre offrono percorsi di approfondimento e condivisione. Simmetrico collabora con istituzioni e enti per eventi culturali su scala internazionale.
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Info:
Museo Civico Archeologico
CHE GUEVARA tú y todos Museo Civico Archeologico Via dell’Archiginnasio 2, Bologna Fino al 30 giugno 2025 Catalogo Edizioni Pendragon www.mostracheguevara.com
Itzhak Katznelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”
Itzhak Katznelson- poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Itzhak Katznelson (Karėličy, 1º luglio 1886 – campo di concentramento di Auschwitz, 1º maggio 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto.-tradotto da Helena Janeczek
Il canto del popolo ebraico massacrato
I Canta
1
«Canta! Prendi in mano la tua arpa, vuota, svuotata e misera,
sulle sue corde fini getta le dita pesanti
come cuori, come cuori afflitti. Canta l’ultimo canto,
canta degli ultimi ebrei in terra d’Europa».
2
– Come posso cantare? Come posso aprir la bocca,
se sono rimasto io da solo –
mia moglie e i miei due bambini- orrore!
Inorridisco d’orrore…si piange! Sento ovunque un pianto-
3
«Canta, canta! Alza la tua voce afflitta e rotta,
cerca, cerca lassù in alto, se c’è ancora Lui,
e cantagli…cantagli l’ultimo canto degli ultimi ebrei,
vissuti, morti, non sepolti e non più…»
4
– Come posso cantare? Come posso alzar la testa?
Deportata mia moglie e il mio Benzion e il mio Yomele- un bimbo –
Non li ho più qui con me e non mi lasciano più!
O ombre oscure della mia luce, o ombre fredde e cieche.
5
« Canta, canta un’ultima volta qui sulla terra,
getta indietro la testa, fissa gli occhi su di Lui
e cantagli un’ultima volta, suonagli la tua arpa:
qui non ci sono più ebrei! Massacrati, e non più qui!».
6
– Come posso cantare? Come posso fissare gli occhi e alzar la testa?
Una lacrima ghiacciata mi si è appiccicata all’occhio…
vorrebbe staccarsi, strapparsi via dall’occhio
– e non può cadere, Dio mio!
7
«Canta, canta, alza il tuo sguardo cieco al cieli alti,
come ci fosse un Dio lassù nei cieli…salutalo, saluta con la mano-
come se da lassù una grande fortuna ci splendesse e ci illuminasse!
Siedi sulle rovine del tuo popolo massacrato e canta!
8
– Come posso cantare? Se il mondo per me è deserto?
Come posso suonare con le mani rotte?
Dove sono i miei morti? Io cerco i miei morti, Dio, in ogni rifiuto,
in ogni mucchio di cenere…O, ditemi dove siete.
9
Gridate da ogni pezzo di terra, da sotto ogni pietra,
da ogni grano di polvere, da tutte le fiamme, tutto il fumo-
è il vostro sangue e succo, è il midollo delle vostre membra,
è la vostra anima e carne! Gridate, Gridate forte!
10
Gridate dai visceri delle fiere nel bosco, dai pesci nello stagno-
Vi hanno mangiati. Gridate dai forni, gridate grandi e piccoli:
voglio uno strepito, un lamento, una voce, voglio una voce da voi,
gettare uno sguardo muto, ammutolito sul mio popolo massacrato-
e voglio cantare…sì…datemi l’arpa- io suono!
3-5.10.1943.
IX Ai cieli
1
Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?
Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?
La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,
stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!
2
Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,
il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,
la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,
e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.
3
Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!
O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:
Io vi credevo un tempo,vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,
ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!
4
Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-
io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.
io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto
alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”
5
Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!
Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!
A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,
i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.
6
A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!
E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?
O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.
7
Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi
tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-
e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,
ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –
8
Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale
uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi
in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida
un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.
9
Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.
Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-
E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?
10
Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,
troverò la strada disperata e scura per Endor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto
ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”
11
Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo
– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,
milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,
milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.
12
Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,
e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!
Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,
e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!
13
Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate
e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,
aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze
deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!
14
O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:
il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:
ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!
15
Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,
che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!
Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.
26.11.1943
Breve Biografia-Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Poesie di Tove Ditlevsen – Poetessa e scrittrice danese-
Poesie di Tove Ditlevsen (1917-1976) Poetessa e scrittrice danese, è stata una delle personalità più eminenti della letteratura danese del Novecento. Il suo debutto avvenne nel 1939 con la raccolta Pigesind [Anima di fanciulla]. La crescita nel quartiere operaio di Vesterbro a Copenaghen ha inciso su tutta la sua attività letteraria. Attraverso poesie, romanzi, racconti, saggi e storie per bambini, Tove Ditlevsen ha cercato e ritrovato, per tutta la vita, il mondo della sua infanzia lì collocato. Amore e matrimonio, fragilità e divorzio, scrittura e morte sono stati tutti immortalati nello stile semplice e sobrio, e insieme doloroso e umoristico, che caratterizza la sua scrittura. Amata dai lettori e criticata dai letterati, la sua notorietà in patria fu enorme al pari della sua produzione. Con più di trenta libri pubblicati, Tove Ditlevsen ha dato un’incisiva testimonianza sulla condizione di essere donna e scrittrice nel ventesimo secolo. Di recente è stata tradotta in vari paesi la cosiddetta Trilogia di Copenaghen, romanzi fondamentali in cui Tove Ditlevsen ripercorre la sua vita, dando ai diversi stadi di essa tre titoli esemplari: Infanzia [Barndom], Gioventù [Ungdom] e Dipendenza [Gift]. Questa è la prima edizione italiana che presenta una selezione delle sue poesie.
Tove Ditlevsen
Poesie di Tove Ditlevsen
DOMENICA
*
La domenica non succede mai niente.
La domenica non si trova mai un nuovo amore.
È il giorno degli infelici.
Giorno della pensione o giorno della famiglia.
Le ore più dolorose dell’amante
quando immagina l’amato
con i figli sulle ginocchia
mentre sua moglie, sorridendo,
entra ed esce con vassoi invitanti.
Un giorno maledetto.
Una volta doveva essere diverso.
Perché altrimenti dovremmo tutti
aspettare con ansia la domenica per tutta la settimana?
Forse quando eravamo a scuola?
Ma già allora le campane suonavano
tristi e grigie come la pioggia e la morte.
A quel punto le voci degli adulti
erano deboli e silenziose come se cercassero
invano le parole della domenica.
L’odore di umidità e di pane ammuffito,
del sonno, di stivali di gomma e cicoria
già invadeva le scale allora
e la strada, che era dura, vuota e diversa
in modo desolato.
L’odore della domenica ci riempiva
con lo spesso strato di delusione
che segue un’aspettativa
senza un obiettivo specifico.
E quando, allora? In un luogo prima della memoria
C’era felicità, un’attesa irresistibile
che nessuno era ancora riuscito a deludere.
Allora le campane significavano che papà era a casa,
i baffi, le sopracciglia nere e l’odore del tabacco masticato
erano lì e lì rimanevano, vicino,
e – chissà – la risata della tua giovane madre
sembrava più felice rispetto agli altri giorni.
È domenica. Non troverai mai
un nuovo amore quel giorno.
Siedi in soggiorno
stordita e rigida come un ritaglio di cartone
agli occhi dei bambini.
Scavano con i piedi
e combattono senza energia.
“Dovremmo fare qualcosa”, dici.
«Sì», dice una voce da dietro il giornale.
Allora restate entrambi in silenzio, perché tutto ciò che volete
fare è nascosto e segreto
e sarebbe inaccettabile per l’altro.
Le campane della chiesa suonano. i nasi dei bambini
si riempiono di un odore ereditato.
Sui loro dolci volti scivola
una bruttezza passeggera.
Una luce appassita
sorge dai loro occhi.
Ma tutti aspettiamo con ansia la domenica
tutta la settimana, tutta la vita,
Aspettiamo l’emozione di centinaia
di domeniche lunghe, vuote, estenuanti.
Giornata della famiglia, giornata della pensione,
l’inferno degli amanti segreti.
Quel giorno in cui il grigiore nauseabondo degli adulti
impregna i bambini e stabilisce
l’incomprensibile malinconia domenicale degli anni a venire.
—————————————————–
Tove Ditlevsen
Avvertimento
Mi ami? Allora devi anche conoscere
lo strano gioco del mio cuore esigente
che può sognare, ma non sa struggere
per il desiderio di qualcosa d’esistente.
Ti conduce per strade oscure e insapute
che ti graffiano a sangue in cinte selvagge.
Ha il suono pesante di melodie perdute
e ama di notte i temporali e le piogge –
e se resti con me, si chiude e ti forza
via via più lontano da ogni strada e sentiero;
senza ali solo scioccamente svolazza,
e fa male saperlo come io so che è vero.
* * *
Autoritratto 1
Non so:
fare da mangiare
camminare col cappello
far star bene la gente
indossare gioielli
ordinare fiori
ricordare appuntamenti
ringraziare per i regali
dare vere mance
trattenere un uomo
mostrare interesse
agli incontri coi genitori.
Non so
smettere di:
fumare
bere
mangiare cioccolato
rubare ombrelli
svegliarmi in ritardo
dimenticare di ricordare
compleanni
e pulire le unghie.
Allisciarmi
la gente
svelare segreti
amare
posti strani
e psicopatici.
So:
stare da sola
lavare i piatti
leggere libri
formare frasi
ascoltare
ed essere felice
senza sensi di colpa.
* * *
Gli eterni tre
Ci sono due uomini al mondo, che
costantemente m’incrociano la strada:
uno è colui che io amo,
l’altro colui che mi ama.
Uno è in un sogno notturno
che abita nel mio pensiero più tetro,
l’altro alla porta del cuore sta attorno
ma io lo lascio al chiuso sul retro.
Uno mi ha dato un soffio di primavera
di quella felicità che presto scolora,
l’altro mi ha donato la sua vita intera
e non ne ha riavuta neppure un’ora.
Uno freme nel canto del sangue
dove l’amore è libero e puro,
l’altro è tutt’uno col giorno che langue
in cui i sogni non hanno futuro.
Ogni donna sta tra questi due uomini
innamorata, amata, e pura –
una volta ogni cent’anni può accadere
che essi si fondano in uno.
Tove Ditlevsen
Tove Ditlevsen
The Art Life
The first English-language translation of Tove Ditlevsen’s poetry distills the intensity and mordant humor that make her one of Denmark’s most revered exports.
“Our imaginary home, the home we share.”
— Roberto Bolaño, “Dance Card,” tr. Chris Andrews
How does Art Arrive on Earth?
In the months since filmmaker David Lynch left the planet, under the deep freeze and then the toxic thaw here by the Great Lakes, where they’ve reinforced the disused industrial roads to truck in heavy equipment for the foundation of an inestimably massive black site that locals aren’t supposed to know about, some poets and I huddled in our separate beds, so late in the work day it was almost the work morning, and shared links to interviews with the always-elder Lynch, parables of how Art entered his life, and thereby, our own.
Here’s one. It takes place circa 1961 in Alexandria, Virginia. It’s about ten o’clock at night when fourteen-year-old Lynch opens his eyes in the dark:
Well, I was on the front lawn of my girlfriend’s house in the ninth grade, and I was meeting a fellow named Toby Keeler who didn’t go to my high school, went to—he went to a private school, and he was telling me that his father was a painter. I thought at first his father was a house painter. But he said, no, a fine art painter. And a bomb went off in my head, a bomb that changed my life. In a millisecond completely changed my life. From that moment on, I wanted to be a painter—only that.
In another version, the elder Lynch attests on behalf of the younger: “And I wanted to live the art life.”
Even now, when it’s so late, or even then, in 1961, at the bombsite somewhat closer to the beginning of the end of the world, “the art life” opens up from the slightest aperture: a single word slipped into the adolescent ear on a suburban lawn at night. The word “painter” is excised from its familiar context, both professional and domestic, and inserted into a strange one—”fine art.” Precise as a bomb, it restarts the clock.
Lynch repeats and repurposes the nocturnal lighting and scenography of his initiation into the Art Life in accounting for his transition from painting to film:
I had a painting going, which was of a garden at night. It had a lot of black, with green plants emerging out of the darkness. All of a sudden, these plants started to move, and I heard a wind. I wasn’t taking drugs! I thought, Oh, how fantastic this is!
And I began to wonder if film could be a way to make paintings move.
In this parable, Art enters from elsewhere, and through the ear: I heard a wind. A cosmic soundtrack arrives out of synch but then adheres to the sticky picture track prepared for its arrival. A new phase of the Art Life begins. Art severs the artist from the mundane, but sticks around, like a severed ear in the grass, as its own uncanny aperture.
For the young Lynch, the Art Life begins with the word “painter,” uttered on the lawn at night. For the Korean modernist Kim Haekyŏng, it began with the first two words from the title of the film beloved by his Francomaniac occupiers, Cocteau‘s Le sang d’un poète; Le sang became Yi Sang, the alias under which he undertook a farcical campaign of art-as-crime which ended in his internment and death. For the queer Helsinki poet Gunnar Björling, it was the obnoxious term “dada,” and for the teenaged Kurt Cobain, the adjective “punk.” For the young Kazuo Ohno, a poster of the flamenco dancer La Argentina provided the form, stance, costume, and demeanor for the exacting postwar Japanese dance practice Butoh—the same La Argentina who provided the emblem of the theory and practice of the duende for Lorca.
So Art arrives on Planet Killer, to a species that most needs and mostly doesn’t deserve it, slipping its dubious toxin or glitchy bug into the brain of the waking artist through the slightest of apertures: an advertising poster, a movie title, a chance encounter, a magic word. Yet from that smallest of openings issues the new life, the Art Life.
Tove Ditlevsen
The Art Life of Tove Ditlevsen
Born in 1917 to working-class parents, Tove Ditlevsen was a celebrated voice—and a celebrity—in Danish literature for nearly four decades. She debuted at 21 with the poetry collection Pigsend, variously translated as Girl-soul or A Girl’s Mind. Published during the Nazi occupation and bearing a drawing of a “chaste” naked maiden on its cover, the book became a sensation, as did its author. (According to her translators Sophia Hersi Smith and Jennifer Russell, Ditlevsen claimed to be 20, so as “to seem extra precocious.”) Three decades of publishing in an ever-expanding array of forms and media followed, from novels, poems, and essays to radio plays, lifestyle features, advice columns in women’s magazines, and even wittily composed personal ads planted like bombs in the newspaper edited by her (fourth) ex-husband.
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern, career. In her foreword to a new selection of Ditlevsen’s poems, There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die (Farrar, Straus and Giroux, 2025), translated by Hersi Smith and Russell, the contemporary Danish author Olga Ravn further reckons that “Ditlevsen was one of Denmark’s most photographed writers. Her fame helped keep her financially afloat.” This is emblematized by Ravn’s remark that, after Ditlevsen’s early death by suicide at fifty-eight, “photographs of her funeral procession show a sea of working-class women trailing behind her coffin through the streets of Copenhagen.”
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern,
career.
So how did Ditlevsen arrive at such an exceptionally robust Art Life? By her own account, hers was not a birth starred for Art. Her father, a committed socialist, was a stover in a factory, though frequently unemployed; a habitual reader, he was inconsistent in his support for his daughter, insisting, “Fool, a girl can’t be a poet!” Her favored older brother was waylaid in his attempt to attain the higher economic and social rank of “skilled worker” when the cellulose to which he was exposed at his apprenticeship permanently damaged his lungs. Her mother was a vivacious but frequently vindictive figure whose constant refrain, settling like shrapnel in the flesh of her young daughter, was “Everything written in books is a lie.” As a practical concern, the young Ditlevsen was not permitted to enter high school, but rather left for a series of domestic jobs meant to prepare her for gift, which in Danish translates as both marriage and poison.
How Art came for young Ditlevsen provides both the theme and the plot of her novelistic-memoirs, presented to anglophone readers as the Copenhagen Trilogy but really made up of three separate volumes: Barndom (Childhood, 1967), Ungdom (Youth, 1967) and Gift (Marriage/Poison, 1971, rendered in English as Dependency.) The packaging of these works as a handsome single-volume edition under the export-only title Copenhagen Trilogy in 2021 appears to be an invention of the marketing team at Farrar, Straus and Giroux. Yet such cunning engineering is felicitous, as it has allowed the anglophone reader to meet Ditlevsen as an artist, and literally on her own terms: the early Art Life as she conceived of it toward the end of her own.
Childhood opens with a defining scene of Art’s arrival. Here the not-yet-school-aged Ditlevsen is seated at the kitchen table, looking past her unreliable mother—”Beautiful, untouchable, lonely, and full of secret thoughts I would never know,” the girl sentimentally supposes.
Behind her on the flowered wallpaper, the tatters pasted together by my father with brown tape, hung a picture of a woman staring out the window. On the floor behind her was a cradle with a little child. Below the picture it said, ‘Woman awaiting her husband home from the sea’. Sometimes my mother would suddenly catch sight of me and follow my glance up to the picture I found so tender and sad. But my mother burst out laughing and it sounded like dozens of paper bags filled with air exploding all at once.
The mother unleashes scornful laughter in the attempt to break Art’s spell on the daughter, but somehow is also converted, in this moment, to Art’s uncanny purposes. She begins to sing a saucy ditty “with a clear and defiant little-girl voice that didn’t belong to her.” Next comes a transcription in full of the ditty, in which an unfaithful wife leans out the window to warble at her lover “Can’t I sing / Whatever I wish for my Tulle? / Visselulle, visselulle, visselulle.” Thus the child fulfills Art’s imperative, transcribing the scene in the library of memories; the author, on the page.
Young Ditlevsen’s acolyte-like attendance on Art is rewarded as this opening chapter concludes:
I carried the cups out to the kitchen, and inside of me long, mysterious words began to crawl across my soul like a protective membrane. A song, a poem, something soothing and rhythmic and immensely pensive, but never distressing or sad, as I knew the rest of my day would be distressing and sad. When these light waves of words streamed through me, I knew that my mother couldn’t do anything else to me because she had stopped being important to me. My mother knew it, too, and her eyes would fill with cold hostility.
If the opening scene establishes the sightlines and eerie acoustics of Art’s arrival in Ditlevsen’s life, here Art enforces an even more startling adjustment in circumstance. The “light waves of words” transform the child’s sense of her own place in the world, temporarily neutralizing immediate axes of violence and control—her mother “had stopped being important to me.” The rest of the Trilogy—and the rest of Ditlevsen’s life and work—will be spent devising ways to parry the world’s hostility and step into the power of the Art Life.
As Ditlevsen enters her schoolyears, both “the grownups” and her schoolmates can easily detect her attunement to Art’s presence; she cries, for example, at the unexpected beauty of rote school hymns. Yet the same class, gender, and family pressures which attempt to reform her abnormal connection to Art ultimately offer a thrilling and unexpected solution when the girls in her class begin buying and circulating “Poetry Albums,” something between an autograph album and a yearbook, which girls are expected to tote around, exchange, and inscribe insipid quotes in. Even Ditlevsen’s mother consents to buy her one.
The arrival of the Poetry Album represents a true turning point for Ditlevsen; for the first time, she has a designated place to collect her own poetry. At first, the album provides her with a way to hide her nascent poetry in plain sight, though she conceals the album itself under a pile of folded towels, in her underwear, even taking it to the hospital with her under the pretense of collecting autographs. But it also becomes a means of “publishing” her work—at first unintentionally, when her brother finds the album and both praises Ditlevsen’s facility and jeers her “lies,” and then purposefully, as she begins to show it to other youths and then, finally, to possible editors. In fact, rather than entrust the precious album to a mutual acquaintance so he can approach an editor on her behalf, she heads for an editor’s office herself, poetry album in tow. This heroic self-belief does lead to publication, first of an individual poem, then a book of poetry, then a novel, and finally a fully realized, very public Art Life.
Crucially, the miraculous arrival of the Poetry Album transforms Copenhagen Trilogy itself into a kind of poetry album. Here, amid the alternately grim, drab, and highly thrilling scenes of her childhood, youth, and dependency, Ditlevsen inscribes snippets of poems, whether by herself or others. Considering that these memoirs were written some three decades later, the keenness and delight with which Ditlevsen recalls these early poems amplifies their power; the reader discovers them along with the young poet, whether it be a verse by Baudelaire (“the pitchers are filled with wine, / the twilight-veiled earth”), a lyric passage by the Nobelist Johannes V. Jensen (“And now like the evening star, then like the morning star, shines the little girl who was killed at her mother’s breast”), or a draft of what will become Ditlevsen’s own first publication, in 1939, the poem “To My Dead Child”:
I never heard your little voice,
Your pale lips never smiled at me.
And the kick of your tiny feet
is something I will never see.
These poems hang like amulets amid the velvet-draping of the prose. They mark Art’s path, the path the girl must follow: the dazzling coordinates of the Art Life.
There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die
With the newly selected poems, anglophone readers who came to know Ditlevsen through the Trilogy will feel a strong sense of familiarity, delight, and allegiance. The opening selection from Pigsend (especially “To My Dead Child”) will cause the fangirl’s heart to leap. The decision to title the volume There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die seems to ratify a readerly inclination to imagine the “extra precocious” girl-poet of the Trilogy as the ghostwriter of this entire selection, even though it collects verse written well into middle age. Ravn makes this connection in her foreword and draws out its political implications:
You could say that Ditlevsen’s so-called sentimentality is a poetic anachronism that functions as a subversive tool, an anachronism on a par with a woman’s emotional life. There live girls in us that will not die.
A more ambivalent reading of the title, however, redoubles its power. The girl who will not die haunts and unsettles the poet. The opening poems, written in Ditlevsen’s youth, place the female speaker at the center of the roles Romantic poetry assigns the young girl: that of dying, or dead, or ideal. In “Ritual,” Ditlevsen’s girl-speaker seizes and redecorates this convention: “When I am dead, please lay me / to rest in a jet-black coffin, / and dress me in a crimson gown / with long sleeves made of velvet.” The funeral procession shall be accompanied, improbably enough, with the 1925 Dixieland-pastiche “Dinah” (popularized by one Fanny Rose Shore, who became so identified with the song she made her stage name Dinah!) By the final quatrain, the party is over, and the speaker rests in her desired coffin.
This jet-black coffin with its young, speaking girl—now alive, now dead—forms a persistent, uncanny battery in the book. We encounter the young girl and her dead, alive, dead-alive progeny again and again. In a consistent trope, the adult woman-speaker reflects on the lost dreams of girlhood, yet the thick, conventional nostalgia is pierced by a startling image:
It was on a night like this
I must have been seventeen—
are the red shards of my love
still there in the tall grass?
Here the scene of love becomes the scene of the crime.
In a poem titled “Recognition,” the grave becomes a place where adult women apprehend their shared plight: “Wordlessly we understood— / with dead leaves in our eyes and hair.” The next poem, “The Children’s Eyes,” begins, “I dread the children’s eyes.” The conventionally tender maternal gaze which Ditlevsen’s speakers frequently assume when addressing children, however hypothetical and/or dead, is now reversed; it is the children who gaze at the speaker, and their gazes are piercing, haunted, dreadful, strange.
Translators Hersi Smith and Russell render the persistent intensity, deepening tone, and gradually shifting forms of Ditlevsen’s work with the immersiveness of a ghost story, converting this Selected Poems into a nimble page-turner. The poems lose the rhyme and boxy shape of the early quatrains, assuming an addictive free verse with short lines that refuse to telegraph their intentions; meanwhile, risen from her youthful coffin, that is, from the coffin of youth, the young girl is no longer identical with the speaker but instead haunts her, while the aging speaker’s attitude toward the girl grows more troubled. A poem toward the end of the volume, “Self-Portrait 4,” describes with disgust a former neighbor, an old lady who misremembers the speaker-Tove as a noisy, heedless child:
I don’t remember
the old woman
from my childhood …
She knows something
about me she won’t divulge
a secret I’ve never told.
It fills her up
and keeps death at bay
she tells lies and intends
to outlive me.
I never took the stairs in bounds
I was a quiet child.
I hate her.
Here the speaker wishes to disavow the “old woman” but ends up assigning her a power which seems stored in the pronoun she—a witchy power which the adult speaker also accesses. “She knows something / about me she won’t divulge / a secret I’ve never told.” Facing each other across the mirror of that unpunctuated enjambment, “She” and “I” are disturbingly close; they seem to wear each other’s faces. Moreover, “she tells lies and intends to outlive me,” the speaker complains, but we know from Childhood that lies are what authors write, and in fact young Ditlevsen defends her poems by vowing allegiance to such lies: “I know that sometimes you have to lie in order to bring out the truth.”
So, who lies? Who lives? Who hates? Who dies? By the last line, through the fluid and felicitous ambiguity of the translation, that “her” is so porous, so capacious, it’s as much a yielding grave as a pronoun; like any grave or woman, it can hold all the hate. Does the speaker hate her child-self? Does she hate the old neighbor-lady who lies about her? Maybe the titular girl-who-will-not-die has now uncannily assumed the role of speaker, casting the adult Ditlevsen as a lying old lady, trying to outlive her child-self. Well, this undead girl will not let that happen. There is a young girl who will not die. And she will have the last word, as she had the first.
Ditlevsen, like David Lynch, pursued the Art Life to the end. In the version she relates in the Trilogy, she has children, husbands, and lovers, but she refuses to keep house, exchanges one husband for another, and seems most at peace when a nanny or female friend is nearby to attend to the babies. All the while, poems rise like stars, novels rise in clouds of racket from the typewriter, sorrow rises from illness, and bliss from drugs; all while she fashions and refashions the scenes, props, and personages of early inspiration into an oeuvre as luminous and haunted as a department store mirror in which the young girl studies her possible futures and the aging woman searches the black pools of her pupils for the little doll who used to live there. That girl will not die, though Ditlevsen does.
And, later, twelve-year-old Olga Ravn encounters Ditlevsen’s poems on a shelf in her grandfather’s study and pictures her “wander[ing] through a forest of pop songs, picking shiny, bright-red plastic apples for her poems”—which is to say, she pictures a version of herself, wandering the grove of Art. Her, her, her. Who encounters, who wanders, who picks, who dies? Still later, Ravn edits and publishes I Wanted to Be a Widow, and I Wanted to Be a Poet: Forgotten Texts by Tove Ditlevsen (2015), and the author and translator Michael Favala Goldman spots Gift in an airport gift store and begins it. Still later, the Copenhagen Trilogy is summoned into being, featuring previously published translations of Childhood and Youth by Tiina Nunnally and culminating in Goldman’s translation, Dependency. And later, thousands of anglophone readers will read it, and still later, which is to say now, now we can clutch There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die to our chests, just as young Ditlevsen held to the miracle of her Poetry Album.
Joyelle McSweeney’s collections of poetry include The Red Bird (2002), winner of the 2001 Fence Modern Poetry Series, The Commandrine and Other Poems (2004), Percussion Grenade (2012), Toxicon and Arachne (2020), a finalist for the 2021 Kingsley Tufts Award, and Death Styles (2024). She is also the author of the novels Nyland, the Sarcographer (2007) and Flet (2007); the prose work Salamandrine, 8…
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Albert Camus
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Albert Camus- “Lo straniero”
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
Angelo Sommaruga articolo scritto per la Rivista PAN N°2 del 1934-
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Giosuè CARDUCCI
Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.» Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma – e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
Curiosità
Giosuè Carducci così descriveva se stesso: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene.» Era notoriamente amante del buon cibo e del vino, organizzava mangiate con gli amici che iniziavano la mattina e terminavano la sera e pare che la sua collaborazione con la rivista “Cronaca Bizantina” venisse pagata con barili di Vernaccia!
Lo stile di Carducci
Un nuovo tipo di Classicismo da opporre al RomanticismoIn Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, il classicismo non si è mai spento: l’educazione scolastica lo mantiene in vita e l’esempio di poeti come Monti, Foscolo e Leopardi garantiscono degli esempi autorevoli e dei modelli a cui rifarsi soprattutto per imitare il linguaggio aulico e latineggiante. A dispetto di questo, però, il classicismo ha assunto un aspetto stantio e chiuso: il mondo latino è divenuto solo un repertorio di figure a cui attingere e un linguaggio da imitare in modo sterile. Carducci invece ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.
Fonte- Studenti-Mondadori Media S.p.A. – Via Gian Battista Vico 42 –
CARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINABiblioteca DEA SABINA- IL CARDUCCI E LA BIZANTINA -RIVISTA PAN FEBBRAIO 1934 19
Roma-Al Teatro Tordinona va in scena “INTERVISTE IMPOSSIBILI”-
Roma-Autori del Progetto, Laura De Luca e Renato Giordano“INTERVISTE IMPOSSIBILI”-Al Teatro Tordinona, nel cuore di Roma e a due passi da Piazza Navona, si sta replicando anche quest’anno la rassegna “Le interviste impossibili – Dalla radio al palcoscenico”, messa in scena già nella scorsa stagione con un lusinghiero successo di pubblico. La stagione di quest’anno, iniziata a ottobre 2024, si protrae fino a maggio con cadenza mensile: ogni serata vede la messa in scena di due conversazioni immaginarie
Renato Giordano-Autore, Regista e Attore
Che cosa sono le Interviste Impossibili
La formula squisitamente radiofonica di stimolanti colloqui fantastici postumi, anche con personaggi che mai furono in carne ed ossa, bensì protagonisti di drammi teatrali o di romanzi o del mito, fu lanciata sul secondo canale della RAI negli anni settanta del secolo scorso. Successivamente, il format ha trovato spazio anche in teatro o in televisione.
Molte personalità note dell’intellighenzia italiana si sono cimentate in questo gioco intellettuale: Leonardo Sciascia, Umberto Eco, Italo Calvino, Gianni Arbasino, Andrea Camilleri, Luigi Santucci, Giorgio Manganelli, Maria Bellonci, Edoardo Sanguineti, Vittorio Sermonti.
La formula è semplice e geniale: un autore del presente immagina di intervistare un noto personaggio del passato. In radio il dialogo veniva messo in scena con la partecipazione al microfono dello stesso autore (che interpretava sé stesso), mentre un attore dava voce al personaggio intervistato. Veniva così fornito lo spunto per approfondire il confronto fra epoche lontane, cosicché queste conversazioni immaginarie provocavano anche un’autoanalisi spesso spietata sui vizi del nostro tempo.
Ripreso nel primo decennio di questo secolo dalla stessa Laura De Luca alla Radio Vaticana, lo schema ha confermato la sua grande potenzialità didattica, incoraggiando una rilettura della storia in chiave critica e creativa, persino ironica, tanto da stimolare l’attenzione dell’ascoltatore e, nel caso del teatro, dello spettatore, grazie alla forte tensione dialettica capace di sostituirsi all’azione scenica vera e propria.
Il format ha generato anche numerosi prodotti editoriali, pubblicazioni singole e antologie (Libreria Editrice Vaticana, , Armando Editore, Genesi, La Vita Felice, edizioni Solfanelli, La Mongolfiera…)
Alla Stagione 2023 – 24 si sono susseguiti sul palcoscenico del Teatro Tordinona personalità come: Franco Cardini, Ennio Cavalli, Idalberto Fei, Giuseppe Manfridi, Lucetta Scaraffia, Luca Verdone, Giovanni Maria Vian, e, tra gli interpreti, Martine Brochard, Mino Caprio, Giorgio Colangeli, Ennio Coltorti, Luigi Diberti, la compianta Maria Rosaria Omaggio, Giuseppe Pambieri, Edoardo Siravo, Milena Vukotic, sempre diretti da Renato Giordano.
Luigi Diberti-Attore
Questi gli ultimi due appuntamenti per la stagione di quest’anno:
Le interviste impossibili sono un fortunato format radiofonico nato negli anni settanta del secolo scorso. Importanti autori (scrittori, giornalisti, accademici etc) immaginavano di incontrare personaggi del passato in una conversazione di taglio giornalistico. Vi arteciparono nomi come Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli, Alberto Arbasino… Questo raffinato gioco intellettuale si è perpetuato negli anni in svariati contesti. Dopo le due edizioni RAI (1974 – 1975), ecco le dieci edizioni (dal 2009 al 2019) alla Radio Vaticana, poi diversi esperimenti televisivi e ancora la pubblicazione di numerose antologie da parte di editori piccoli e grandi ( La Mongolfiera, Genesi, Solfanelli, La Vita Felice, La Vela, Libreria Editrice Vaticana, Armando…) Dall’autunno 2023 il format è approdato al teatro romano Tordinona, a cura di Laura De Luca e Renato Giordano, con la regia di Renato Giordano: “Le interviste impossibili – Dalla radio al palcoscenico”. L’ Università Telematica Internazionale Uninettuno riporta in scena queste queste conversazioni immaginarie che offrono, con la vivacità del dialogo socratico, importanti spunti per l’approfondimento trasversale di temi storici e scientifici, nell’ambito di discipline diverse.
Il Teatro Tordinona, costruito nel 1670, è stato il più grande ed il più prestigioso teatro romano perlomeno in tutto il ‘700 e l’ ‘800. Poi è stato distrutto nel 1886 per permettere la costruzione degli imponenti argini del Tevere, e quindi salvare il centro di Roma dalle continue inondazioni.
Il nuovo Teatro Tordinona, inaugurato nei primi anni 30 del secolo scorso è attivo da allora e si è sempre distinto per una programmazione culturalmente all’ avanguardia per i tempi. L’attuale gestione del teatro da parte dell’Associazione Culturale Tordinona si associa al nome del suo direttore artistico, l’autore, regista e musicista Renato Giordano, che lo dirige ininterrottamente dal 1979 ad oggi. Gli anni della gestione di Renato Giordano confermano la vocazione moderna e contemporanea della sala di Via degli Acquasparta.
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Roma-Al Teatro Tordinona va in scena “INTERVISTE IMPOSSIBILI”-
Roma-Al Teatro Tordinona va in scena “INTERVISTE IMPOSSIBILI”-
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Roma-Al Teatro Tordinona va in scena “INTERVISTE IMPOSSIBILI”-
Roma-Al Teatro Tordinona va in scena “INTERVISTE IMPOSSIBILI”-
Indirizzo
Via degli Acquasparta , 16
Orari
Per gli orari e le modalità di accesso rivolgersi ai contatti indicati.
Conosciuto anche come Sala Pirandello, porta il nome di uno dei più importanti teatri romani distrutto nel 1888 che era conosciuto anche come teatro Apollo-Tordinona, Tordinona-Apollo o solamente Apollo.
Storia
Il teatro sorse nel 1670 per volere della sovrana Cristina di Svezia che pregò il proprio segretario, il conte Giacomo d’Alibert, di intercedere presso il papa Clemente IX per la cessione di un immobile, precedentemente di proprietà della famiglia Orsini, sito dove ora sono gli argini del Tevere, sull’attuale lungotevere Tordinona, adibito fino al 1657 a carcere e, successivamente, a locanda.
Il primo teatro (1670 – 1697)
Dopo la costruzione delle Carceri Nove in via Giulia, lo stabile era stato abbandonato dai detenuti ed affidato in enfiteusi ad una confraternita di frati, che ne ricavò una locanda, destinata a fallire nel 1663 a causa della scarsa sicurezza della zona.[1] Un primo tentativo di trasformazione dello stabile in teatro c’era già stato da parte della Confraternita, ma il diniego del papa Alessandro VII ne bloccò l’attuazione. Nonostante ciò, alcuni documenti riportano la data 1660 come nascita del teatro.[2]
I lavori per adattare lo stabile a teatro vennero affidati a Carlo Fontana, architetto della Confraternita, che rimaneva proprietaria dello stabile affittandolo al prezzo di duecentocinquanta scudi l’anno al d’Alibert.[3] La sala, di circa 16×22 metri, era ad “U” nella tradizione del teatro all’italiana,[4] composta da sei ordini di palchi.[5] La costruzione lignea era decorata, negli interni, dai pittori Magno e Jovanelli,[6] ed era accessibile sia da terra che dal fiume. L’inaugurazione avvenne nella primavera del 1670 con uno spettacolo di Tiberio Fiorilli, a cui venne affidata l’intera stagione teatrale.
Poiché le rappresentazioni erano permesse unicamente nel periodo di carnevale, d’Alibert rimase seccato nel sapere che Filippo Acciaiuoli, frequentatore del salotto dell’Arcadia di Cristina di Svezia, aveva ottenuto il permesso da parte del nuovo pontefice, Clemente X, di rappresentare spettacoli al di fuori del periodo deputato: per questo motivo, per rendere possibili gli allestimenti, il teatro Tordinona passò nelle mani dell’Acciaiuoli che lo rilevò in affitto per milleduecentocinquanta scudi l’anno.[7]
Sotto la “direzione artistica” dell’Acciaiuoli il palcoscenico fu calcato da donne, precisamente dal 1671 al 1674.[8] Nel 1671 ebbero la prima assoluta Amanti, che credete e Chi mi conoscera di Alessandro Stradella, Il novello Giasone e Scipione Africano di Acciaiuoli, nel 1672O ve’, che figurace di Stradella e nel 1673L’amor per vendetta, overo L’Alcasta di Bernardo Pasquini.
Successivamente la direzione passò a Marcello De Rosis. Nel 1675 il teatro venne chiuso per i festeggiamenti del Giubileo, e rimase in disuso per sedici anni. Riaperto nel 1690 e completamente rinnovato negli interni, con la costruzione della sala a ferro di cavallo, venne demolito nel 1697 per ordine di Innocenzo XII, pontefice avverso all’arte teatrale.
Il secondo teatro (1733 – 1781)
Solo l’intervento del papa Clemente XII permise la ricostruzione dello stabile, ad intere spese dello Stato Pontificio: la nuova pianta era quasi circolare, con un ridotto numero di palchi (quattro, rispetto ai sei precedenti) e l’inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1733 con l’opera il Coralbo. (Valesio, Diario di Roma, tomo XIX, 1733, c. 2r).
La programmazione, che aveva subito un calo qualitativo nel tempo,[9] non inficiò la frequenza degli spettatori, che frequentarono il Tordinona fino alla chiusura, per restauri, del 1762. La riapertura avvenne nel 1764, e nel 1768 nuovi lavori modificarono l’aspetto complessivo della sala. Il 29 gennaio 1781, tuttavia, un incendio incenerì l’intera struttura, che era completamente costruita in legno.[10]
Il terzo teatro (1795 – 1888)
Memoria del Teatro Apollo, demolito nel 1888. La stele commemorativa si trova sul lungotevere Tor di Nona
Il progetto per la ricostruzione fu affidato a Natale Marini e successivamente a Giuseppe Tarquini, che disponeva di mezzi finanziari per l’operazione. Il crollo della struttura in fase di realizzazione, a causa della scarsa qualità dei materiali impiegati, fece sì che venisse scelto Felice Giorgi per la progettazione: il nuovo teatro, ribattezzato Teatro Apollo, fu pronto nel 1795, cambiando però proprietario diverse volte, dal principe Francesco Publicola Santacroce al principe Giovanni Torlonia, che nel 1820 rinnovò nuovamente lo stabile. Nel 1795 avvenne la prima assoluta di La sposa polacca di Marcello Bernardini, nel 1796 di I viaggiatori amanti di Valentino Fioravanti e nel 1805 di La vedova contrastata di Pietro Carlo Guglielmi. Il 24 febbraio 1821 avviene la prima assoluta di Matilde di Shabran di Gioachino Rossini diretta da Niccolò Paganini ed il successivo 26 dicembre di La capricciosa ed il soldato o sia Un momento di lezione di Michele Carafa.
Il 1831 vide un ulteriore rifacimento del Tordinona-Apollo[11], con l’acquisizione di una facciata disegnata da Giuseppe Valadier e commissionata dal proprietario di allora, Alessandro Torlonia. Il nuovo prospetto, in stile neoclassico, si componeva di una facciata divisa in due da una balconata, sulla quale si aprivano tre archi a tutto tondo, separati da colonne[12], nei quali trovavano posto tre grandi porte finestre rettangolari. Alla sommità dell’arco centrale, campeggiava la scritta “Teatro di Apollo”. La nuova veste del teatro permise il cambio della programmazione dalla prosa all’opera: vi si produssero opere di Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi, mentre la direzione del teatro passò dagli impresari Lanari e Camusi a Vincenzo Jacovacci e poi a Nicola Carnevali. Nel 1831 avviene la prima assoluta di Il corsaro di Giovanni Pacini e nel 1839 di Furio Camillo di Pacini con Carolina Ungher.
Il teatro riabilitò il proprio nome, divenendo teatro di prima categoria: nel 1870 vi fu aggiunto il palco reale, in onore al re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia. Nel 1882 avviene la prima assoluta di Le duc d’Albe di Donizetti con Leone Giraldoni e nel 1887 di Giuditta di Stanislao Falchi. Nonostante il successo, i lavori per la costruzione degli argini del Tevere, le cui continue inondazioni minavano la sicurezza della città e dei suoi abitanti, resero necessaria la demolizione, nel 1888, dell’intero teatro, che affacciava sul fiume. Solo nel 1925 venne costruita una stele commemorativa, con un’epigrafe di Fausto Salvatori, dove sorgeva una volta il teatro.
L’attuale teatro
Dopo la distruzione dello stabile, l’Istituto Autonomo Case Popolari si prese carico della ricostruzione dello stesso nelle immediate adiacenze della vecchia ubicazione del teatro Tordinona, promettendo di perpetuarne il nome e la fama: nei primi anni trenta del XX secolo il Teatro Tordinona riaprì i battenti in via degli Acquasparta, nel retro dell’immobile di Calza Bini destinato a sede dell’Istituto Autonomo Case Popolari.
La frequentazione del teatro da parte del drammaturgosicilianoLuigi Pirandello, tuttavia, gli valse il cambio di nome da Teatro Tordinona a Teatro Pirandello[13] dalla fine degli anni quaranta fino al 1968, quando venne ripristinato l’antico nome. Attualmente il teatro è diretto da Renato Giordano e dispone di tre sale: una dedicata alle mostre, la seconda intitolata a Pirandello e la terza a Lee Strasberg.
Dal 2007 il teatro rischia la chiusura per mancato rinnovo del contratto di locazione all’associazione diretta da Giordano.[14]
Note
^ Stefania Severi. I teatri di Roma. Roma, Newton & Compton, 1989, pag. 94.
^ La data sembra essere ricavata da un testo di Felice Giorgi del 1795, chiamato Descrizione istorica del Teatro Tordinona. Il Giorgi si occupò di studiare i diversi progetti del teatro quando fu incaricato di ricostruirlo, nel 1795.
^ Paolo Guzzi. Il teatro a Roma. Tre millenni di spettacolo. Roma, Rendina Editori, 1998, pag 99.
^ Willy Pocini, basandosi su un diario dell’abate Benedetti, sostiene che le prime donne a calcare i palchi a Roma furono Susanna Banchieri, Maria Concetta Matrilli e Anna Priori, ma nel 1798. In Willy Pocini, Le curiosità di Roma, Roma, Newton & Compton, 1985, pag. 394.
^ Giuseppe Carletti scrisse, nello stesso anno, un poema chiamato L’incendio di Tordinona. Poema eroicomico, Venezia, 1781, in commemorazione del fatto.
^ Nonostante il nome ufficiale fosse Apollo, nella memoria dei romani rimase Tordinona. A testimonianza di ciò, valgano come esempio i numerosi sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, che sono dedicati al Tordinona o che lo citano con tale nomenclatura nonostante questi si chiamasse effettivamente Apollo
^ Le due colonne, in marmo cipollino, provenivano dagli scavi condotti dal Nibby alla tenuta di Romavecchia (Villa dei Quintili), nel 1828-29.
L’arte di Daniel Spoerri a Narni-Dal 12 aprile Narni si propone nel panorama dell’arte contemporanea con una serie di eventi promossi dalla Fondazione Caporrella e dal Museo-Fondo Regionale d’Arte Contemporanea Baronissi, organizzati dalla Società Archeoares, e sostenuti dal Comune di Narni con il patrocinio della Regione Umbria e della Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri – Hic Terminus Haeret.
Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri
La mostra “DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi”, allestita alla Rocca Albornoz, è dedicata a uno dei maestri del Nouveau Réalisme. Conosciuto per i suoi Tableaux-pièges, Spoerri ha trasformato oggetti di uso quotidiano in opere d’arte, immortalando frammenti di realtà in composizioni inaspettate. In questa mostra, a un anno dalla sua scomparsa, il pubblico potrà ammirare circa 40 sculture in bronzo, testimoni della sua inesauribile ricerca espressiva e della sua capacità di dialogare con la materia.
A Palazzo Eroli, sede del Museo della Città e del Territorio di Narni, la mostra “L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella” esplora un aspetto meno noto ma fondamentale della creazione artistica: il rapporto tra l’artista e l’artiere, tra chi concepisce l’opera e chi la realizza. In esposizione, circa 70 capolavori provenienti dalla collezione della Fondazione d’arte “Vittorio Caporrella” (FFONDARC), con un percorso curato da Massimo Bignardi.
Attraverso le opere di Arman, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Enrico Baj, Umberto Mastroianni e altri, il pubblico potrà scoprire come il bronzo si trasforma in arte, in un processo che dissolve i confini tra ideazione ed esecuzione.
Uno degli elementi più affascinanti di questa esposizione è la possibilità di entrare idealmente nell’officina dell’artefice, respirando il processo creativo che ha portato alla nascita di sculture oggi considerate veri e propri capolavori.
L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI
Perché visitare queste mostre
Per scoprire da vicino le opere di Daniel Spoerri, uno dei più grandi innovatori dell’arte del Novecento.
Per immergersi in un percorso che svela il ruolo essenziale dell’artigianato artistico nella creazione delle sculture.
Per ammirare 70 capolavori di artisti internazionali: Arman, Enrico Baj, Giovanni Balderi, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Tommaso Cascella, César (Baldaccini), Claudio Costa, Gino Filippeschi, Edgardo Mannucci, Franco Marrocco, Umberto Mastroianni, Nunzio, Arturo Pagano, Francesco Roviello, Nicola Salvatore, Paola Elisabetta Simeoni, Daniel Spoerri, Alì Traoré, Luigi Vollaro.
Per vivere un’esperienza culturale unica in due luoghi simbolo della città di Narni: la Rocca Albornoz e Palazzo Eroli.
Inaugurazione
Le mostre L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi alla Rocca Albornoz di Narni saranno inaugurate sabato 12 aprile 2025.
Alle ore 10:30 si terrà la conferenza di apertura presso il Palazzo Comunale. A seguire visita con l’illustrazione dei due percorsi espositivi:
“L’età del bronzo”, Palazzo Eroli, ore 12:00
“Omaggio a Daniel Spoerri”, Rocca Albornoz, ore 16:00
Successivamente, le mostre resteranno visitabili seguendo gli orari di apertura del Palazzo Eroli e della Rocca Albornoz.
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Roma al Teatro Tordinona Renato Giordano ha presenta il suo ultimo libro :« Il Polemoscopio, ovvero, la Calunnia Smascherata (dalla presenza di spirito) »-Editore BeaT-
Renato Giordano-Giulia Mininni-Roma-10 aprile 2025 al Teatro Tordinona
Roma-Il 10 aprile al Teatro Tordinona di Roma nell’ambito delle celebrazioni per i 300 anni dalla nascita del famoso libertino e scrittore Giacomo Casanova, Giulia Mininni ha presentato il nuovo libro di Renato Giordano su Casanova ed il Teatro. Casanova scrive nel giugno del 1791 una tragicommedia in tre atti dal titolo « IlPolemoscopio, ovvero, la Calunnia Smascherata (dalla presenza di spirito) », che resterà dell’unico testo teatrale a noi arrivato scritto per intero dal famoso libertino il quale vanta nella sua bibliografia oltre ad alcune collaborazioni (la più curiosa è quella a correzione di alcune scene del “Don Giovanni” di Mozart, collaborazione a lungo sconosciuta al libretto di Da Ponte che ha ispirato Giordano per scrivere la sua opera dal titolo “Doppio Gioco” anche essa presento nel libro),
“La Calunnia” composta in francese negli ultimi anni della vita a Dux, , fu sicuramente recitata nell’estate del 1791 dai principi di Clarì e Lignè durante una festa data nel castello di Toepliz in Cechia.
Luigi Diberti-Attore
La commedia narra di una disputa d’amore che vede impegnati due ufficiali francesi nella difficile conquista del cuore di una avvenente contessa. Si tratta di una storia realmente accaduta,come ricorda Casanova nell’avvertenza al lettore, ed infatti ne troviamo il racconto nel XX capitolo delle sue Memorie. Invece la commedia “Doppio Gioco” di Giordano racconta un episodio realmente avvenuto. Giacomo Casanova e Lorenzo da Ponte s’incontrarono per l’ultima volta nell’agosto del 1792 in un paesino vicino a Dux dove Casanova stava passando i suoi ultimi anni. Da Ponte ha con se Nancy , la giovane moglie, appena sposata. Ed anche se ha lasciato l’incarico a corte è ancora nella fase ascendente della vita. Casanova invece si trova nella fase calante. Potrebbe essere l’incontro tra un vincente ed un perdente. Ma il gioco è molto più sottile, doppio, come doppio è il filo che lega i due uomini. Il libretto del “Don Giovanni”, il capolavoro di Mozart, è opera in realtà in buona parte di Casanova ( e le carte inedite presenti nell’archivio casanoviano in Cechia, nonché la presenza del solo Casanova a Praga per la prima assoluta dell’opera lo dimostrano.) Perché dunque da Ponte va trovare Casanova? Per riscuotere un vecchio credito o per avere la certezza che Casanova non riveli a tutti quella scomoda verità.? Nella serata Casanoviana al Teatro Tordinona di Roma con inizio alle ore 18,00 oltre all’autore hanno partecipato con interventi Attori importanti come : Giuseppe Pambieri, Gigi Diberti, Carlo Valli, Micol Pambieri, Edoardo Siravo che hanno ricevuto applausi e consensi unanimi da parte del pubblico presente in sala
Articolo di Giulia Mininni
Foto gallery Artisti presenti Evento 10 aprile 2025 al Teatro Tordinonadi Roma
Fara in Sabina-Ambrogio Sparagna in concerto al Teatro Potlach-
Fara in Sabina-Ambrogio Sparagna in concerto al Teatro Potlach
Fara in Sabina-Ambrogio Sparagna in concerto al Teatro Potlach, e la domenica una fiaba per tutta la famiglia-Sabato 12 Aprile alle ore 21.00 al Teatro Potlach di Fara Sabina
“PER GRAZIA RICEVUTA. I canti popolari di Nino Manfredi” Un progetto originale di Ambrogio Sparagna.
CON:
Ambrogio Sparagna: voce, organetto
Anna Rita Colaianni: voce
Alessia Salvucci: tamburelli
Erasmo Treglia: ghironda, ciaramella, torototela
Uno spettacolo ispirato alle note del film epico “Per Grazia Ricevuta”, per omaggiare il suo straordinario autore e interprete Nino Manfredi. Dopo 50 anni dall’uscita del film, questo progetto di musica e danza popolare ritorna idealmente in quella terra ciociara per far rivivere le emozioni suscitate dalla pellicola che mostrava luoghi, paesi, personaggi, stili di vita ancora vivi nella memoria dei borghi ciociari.
Con la Direzione del Maestro Ambrogio Sparagna, lo spettacolo propone alcuni brani utilizzati nella colonna sonora del film e altri che l’hanno ispirata tratti dalle collezioni Colacicchi/Nataletti sui Canti popolari di Ciociaria (1949).
Un’occasione per cantare insieme “Me pizzica, me mozzica” o “Tanto pe cantà” e per ballare sul ritmo di un saltarello ciociario o di “Viva Viva Sant’Eusebio”.
Biglietto: 10 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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E la domenica… appuntamento in teatro per tutta la famiglia!
Domenica 13 Aprile alle ore 17.00 al Teatro Potlach di Fara Sabina
“Il Gigante Egoista” – Teatro Potlach
Di e con: Zsofia Gulyas e Irene Rossi
Fara in Sabina-Ambrogio Sparagna in concerto al Teatro Potlach
A partire dalla celebre fiaba di Oscar Wilde, lo spettacolo narra di un gigante egoista che vuole tenere il suo grande e bel giardino tutto per sé, e di una coraggiosa bambina di nome Camilla che lo affronterà e, oltre a sciogliere le perenni nevi nel suo giardino, arriverà a sciogliergli il cuore.
Due attrici raccontano una fiaba sul valore dell’amicizia, della generosità e del coraggio, cimentandosi in uno spettacolo in cui si alternano diverse tecniche attoriali: dai trampoli, all’utilizzo di oggetti come i nastri circensi, dalle maschere, alla danza.
|Adatto a partire dai 3 anni.
Biglietto: 5 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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TEATRO POTLACH via Santa Maria in Castello n. 28, Fara in Sabina (RI)
Il Teatro Potlach è stato fondato nel 1976 da Pino Di Buduo e Daniela Regnoli. Nel 1979 l’attrice svizzera Nathalie Mentha si unisce al gruppo è da allora i tre costituiscono il gruppo fisso del Teatro Potlach.
Il suo nome deriva dagli studi antropologici dei fondatori, e significa, nel linguaggio degli indigeni dell’America nordoccidentale, il rito del dono gratuito, che conferisce prestigio a chi lo elargisce e a chi lo riceve, superando le leggi del mercato e del profitto. La storia del Potlach nasce da una scelta di rifiuto e di ricerca dell’altrove, che ha spinto i suoi fondatori a designare come sede del teatro Fara Sabina, piccolo centro della provincia di Rieti.
Lavorare sull’essenza tecnica del teatro, sulla ricerca dell’attore totale e della composizione drammatica basata sull’azione fisica, ha significato dedicarsi a una continua autoformazione, oltre i confini dell’idea istituzionale del teatro, nello scambio con il circo, la danza e la performance musicale, attraverso l’esperienza costante del viaggio e del contatto sul campo con le culture performative europee, asiatiche e latinoamericane.
L’identità artistica del Potlach si è espressa contemporaneamente nella produzione di spettacoli di sala e di spettacoli di strada, e nell’attivazione di iniziative pedagogiche che hanno coinvolto l’insieme delle tecniche espressive e performative, in un continuo scambio di intenti e di strumenti con gruppi nazionali e internazionali, alla ricerca di un profilo professionale capace di offrire spettacolo ad ogni tipo di pubblico.
Lo sviluppo delle ricerche sulla pedagogia, la composizione e lo spazio dell’azione ha prodotto dal 1991 ad oggi numerose attuazioni del progetto “Città Invisibili“, in cui l’intervento del Teatro Potlach ha mobilitato artisti e comunità di centri urbani in Europa, in America e in Asia. Il progetto continua a proiettare e a rigenerare i fondamenti del lavoro teatrale fuori dai teatri, e consiste nella trasformazione degli spazi quotidiani attraverso la scoperta dell’identità culturale del luogo e l’elaborazione dell’energia creativa dei suoi abitanti.
Spettacoli prodotti in 44 anni di attività:
1977
“PARATA”: Spettacolo di strada itinerante con trampoli, musiche, maschere e danze colorate.
1978
“LE DANZE DELL’ALBERO SECCO”: Spettacolo di sala a spazio centrale. Racconti e danze con maschere di differenti provenienze etniche.
1979
“PESCATORI DI PERLE”: Danze drammatiche ispirate ad un racconto di Karen Blixen.
1981
“PRIMA CHE LA FESTA FINISCA”: Spettacolo tratto da “La vocazione teatrale di Wilhelm Meister” di W. Goethe.
1983
“SOGNI DI MARINAI”: Viaggio musicale nella Germania degli anni ’30, basato su ballate e canzoni de “L’opera da quattro soldi” di B. Brecht e K. Weill. (Prima versione, seconda versione 1993)
1986
“GIOVANNA DEGLI SPIRITI”: Spettacolo ispirato ad alcune leggende nate intorno alla figura di Giovanna d’Arco.
1987
“MEMORIE”: Spettacolo didattico sulle tecniche dell’attore con Daniela Regnoli, Antonio Mercadante, Nathalie Mentha.
1989
“EMIGRANTI OPERA TANGO”: Un’ “Opera da tre soldi” sul tema dell’emigrazione in Argentina.
1991
“DIRETTORI D’ORCHESTRA“: Spettacolo di clown, poetico ed umoristico adatto ad un pubblico di adulti e bambini con Nathalie Mentha e Marcela Grassi.
“HOLLYWOOD HOLLYWOOD”: Piccolo musical che rivisita i miti del cinema americano: Minnie (Daniela Regnoli).
“PARATA IMMAGINI”: Versione notturna di spettacolo di strada con fuochi d’artificio ed effetti speciali.
1992
“LA STRADA AL CASTELLO”: Spettacolo ispirato alle fiabe raccolte e trascritte da Italo Calvino. Spettacolo adatto ad un pubblico di adulti e bambini.
1993
“SOGNI DI MARINAI”: Seconda versione dello spettacolo del 1983.
“RACCONTI DI SABBIA”: Spettacolo- dimostrazione di Nathalie Mentha.
1995
“J&B”: Le avventure di Johnny e Belinda (Gustavo Riondet e Daniela Regnoli). Spettacolo adatto ad un pubblico di adulti e bambini.
1997
“TURANDOT”: Spettacolo di Commedia dell’Arte ispirato alla celebre fiaba teatrale di Carlo Gozzi. Lo spettacolo, ambientato nella corte della principessa cinese Turandot, si presenta come un viaggio teatrale interculturale tra Oriente e Occidente.
“SHAKESPEARE”: Progetto- evento spettacolare con di più di 40 artisti che danno vita al mondo shakespeariano.
1998
“MITI DEL MEDITERRANEO”: Evento spettacolare basato sugli antichi miti greci che tocca le rive del Mar Mediterraneo.
“PARATA IMMAGINI – Ambasciatori immaginari”: Spettacolo di strada itinerante. Gli ambasciatori offrono in dono azioni, immagini poetiche o delle visioni alla città che li accoglie. Raccontano le meraviglie dei paesi dai quali provengono.
1999
“ASPETTANDO CALAF”: Spettacolo ispirato alla fiaba della cinese Mansciù, con Daniela Regnoli.
2000
“FAMMI PARLARE”: Spettacolo con Nathalie Mentha ispirato a due artisti del XX secolo: Frida Kahlo e Ingeborg Bachmann. (Prima versione).
“FELLINIANA” In un clima da set cinematografico, alcuni dei più bei personaggi dei film di Fellini appaiono in situazioni scenografiche straordinarie.
2002
“I RACCONTI DI FERNANDO”: Spettacolo sulla tematica del cantastorie con marionette napoletane; adatto ad adulti e bambini.
“URAGANI”: Concerto d’attore basato sulle canzoni di B. Brecht sulle musiche di K. Weill; con Daniela Regnoli.
2005
“VIVA LA VITA”: Spettacolo con Nathalie Mentha ispirato a due artisti del XX secolo: Frida Kahlo e Ingeborg Bachmann. (Seconda versione dello spettacolo “Fammi parlare”).
“IN VIAGGIO CON ORFEO”: Site Specific Work realizzato specificatamente per l’antica Cisterna Romana della città di Formia.
“PER EDITH PIAF”: Concerto d’attore, viaggio musicale attraverso un’epoca e le canzoni di Edith Piaf.
2006
“IL CONTE DI GERACI”: Site Specific Work realizzato per il sito archeologico di Geraci Siculo (Sicilia): il Conte di Geraci.
2007
“HOTEL EUROPA”: L’Hotel Europa ospita gli ultimi tre clienti di passaggio, una francese, un italiano e una tedesca, carichi di nostalgia per le città dove hanno vissuto e sperato di rifarsi una vita. Cosa attendono? Dove sono i loro sogni?
“I RACCONTI DI SANTA CHIARA”: Site Specific Work. Lettura itinerante sulla vita di Santa Chiara.
2008
“IL RACCONTO DI SAN BENEDETTO”: Site specific Work. Spettacolo itinerante sulla vita di San Benedetto.
“TRA MARTA E MARIA”: Site specific Work. Spettacolo itinerante ispirato alla storia e alle leggende dei due monasteri di Fara Sabina
“ALLA LUNA, NOTE D’AMORE”: Lettura spettacolo di una selezione tra le più belle poesie d’amore.
2010
“VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI”: Lo spettacolo è il racconto delle incredibili avventure del sottomarino Nautilius, del Capitano Nemo e dei suoi “ospiti”.
“LA VITA ANGELICA. STORIA DI SAN TOMMASO”: Site Specific all’interno della manifestazione Quaestio “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”.
2012
“AMAR AMANDO”: Canzoni d’amore,di lotta e speranza dei poeti del Bacino del Mediterraneo e d’oltreoceano.
2013
“FELLINI’S DREAM”: Gli attori del Teatro Potlach in relazione con un impianto scenografico fatto di luci e videoproiezioni fanno riapparire alcuni dei più famosi personaggi dei film di Federico Fellini, come un immaginario set cinematografico che si materializza davanti agli occhi dello spettatore.
2014
“PERCHÈ CANTIAMO?”: Sulle parole dei poeti sud americani, turchi e europei, arie conosciute e meno conosciute. Fantasmi del passato e speranza nel futuro.
2015
“I PRIMI 100 ANNI DI EDITH PIAF”: Seconda versione dello spettacolo “Per Edith Piaf”, in occasione del centenario della nascita della cantante francese.
“LA COMMEDIA DI ARLECCHINO E PULCINELLA A VENEZIA”: Ispirandosi ai canovacci della Commedia dell’Arte, Claudio De Maglio scrive una storia antica e attuale. Sei personaggi della Commedia Dell’Arte rappresentati da due attori.
2016
“BALLANDO BALLANDO”: 40 anni di teatro. Stralci di spettacoli ed episodi di vita, il tempo dei sogni, dei desideri, il tempo dell’apprendistato e quello della pratica quotidiana.
“NEVE”(work in progress): con l’attrice giapponese di danza tradizionale Kamigata-mai, Keiin Yoshimura, e l’attrice del Teatro Potlach Nathalie Mentha
“SHAKESPEARE’S ISLAND”: Viaggio immaginario nel mondo Shakespeariano, risultato delle arte magiche di Prospero e del sue fedele servitore Ariel.
“NAPOLI-NEW YORK”: spettacolo sul tema dell’immigrazione italiana in America, agli inizi del secolo scorso.
“IL FILO SOSPESO”: versione finale dello spettacolo con Nathalie Mentha e l’attrice di Kamigata-mai Keiin Yoshimura.
2018
“IL CIRCO MAGICO“: spettacolo di attrazioni con danze sui trampoli, nastri cinesi volanti e musica suonata dal vivo.
“SHAKESPEARE OUVERTURE”: tutto inizia con un naufragio, e sull’isola di Prospero rivivono le tragedie più famose di Shakespeare.
2019
“I RACCONTI DI SHAKESPEARE”: Uno spettacolo in collaborazione con il Fanatika Theatre (India) ispirato a “Molto rumore per nulla” di Shakespeare.
“ALLEGRO SHAKESPEARE”: co-produzione con il Teatro Castello di Gyula (Ungheria) ispirato al mondo delle commedie shakesperiane.
“ODYSSEY”: co-produzione internazionale con lo Zid Theatre (Olanda) e l’Omma Studio (Grecia) sul’Odissea antica e contemporanea.
“3D. I CONFINI PERDUTI DI OTELLO”: co-produzione con Iuvenis Danza, spettacolo di teatro danza sul tema di Otello.
“PROCESSO A BRANCUSI”: teatro e arte contemporanea
“ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO”: co-produzione con La Casa dei Racconti
2020
“VENTO, CORRENTI E CLIMA: LA TERRA IN MOVIMENTO”: spettacolo di scienza-teatro con con Giggi Liberti docente di fisica dell’atmosfera e dell’oceano all’Università di Tor Vergata.
“PIAF IN LOVE”: co-produzione internazionale con il Touchstone Theatre (USA), sugli amori e le canzoni di Edith Piaf
“CONCERTO D’ARIE E DUETTI D’OPERA”: l’opera lirica raccontata attraverso i suoi autori e le arie e i duetti più belli.
“LE MURA DI CONTIGLIANO”: Site specific work dedicato al racconto delle imponenti mura del paese reatino di Contigliano, con arti visive e digitali e trampoliere.
“VIOLE VIOLETTA”: co-produzione con la ventriloqua svizzera Ava Loiacono, sulle eccellenze dei prodotti italiani.
“SUL CAMMINO DI FRANCESCO”: spettacolo teatrale e multimediale che racconta gli ultimi giorni di vita di S. Francesco, nella quiete di Fonte Colombo dove è stato operato.
“LA DOLCE VITA”: Affresco felliniano tra il sogno e la realtà, in cui vivono e rivivono situazioni e personaggi del grande cineasta. Realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri a valere del Bando “Vivere all’italiana sul palcoscenico”.
Sabina a Teatro, Rassegna di teatro contemporaneo e Rassegna di teatro ragazzi al Teatro Potlach (dal 2007).
Corsi amatoriali di teatro e arti circensi per adulti e ragazzi, rivolti al territorio.
Campi estivi teatrali (teatro, arti circensi, nuove tecnologie) per bambini.
Seminari e workshops di teatro, scenografie digitali, arti circensi.
Spettacoli teatrali presentati nelle scuole.
Progetto “Marco Polo”, seminari di teatro rivolti a: rifugiati politici, migranti, anziani, disabili.
Riconoscimenti nazionali ed internazionali:
Il Teatro Potlach viene riconosciuto dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo per l’alta qualità teatrale come uno dei 25 teatri italiani iscritti nell’elenco speciale per la Ricerca e la Sperimentazione.
Il 22 novembre 2003 il Teatro Potlach diventa membro associato del Laboratorio di Etnoscenologia, alla Casa delle Scienze dell’Uomo Parigi.
5 giugno 2004 viene istaurata una convenzione tra il Dipartimento di Teatro dell’Università di Roma «La Sapienza», il Teatro Potlach, il Comune di Toffia per l’utilizzo di uno spazio inaugurato come Centro Universitario S. Alessandro.
Nel 2005 il Teatro Potlach diventa Laboratorio satellite del Centro Ateneo – Università La Sapienza per ospitare Corsi di Formazione presso la sua sede di Fara Sabina (RI).
Il 9 giugno 2006, dopo 30 anni di attività, il Teatro Potlach firma una convenzione con il Comune di Fara Sabina per l’affidamento ufficiale dei locali dove risiede.
Il 15 ottobre 2006 il Teatro Potlach festeggia 30 anni di attività a Fara Sabina e nel Territorio.
Giugno 2008 il Teatro Potlach vince il Premio del Concorso Invention architecturale et patrimonie con il progetto Entre Marte et Marie.
Aprile 2010 vincitore del bando CREARR 2010 (Casa dei Racconti – Equipe Allestimenti e Residenze Teatrali – Provincia di Rieti).
L’ 11 febbraio 2012 il Teatro Potlach vince il Premio Best Actress Prize a Nathalie Mentha con lo spettacolo Ventimila Leghe sotto i mari al 30° Fadjr International Theater Festival di Tehran (Iran).
Ottobre 2012 Salvador Bahia – Brasile- Lo spettacolo “Ventimila Leghe sotto i mari” è riconosciuto il migliore spettacolo del 2012 nello Stato di Bahia.
Nel Marzo 2013, il Teatro Potlach in collaborazione con altre sei associazioni culturali italiane vince il bando del Comune di Roma per la gestione del Teatro Tor Bella Monaca di Roma.
Ottobre 2015, il Teatro Potlach viene insignito del XV Premio “Oliva d’oro” indetto dell’Associazione “Arte 2000”. Il Teatro è stato premiato per “il suo impegno culturale e di avanguardia, per l’attività di ricerca e sperimentazione teatrale nel territorio reatino e di allestimento di spettacoli in Italia e all’estero.
Il 15 ottobre 2016 il Teatro Potlach festeggia 40 anni di attività a Fara Sabina e nel Territorio.
A ottobre 2018 il Direttore Pino Di Buduo è invitato a Lai Wu (Cina) in quanto Consulente Artistico del Primo “International Factory Theatre Festival”.
Ad agosto 2019 il Direttore Pino Di Buduo vince un riconoscimento in quanto “maestro ed artista” da parte del Fara Film Festival.
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