Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Umberto Bellintani nasce a Gorgo di San Benedetto Po il 10 maggio 1914 e muore a San Benedetto Po il 7 ottobre 1999.Fra gli anni 1932 e 1937 studia scultura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, allievo di Marino Marini.Partito volontario per la guerra, patisce i campi di concentramento di Dachau, Torn, Peterdorf e Górlitz. In guerra comincia a trasfondere in versi il suo forte senso della “poesia della vita”.Alla fine del conflitto, impossibilitato a riprendere la scultura, per breve tempo insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto Po per poi svolgere le mansioni di segretario presso la Scuola Media di San Benedetto Po.In vita dà alle stampe cinque importanti raccolte di versi: Forse un viso tra mille (Vallecchi 1953), Paria (Mondadori 1955), E tu che m’ascolti (Mondadori 1963), Nella grande pianura (Mondadori 1998) e Canto autunnale (Perosini 1998).
Umberto Bellintani -Poeta italiano
POESIE
Per un bambino che non conosce più i passeri
Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.
E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,
e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.
Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.
Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco.
Dolce chiude l’ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d’anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v’è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s’alterna
timore d’essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l’ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Poiché veramente sono fratello
Poiché veramente sono fratello
del topo nella bocca della gatta
che svelta se ne corre via
e sopportare non posso il ragazzo
scemo che inchioda al tronco
dell’acero la lucertola
ecco che uccido il ragazzo
con il cuore e gli tronco le mani,
poi rendo la testa della gatta
in poltiglia con colpi di pietra
ed è davvero perché sono fratello del fossato
della latta arrugginita e dei ciottoli
della strada e di ogni essere che vive o non vive
ecco che amo e odio follemente il mondo.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Più d’una rete
Più d’una rete luceva sulle acque,
stillando al sole; di poi si sommergeva.
Ed era un giubilo d’allodole quando
al pescatore sotto riva lento emerse
il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo.
Allora il pianto della madre ruppe in gridi,
e quello muto d’altre donne dilagò
ed era greve. Ma nel cielo
ancora il sole risplendeva e la Riparia
era pur sempre gorgheggiata dalle rondini.
Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore
antica stella che illumini nei boschi
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.
Angela
Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell’amore:
c’è il buono di un’anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c’è tanto della mamma nei tuoi occhi
di un benevolo nero;
e che ti prende, di poi si vergogna.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Fratelli
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato
in questa vita così fatta per gli uomini;
chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino
e ha distrutto le colture, e chi la donna
dell’amico ha condotta a perdizione.
Ma non per questo nessuno v’è che peni;
ognuno soffre la montagna della morte
che gl’impedisce di vedere il proprio figlio
e la sua donna, la casa, il campo amato,
un volto amico, un arnese, umili cose.
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Il gatto che ritto si dorme
Il gatto che ritto si dorme
al sommo del palo in questa quiete
dell’aria al pomeriggio di fuoco,
e la rana che grida terrore
dove il fosso s’incurva,
sono voci dell’arcano, e la cetonia
stremata sul sentiero e l’acqua
infesta di torpore e morte;
voci dell’arcano
che dilagan talvolta allora
che tutto s’addensa nel cuore,
preme e non sai
se di vita diversa un esser vivo
un irrequieto immortale
o d’altri mondi a noi cala la voce.
Altro non sai che tu vivi
di questo senso profondo della vita
che ti snerva e che puoi
affascinato dare il fianco alla morte.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Una pianura tutta verde
Immaginiamola, amici, una pianura tutta verde
e tutta piena di bianchi scheletri.
E ditemi voi se non è bella una pianura tutta verde
di primavera ben coperta di quegli scheletri
distesi al sole e tanti fiori sparsi intorno.
Immaginiamola, amici, una pianura tutta sola
come s’intende cosparsa di margherite.
E ditemi voi se non è bella una pianura verde
tutta gremita di margherite e bianchi scheletri.
Immaginiamola, amici, la morte bianca distesa al sole
con tanti scheletri in quella piana di fresco verde.
A Berto
Case vuote abbandonate
occhi allucinati di finestre
amate case di campagna
lombarde voci della vita
case morte della mia pianura
vite spente della gioia
aie al sole della luce
mia tristezza che non taci mai.
Ancora: forse Dio non esiste,
esiste soltanto esiste
il sempre che vive in noi
eternamente.
Morirete senza tremare
di sgomento
perché nessun figlio resterà
solo. Fonte Poesie dal sito www.italian-poetry.org
APRILE
(Umberto Bellintani)
Tu vivi il tempo di grazia dell’aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d’ali di quell’anatra smarrita,
un piccol sasso, un’inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m’allieta,
di come il male della vita qui s’apposta;
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l’anima contrita,
se per l’azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l’upupa rara.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
NOSTALGIA
Torna un lamento,
e ne dà l’eco la pallida
ombra del monte al capo viola.
Vedo gli uccelli
sui comignoli dei tetti
di un paese dell’Epiro
e scroscia un fresco scintillato di rugiada.
E mentre trebbiano il grano
dei fulvi cavalli arrivo
ove l’oracolo di Delfo era
nel volto corrucciato del greco
fiero di odiarmi.
Non sarò forse mai,
non avrò più ritorno
a quelle terre ove
di me in cerca s’aggira
un ebbro momento.
Oh triste
esser dispersi nel tempo
e per terra divisi
in parti ed ogni parte la sorella
chiamare vanamente.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Chi era Umberto Bellintani
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Umberto Bellintani nasce a Gorgo, frazione di San Benedetto Po, provincia di Mantova. Fra il 1932 e il 1937 frequenta a Monza l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Ha come maestri (oltre a Marino Marini, docente di Plastica Decorativa, con cui si diploma in scultura nel 1937) Arturo Martini, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Giuseppe Pagano (architetto), Edoardo Persico. Confesserà in più di una lettera all’amico Parronchi che quegli anni furono intensi e pieni di sogni, fra tutti quello di diventare scultore. Purtroppo, delle opere eseguite da Bellintani in quel tempo è rimasto pochissimo: una scultura denominata Fanciullo, conservata nella raccolta Collezioni Civiche di proprietà del Comune di Monza e Il legionario, scultura a figura intera, conservata in uno dei chiostri della Società Umanitaria a Milano. Richiamato alle armi nel 1940, combatte in Albania e in Grecia. È prigioniero, dal 1943 al 1945, nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Thorn e Peterdorf nell’attuale Polonia. Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura, dapprima insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto, poi è assunto come applicato di segreteria presso la locale Scuola Media. Sposatosi nel 1940 con Eva Pedrazzoli, ha due figli, Marino e Rita. Il suo esordio poetico avviene nel 1946 quando si colloca al secondo posto ex aequo con Vittorio Sereni al Premio Internazionale “Libera Stampa” (1946-1966) di Lugano e suscita l’interesse da parte della critica più accreditata. Pubblica nove poesie sul Politecnico di Elio Vittorini, due su Paragone di Roberto Longhi, altre su Itinerari. Nel 1953 pubblica la sua prima raccolta di versi Forse un viso tra mille, per la Casa Editrice Vallecchi. Nel 1954, agli Incontri fra generazioni, che avevano sostituito il Premio San Pellegrino, ottiene il Premio Minerva Italica mentre Rocco Scotellaro riceve un premio alla memoria. Nel 1955 pubblica Paria, Edizioni della Meridiana, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro Ferrata. Nel 1962 vince il Premio Cervia e ottiene la medaglia d’oro al Premio LericiPea. Nel 1963 pubblica E tu che m’ascolti, per la Casa Editrice Mondadori, nella collana Lo specchio. La raccolta comprende anche la ristampa di Paria. Dopo aver raggiunto considerevoli consensi, sparisce dalla scena letteraria e per ben 35 anni non pubblica niente altro. In questo arco di tempo, comunque, non cessa mai né di scrivere né di disegnare e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti. Nel 1983 Alessandro Parronchi lo convince a esporre alla Galleria Pananti di Firenze, dal 18 al 28 giugno, un gruppo di cinquanta disegni. Umberto Bellintani accetta ma ordina poi a Piero Pananti di distruggere i cataloghi: di essi rimane solo una copia. Nel 1998, poco prima della morte, avvenuta il 7 ottobre 1999, escono due raccolte di poesie: – Nella grande pianura, una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una scelta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che mi ascolti, a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori Editore; – Canto autunnale, quarantacinque componimenti editi e inediti, a cura di Italo Bosetto, per l’Editore Perosini di Verona. Alcune poesie circolavano già, firmate con vari pseudonimi: Tino di Camaino, Federico Fiume, Berto della Rita. Con quello di Virgilio il Greco, coniato da Suzana Glavaš, nel 1995 erano apparsi quattro inediti sulla rivista Da qui.[10], diretta da Giuseppe Goffredo. Nel 1999 vince il Premio di Poesia Circe Sabaudia e il Premio Speciale David Maria Turoldo al concorso letterario Renzo Sertoli Salis di cui ha notizia ma che sarà consegnato postumo, il 29 ottobre, alla figlia Rita.
Nel 2000 il Comune di San Benedetto Po dedica al suo nome la Biblioteca Pubblica e istituisce il “Premio Bellintani di San Benedetto Po”. Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Sempre nel 2000, il Comune di Mantova organizza, a Palazzo Te, una Mostra di suoi disegni e, al Centro Culturale Biblioteca Baratta, un percorso fotografico dal titolo Umberto Bellintani, Luoghi, di Piero Baguzzi. Nel 2005, dal 6 febbraio al 20 marzo, un’altra mostra “Umberto Bellintani- Disegni” è stata organizzata da Afro Somenzari alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana. Negli anni Cinquanta, il professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato in due università milanesi, attraverso Salvatore Quasimodo e l’antologia poetica, Poesia Italiana del Dopoguerra, da lui curata e pubblicata nel 1958, conosce la poesia di Bellintani e se ne fa estimatore in patria. Agli inizi degli anni ottanta, Suzana Glavaš, studentessa di lingua e letteratura italiana dell’Università degli Studi di Zagabria allora, e oggi docente di lingua croata all’Università L’Orientale di Napoli, frequenta le lezioni del professor Mladen Machiedo e scopre la poesia di Bellintani. Nel 1984 viene di persona in Italia, a Gorgo, a incontrare il poeta perché vuole dedicargli la tesi di dottorato e lui, nel Natale 1986, le invia in regalo un manoscritto con un gruppo di poesie inedite. Nel 1995 la Glavaš discute e pubblica la sua tesi di dottorato, Iskustvo i mit u poeziji Umberta Bellintanija (Esperienza e mito nella poesia di Umberto Bellintani), Zagreb 1995. Nel 2006, pubblica in Italia, col titolo Se vuoi sapere di me, la settantina di poesie inedite regalatele dal poeta, presso la Poiesis Editrice di Alberobello, Bari, e La Mongolfiera Editrice di Cosenza, nella collana Diwan della Poesia, curata dal poeta e critico Giuseppe Goffredo. Nel 2008 uscirà a Zagabria, a cura della Glavaš, una scelta antologica di poesie di Bellintani da lei tradotte e presentate con testo a fronte e uno studio sulla poesia Notte Incantata. (fonte Wikipedia)
Umberto Bellintani -Poeta italiano
<<Ond’io canti dolcezza e amore, e il cardo fiorito, e te rincorra, nuvola vaghissima del cielo margherita, anche per me nel campo ara il vecchio padre.>> *Versi di ispirazione autobiografica di Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Autore oggi poco conosciuto, legato alla terra ed al mondo contadino, lo scultore e poeta lombardo è stato sempre apprezzato da importanti critici e poeti. Tra loro, il celebre narratore Carlo Emilio Gadda, che ne ammira “la dizione scarna e commossa, la nettezza dolorosa dell’immagine, l’autenticità dell’angoscia poetica”, e lo scrittore Franco Fortini, che lo qualifica come “Esenin rurale”. Ed ancora, Eugenio Montale, il quale scrive in un articolo del Corriere della Sera nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni. Spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola.” Maurizio Cucchi, infine, così definisce nel 1995 il suo universo bucolico: “È un poeta di ruvida violenza espressiva. Il suo mondo parrebbe quello di una realtà sprofondata nella terra, ma dove il poeta legge qualcosa che la oltrepassa, qualcosa di arcano”. Lo stesso Bellintani rievocava la sua attrazione verso l’arte poetica ed il suo amore per la natura in un testo autobiografico del 1959: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare di erbe e di fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi.
Articolo di Valentina Barbieri -• festival letteratura 08 settembre 2014-
Articolo di Valentina Barbieri –Poeta Umberto Bellintani: l’uomo che dava del tu alla natura
Al Campiani l’omaggio al poeta di Gorgo, a cent’anni dalla nascita, con Nella Roveri, Antonio Prete e Fabrizio Dall’Aglio
Articolo di Valentina Barbieri -08 settembre 2014- Eugenio Montale scrisse di lui: «Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola». Ieri, al conservatorio Campiani, si è aperta così la finestra che il Festivaletteratura ha voluto riservare alla memoria di Umberto Bellintani, per il centenario dalla sua nascita. La citazione è partita da Antonio Prete, editore della nuova edizione (a cura di Elia Malagò e Nella Roveri) della prima raccolta di Bellintani, Forse un viso tra mille pubblicata nel 1953. «Mi è strano parlare di Bellintani da editore- afferma Prete- lui ebbe un rapporto così contrastato con l’editoria. Dopo l’uscita di E tu che m’ascolti nel 1963 sparì dalle scene e non pubblicò più nulla per trent’anni. Trovo calzante ciò che scrisse di lui Montale: la poesia vera si rifugia sempre in uomini che sembrano con avere le carte in tavola. Uomini scomodi, spesso distanti, apparentemente lontani dal mondo». Bellintani lontano dal mondo lo era probabilmente solo in senso fisico. Non si allontanava dalla sua Gorgo se non per contigenti necessità, non aveva pretese di pubblicazione, era lontano dall’opportunismo e dalla gloria effimera. Nonostante ciò, per tutta la sua vita, mantenne una corrispondenza costante con quelli che erano, al tempo, i maggiori protagonisti della poesia e letteratura del Novecento. Fortini, Vittorini, Caproni, Sereni, Zavattini, Pasolini. Nella mostra, allestita nel museo civico polironiano a San Benedetto Po, inaugurata a maggio in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Bellintani, che rimarrà aperta fino al 5 ottobre, sono esposte alcune lettere, tra le più importanti del suo infinito carteggio. «Le carte sono veramente tantissime-aggiunge Nella Roveri- Bellintani scriveva su ogni tipo di supporto: anche sui cartoni della pasta. C’è un immenso materiale che andrebbe studiato approfonditamente». Tra le tante lettere che il poeta di Gorgo scrisse, vi è il carteggio con Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo. «Nel 1951- racconta Fabrizio Dall’Aglio- Bellintani inviò tutte le sue poesie a Don Primo. Non è una cosa usuale per il poeta di Gorgo che, di solito, non amava inviare bozze delle sue opere. Ma a Don Primo sì. Lo fa, a parer mio, per svelare al parroco la sua vera anima. La poesia diventa per lui un veicolo della confidenza. Con Don Primo scoccherà un’empatia tale che il parroco confessò a Bellintani di “essersi riposato e ricreato nella lettura delle sue poesie”». Dall’Aglio ha segnalato come nelle poesie di Bellintani la fede non assurga mai a trascendenza, bensì ad immanenza. Come il poeta di Gorgo riuscisse a ritrovare nelle cose l’infinito. I versi delle sue poesie si colorano così di immagini, di un bestiario fittissimo di esseri viventi attraverso cui emerge un’adesione alla terrestrità e alla creaturalità. Con Bellintani vi è un ritorno alla letizia e alla natura indagata a partire da Lucrezio e, nello stesso tempo, il terrore che le parole non portino più con sè le cose, che perdano la loro prossimità col mondo, che esauriscano il tu con la natura.
• festivaletteratura 2014
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Poesia di Refaat Alareer-Poeta palestinese , morto nella Striscia di Gaza-
Refaat Alareer (1979 – 2023) era un poeta, scrittore e professore universitario di letteratura comparata presso la Islamic University di Striscia Gaza. Attivista, cofondatore del progetto We Are Not Numbers, nato per raccontare storie di quotidianità con la collaborazione di autori affermati e giovani scrittori di Gaza. La poesia che qui pubblichiamo è stata scritta in inglese il 1° novembre 2023. L’intellettuale gazawi, appassionato di Shakespeare, è stato ucciso nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023, insieme ad altri 7 membri della sua famiglia, durante un raid israeliano che ha colpito la sua casa.
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Se dovessi morire L’ultima poesia di Alareer, Se dovessi morire (titolo originale: If I must die), ha conosciuto ampia diffusione dopo la sua morte ed è stata tradotta in più di 40 lingue.
SE DOVESSI MORIRE
(Refaat Alareer)
Se io dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere tutte le mie cose
comprare un po’ di stoffa
e qualche filo,
per farne un aquilone
(magari bianco con una lunga coda)
in modo che un bambino,
da qualche parte a Gaza
fissando negli occhi il cielo
nell’attesa che suo padre
morto all’improvviso, senza dire addio
a nessuno
né al suo corpo
né a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che hai fatto tu,
volare là in alto
e pensi per un attimo
che ci sia un angelo lì
a riportare amore.
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto!
IO SONO TE
Due passi: uno, due.
Guardati allo specchio:
l’orrore, l’orrore!
Il calcio del tuo M-16 sullo zigomo
la macchia gialla che ha lasciato
la cicatrice a forma di proiettile che si espande
come una svastica,
che serpeggia sul mio viso,
il dolore che scorre
dai miei occhi che gocciola
dalle mie narici che perforano
le mie orecchie che si allagano.
Come è successo a te
80 anni fa
o giù di lì.
Sono solo te.
Sono il tuo passato che ti tormenta
il tuo presente e il tuo futuro.
Mi sforzo come hai fatto tu.
Combatto come hai fatto tu. Resisto come hai resistito tu
e per un momento,
prenderei la tua tenacia
come modello,
non stavi tenendo
la canna della pistola
tra i miei occhi sanguinanti?
Uno. Due.
La stessa pistola
lo stesso proiettile
che ha ucciso tua madre
e ucciso tuo padre
viene usato,
contro di me,
da te.
Segna questo proiettile e segnalo nella tua pistola.
Se lo annusi, ha il tuo e il mio sangue.
Ha il mio presente e il tuo passato.
Ha il mio presente.
Ha il tuo futuro.
Ecco perché siamo gemelli,
stesso percorso di vita
stessa arma
stessa sofferenza
stesse espressioni facciali disegnate
sul volto dell’assassino,
tutto uguale
tranne che nel tuo caso
la vittima si è evoluta, all’indietro,
in un carnefice.
Te lo dico.
Io sono te.
Tranne che non sono il te di adesso.
Non ti odio.
Voglio aiutarti a smettere di odiarmi
e uccidermi.
Te lo dico:
il rumore della tua mitragliatrice
ti rende sordo
l’odore della polvere da sparo
con quello del mio sangue.
Le scintille sfigurano
le mie espressioni facciali.
Smetteresti di sparare?
Per un momento?
Lo faresti?
Tutto quello che devi fare
è chiudere gli occhi
(vedere questi giorni
acceca i nostri cuori.)
Chiudi gli occhi, forte
così puoi vedere
con l’occhio della mente.
Poi guardati allo specchio.
Uno. Due.
Io sono te.
Io sono il tuo passato.
E uccidendomi,
tu uccidi te stesso.
Refaat Alareer-Poeta palestinese-Aquilone
(inglese)
«If I must die,
you must live
to tell my story,
to sell my things
to buy a piece of cloth
and some strings,
(make it white with a long tail)
so that a child, somewhere in Gaza
while looking heaven in the eye
awaiting his dad who left in a blaze—
and bid no one farewell
not even to his flesh
not even to himself—
sees the kite, my kite you made, flying up above
and thinks for a moment an angel is there
bringing back love
If I must die
let it bring hope
let it be a tale»
Refaat Alareer-Poeta palestinese
<<Io sono te. Io sono il tuo passato. E uccidendomi, tu uccidi te stesso.>>
*Versi di Refaat Alareer (Shuja’iyya, 1979 – Gaza, 2023) che equiparano lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti all’eccidio di civili compiuto attualmente dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Il palestinese Alareer, poeta e docente di letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza che documentava tramite i social media le sofferenze del suo popolo nel corso del conflitto arabo-israeliano, morì con due fratelli e tre figli il 6 dicembre 2023 in seguito ad un attacco aereo israeliano che distrusse il palazzo in cui abitava. Secondo diverse organizzazioni umanitarie, il bombardamento sarebbe stato mirato ad eliminare l’accademico, già destinatario di continue minacce online, sacrificando le vite dei condomini dell’intero edificio.
Sul magazine ‘La fionda’, così racconta la vicenda umana dello scomodo testimone lo storico Antonio Bocchinfuso: “Refaat Alareer aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta. Il 6 dicembre 2023 rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il ‘pericoloso’ intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito ‘chirurgicamente’. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre ‘bombe intelligenti’, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura, costi quel che costi.”
Poche settimane prima della sua scomparsa, aveva pubblicato sul social X la poesia ‘Se dovessi morire’, composta il primo novembre 2023.
La lirica contiene l’invito a proseguire il suo racconto, preziosa eredità morale raccolta dalla sua allieva Amna Shabana, che scrive: “È il marzo del 2024. L’intera università che tanto amava è ormai in macerie. Il dottor Refaat è stato assassinato. L’unica via è la morte continua. Ma finalmente ho capito qualcosa sulle lezioni di Refaat e sul potere che avevano le sue parole: lo hanno tenuto in vita. Nessuno potrà mai privarmi della sua ispirazione. Finché respirerò, racconterò le sue storie e le infinite storie della mia città, occupata e messa a tacere, alla luce dei suoi racconti.”
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Refaat Alareer-Poeta palestinese
Il poeta e l’ulivo. In memoria di Refaat Alareer Articolodi Antonio Bocchinfuso(articolo ripreso da lafionda.org)
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra
E la terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla [1]
Uccidere un poeta è un crimine tremendo. Chi uccide un poeta non uccide solo un uomo, ma anche la Musa che quell’uomo si portava dentro e che poteva parlare solo per bocca sua. Si tratta in qualche modo di un duplice omicidio. Come in ogni guerra, anche a Gaza vengono uccisi artisti e poeti in quanto tali. Soprattutto a Gaza. Refaat Alareer era uno di questi. Aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta[2]. Il 6 dicembre 2023 Alareer rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il pericoloso intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito “chirurgicamente”[3]. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre “bombe intelligenti”, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura costi quel che costi, il genocidio del popolo palestinese richiede questo e molto altro.
Tra migliaia di foto e reportage strazianti provenienti da Gaza il video della demolizione della Islamic University è passato relativamente in sordina[4]. Io invece credo che non lo dimenticherò mai. Quella che poteva essere una delle poche, importanti alternative alla radicalizzazione disperata per i giovani gazawi, un preziosissimo presidio di dialogo ed umanità polverizzato in pochi secondi. Quella stessa università in cui Alareer studiava Shakespeare con i suoi studenti palestinesi, mostrando come fosse più naturale per loro empatizzare, ancor più che con il moro Otello, con l’ebreo usuraio Shylock, proprio in quanto emarginato ed odiato da una società ghettizzante[5]. Probabilmente Refaat avrebbe pubblicato questi studi e molto altro se il governo israeliano non avesse deciso che l’Università, la letteratura e la poesia costituiscono una minaccia per uno degli eserciti meglio armati al mondo. Una minaccia da combattere con tonnellate e tonnellate di esplosivo. Qualche settimana prima di essere ucciso, mentre Gaza precipitava verso l’inferno Refaat ripubblicava sul suo profilo Twitter una poesia che dopo la sua morte è stata letta in tutto il mondo. Gli ultimi versi mi hanno spinto a scrivere queste righe: If I must die, let it be a tale[6].
Ebbene, dubito che io, comodamente seduto in camera mia a Roma, possa avere qualche storia interessante da raccontarvi a proposito di una faccenda così importante e drammatica. Tuttavia non potrei accettare che l’ultimo desiderio di un uomo, morto da poeta e quindi da partigiano, restasse incompiuto. Vorrei dunque riportare poche frasi tratte da una delle storie più belle e struggenti che abbia mai letto, Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Il brano racconta la raccolta delle olive nel piccolo villaggio palestinese di ‘Aid Hod, pochi anni prima della Nakba.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. […] Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata. […] I colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle tele incerate e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.”[7]
L’ulivo, che pianta meravigliosa. Alcuni ulivi, se curati con sapienza, possono vivere millenni. E quando una pianta è vecchia il suo corpo si separa da sé stesso, si divide e nascono quindi due alberi, poi quattro e poi otto, ma che sono in realtà uno. Poco fuori Gerusalemme, nell’orto del Getsemani dove secondo i Vangeli sarebbe iniziata la passione di Cristo, otto ulivi risalenti al XII secolo fruttano tutt’oggi. Queste otto piante presentano un profilo genetico del tutto simile, tanto da far pensare che in origine fossero un unico albero. Lui sì che ne avrebbe di storie da raccontare. Affinché un ulivo possa vivere così tanto servono però uomini e donne che per secoli e secoli lo sappiano amare ininterrottamente, e che insegnino ai loro figli come amarlo. È ciò che accade da millenni sulle coste del Mediterraneo. Questo amore forgia da tempo immemore la cultura palestinese, di cui l’ulivo è il simbolo. Torniamo per un momento alle parole di Vecchioni in esergo: “Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra”. Sì, perché se molti palestinesi oggi vivono dei frutti di un ulivo è perché questo è stato piantato e curato dai loro avi, perché il loro sudore ha innaffiato d’amore il suolo nel quale si sono fortificate le radici. Questo i palestinesi lo sanno bene. Nel villaggio di ‘Ain Hod ringraziare Dio significava venerare l’eterna ciclicità del raccolto, la natura tutta si univa festante al coro della preghiera. Per noi, ormai abituati a frequentare gli anonimi ed impersonali nonluoghi del transito veloce e del consumo, è sempre più difficile comprendere questo radicamento nella terra. Tra centri commerciali, aeroporti e McDonald’s, spazi a-storici ed interscambiabili perché uguali ovunque, pensati per un utilizzo strumentale e passeggero, fatichiamo a comprendere il rapporto ecologico e spirituale tra la terra, i suoi frutti e chi vive della cura di questi. Io credo che questo scarto antropologico, questa differenza nel modo di rapportarsi alla terra sia fondamentale per la comprensione del conflitto in Palestina. Refaat Alareer aveva ben presente una tale distanza. O’Live Tree è il racconto di un ulivo che sa perfettamente che chi ora calpesta le sue radici con stivali pesanti, chi batte le sue fronde con bastoni di metallo non può che essere uno straniero, un usurpatore: But you belong not here/ You do not even know/ How to touch me/ How to gently sqeeze me/ How to hug me/ How to wipe off the dust[8]. E l’umiliazione che l’ulivo pazientemente sopporta è la sofferenza di tutto il popolo palestinese. Ecco l’identificazione, il radicamento: The humiliation, I do not care/ But take me not/ Steal me not/ Even if I burn/ Here I belong[9].
E cosa fa il colonialismo israeliano davanti ad simile legame? Come ci comportiamo con quegli ulivi secolari noi, che abbiamo visto nell’agricoltura intensiva e nello sfruttamento più estremo del mondo l’unica ragione del nostro sviluppo? Li sradichiamo. Sì, perché la pulizia etnica della Palestina prevede di estirpare quelle radici così profonde. Nei territori occupati, tra le mille preoccupazioni della popolazione palestinese c’è anche quella di difendere gli ulivi dalle irruzioni dei coloni e dai bulldozer dell’esercito israeliano. Non dobbiamo limitarci a vedere in queste brutalità semplicemente la distruzione delle risorse palestinesi e la lotta per il controllo del territorio. Estirpare gli ulivi significa cancellare la storia e la memoria di cui sono testimoni. Ricordate la nostra indignazione quando Daesh distrusse i templi di Bel e Baalshamin a Palmira, in Siria? Gli ulivi palestinesi sono monumenti viventi che ci raccontano di generazioni e generazioni di uomini vissuti sul suolo più venerato di tutti i tempi, che ancora nutrono i suoi abitanti. Distruggerli è un crimine contro la storia, contro l’universale senso del Sacro, il danno prodotto non ha prezzo. Simone Weil vedeva proprio nello sradicamento la malattia corrosiva dell’Occidente. Si tratta di un processo iniziato sostanzialmente con la modernità, e consiste secondo la filosofa francese nella perdita di un rapporto pieno con la propria storia ed il proprio passato, nella perdita della propria radice. “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, separata da quell’antichità nella quale tutti gli elementi della nostra civilizzazione hanno la loro origine; e a partire dal XVI secolo è a sua volta andata a sradicare gli altri continenti”[10]. Dice poi Weil, sempre a proposito dello sradicamento coloniale: “Quando un conquistatore rimane straniero nel territorio conquistato, lo sradicamento è una malattia quasi mortale per la popolazione conquistata”[11]. Nonostante il riferimento biblico al regno d’Israele, i coloni sionisti rimangono coloni, ed il colono è sempre l’opposto del locale. Con ciò non voglio sminuire il legame spirituale che un ebreo, così come un cristiano, un musulmano o chiunque altro, può avere con la Terra Santa. Quello che voglio semplicemente dire è che il sionismo era e resta un progetto coloniale, e questo è peraltro un fatto abbastanza pacifico per i coloni stessi. Gli sforzi degli archeologi israeliani di dimostrare l’autoctonia israeliana in Palestina, riferendosi ad un passato reale o mitico, non possono modificare una semplice realtà di fatto: quando consolidano i loro possedimenti nei territori palestinesi, i coloni si comportano da coloni, ossia da stranieri, da stranieri che distruggono. Il colonialismo è l’opposto del radicamento, dell’appartenenza profonda ad un luogo. E devono in qualche modo essersene accorti anche, soprattutto le migliaia e miglia di ulivi sradicati dal 1967. La terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla.
In Palestina la raccolta delle olive è diventata una forma di resistenza. È usanza qui da noi sminuire ogni condanna del genocidio palestinese precisando, con una certa pedanteria, che bisogna prima prendere le distanze dagli aspetti ingiustificabili della resistenza armata palestinese come il terrorismo. Io non entrerò nella questione, mi limito a dire che finché parte delle mie tasse verrà usata per bombardare, affamare, deportare e sterminare un popolo inerme sarebbe un’offesa alla mia dignità impartire lezioni di dirittumanismo a chi ogni giorno è ucciso dalla nostra accondiscendenza. Eppure, per la gioia (o l’imbarazzo) dei moralisti nostrani, in Palestina la resistenza nonviolenta esiste. Un giorno, spero, gli abitanti dei villaggi palestinesi che ogni anno rischiano la vita per la raccolta, sfidando la violenza dei coloni e dell’IDF, saranno ricordati insieme a Gandhi e Martin Luther King[12]. Donne e uomini coraggiosi che lanciano un messaggio potentissimo: Tutto quello che vi chiediamo è di poter amare queste piante e questa terra, come abbiamo sempre fatto. Un giorno, spero, la Storia saprà leggere questo messaggio sepolto dalla nostra indifferenza. Un giorno ci si ricorderà di quanto è ridicolo, nella sua cieca brutalità, chi si oppone con la forza ad una richiesta simile.
Negli ultimi mesi, lo sterminio fisico della popolazione di Gaza ha monopolizzato l’attenzione di chiunque nel mondo abbia un briciolo di coscienza. Tra questi, quelli che in Occidente contano qualcosa sono pochissimi. Abbiamo scoperto che il potere è un anestetico ben più forte del previsto, ed è capace di disumanizzare chi lo esercita ad un punto che io, che pure credevo di essere un cinico, non ritenevo possibile. Eppure la gente comune, quella che non comanda, è rimasta sconcertata dalle foto dei bombardamenti e dei bambini che muoiono di fame a Gaza, mentre a poche centinaia di metri l’esercito israeliano blocca l’arrivo di aiuti umanitari. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che in Palestina stia avvenendo un genocidio, e le stramberie sul “diritto a difendersi” di Israele sono solo appannaggio di un’egemonia incancrenita e putrescente nei media e nella politica occidentale, a cui non crede più nessuno. Eppure ho voluto raccontarvi la storia di Refaat Alareer e del suo ulivo perché credo che al di là dell’evidenza del torto abbiamo ancora molto da riflettere sulle cause profonde di questa mattanza umana e culturale. Quando questo orribile capitolo della nostra storia si sarà chiuso, se vorremo ristabilire rapporti equilibrati con il mondo e con noi stessi dovremo riflettere su cosa ci ha portato a sradicare quegli alberi, e su che fine abbiano fatto le nostre radici. Abbiamo ancora molto da imparare dagli ulivi, che da tempi antichissimi ci raccontano di incontri nel nostro Mediterraneo, testimoni di cura e di pace. Ho voluto parlarvi di Refaat e del suo ulivo perché non voglio rassegnarmi all’idea che una volgare pallottola possa uccidere la poesia. Mahmoud Darwish accolse serenamente la sua ora. Ormai vecchio, consegnò alla Fine la sua “parte d’argilla”[13]. E dopo una vita passata a sbeffeggiare il potere, il grande poeta palestinese si prese gioco anche della visitatrice più temibile: O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti/ E allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi. Non può essere tanto facile uccidere una Musa. Come tutto ciò che è divino, anche la Dea dell’arte e della poesia può rivivere nei cuori che sanno cercarla. Per questo da sempre i tiranni hanno tanta paura dei poeti.
Voglio crederlo, lo credo.
[1] R. Vecchioni, Shalom
[2] Refaat Alareer insegava letteratura e scrittura creativa alla IUG. Si occupava principalmente di letteratura inglese, in particolare Shakespeare e Donne. Il suo blog, dove pubblicava poesie e brevi riflessioni (https://thisisgaza.wordpress.com/), il suo profilo Twitter (https://twitter.com/itranslate123) ed il suo attivismo lo hanno reso molto popolare a Gaza. È inoltre co-fondatore del progetto We are not numbers (https://wearenotnumbers.org/), che racconta la vita sotto l’occupazione israeliana attraverso le voci di giovani scrittori e scrittrici palestinesi
[3] Euro-Med Human Rights Monitor, Israeli strike on Refaat al-Aleer Apparently Deliberate https://euromedmonitor.org/en/article/6014
[4] Al Jazeera English, Gaza University destroyed: Israel accused of targeting education centers
[5] R. Alareer, Poems of Mass Destruction at Gaza University, in R. Alareer et. Al. (a cura di), Gaza Unsilenced, Charlottesville 2015
[6] R. Alareer, If I must die. “Se devo morire, che sia una storia”
[7] S. Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 15-16
[8] R. Alareer, O’Live Tree. “Ma tu non sei di qui/ Tu non sai nemmeno/ Come toccarmi/ Come spremermi dolcemente/ Come abbracciarmi/ Come pulirmi dalla polvere”
https://thisisgaza.wordpress.com/category/my-poetry/
[9] “Dell’umiliazione, non mi importa/ Ma non portarmi via/ Non rubarmi/ Anche dovessi bruciare/ Il mio posto è qui”.
[10] S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 32
[11] S. Weil, La prima radice, SE, Milano 2013, p. 49
[12] Sulla resistenza nonviolenta degli agricoltori palestinesi, si veda per esempio Rete Italiana ISM, Raccolta delle olive con International Solidarity Movement
Marocco- Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti in mostra a Palermo-
Nicola Fioravanti in mostra a Palermo dal 16 aprile / 22 maggio, “Centro Internazionale di Fotografia Letizia Battaglia”– Un mosaico di colori, architetture ed energia. Il Marocco, con la sua luce mutevole, la forza del vento e del fuoco, i volti delle persone e le scene di vita quotidiana, è il protagonista della mostra “Marocco, Atlante Sentimentale” di Nicola Fioravanti, fotografo di fama internazionale, che si terrà a Palermo, dal 16 aprile al 22 maggio. L’esposizione, ospitata al “Centro internazionale di fotografia Letizia Battaglia” ai Cantieri Culturali alla Zisa, è curata dalla storica dell’arte Daniela Brignone e organizzata dall’Associazione I-design e da Contemporary Concept, con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e del Consolato Generale del Regno del Marocco. L’inaugurazione sarà mercoledì 16 aprile, alle ore 18,00. Ingresso libero.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Il primo incontro tra Fioravanti e il Marocco avviene nel 2010. La sua potenza cromatica diventa subito una fonte di ispirazione, ma servono anni di esperienza prima di riuscire a catturarne davvero l’essenza. Il ritorno, dopo quasi dieci anni, segna un punto di svolta, che è una trasformazione: adesso l’obiettivo non è solo quello di esplorarne i tratti, ma di raccontare l’anima di un popolo e del suo territorio: scoprirne il genius loci per poterlo immortalare. Così nasce “Marocco, Atlante Sentimentale”, una selezione di 40 scatti d’artista di ciò che Fioravanti ha maggiormente amato: le strade e i vicoli, i volti degli abitanti, le architetture di questo straordinario Paese ed è un omaggio alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni audaci, all’entusiasmo della sua creatività. Ad ogni angolo si scoprono scene che sembrano disegnate o dipinte, ma che sono in realtà composizioni spontanee di vita quotidiana.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Fioravanti attraversa le città e i villaggi, soffermandosi sulle strade, sulle kasbah labirintiche, sui banchi dei venditori, sull’operosità degli artigiani e sulle espressioni delle persone che incontra. Ogni scatto è un frammento di questo caotico equilibrio di forme e colori, in un’armonia del tutto naturale. Dalle spezie che tingono l’aria con i loro profumi ai giochi improvvisati dai bambini nei vicoli stretti, dagli sguardi profondi degli anziani alla danza costante fra luci e ombre che placa il frastuono del giorno: il Marocco si rivela in ogni dettaglio, in ogni angolo, nella sua vibrante energia. Questa esposizione segna un momento importante, perché nonostante Fioravanti abbia lavorato in tutto il mondo, è la prima volta che la Sicilia ospita una sua mostra.
Dopo Palermo, la mostra sarà presentata a Rabat, dall’1 al 18 dicembre, presso la “Galerie Bab Rouah”, uno degli spazi espositivi statali più prestigiosi del Regno del Marocco. Situata in una storica porta monumentale della città, la galleria è un punto di riferimento per l’arte contemporanea in Marocco e ospita regolarmente artisti di fama nazionale e internazionale. Esporre in questo luogo iconico, significa entrare in un contesto ricco di storia e simbolo dell’impegno del Regno per la promozione culturale.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Da noi, si mangia con gli occhi”, recita un proverbio marocchino: ed è proprio attraverso lo sguardo – quello attento e profondo di Nicola Fioravanti – che questa mostra diventa un omaggio a un paese dalle mille sfumature, un invito a lasciarsi trasportare dalla sua luce, dal suo ritmo, dalla sua storia. Insh’Allah, “se Dio vuole”, è la frase che ricorre, quasi come una cantilena, che affida le sorti di questo popolo e della sua terra ad Allah, al Divino. Su tutto, cala il silenzio della notte che placa gli animi e, recando la voce del deserto, induce al sonno. Dalla Medina di Casablanca, con i suoi mercati, fino alle strade dipinte di blu di Chefchaouen, immersi in un’atmosfera sospesa nel tempo, questa mostra è una lettera d’amore al Marocco e alla straordinaria tavolozza di colori che ne definisce l’anima. Ed è proprio sul colore che si sofferma l’indagine di Nicola Fioravanti, che esplora il cuore delle medine, con le loro caratterizzazioni cromatiche ben definite che identificano l’anima di questi spazi e del Marocco stesso, che da tempo punta proprio sulla forza e l’efficacia espressiva del colore, per meglio connotare e identificare l’identità dei luoghi, attraverso le suggestioni che questo riesce a trasmettere.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Questa mostra non è solo una testimonianza fotografica di grande maestria, ma un viaggio emotivo nel cuore del Marocco – sottolinea la curatrice Daniela Brignone – dove ogni immagine è un racconto affascinante e coinvolgente che evoca il passato e il presente di una terra fortemente proiettata verso il futuro. Il lavoro di Nicola Fioravanti entra nel profondo della cultura e dell’anima di questo paese, presentato in un luogo, Palermo, che risuona ancora delle tante testimonianze derivate dalla dominazione araba. Ogni scatto è un invito a esplorare l’energia vibrante e la bellezza che permeano ogni angolo, ogni volto, ogni dettaglio. Un viaggio visivo che ci porta ad apprezzare non solo la maestosità del Marocco, ma anche la sua quotidianità, ricca di una forza che è allo stesso tempo delicata e potente”.
Clarice Lispector- una delle più importanti poetesse e scrittrici brasiliane del ventesimo secolo-
Clarice Lispector- Dotata di un enorme talento e di una personalità rara, è stata una delle più importanti poetesse brasiliane del ventesimo secolo. Figlia di genitori ebreo-russi costretti all’esilio in Sud America per sfuggire alle persecuzioni antisemite quando lei aveva appena due anni, era nata casualmente in Ucraina, Paese con cui non aveva nessun legame. “Su quella terra -raccontava- non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio”.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
HO PAURA DI SCRIVERE
(Chaja Pinkasivna Lispektor, nota come Clarice Lispector)
Ho paura di scrivere.
Perché scrivere fa paura.
Chi lo ha provato lo sa.
Il pericolo di penetrare
ciò che è occulto
perché il mondo
ha sommerso le sue
radici nel mare.
Per scrivere devi installarti
nel vuoto. Nel vuoto
esisti appena, a pena intuita.
Ma il vuoto è terribile:
da lui estraggo sangue.
Sono uno scrittore che ha paura
dell’agguato delle parole:
le parole che dico ne nascondono altre
quali? Un giorno, forse, le dirò.
Scrittura: pietra gettata
nel fondo di un pozzo.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
NON È LA MORTE A FARCI MALE
Non è la morte a farci male
ciò che ci ferisce è vivere:
la morte è qualcosa d’altro
qualcosa che preme dietro la porta.
La mania dell’uccello di darsi al Sud
prima che arrivi il ghiaccio:
sfida la latitudine più adatta, ma noi
siamo gli uccelli che rimandano il volo.
Siamo quelli che tremano, alla soglia
delle porte, implorano una briciola
finché la neve, la piena di pietà,
non addestri le nostre piume a tornare a casa.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
MA C’È LA VITA
Ma c’è la vita ciò
che intensamente
deve essere vissuto.
Vivi fino
all’ultima goccia
senza timore
di morirne.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
Dammi la tua mano
Dammi la tua mano
voglio dirti ora
come sono entrata nell’inespresso
che da sempre è la mia ricerca cieca e segreta.
Come sono entrata
in ciò che esiste tra il numero uno e il numero due,
come ho visto la linea del mistero e del fuoco,
una linea ambigua.
Tra due note musicali c’è una nota,
tra due fatti esiste un fatto,
tra due granelli di sabbia per quanto uniti siano
c’è un intervallo di spazio,
c’è un sentire che è all’interno del sentire
negli interstizi della materia primordiale
c’è questa linea di mistero e di fuoco
che è il respiro del mondo,
e il respiro continuo del mondo
è ciò che sentiamo
e che chiamiamo silenzio.
***
l’autunno gioca le sue carte a colori
sospira alla finestra e l’appanna
ai primi sbalzi drastici mattutini
non conosce tristezza vola e gioca
coi suoi aquiloni di giallo d’arancio
D’improvviso le cose non hanno più bisogno di avere un senso. Mi accontento di essere. Tu sei?
***
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
Io adoro volare
Già nascosi un amore per paura di perderlo, già persi un amore per averlo nascosto.
Già strinsi la mano di qualcuno per paura, già ebbi tanta paura,
al punto di non sentire più la mia mano.
Già cacciai persone che amavo dalla mia vita, già mi pentii di questo.
Già passai notti piangendo fino a prendere sonno, già andai a dormire così felice, al punto di non riuscire nemmeno a chiudere gli occhi.
Già credetti in amori perfetti, già scoprii che non esistevano.
Già amai persone che mi delusero, già delusi persone che mi amarono.
Già passai ore di fronte lo specchio tentando di scoprire chi sono, già ebbi tanta certezza di me,
al punto di voler sparire.
Già mentii e mi pentii dopo, già dissi la verità e mi pentii lo stesso.
Già finsi di non dare importanza alle persone che amavo, per più tardi piangere ferma nel mio angolo.
Già sorrisi piangendo lacrime di tristezza, già piansi per il tanto ridere.
Già credetti alle persone per le quali non valeva la pena,
già non credetti più a quelle per le quali realmente ne valeva.
Già ebbi crisi di riso quando non potevo
Già ruppi piatti, bicchieri e vasi, dalla rabbia.
Già sentii molta mancanza di qualcuno, ma non glie lo dissi mai.
Già gridai quando dovevo stare zitta, già stetti zitta quando dovevo gridare.
Molte volte rinunciai a dire che pensavo per temermi qualcuno,
altre volte dissi ciò che non pensavo per ferire gli altri.
Già raccontai barzellette e per di più barzellette senza eleganza,
appena per vedere un amico felice.
Già inventai storie con finali felici per dare speranza a chi ne aveva bisogno.
Già sognai troppo, al punto da confondere la realtà
Già ebbi paura del buio, oggi nel buio mi trovo, mi accascio, resto lì.
Già caddi innumerevoli volte pensando di non rialzarmi, già mi rialzai innumerevoli
volte cercando di non cadere più.
Già telefonai chi non volevo appena per non telefonare chi realmente volevo.
Già corsi dietro un’ auto, per togliere lui, che amavo.
Già chiamai la mamma nel mezzo della notte svegliandomi da un incubo.
Ma lei non apparse e fu un incubo ancora maggiore.
Già chiamai persone vicine amici e scoprii che non lo erano.
Alcune persone non ebbi mai il bisogno di chiamarle in nessun modo
e sempre furono e saranno speciali per me.
Non darmi formule certe, perché io non mi aspetto di indovinare sempre.
Non mostrarmi cosa si aspettano da me, perché seguirò il mio cuore!
Non mi facciano essere ciò che non sono, non mi invitino ad essere uguale,
perché sinceramente sono diversa!
Non so amare a metà, non so vivere di bugie, non so volare con i piedi a terra.
Sono sempre me stessa, ma certamente non sarò la stessa per sempre!
Mi piacciono i veleni più lenti, le bibite più amare, le droghe più
potenti, le idee più insane, i pensieri più complessi,
i sentimenti più forti.
Ho un appetito vorace e i deliri più pazzi.
Tu puoi anche buttarmi da una rupe e io ti dirò:
E allora? Io amo volare!
***
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
-Clarice Lispector -Scrittrice brasiliana (Čečel´nik, Ucraina, 1925 – Rio de Janeiro 1977). Figlia di ebrei ucraini emigrati, trascorse l’infanzia e compì gli studî in Brasile, dove poi si stabilì, dopo aver a lungo soggiornato in Europa e negli USA con il marito diplomatico. Nella sua opera narrativa, intensamente psicologica e introspettiva, ha svolto un’angosciosa tematica esistenziale, riferita per lo più a personaggi femminili, facendo ampio uso di sospensioni e digressioni, monologhi interiori, evocazioni istantanee, e puntando a un linguaggio poeticamente innovativo. Oltre a testi di narrativa per l’infanzia, scrisse numerosi romanzi (Perto do coração selvagem, 1944, trad. it. 1987; O lustre, 1946; A cidade sitiada, 1949, trad. it. 2024; A maçã no escuro, 1961, trad. it. 1988; A paixão segundo G. H., 1964, trad. it. 1982; Uma aprendizagem ou O livro dos prazeres, 1969, trad. it. 1981; Áqua viva, 1973, trad. it. 2017; A hora da estrela, 1977, trad. it. 1989; Um sopro de vida, post., 1978, trad. it. 2019) e racconti (tra cui: Alguns contos, 1952; Laços de família, 1960, trad. it. 1986; A via crucis do corpo, 1974, trad. it. La passione del corpo, 1987). Istituto della Enciclopedia Italiana
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
–Giudizio della filosofa Gilda de Melo e Sousa su Clarice Lispector (Čečel’nyk, 1920 – Rio de Janeiro, 1977), una delle più importanti poetesse brasiliane del ventesimo secolo.
–Clarice Lispector -Figlia di genitori ebreo-russi costretti all’esilio in Sud America per sfuggire alle persecuzioni antisemite quando lei aveva appena due anni, era nata casualmente in Ucraina, Paese con cui non aveva nessun legame. “Su quella terra -raccontava- non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio”.
Oltre a spiccare come narratrice ed autrice di versi nella nazione carioca, di cui aveva preso la cittadinanza, era considerata da molti critici un’eccellenza della cultura giudaica.
Afferma a proposito lo scrittore statunitense Benjamin Moser: “Se per molti brasiliani Clarice Lispector è un’icona della letteratura nazionale, per me è lo scrittore ebreo più importante dopo Franz Kafka. Clarice si è posta domande, e ha anche trovato delle risposte, sulle più tipiche questioni ebraiche: la bellezza e l’assurdità di vivere in un mondo in cui Dio è morto e coloro che in maniera un po’ folle sono determinate a scovarLo.”
Sfugge ad ogni definizione il suo stile di scrittura, tanto che la critica francese Hélène Cixous asseriva argutamente che nella letteratura brasiliana vi è uno stile a.C. (antes de Clarice, ovvero prima di Clarice) e d.C.(depois de Clarice, dopo Clarice).
L’arte di Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano-
Centro Culturale di Milano.Una grande restrospettiva dedicata all’artista e intitolata Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre, curata da Elena Pontiggia, è esposta dal 17 aprile al 13 maggio presso il CMC Centro Culturale di Milano, con un corpus di circa cinquanta opere, che tracciano l’intenso percorso di una figura di spicco della pittura italiana della prima metà del ‘900.
La mostra ripercorre con andamento cronologico le fasi artistiche che hanno caratterizzato il lavoro di Esodo Pratelli da un’iniziale espressione legata al realismo e più marcatamente al simbolismo, con la realizzazione di opere pittoriche, per poi evolvere nel primo decennio del ‘900 all’adesione al movimento futurista e approdare negli anni Venti al Novecento Italiano. La mostra mette in risalto l’attenzione rivolta dall’artista, oltre che all’olio, anche a numerose tecniche dall’acquerello alla tempera, dal carboncino fino alla lavorazione della ceramica e alla realizzazione di arazzi, evidenziando una spiccata poliedricità. In mostra si ammirano inoltre fotografie e documenti storici che testimoniano il suo percorso artistico e l’attività cinematografica.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Una vita molto intensa, intrisa di una fervida cultura legata al contesto familiare, coltivata grazie a viaggi, permanenze a Parigi, a Roma, oltre a incontri e contatti con importanti esponenti dell’epoca fra cui Boccioni, Carrà, Severini, Marinetti, Gris, Delaunay, Sironi.
Pratelli partecipa attivamente alle iniziative del suo tempo, si ricordano infatti la collaborazione alla nascita della Corporazione delle Arti Plastiche (1923), la docenza e la direzione a Milano della Scuola d’Arte Applicata del Castello Sforzesco (1924 ca. – 1934), la proposta firmata con Sironi, Sarfatti, Funi, Carrà per l’istituzione di un Consiglio superiore per l’arte moderna (1925), la nomina a segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano (1927) e l’anno successivo della Lombardia. Decenni molto densi in cui l’artista si è dedicato anche alla creazione di bozzetti per scenografie e costumi di opere liriche, durante i quali non sono mancati momenti di allontanamento dalla pittura, tra il 1935 e il 1950, anni che lo vedono protagonista a Roma, con un’intensa attività in ambito cinematografico, come sceneggiatore e regista.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Un aspetto che contraddistingue la pittura di Pratelli si ritrova nella costante presenza della natura, seppur con declinazioni diverse a seconda della fase artistica nella quale è immerso. Anche nelle tele dove il paesaggio non è il soggetto protagonista, l’elemento naturale emerge in maniera preponderante, cattura l’attenzione e appare carico di significati. Talvolta si tratta di agenti atmosferici, che l’uomo non può controllare e che appaiono ancor più catalizzanti all’interno delle opere.
L’attenzione al segno e alla linearità, accanto alla raffinatezza e all’eleganza del tratto, i toni morbidi e leggeri sono ulteriori caratteri distintivi del lavoro dell’artista, conservati nel corso di tutta la sua carriera. Importanti i maestri cui si è ispirato e ha fatto riferimento nel tempo, da Klimt a Beardsley durante al giovinezza, da Carrà a Sironi in età più matura.
Nell’approfondito testo in catalogo afferma la curatrice Elena Pontiggia in relazione alla sua pittura: “Merita di essere conosciuta per l’intensità di tanti suoi esiti, ma anche per l’esprit de finesse che la percorre. I suoi colori delicati, le sue raffinate composizioni di figure, i suoi temi confidenziali, i suoi paesaggi urbani e i suoi paesaggi senza aggettivi, tutta la sua traiettoria stilistica, insomma, dal simbolismo al futurismo al “Novecento”, cui vanno aggiunti i suoi ultimi decenni tutt’altro che senili, hanno troppo valore per essere relegati nella Scatola delle cose dimenticate, come l’artista intitola un quadro del 1967, che è anche una trasparente metafora della sua vicenda espressiva”.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Nel percorso espositivo fra i lavori degli esordi è presente la maiolica policroma Estate nella notte (1911), citata e descritta nel carteggio con il cugino Balilla Pratella; con lui coltiva un profondo rapporto epistolare nel corso di tutta la sua vita. All’interno della lettera, l’artista oltre a dichiararsi ceramista descrive gli intenti di quel momento facendo emergere il suo interesse per il simbolo e gli elementi naturali.
Del periodo futurista, dettato dall’interesse per il movimento, delle linee che tendono alla verticalità e a colori più vivaci, si ammirano le tele Frammento della primavera (1913), caratterizzato dal roteare di segmenti in gran parte circolari e i bozzetti per le scene e i costumi dell’opera lirica del cugino Balilla dal titolo L’aviatore Dro (1913). Si tratta della sua prima progettazione scenografica ufficialmente futurista, eseguita per la prima volta nel 1920, nella quale, sia che si tratti di scene sia di figurini, si avverte la predilezione per la sintesi, per una linearità ondulata del tratto e di una tensione verso l’infinito.
In linea con il suo avvicinamento al Novecento italiano l’artista volge a delle rappresentazioni in cui emerge la ricerca di una moderna classicità, dove la plasticità, i volumi, la nitidezza delle forme e la supremazia del disegno sul colore assumono un ruolo centrale. Lo si osserva in Maternità (1922) e nel ritratto della figlia Lilia (1925); qui i soggetti dominano la scena con una solida volumetria, una forma precisa e nitida. In questi anni frequenta Mario Sironi, al quale dedica Ritratto di Sironi (1928); con lui condivide l’interesse per la pittura solida, monumentale e viene influenzato nella scelta di soggetti quali cantieri, fabbriche, periferie, ne è esempio Ciminiere (1924).
Sono inoltre in mostra lavori che attestano il successivo allontanamento dal movimento del Novecento italiano verso un maggior interesse per i paesaggi, per una dimensione quotidiana, casalinga, orientata a una visione più serena e cromaticamente più luminosa, in cui predomina la grandezza della natura. Estate (1930) e La favola del bosco (1931), con ambientazioni quasi fiabesche e legate alla vita di tutti i giorni, con scene intime e tenere, ben rappresentano questa inversione di rotta e l’avvicinamento al realismo magico.
Anche nelle opere degli anni Cinquanta, fra le altre Gatto sulla stufa (1957), successive all’isolamento dal mondo pittorico, i temi sono familiari, fino ad arrivare agli anni Sessanta dove la figurazione è legata a particolari, sempre del quotidiano, ma ancor più intimi e quasi nascosti; come nell’emblematica La scatola delle cose dimenticate (1967).
Accompagna la mostra un’importante e dettagliata monografia di Elena Pontiggia, edita da Silvana Editoriale, ad oggi la più completa sull’artista, che traccia un esaustivo ritratto di Esodo Pratelli e del suo lavoro. Accanto alle numerose tavole a colori, oltre un centinaio, sono pubblicati carteggi inediti dell’artista con personalità a lui vicine nel suo percorso di vita e in quello artistico.
Cenni biografici. Esodo Pratelli (1892 – 1983) nasce a Lugo -Ravenna- dove frequenta il ginnasio e la Scuola di Disegno e Plastica, vince il concorso e la borsa di studio, quindi si trasferisce a Roma. Formatosi all’Accademia di Via Ripetta a Roma, dopo un’iniziale adesione al simbolismo, si avvicina nel 1913 – 1914 al futurismo, entrando in contatto con i maggiori esponenti del movimento durante il suo soggiorno a Parigi. Si dedica alla realizzazione di tele, ceramiche e contemporaneamente scenografie e costumi per L’Aviatore Dro, opera del cugino Balilla Pratella, in stile pienamente futurista. Nel 1915 è richiamato alle armi da cui sarà congedato solo nel 1919, quando a guerra conclusa si stabilisce a Milano. Negli anni Venti è nominato segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano e successivamente della Lombardia. Si sposa con Elsa Martina e dal loro matrimonio nel 1922, nasce la figlia Lilia e successivamente, nel 1928, il figlio Giuliano. Aderisce al Novecento Italiano ed è annoverato da Margherita Sarfatti nel “vivaio di giovani forze” del movimento; partecipa nel 1926 alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente di Milano e a tutte le esposizioni successive in Italia e all’estero. Anni significativi sono il 1927 e il 1928 grazie alla presenza alla Biennale di Brera, con le opere Giulia e Laura e Paese toscano, e per la prima volta alla XVI Biennale di Venezia, dove tornerà ad esporre nel ‘30, ‘32 e ‘34.
Nel 1931 è tra gli artisti della I Quadriennale e nello stesso anno alla Exhibition of Contemporary Italian Painting, organizzata dalla Quadriennale di Roma al Museo di Baltimora.
Il 28 ottobre 1932 nel decennale della marcia su Roma si apre a Palazzo delle Esposizioni la Mostra della Rivoluzione Fascista, per cui Pratelli si occupa della parte artistica di tre sale.
Nel 1935 lascia Milano per tornare a Roma, dove si dedica alla scenografia e regia cinematografica, abbandonando sia l’insegnamento che l’attività espositiva. Nella seconda metà degli anni Cinquanta riprende l’attività pittorica, che continua fino agli ultimi anni della sua vita trascorsi a Roma.
Attualmente importanti opere dell’artista sono custodite in musei nazionali e internazionali, gallerie e collezioni pubbliche e private.
Si ringrazia la Fondazione Massimo e Sonia Cirulli per il significativo prestito.
Centro Culturale di Milano. Nato nel 1981 è un originale spazio di dialogo su molti campi della cultura e dell’arte, in collaborazione con istituzioni, enti privati e pubblici a livello regionale e nazionale, diretto da Camillo Fornasieri.
La sede, situata nel centro di Milano tra Duomo e Piazza San Babila, nel palazzo disegnato dallo Studio Caccia Dominioni, è un luogo per meeting, convegni, presentazioni di libri, esposizioni di mostre ed eventi con artisti, scrittori, intellettuali, dall’Italia e dal mondo.
Fra le mostre si ricordano quelle dedicate a Mario Funi, Carlo Carrà, Trento Longaretti, Maurizio Bottoni, Eugene Smith, Dorothea Lange, Lewis Hine, Edward Burtynsky, Ferdinando Scianna.
All’interno del CMC sono visitabili, coperti dalla struttura in vetro, i ruderi delle Terme Erculee romane del II secolo d.C..
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Coordinate mostra
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Sede Sala Espositiva Centro Culturale di Milano – Largo Corsia dei Servi, 4 – Milano
Date dal 17 aprile al 13 maggio 2025
Inaugurazione mercoledì 16 aprile, ore 18
Orari da lun a ven 10 – 13 / 14:30 – 18; sab e dom 15 – 19
Chiuso domenica 20 aprile S. Pasqua
Apertura speciale lunedì 21 aprile Pasquetta 14:30 – 18
Ingresso libero
Info al pubblico www.centroculturaledimilano.it – Tel. 02 86455162
Come arrivare MM1 e MM4 San Babila – MM3 Duomo – Bus 54, 60, 61,73,84 – Tram 15, 23
Parcheggio sotterraneo per autovetture a pagamento
Coordinate monografia
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Edizione Silvana Editoriale
Lingua italiano
Pagine 128
Illustrazioni 100
Formato cm 23×28 cm
Rilegatura brossura
Copertina flessibile
ISBN 978-88-366-5898-5
Prezzo € 26
Ufficio stampa
IBC Irma Bianchi Communication
Via Arena 16/1 – Milano
Lucia Steffenini mob. + 39 334 3015713
Marta Casuccio mob. +39 375 8855909
tel. +39 02 8940 4694 – info@irmabianchi.it
testi e immagini scaricabili da www.irmabianchi.it
L’Arabia Saudita acquista il know-how italiano per la cultura-
Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha intensificato il suo impegno per ridefinire la propria immagine attraverso la cultura, investendo cifre ingenti per acquisire competenze in ambito artistico. Solo per rimanere nell’attualità, a gennaio 2025 ha aperto a Jeddah la seconda edizione della Biennale delle Arti Islamiche, con vari artisti internazionali invitati, tra cui anche l’italiano Arcangelo Sassolino, mentre in questi giorni, nel deserto di AlUla, è visitabile una mostra dedicata a James Turrell. Si tratta di progetti muscolari, che richiedono ingenti investimenti e conoscenze tanto specifiche quanto integrate. In questo contesto si inserisce il ruolo di Proger, gruppo italiano specializzato in ingegneria e project management e che, oltre a essere coinvolto nella progettazione del “famigerato” Ponte sullo Stretto di Messina, ha anche recentemente istituito una nuova divisione dedicata alla consulenza culturale, guidata da Francesco Rutelli.
Marco Lombardi e Khalid Alhazani direttore del Riyadh Art Program
Caso emblematico di questa strategia è il progetto Riyadh Art, un’iniziativa da oltre un miliardo di dollari volta a trasformare la capitale saudita nel più grande museo a cielo aperto del mondo. Anche grazie a questa politica, il Paese ha aperto ampi spazi per la collaborazione internazionale, come nel caso della partnership con il Centre Pompidou. Lanciato dal re Salman bin Abdulaziz Al Saud nel 2019, il progetto Riyadh Art è in linea con gli obiettivi del programma di sviluppo strategico Vision 2030, promosso dal Regno dell’Arabia Saudita per ridurre la propria dipendenza dal petrolio e diversificare l’economia del Paese, sviluppando settori come sanità, istruzione e turismo, ma anche incrementando la spesa pubblica in ambito militare. D’altra parte, la strada è ancora lunga: come riportato dal quotidiano The Guardian nel 2021, il budget dell’Arabia Saudita dipendeva ancora per il 75% dall’esportazione di petrolio.
«Con una popolazione giovane e in rapida crescita di sette milioni di residenti, la città si sta trasformando in una metropoli globale e l’arte in tutte le sue forme contribuisce in modo significativo al raggiungimento di questo obiettivo», si legge sul sito di Riyadh Art. Secondo quanto comunicato da Proger, il piano prevede l’installazione di 700 opere di artisti di fama internazionale, da Alexander Calder a Robert Indiana, in uno sforzo che unisce la monumentalità dell’intervento urbanistico con l’acquisizione di prestigio attraverso la promozione dei linguaggi della creatività contemporanea.
«Al mondo non esisteva un’unica realtà che offrisse una visione integrata di Engineering e Arte pubblica. Ora esiste», ha dichiarato Marco Lombardi, Ceo di Proger. «I programmi di Arte e Cultura non vanno solo immaginati e suggeriti, vanno anche resi possibili e realizzati. Expertise e sensibilità della Cultura Artistica devono essere integrati con la concretezza e pragmaticità dell’Ingegneria e del Project management. Non intendiamo trasformarci in quello che non siamo, ma abbiamo notato che il mondo della consulenza culturale internazionale è caratterizzato da soggetti che, pur estremamente esperti in settori specifici, non sono attrezzati per offrire soluzioni integrate perfette. Con loro vogliamo collaborare per offrire nuove prospettive al mondo dell’Art&Culture. In questo contesto si inquadra anche il rafforzamento della già consolidata partnership con Civita Mostre e Musei, leader nell’offerta integrata di servizi museali, organizzazione di mostre e progettazione territoriale».
Yannick Robert, When it Rains, 2023. Courtesy Riyadh Art and Tuwaiq Sculpture 2023
Dunque, forte di una lunga esperienza nell’ambito dell’ingegneria e della gestione di progetti complessi, Proger si è posizionata come un interlocutore chiave per questa trasformazione. La scelta della società di collocare a Riad il quartier generale regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa segnala un passaggio ulteriore: non solo esportare competenze ma radicarsi nei nuovi centri decisionali del mercato culturale globale. In questo senso, è significativo notare come recentemente l’ambasciatore cinese in Arabia Saudita, Chang Hua, abbia ufficializzato l’apertura, da parte di 35 aziende cinesi, di sedi regionali a Riad.
«Sviluppando soluzioni innovative possiamo creare modelli di riferimento globali. E costruendo un dialogo concreto con le istituzioni dei Paesi che sono e saranno nuovi protagonisti sulla scena mondiale – e che vedono nella cultura una forte risposta alle sfide che ci angustiano – possiamo contribuire alla crescita culturale, allo sviluppo sostenibile, all’inclusione sociale», ha dichiarato Francesco Rutelli, a capo della nuova Business Unit Art & Culture. «Alla competenza di una delle migliori Società internazionali di Ingegneria si affianca una visione che integra innovazione, arte, fruizione dell’arte nei Musei e nei luoghi pubblici, innovazioni digitali e creative. Sarà prezioso puntare sui successi nella progettualità, e contribuire al rafforzamento delle relazioni internazionali con una crescita del prestigio dei Paesi in cui Proger opera».
Davide Rondoni:”Le poesie di Lorenzo Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa – che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere”
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
***
Mi innesti alla tua pianta, mi aggrappo
alla tua gemma che è ferita, raccolgo
il tuo respiro dalla crepa, lo scavo come fosse
una miniera, lo tengo come fuoco
tra le mani consegnato dalle braci,
lo tengo per quando arriva il gelo,
al riparo dalla febbre sulle tempie,
da quel freddo-animale che fa scarni,
fa muta la parola e ci leviga le ossa.
Raccolgo il tuo respiro come un frutto,
lo semino all’interno, benedico la tua fame
e la porto come un dono che ha il vizio di brillare.
***
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
***
Cerchia la parola, la parola disarmata
alla fine della strage sulla linea che segna
la frontiera. Autunno-dire, inverno-sentire.
La casa è nuda. Tu fai tana nella soglia.
Si sgola la distanza e si ammanta
la preghiera di fonemi involontari.
Ti mando a brillare sulla neve.
Azzurro bene non visto che perdura.
***
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
***
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia. Ci porta
verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
***
Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998), laureato in Lettere Moderne all’Università di Salerno, vive a Laino Borgo (CS), in Calabria. Ha pubblicato la raccolta “Bruciare la sete” (Controluna, 2018), finalista al Premio di Poesia “Solstizio” opera prima nel 2019. Sue poesie, edite e inedite, sono state pubblicate su riviste come Atelier, Poesia del nostro tempo, Il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrentino), sul quotidiano La Repubblica. Con alcuni inediti è tra i vincitori della ventisettesima edizione del Premio internazionale di poesia “Ossi di seppia” (Taggia, 2021). È presente nell’antologia “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete” (Puntoacapo, 2021).
Fonte- clanDestino nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
Poesie di Lorenzo Patàro-Poeta calabrese<<Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai.>>
*Versi di ‘Biglietto lasciato prima di non andar via’ di Giorgio Caproni, l’ultima, inquietante ed oscuramente premonitrice lirica pubblicata sul suo profilo Instangram, sei giorni fa, da Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998 – Laino Borgo, 2025), giovanissimo poeta di sicuro talento scomparso ieri in circostanze non comunicate dai familiari.
Laureato in Lettere e Filologia moderna, il ventiseienne autore calabrese era tra i più attivi e stimati operatori dell’affollata e promiscua scena poetica contemporanea, anche in virtù di un’intensa attività pubblicistica in qualità di critico de Il Foglio e del magazine letterario Inverso.
Con la raccolta ‘Amuleti’ era approdato alla finale del Premio Strega Poesia 2023. Aveva inoltre ricevuto riconoscimenti in vari concorsi, tra cui Pontedilegno Poesia, Ossi di Seppia e Ritratti di poesie.
Della sua opera ha scritto Davide Rondoni sulla rivista ClanDestino: “Le poesie di Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa, che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere.”
———————————————————– RIINIZIARSI (Lorenzo Patàro)
Se a tutto c’è una fine
che tu sia il tuo inizio.
SIAMO STATI CENERE
Siamo stati cenere
di incendi causati
dai nostri stessi
baci infiammati.
Rinasceremo vento
per disperdere i frammenti,
ci bruceremo ancora
per farne tramonti.
VEDI, È TORNATO IL PRIMO FREDDO
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia.
Ci porta verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
PENSO AI MORTI DEL PAESE
Penso ai morti del paese a cui non pensa più nessuno.
Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia.
Benedico i loro nomi, percepisco il loro sonno, come un ago, la mia notte, nella cruna della loro.
“Amuleti” di Lorenzo Pataro-(Ensemble 2022)-Dalla prefazione di Elio Pecora
[…] Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori. Il territorio, nel quale l’autore si cerca e si palesa, appartiene a un altrove che ingloba l’umano, ma non lo isola e restringe. Il titolo Amuleti fa pensare agli amuleti montaliani, a oggetti e soggetti che modulano i significanti ed estendono i significati. Nell’epigrafe di Gianni Celati – una delle tre che aprono il libro e sono indubbiamente mappe per un tragitto da compiere – si dice di parole che “chiamano qualcosa perché resti con noi”. Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare. E se della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento, persistono qui le ombre e gli appigli, se una irreparabile scontentezza sta dietro gli avvii e le soste di tanto chiamare ed evocare, mai s’accampa una definitiva rinuncia alla felicità, mai si cede a un’estrema invalicabile negazione. Tutto – in questo continente di parole, di frasi, di cadenze – si avvolge in un ritmo denso e pacato. Il verso, che propende all’endecasillabo, ne esce per acclimatarsi in chiare e libere cadenze. Tutto si presenta come composto di un’uguale sostanza, eludendo ogni separatezza, trovando segrete ragioni in una confidenza e in una prossimità che sfociano in una cercata alleanza. […]
da Amuleti (Ensemble 2022)
Ancora ritorna lo sparviero
il nibbio a piantare l’urlo nella schiena
a percorrere il dolore come un dito
che tocca la ferita e la ripara
la stagione degli amori ritorna
e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia
se getti il germoglio sul cemento
lo ruba la gazza e lo conserva
nel nido poi scopre il tuo segreto
e smette di brillare ogni preghiera
ancora ritorna lo sparviero
la poiana caduta a capofitto.
*
Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.
*
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna 2018). Sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog come «Atelier», «Interno Poesia», «Poesia del nostro tempo», «ClanDestino», «Il sarto di Ulm»; sul sito ufficiale di poesia della Rai («Poesia», di Luigia Sorrentino); sul quotidiano «La Repubblica». Ha vinto i premi “Ossi di seppia” (2021) e “Poeti oggi” (2022).
Bruce Chatwin-L’occhio assoluto-Fotografie e taccuini-
Traduzione di Clara Morena-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto-Come si parla di orecchio assoluto a proposito di coloro che sanno riconoscere perfettamente l’altezza dei suoni, si potrebbe parlare di «occhio assoluto» per una qualità che Bruce Chatwin già mostrava nei suoi scritti e che ora ci appare, e si impone, nelle sue fotografie. Riconoscere in ciò che sta attorno a noi – e soprattutto attorno all’occhio, sempre mobile, del viaggiatore – quegli spicchi di realtà che sono altrettante visioni, isolarli dal resto e lasciarli vibrare nella loro pura evidenza ottica: questo è il segno di elezione dell’«occhio assoluto». Le immagini che compaiono in questo libro furono colte in Patagonia e in Mauritania, in Australia e nell’Afghanistan, nel Mali e in Nepal, ma spesso il luogo di origine e l’occasione rimangono indecifrabili, come se la pura accidentalità del viaggiare fosse servita a far emergere ogni volta, in un labile momento, la piena singolarità di un frammento di ciò che è, senza altri attributi, e al tempo stesso il muto stupore dell’occhio che lo coglie. Insieme a queste sorprendenti fotografie appaiono qui per la prima volta lunghi estratti dai taccuini di Chatwin, riserva alla quale era solito attingere per tutte le sue opere. Da due vie, dunque, L’occhio assoluto permetterà di entrare nel segreto – quasi nella percezione stessa – di uno scrittore che rimarrà fra i grandi dei nostri anni.
In copertina
Bandierine delle preghiere, Khumbu, Nepal (fotografia di Bruce Chatwin). 1993 JONATHAN CAPE
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
VERDE MARE
1
Dal tanto amarti, mare,
il mio cuore è divenuto
marinaio.
E mi inizia a cantare
sui pennoni d’oro
della luna, nel vento.
Qui la voce, il canto,
il cuore lontano
dove risuonano i tuoi passi
lungo le rive del porto.
Dal tanto amarti, mare,
la tua assenza mi fa soffrire
fin quasi a farmi piangere.
2
Mare!
Ed è come se, all’improvviso,
fosse tutto chiaro.
Angeli nudi. angeli
di brezza e luce. Il canto
dell’acqua che danza
sarabanda di cristallo
Isole, onde, conchiglie.
Bianco grido di sale…
E il cuore, battito
dopo battito, dice Mare!
ELEGIA DI LEYLA KHALED
MEIRA DELMAR
Ti devastarono l’infanzia, Leyla Khaled.
Come una spiga
o lo stelo di un fiore,
ti infransero
gli anni dello stupore e della tenerezza
e distrussero la porta della tua casa
perché entrasse il vento dell’esilio.
E prendesti a vagare
la patria sulle spalle
la patria divenuta ricordo
di un luogo cancellato dalle mappe
e faceva male ogni ora di più
e diventava più triste del silenzio
e gridava più forte nel castigo.
E un giorno, Leyla Khaled, notte pura,
notte ferita di stelle, ti sei trovata
i campi, i paesi, i sentieri
tatuati sulla pelle del ricordo
muovendosi nel tuo sangue rosso e vivo
riempiendoti gli occhi della loro sete
le mani e le spalle di fucili,
di fiera ribellione le insonnie.
E iniziarono a chiamarti con nomi
amari di ignominia,
ti lanciarono urla come spine
dai quattro punti cardinali,
e marcarono il tuo passo con il ferro
dell’obbrobrio.
Tu, sorda e cieca, in mezzo
agli avidi artigli nemici,
ardevi nel tuo fuoco, camminavi
di frontiera in frontiera,
difendendo il tuo petto dall’odio
con l’incerta certezza del ritorno
alla terra luttuosa di cui fosti
da mille mani straniere derubata.
Ti videro i deserti, le città,
la fretta dei treni, febbricitante,
assorta nel tuo destino guerrigliero,
negandoti l’amore e i singhiozzi,
perdendoti alla fine tra le ombre.
Non si sa, non so, quale è stata la tua direzione,
se giaci sotto la polvere, se procedi
per le valli del mare, profonda e sola,
o ti muovi ancora con il passo
felino dell’animale inseguito.
Nessuno sa. Non so. Ma ti alzi
di scatto nella nebbia dell’insonnia,
iraconda e terribile Leyla Khaled,
pecora in lupa trasformata, rosa
dal dolce tatto in morte trasformata.
IMMIGRANTI
Una terra con cedri, con olivi,
una dolce regione di fresche vigne,
lasciarono vicino al mare, abbandonarono
per il fuoco d’America.
Conservavano tra le labbra
il sapore della resina,
e il fumo profumato del narguileh
negli occhi,
mentre la nave si perdeva tra le onde
lasciandosi dietro le pietre di Beritos,
la valle gioiosa ai piedi delle colline,
e i banchetti del vino attorno alla tavola
preparata nell’estate
sotto il cielo pieno di gemme.
Il mare cambiò nome
una volta, un’altra e un’altra ancora
fino ad arrivare alla scottante riva
dove veloci raffiche
di uccelli dipingevano
di colori e musica improvvisa
l’istante,
e il fragore dei fiumi imitava il ruggito
del giaguaro e del puma
nascosti nella selva.
Su rive e su montagne costruirono case
come in passato la tenda nelle verdi oasi
l’antico avo, e le vecchie parole
iniziarono a scambiare
con le parole nuove
per chiamare le cose,
e seppero condividere il cuore con grandezza
come prima l’otre d’acqua nella sete del deserto.
A volte quando suona il liuto della memoria
e la prima stella
brilla nella sera
ricordano il giorno
in cui il bled scomparve lentamente
dietro l’orizzonte.
MEIRA DELMAR
CEDRI
I miei occhi di bambina videro
– già molti anni addietro – elevarsi
fino alle nuvole un volo
di verde progressivo
che l’aria intorno
riempiva di balsamo
con tranquilla insistenza.
Il silenzio si percepiva come una
musica interrotta all’improvviso,
e nel mio petto cresceva
lo stupore.
La voce del padre, allora,
si piegò al mio orecchio
per dirmi, sottovoce:
“Sono i cedri del Libano
figlia mia.
Da mille anni, forse
da due volte mille, essi crescono
ai piedi di Dio.
Conserva la loro immagine
nella mente e nel sangue.
Non dimenticare mai
che hai osservato da vicino
la Bellezza”.
E da quel momento
così lontano,
qualcosa in me si rinnova
e trema
quando incontro nelle pagine
di un libro
la loro memorabile immagine.
IL MIRACOLO
Ti penso.
La sera,
non è più una sera;
è il ricordo
di quell’altra, azzurra,
in cui amore
si fece in noi
come un giorno
si fece luce nelle tenebre.
E proprio allora fu più brillante
la stella, il profumo
del gelsomino più vicino,
meno
pungenti le spine.
Adesso
quando la invoco credo
di essere stata testimone
di un miracolo.
Traduzione dallo spagnolo di Giulia Spagnesi
FONTE-Rivista- FILI DI AQUILONE-
MEIRA DELMAR
Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
Biografia di Meira Delmar Figlia degli immigrati libanesi Julián E. Chams e Isabel Eljach , iniziò a scrivere poesie all’età di 11 anni. Tra i suoi primi scritti c’è To the Acacias in Bloom. Durante l’adolescenza nutrì una grande adorazione e ammirazione per le grandi poetesse del sud: Gabriela Mistral, Alfonsina Storni, Delmira Agustini e Juana de Ibarbourou
Ha completato gli studi liceali presso la Barranquilla School for Young Ladies e gli studi superiori presso la Scuola di Belle Arti del Centro Studi Dante Alighieri di Roma (Italia). Ha studiato musica al Conservatorio Pedro Biava dell’Università dell’Atlantico e storia dell’arte e letteratura al Centro Dante Alighieri di Roma. Successivamente è stata docente di queste materie presso l’Università dell’Atlantico.
Nel 1937 le sue prime poesie – You Believe Me to Be Made of Stone, Chain, Promise e The Gift of Rain – furono pubblicate nella sezione Poetesses of America della rivista cubana Vanidades. Quando inviò le sue poesie, decise di adottare lo pseudonimo Meira Delmar, principalmente per evitare che i suoi genitori e amici riconoscessero l’autrice dell’opera. Meira è una modificazione del nome Omaira, di origine araba; e Delmar nasce dal suo amore e dalla sua attrazione per il mare. Mesi dopo, il suo lavoro acquistò popolarità e i quotidiani e i media nazionali iniziarono a pubblicarlo.
Su richiesta e insistenza dei suoi amici, Ignacio Reyes Posada, Carlos Osío Noguera, Héctor Rojas Herazo e Alirio Bernal, pubblicò il suo primo libro, Alba de olvido, nel 1942. Il libro fu pubblicato da Editorial Mejoras, in una prima edizione di cinquanta copie[6]. Più di mezzo secolo dopo, la rivista Semana, nel numero 882 del 1999, la incluse in una selezione delle cento migliori opere colombiane del XX secolo; essendo l’unica donna ad apparire nella sezione poesia.
Mesi dopo, decise di inviare una lettera con le sue poesie e il suo primo libro a Juana de Ibarbourou, che all’epoca viveva a Montevideo, per chiederle un parere a riguardo. In seguito la poetessa avrebbe affermato che la bellissima lettera ricevuta in risposta fu il motivo che la spinse a continuare a scrivere.
Nel 1944 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie, Site of Love. Due anni dopo, nel 1946, pubblicò il suo terzo libro, La verità del sogno.
Nel 1950 tenne il suo primo concerto pubblico presso la Biblioteca Nazionale della Colombia, nella capitale, su invito di Carlos López Narváez. In questa occasione la regia è di Eduardo Carranza. Un anno dopo pubblicò il suo terzo libro, sempre di poesie, Secret Island, in cui afferma di aver trovato la propria voce.[b]
Nel 1957 pubblicò nella città di Bogotà il libretto di poesie n. 26 nella raccolta Poeti di ieri e di oggi di Simón Latino. Qualche tempo dopo quest’opera sarebbe stata pubblicata a Buenos Aires.
Dal 1958 e per 36 anni fu direttrice della Biblioteca Pubblica Dipartimentale dell’Atlántico; che in suo onore venne chiamata Biblioteca pubblica dipartimentale Meira Delmar. Raggiunse tale incarico su invito di Néstor Madrid Malo, quando era governatore del Dipartimento dell’Atlantico, e lo ricoprì poi in seguito con i successivi ventisette governatori. Attualmente, in suo onore sono stati istituiti il Meira Delmar Women’s Documentation Center presso l’Università dell’Atlantico e la Meira Delmar Reading Room presso la Biblioteca Piloto del Caribe.
Il 18 marzo 2009, nella sua città natale, quando fu candidata al Premio Regina Sofia della corona spagnola, con alte probabilità di ottenere un riconoscimento che viene conferito solo agli autori in vita, iniziò il suo viaggio silenzioso e il suo passaggio attraverso la Terra non lascia nulla dietro di sé, il suo volto in pace, il suo cuore in guerra.
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