Mompeo (Rieti)- va in scena nella sala Fabrizio Naro la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
Mompeo (Rieti)-Articolo di Giulia Mininni– La commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi” è il nuovo appuntamento per sabato 5 aprile a Mompeo. Nell’ambito della rassegna” A porte aperte” diretta da Renato Giordano va in scena nella sala Fabrizio Naro del castello la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”. Dopo molti e importanti concerti torna a Mompeo la prosa con uno spettacolo comico e divertente. E’ risaputo che una donna insoddisfatta prima o poi escogita un piano di evasione. Ma se le donne sono cinque? Si può essere certi che il piano sarà diabolico.
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
E lui avvolto dal velo ingannatore distratto dai piaceri della carne, alimentato dalle lusinghe, incantato da quelle mitiche eroine, ottenebrato dal proprio smisurato ego, forse non ricorda più che il mondo materiale non è altro che…illusione. Questa in sintesi la storia. Dimmi ciò che vuoi affronta i temi della liberazione femminile e della ribellione alle aspettative sociali. Le quattro protagoniste, attraverso il supporto della loro psicologa, trasformano le loro insicurezze in forza, dando vita a un crescendo che sfocia in una rivincita inaspettata. Nel cast tra gli altri Ilaria Pierandrei nel ruolo della terapeuta, Silvia Organtini è la casalinga trascurata, che si trasforma da donna sottomessa a mantide . Il personaggio maschile, intrappolato nel suo ruolo è Marco Tavani. La ripetitività degli approcci del seduttore seriale diventa un tratto distintivo dello spettacolo, con scene musicali e siparietti. Il finale , in cui le donne si liberano dalle catene patriarcali, offre una riflessione leggera ma significativa sul ruolo della donna e della sua emancipazione. Un mix di umorismo e di spunti di riflessione.
“Dimmi ciò che vuoi. Una commedia sentimentale scorretta!” Regia e testo di Anna Fraioli. Con Noemi Antonini, Francesca Grande, Wanda Orlando, Ilaria Pierandrei, Martina Sbarra, Marco Tavani.
Sabato 5 aprile sala Fabrizio Naro del Castello, ore 18,00.Ingresso gratuito.
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle-
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle, ritenuta il suo capolavoro nonché il più paradigmatico esempio dei meccanismi della tragedia greca.La data esatta di rappresentazione è ignota ma si ipotizza che possa collocarsi al centro dell’attività artistica del tragediografo (430–420 a.C. circa).
Edipo re
Trama
L’opera si inserisce nel cosiddetto ciclo tebano, ossia la storia in chiave mitologica della città di Tebe, e narra come Edipo, re carismatico e amato dal suo popolo, nel breve volgere di un solo giorno venga a conoscere l’orrenda verità sul suo passato: senza saperlo ha infatti ucciso il proprio padre per poi generare figli con la propria madre. Sconvolto da queste rivelazioni, che fanno di lui un uomo maledetto dagli dei, Edipo reagisce accecandosi, perde il titolo di re di Tebe e chiede di andare in esilio.
Prologo (vv. 1-150): Edipo è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta Tebe, la sua città, mentre una folla supplicante si pone attorno a lui per chiedergli di salvarli dalla fame e dal contagio; Edipo, sovrano illuminato e sollecito verso il proprio popolo, afferma di aver già mandato Creonte, fratello della regina, ad interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause dell’epidemia. Al suo ritorno Creonte rivela che la città è contaminata dall’uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, che è rimasta impunita: il suo assassino vive ancora in città e finché questi non sarà identificato e esiliato o ucciso, la pace e la prosperità non potranno tornare. Edipo chiede altre informazioni a Creonte, il quale continua dicendo che al tempo in cui la città era sotto l’incubo della Sfinge, Laio stava andando a Delfi quando, lungo la strada, fu assalito da dei briganti dai quali, secondo il racconto di un testimone, fu ucciso.
Parodo (vv. 151-215): entra il coro di anziani tebani cantando una preghiera agli dei perché intervengano a protezione della città.
Primo episodio (vv. 216-462): Edipo proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per chi lo protegga o lo nasconda; il re convoca inoltre Tiresia, l’indovino cieco, perché sveli l’identità dell’assassino. Egli però rifiuta di rispondere, considerando più saggio tacere per non richiamare altre sventure: Edipo tuttavia si adira e intima a Tiresia di parlare. Il vecchio non si decide e la collera del re aumenta; allora Tiresia risponde accusando Edipo di essere l’autore dell’omicidio. Il re è indignato e comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano ordito un piano per detronizzarlo. L’indovino quindi si allontana profetizzando che entro la fine di quel giorno il colpevole sarà scoperto e se ne andrà mendico e cieco in terra straniera.
Primo stasimo (vv. 463-511): il coro dapprima immagina la fuga del colpevole, braccato tanto dagli uomini quanto da Apollo e dalle Keres (dee simbolo del fato avverso), per poi decidere di non dare credito alle parole di Tiresia: nemmeno il grande indovino è infallibile.
Edipo re
L’attore Albert Greiner interpreta Edipo (1896)
Secondo episodio (vv. 512-862): Creonte chiede se sia vero che Edipo lo crede colpevole di cospirazione. Quest’ultimo lo accusa apertamente con toni sempre più accesi: Creonte non si trovava infatti a Tebe, insieme a Tiresia, quando Laio fu ucciso? Creonte gli risponde pacatamente di non avere interesse al trono e nel mentre interviene Giocasta, vedova di Laio e ora moglie di Edipo, per mettere pace tra i due. Ella invita il marito a non dare ascolto a nessun oracolo e a nessun indovino: anche a Laio era stata fatta una profezia secondo la quale sarebbe stato ucciso dal figlio, mentre ad ucciderlo erano stati alcuni banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontrano tre strade. A sentire le parole di Giocasta, Edipo resta turbato e chiede di convocare il testimone di quell’omicidio. La regina chiede al marito il motivo del suo turbamento, così Edipo comincia a raccontare: da giovane era principe ereditario di Corinto, figlio del re Polibo, e un giorno l’oracolo di Delfi gli predisse che avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Sconvolto da quella profezia, per evitare che essa potesse avverarsi Edipo aveva deciso di fuggire, ma sulla strada tra Delfi e Tebe, in un punto dove si uniscono tre strade, aveva avuto un alterco con un uomo e l’aveva ucciso. Se quell’uomo fosse stato Laio? Il coro tuttavia lo invita a non trarre conclusioni affrettate e a sentire prima il testimone dell’omicidio.
Secondo stasimo (vv. 863-910): il coro è turbato dall’incredulità di Giocasta davanti agli oracoli e lancia un ammonimento contro chi pretende di violare le leggi eterne degli dei: quando gli uomini non riconoscono più la giustizia divina e procedono con superbia (“hybris”), lì si cela la tirannide[2].
Terzo episodio (vv. 911-1085): giunge un messo da Corinto che informa che re Polibo è morto. Edipo è rassicurato da quelle parole perché suo padre non è morto per mano sua. Rimane la parte della profezia riguardante sua madre, così Edipo chiede notizie di lei: il messo, per rassicurarlo pienamente, gli dice che non c’è pericolo che egli possa generare figli con la propria madre poiché i sovrani di Corinto non sono i suoi genitori naturali, in quanto Edipo era stato adottato. Il messo può testimoniarlo con certezza perché un tempo faceva il pastore sul monte Citerone e era stato proprio lui a ricevere un Edipo neonato da un servo della casa di Laio e a portarlo a Corinto. A questo punto Edipo si vede vicino alla scoperta delle proprie origini e ordina che sia convocato il servo di Laio; Giocasta, invece, ha ormai capito tutta la verità e supplica Edipo di non andare avanti con le ricerche, ma non viene ascoltata.
Terzo stasimo (vv. 1086-1109): il coro esulta perché Edipo è ormai vicino a conoscere le proprie origini ed esalta il Citerone come patria e nutrice di Edipo stesso[3].
Quarto episodio (vv. 1110-1185): arriva il servo di Laio, che Edipo attende con tanta impazienza. Tempestato di domande, il servo innanzitutto cerca di dissuadere Edipo dal continuare a interrogarlo, ma quest’ultimo ormai vuole ascoltare tutta la verità. Il servo allora conferma che aveva ricevuto il bambino (che era figlio di Laio) con l’ordine di ucciderlo in quanto, secondo una profezia, il piccolo avrebbe ucciso il padre. Tuttavia, per pietà, il servo non l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore, che l’aveva portato a Corinto. A questo punto l’intera vicenda è chiarita e, al colmo dell’orrore, Edipo rientra nel suo palazzo gridando: «Luce, che io ti veda ora per l’ultima volta»[4].
Quarto stasimo (vv. 1186-1222): gli anziani tebani che costituiscono il coro compiangono la sorte di Edipo, re stimato da tutti, che in breve si è scoperto autore involontario di atti orribili. I tebani vorrebbero non averlo mai conosciuto tanto è l’orrore e, al tempo stesso, la pietà che la sua vicenda suscita in loro.
Edipo bambino viene nutrito da un pastore (scultura di Antoine-Denis Chaudet, 1810, Museo del Louvre)
Esodo (vv. 1223-1530): un messo esce dal palazzo di Edipo e annuncia disperato che Giocasta si è impiccata e che Edipo, appena l’ha vista, si è accecato con la fibbia della veste di lei. In quel momento appare Edipo accompagnato da un canto pietoso del coro, che afferma di aver compiuto quell’atto perché nulla ormai, a lui che è maledetto, può più essere dolce vedere. In quel momento arriva Creonte, che di fronte alla disperazione di Edipo lo esorta ad avere fiducia in Apollo. Edipo abbraccia quindi le sue figlie Antigone e Ismene compiangendole perché esse, figlie di nozze incestuose, saranno sicuramente emarginate dalla vita sociale. Infine chiede a Creonte di essere esiliato in quanto uomo in odio agli dei.
Roberto Carnero -Pier Paolo Pasolini. Morire per le idee
Descrizione del libro di Roberto Carnero-Le opere di Pier Paolo Pasolini (dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria) vanno lette come un tutt’uno, in cui le diverse fasi di un lavoro artistico articolato si intersecano continuamente in un discorso creativo in costante evoluzione. Roberto Carnero indaga questa “opera totale” senza scinderne i vari generi, ma riportando le molteplici esperienze alla coerenza di un percorso artistico unitario. In particolare vengono scanditi in modo lineare i grandi temi pasoliniani: la giovinezza in Friuli, la vocazione poetica e la scoperta dell’omosessualità; il contrastato rapporto con la religione e con la politica; la scoperta del sottoproletariato romano negli anni cinquanta; la nostalgia del passato e la fuga verso un impossibile altrove spazio-temporale; la fase apocalittica degli ultimi anni, prima di una morte tragica ancora avvolta nel mistero.
Roberto Carnero
L’Autore–Roberto Carnero insegna Letteratura italiana all’Università di Bologna, presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Campus di Forlì). Critico letterario ed editorialista per varie testate, tra cui “Avvenire”, “Il Piccolo” e “Famiglia Cristiana”, per Bompiani è autore dei saggi Pasolini. Morire per le idee, Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla Generazione Z e Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana. Presso Giunti TVP – Treccani ha pubblicato con Giuseppe Iannaccone una fortunata storia e antologia della letteratura italiana per le scuole superiori, la cui nuova editio maior si intitola Il magnifico viaggio.
Pier Paolo Pasolini– nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, giornalista, è uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani. Dotato di un’eccezionale versatilità culturale, si distinse in numerosi campi, lasciando contributi come cineasta, pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista non solo in lingua italiana, ma anche friulana. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni Settanta, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi, come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità è stato al centro del suo personaggio pubblico. Semplicemente un grande classico del Novecento.
Pasolini. Morire per le idee
Pier Paolo Pasolini, poeta della contraddizione
Il critico letterario Guido Davico Bonino racconta il poeta Pasolini e la sua complessità dovuta proprio alle sue molte contraddizioni umane e artistiche. Luciano Virgilio legge un testo giovanile di Pasolini, “En lenga furlana”, e alcune poesie estratte da “La meglio gioventù”, “Mi contenti” (traduzione “Mi accontento”); da “L`usignolo della Chiesa Cattolica”: “Carne e cielo”; da “Poesie inedite”: “Correvo nel crepuscolo fangoso”; da “Le ceneri di Gramsci”: “Il pianto della scavatrice” (parte II); da “Poesia in forma di rosa”: “Frammento epistolare, al ragazzo di Codignola”. Un percorso attraverso lo sfogo commosso e la confessione dolorosa tipici della poetica pasoliniana.La personalità, il pensiero e la creatività di Pasolini, figlio della maestra casarsese Susanna Colussi, animò geniali esperimenti didattici alternativi che gli valsero l’appellativo di “maestro mirabile”. La prima scuola fu aperta con la madre a Versuta, in provincia di Pordenone, nell’ottobre del 1944. Nel villaggio mancava la scuola e i ragazzi dovevano percorrere più di un chilometro per raggiungere la loro sede scolastica, Susanna e Pierpaolo decidono così usare la loro casa come scuola gratuita. Poi arriva l’incarico ufficiale: per due anni, dal 1947 al 1949, a Pasolini è affidato l’incarico di insegnare materie letterarie alla prima media della scuola di Valvasone, che raggiungeva ogni mattina in bicicletta. Denunciato per corruzione di minore e atti osceni in luogo pubblico, perde la cattedra e viene espulso dal PCI di Udine. Nel 1950 è a Roma e riesce a ottenere un posto di insegnante presso una scuola media di Ciampino, dove insegnerà fino al 1953. Il didatta Pasolini rimane sempre in prima linea, nel fuoco di una militanza pedagogica tanto dolcemente affettuosa verso il popolo e i suoi giovani figli, quanto implacabilmente violenta contro la borghesia neocapitalistica, imputata dell’imposizione totalitaria di modelli mercantili e edonistici. Un “pedagogo di massa”, lucido e combattivo anche nel disperato periodo corsaro degli anni Settanta. Dice Vincenzo Cerami: “Anche la sua saggistica aveva un fondo pedagogico, la sua era un’ispirazione filologica, una spinta all’indagine”.
Pasolini uomo contro
Pasolini si è sempre distinto per l’indipendenza del pensiero, caratteristica che lo ha portato ad essere osteggiato continuamente da fronti diversi. Fanno molto scalpore, ad esempio, le sue dichiarazioni a seguito dei fatti di Valle Giulia del 1968, i suoi giudizi sulla televisione e le sue personali letture del Vangelo. Quando nel 1968 presenta il film “Teorema” alla mostra del cinema di Venezia le reazioni sono violente. La Procura di Roma sequestra il film “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava”. Poco dopo la Procura di Genova mette al bando il film con un analogo provvedimento. Il processo contro Pasolini e il produttore Donato Leoni si apre il 9 novembre 1968 con l’escussione del regista. Il Pubblico Ministero Luigi Weiss chiede la reclusione di sei mesi di entrambi gli imputati e la distruzione integrale dell’opera. Il 23 novembre 1968, dopo un’ora di camera di consiglio, il Tribunale di Venezia assolve Pasolini e Leoni dall’accusa di oscenità annullando il bando del film con la seguente sentenza: “Lo sconvolgimento che Teorema provoca non è affatto di tipo sessuale, è essenzialmente ideologico e mistico. Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”.
Pasolini uomo di fede
In primo piano le origini di Pasolini: la religiosità popolare che incontra il comunismo, il fascino esercitato dalla figura di Gesù di Nazareth che lo porta, nel 1963, a un lungo viaggio in Palestina e, poi, al film “Il Vangelo secondo Matteo”. Anche in altri film affronta le tematiche religiose e progetta una pellicola dedicata a san Paolo, rimasta solo sulla carta.
I giudizi su di lui sono contrastanti: da una parte papa Giovanni XXIII “benedice” il Vangelo secondo Matteo, dall’altra Pasolini viene processato, e assolto, per vilipendio alla religione dopo il cortometraggio “La ricotta”. Ma a chi lo accusa di offendere la fede, Pasolini risponde che il vero nemico della religione è un altro: il consumismo. Anche se si rende conto che questa è una battaglia persa. L TEMPO e LA STORIA”
Comunista, ateo, anarchico. Eppure religiosissimo. Una contraddizione apparente, in uno dei più complessi e trasgressivi intellettuali italiani: Pier Paolo Pasolini raccontato dal professor Alberto Melloni.
La morte
Nella notte tra il 1º novembre e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino Roma. Il cadavere massacrato venne ritrovato da una donna alle 6:30 circa. Sarà l’amico Ninetto Davoli a riconoscerlo. L’omicidio fu commesso da un “ragazzo di vita”, Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla polizia come ladro di auto, fermato la notte stessa alla guida dell’auto di Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato da Pasolini nelle vicinanze della Stazione Termini, presso il Bar Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura, dietro la promessa di un compenso in denaro.
Dopo una cena offerta dallo scrittore, nella trattoria Biondo Tevere nei pressi della Basilica di San Paolo, i due si diressero alla periferia di Ostia. Secondo le carte processuali la tragedia sarebbe scaturita a seguito di una lite per pretese sessuali di Pasolini alle quali Pelosi era riluttante, degenerata in un alterco fuori dalla vettura. Il giovane sarebbe stato minacciato con un bastone del quale si sarebbe impadronito per percuotere Pasolini fino a farlo stramazzare al suolo. Quindi, salito a bordo dell’auto dello scrittore, l’avrebbe travolto più volte con le ruote, sfondandogli la cassa toracica e provocandone la morte.
Pelosi venne condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello, pur confermando la condanna dell’unico imputato, riformava parzialmente la sentenza di primo grado escludendo ogni riferimento al concorso di altre persone nell’omicidio. Dopo aver mantenuto invariata la sua assunzione di colpevolezza per trent’anni, nel corso di un’intervista televisiva nel maggio 2005, Pelosi ha affermato a sorpresa di non essere l’esecutore materiale del delitto e che l’omicidio era stato commesso da altre tre persone, giunte su una autovettura targata Catania, che a suo dire parlavano con accento “calabrese o siciliano”.
Molti intellettuali e amici dello scrittore (da Laura Betti a Oriana Fallaci, da Enzo Siciliano a Sergio Citti) hanno avanzato dubbi sulla ricostruzione del delitto. Il 22 marzo 2010 Walter Veltroni ha scritto all’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano una lettera aperta, pubblicata sul Corriere della sera, chiedendogli la riapertura del caso e sottolineando che Pasolini è morto negli anni ’70, “anni cui si facevano stragi e si ordivano trame”. Il 1º aprile del 2010 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno raccolto la dichiarazione di un nuovo testimone che ha aperto indagini che sono state definitivamente archiviate all’inizio del 2015. Le nuove indagini non hanno portato infatti a nulla di nuovo rispetto alla sentenza, se non ad alcune tracce di Dna sui vestiti dello scrittore. Tracce però di impossibile attribuzione e impossibili da collocare temporalmente.
Tarquinia (VT): nella necropoli etrusca del sito Unesco scoperta nuova tomba dipinta
Tarquinia-Straordinaria scoperta nel sito Unesco di Tarquinia nella necropoli etrusca, dove gli archeologi hanno ritrovato una nuova tomba a camera dipinta: le pitture sulle pareti mostrano scene di danza e di officina. La scoperta risale alla fine del 2022, anche se è stata comunicata dalla Soprintendenza di Viterbo soltanto in queste ore. Tutto comincia nel corso di un’ispezione della Soprintendenza a seguito dell’apertura di alcune cavità nel terreno: l’eccezionale scoperta è avvenuta nella necropoli etrusca dei Monterozzi, vicino a Tarquinia, dove gli archeospeleologi, esplorando quelle cavità, hanno confermato che si trattava di sepolcri già visitati da scavatori clandestini in passato. Tuttavia, una delle tombe celava un segreto ancora intatto: il crollo di una parete aveva rivelato una camera funeraria più profonda, decorata con scene dipinte dai colori straordinariamente vividi.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Questa nuova tomba, catalogata con il numero 6438, è stata dedicata alla memoria di Franco Adamo, rinomato restauratore delle tombe dipinte di Tarquinia, scomparso nel maggio 2022. Il ritrovamento rappresenta un evento di grande rilievo per l’archeologia etrusca, riportando alla luce uno spaccato di vita e cultura di oltre duemila anni fa.
La scoperta è frutto del lavoro della Soprintendenza di Viterbo e dell’Etruria Meridionale, e in particolare degli archeologi Daniele F. Maras e Rossella Zaccagnini del Ministero della Cultura, assieme ai collaboratori esterni Gloria Adinolfi e Rodolfo Carmagnola, mentre lo scavo è stato condotto da Archeomatica s.r.l.s., e il restauro delle superfici da Adele Cecchini e Mariangela Santella. A.S.S.O. si è invece occupata delle operazioni di archeospeologia.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Un delicato lavoro di scavo e messa in sicurezza
Per evitare che il sito venisse compromesso da tombaroli o da visitatori imprudenti, la Soprintendenza ha mantenuto il massimo riserbo sulle operazioni di scavo Grazie a un finanziamento straordinario del Ministero della Cultura, gli archeologi hanno potuto condurre un intervento meticoloso per mettere in sicurezza la tomba e preservarne il delicato equilibrio: per queste ragioni, oltre che per studiare quanto riemerso, la notizia è stata comunicata due anni dopo l’effettivo ritrovamento.
“Dopo aver ripristinato l’accesso alla camera funeraria”, spiega Daniele F. Maras, il funzionario archeologo responsabile della scoperta, oggi direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, “e una volta installata una porta metallica, lo scavo archeologico ha dimostrato che tutto il materiale raccolto non apparteneva al corredo della tomba dipinta, che risale alla metà del V secolo a.C., ma era franato da quella superiore, più antica di oltre un secolo, della fine dell’epoca Orientalizzante”.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Una stratificazione complessa tra storia e natura
L’indagine archeologica ha rivelato una situazione unica e complessa. La tomba dipinta era stata scavata in profondità sotto una sepoltura preesistente. In epoca antica, ladri di tombe erano riusciti a penetrare nel sepolcro forando il lastrone di chiusura, saccheggiando il corredo originario. Successivamente, il crollo della camera superiore ha portato con sé detriti e oggetti, mescolandoli ai resti della tomba inferiore.
Di ciò che un tempo costituiva il corredo funerario della tomba dipinta restano solo pochi frammenti di ceramica attica a figure rosse, testimonianza del pregio degli oggetti deposti con il defunto. Tuttavia, il vero tesoro del ritrovamento è rappresentato dagli affreschi che decorano le pareti della camera funeraria.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Scene di danza e di officina: un’iconografia senza precedenti
Le pitture parietali, ancora in fase di restauro, offrono uno spaccato unico della cultura etrusca. La parete sinistra è animata da una danza frenetica: uomini e donne si muovono in cerchio attorno a un elegante flautista, in una scena che esprime la vitalità e il gusto per la celebrazione tipici del popolo etrusco.
Sulla parete di fondo, invece, emergono le figure di una donna – forse la defunta – e due giovani, ma parte della decorazione è andata irrimediabilmente perduta a causa di un crollo. Ancora più enigmatica è la parete destra, dove affiora un’officina metallurgica in attività. Gli studiosi ipotizzano che possa rappresentare il mitico laboratorio del dio Sethlans (equivalente etrusco di Efesto), oppure un’officina reale appartenente alla famiglia sepolta.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Restauro e tecnologie avanzate per riportare i colori alla luce
Gli interventi di restauro sono ancora in corso e richiedono estrema precisione. “Il livello straordinario delle pitture”, commenta con soddisfazione la soprintendente Margherita Eichberg, “è evidente già nel primo tassello di restauro, operato da Adele Cecchini e Mariangela Santella, che mette in luce la raffinatezza dei dettagli delle figure del flautista e di uno dei danzatori”. E aggiunge Daniele Maras: “Da decenni, questa è la prima nuova tomba dipinta con fregio figurato che viene scoperta a Tarquinia e si preannuncia molto intrigante per la sua storia, per il livello artistico e per alcune delle scene rappresentate, uniche nel loro genere”.
Il progetto di conservazione prevede la costruzione di una struttura protettiva intorno alla tomba, dotata di una porta a taglio termico per garantire condizioni climatiche ottimali. Inoltre, gli archeologi stanno applicando tecnologie avanzate di imaging multispettrale per recuperare i colori scomparsi dei pigmenti antichi. I primi test hanno già dato risultati sorprendenti, restituendo nuova luce a queste straordinarie testimonianze dell’arte funeraria etrusca.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Verso un futuro di studi e accessibilità pubblica
Mentre il restauro procede, gli archeologi continuano a studiare il materiale raccolto per comprendere meglio il contesto storico e sociale della tomba. L’obiettivo a lungo termine è quello di rendere il sito accessibile al pubblico, permettendo di ammirare da vicino questa straordinaria testimonianza dell’arte e della cultura etrusca.
Il ritrovamento della tomba n. 6438 non è solo una grande scoperta per l’archeologia italiana, ma un tassello fondamentale per riscoprire l’identità di un popolo che, attraverso la bellezza delle sue pitture funerarie, continua a raccontare la propria storia a distanza di millenni.
Ancona-L’Anfiteatro romano entra nella rete dei Musei Italiani.- Soprintendenza Archeologia delle Marche-
Ancona-L’Anfiteatro romano
L’Anfiteatro romano di Ancona entra ufficialmente a far parte della rete nazionale dei Musei Italiani, sotto la gestione della Direzione regionale Musei delle Marche, guidata da Luigi Gallo. L’anfiteatro sarà aperto al pubblico a partire dalla metà di aprile, per offrire ai visitatori un’ulteriore opportunità di scoprire il patrimonio storico della città. Grazie alla possibilità di combinare la visita al Museo Archeologico Nazionale delle Marche con l’Anfiteatro, il pubblico potrà così vivere un’esperienza immersiva nel fascino del mondo antico.
La Direzione Musei ha l’obiettivo di garantire un programma di aperture settimanali all’anfiteatro a partire da metà aprile, per rendere accessibile l’area archeologica più significativa del capoluogo marchigiano.
“Nel corso degli ultimi anni”, ha dichiarato Luigi Gallo, “la Direzione Regionale Musei Nazionali Marche ha posto particolare cura nella valorizzazione delle sedi espositive e delle collezioni in esse contenute, intreccio di vicende e opere che contribuiscono in modo rilevante alla storia del patrimonio e dell’identità regionale. L’Anfiteatro romano è un importante tassello di questo percorso e restituisce ai cittadini e ai visitatori di Ancona lo spaccato di un periodo cruciale della storia della città Dorica; un lavoro che proseguirà nel corso dei prossimi mesi con l’elaborazione di un ampio progetto di restauro e valorizzazione del monumento antico, rendendo accessibili tutte le sue particelle, per offrire una visione quanto più completa e stratificata della città resa ulteriormente possibile dalla prossimità con il Museo Archeologico nazionale, dove poco più di un anno fa è tornata visibile una rinnovata sezione museale dedicata all’età romana”.
Anfiteatro romano di Ancona-
L’anfiteatro romano è stato realizzato nel periodo augusteo (fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C.) sulla sella collinare che sovrasta il porto e la città antica di Ancona; la morfologia del pendio ha condizionato la forma dell’ellisse non perfettamente regolare con asse maggiore che misura circa 93 metri (corrispondenti alla misura romana di mezzo stadio), l’asse minore di 74 metri (cento gradus) e l’arena di 52 metri (un actus e mezzo). La cavea, sviluppata su oltre venti gradinate disposte su tre ordini, poggiava in parte sulla roccia marnosa – tagliata per accogliere la struttura – e in parte su volte cementizie costruite in elevato.
Ancona-L’Anfiteatro romano
Si può calcolare che l’anfiteatro potesse accogliere fino a 10.000 spettatori e ciò suggerisce che l’edificio fosse destinato sia all’utenza cittadina sia a quella del contado, se non anche delle cittàromane più vicine. Le tecniche costruttive dell’anfiteatro di Ancona sono molteplici, spesso in mescolanza tra loro, a
testimoniare sia alcuni “ripensamenti” in corso d’opera, sia fasi edilizie successive. Dopo l’abbandono in età tardo antica (IV d.C.), venne utilizzato come cava di materiali e, a partire dal XIII secolo, come base per nuove costruzioni che ne hanno nascosto la struttura. L’arco di ingresso ingloba, probabilmente, la porta monumentale di accesso all’acropoli di epoca greca che, anche per la sua valenza culturale, fu gelosamente conservata dall’architetto di età augustea.
Adiacente all’anfiteatro è stato scavato parte di un complesso termale – un vasto ambiente (frigidario) con vasca rivestita di lastre di marmoree, pavimento a mosaico con iscrizione che menziona i duo viri della colonia augustea, da poco costituita, e pareti affrescate, e altri ambienti con resti del sistema di riscaldamento termale, eretti sopra un precedente lastricato stradale. Il rifugio Birarelli – rifugio antiaereo del carcere di santa Palazia (o “tunnel della morte “), fu costruito nei primi anni Quaranta dai detenuti del carcere. Concepito a protezione degli stessi detenuti, oltre che del personale del carcere, il rifugio fu un realtà aperto anche alla cittadinanza, e in particolare agli abitanti del quartiere Guasco – San Pietro; per questo era diviso in due parti da un piccola porta che separava i detenuti dalla popolazione. Durante il bombardamento della novembre 1943 il rifugio fu colpito da quattro bombe sganciate da bombardieri dell’Aviazione dell’esercito degli Sati Uniti, almeno due delle quali ebbero effetti sulle circa mille persone che in quel momento si trovavano all’interno, inclusi molti bambini e le orfànelle dell’Istituto Birarelli: i morti furono più di settecento (mai nella storia della guerra aerea si sono contate tante vittime civili in seguito a un bombardamento su un rifugio anti aereo). Il tunnel è stato riaperto nel novembre del 2013, a settanta anni da quei fatti, e al suo interno contiene anche preziose testimonianze di età romana.
ORARI: Segreteria Soprintendenza Archeologia delle Marche tel.071 50298202 -dal lunedi al venerdi ore 10.00-12.00 Prenotazioni per Gruppi superiori alle 20 unità
Luigi Ganapini- Giorni di tarda estate.Guerra civile nell’Italia del duce
Descrizione del libro di Luigi Ganapini- BFS Edizioni-L’autore ritorna su uno dei suoi argomenti di ricerca privilegiati: la guerra civile che ha interessato l’Italia tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945. Le seguenti citazioni chiariscono quali sono gli obiettivi della ricerca: «Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata» (Z. Bauman). «Nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l’immaginazione dentro il suo cuore» (J. Hillman). L’immaginazione di cui si parla non è tuttavia sinonimo di fantasia o invenzione, ma si riferisce all’uso di una narrazione più “umana”, meno arida, capace di far intuire i moti dell’anima. Ampio è il ricorso a testimonianze – scritte o orali, coeve ai fatti o rilasciate a posteriori – capaci di evocare esperienze di vita e stati d’animo illuminanti la realtà di quel conflitto, spesso intrecciato alla vita ordinaria di un popolo. Lo studioso di storia, qual è l’autore, affianca a ciò il riscontro puntuale con le fonti, l’attenzione per ogni sfumatura rivelatrice, il rispetto per il senso di ciò che ha rintracciato.
Descrizione del libri di Mavie Da Ponte- Fine di un matrimonio comincia con la fine del matrimonio tra Berta e Libero. Berta ha una galleria d’arte e Libero ha un’altra. Berta non ascolta cosa le stia dicendo Libero, non capisce perché quest’altra donna di cui non ha mai sospettato nulla, di cui non conosce il nome, appaia e si mangi il suo futuro. Libero, invece, quella sera – in cui tutto finisce e tutto comincia – esce di casa, e scompare. È vero, diceva sempre di essere stanco del suo lavoro e della sua vita, ma che c’entra un’altra donna? Perché ne aveva bisogno? Berta non lo sa, e nel tentativo di capirlo parla d’altro: di sé, del proprio corpo, di cosa può farne adesso che è sola, ha quasi cinquant’anni e non è né giovane né vecchia, adesso che è esattamente com’era prima di sposarsi. Berta racconta la fine del suo matrimonio per iniziare a raccontare se stessa, perché i romanzi – certi romanzi, e di sicuro questo –, proprio come la vita, non sono solo “fatti”: tra una vicenda e un’altra, tra la fine di un matrimonio e l’inizio di qualcosa di diverso, ci sono pensieri, parole, opere e omissioni. Ci sono rimpianti – è tardi per avere un figlio? e per recuperare il rapporto con la propria madre? –, dubbi e paure. C’è il bisogno disperato di dimostrare a se stessi di essere vivi. Innamorarsi, in fondo, è più semplice che tenere in piedi un matrimonio o una relazione, ricominciare è meno faticoso che provare a riparare: questo racconta, a ogni riga, l’esordio di Mavie Da Ponte. O, forse, mostra che definirsi “innamorati” è troppo facile, e per questo non bisognerebbe mai dirlo. Così Berta, quando scegliere non sembra più una possibilità e le difficoltà dei suoi rapporti paiono insormontabili, capisce che frequentare il salone di bellezza di Sara – la chiama così per semplificare, ma quale sarà il suo nome cinese? – ha più a che fare con il pensiero e l’arte che con le unghie: anzi, le unghie e il corpo certe volte possono essere il pensiero e l’arte.
Un romanzo malinconico e buffo, pieno di tenerezza e di sorpresa, la storia di una donna che si piega e si spezza, e non fa niente: essere interi non è il punto, il punto è provare a essere felici.
Mavie Da Ponte
Mavie Da Ponte- è nata nel 1987, vicino al mare e in mezzo alle storie. Dopo studi linguistici e un dottorato in letteratura francese contemporanea, oggi si dedica alla scrittura. Fine di un matrimonio è il suo primo romanzo.
Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Lo sguardo di una donna nella Resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò
Un titolo che anticipa l’esito di una vicenda straziante ma al contempo necessaria per cogliere un inedito sguardo sulla Resistenza.
Articolo di Elisabetta BIEMMI
Alcuni nomi di donne partigiane, come Renata Viganò, risuonano nella nostra mente come conosciuti, tra cui Nilde Iotti, la prima donna Presidente della Camera dei deputati, e Lidia Menapace, scomparsa lo scorso anno, oltre alla bresciana Agape Nulli e alla cuneese Margherita Mo. Tuttavia per molto tempo la storiografia ha taciuto il ruolo che molte donne ebbero durante la Resistenza, che è stata considerata per lo più un momento di lotta e di rivendicazione prettamente maschile. L’umiltà di molte donne nel dopoguerra non ha cancellato il ruolo essenziale che spesso molte di loro ebbero all’interno delle bande partigiane, come staffette, vere e proprie combattenti ed anche con ruoli importanti in ambiti istituzionali.
Molti nomi maschili, inoltre, si riscontrano sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche rispetto al tema della Resistenza, tra cui Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Carlo Cassola, Cesare Pavese. Voci sicuramente autorevoli e stilisticamente incisive, che con le loro parole hanno saputo trasporre storie reali o fittizie, ma sicuramente importanti per rendere viva la memoria della Resistenza.
Renata Viganò-Romanzo L’Agnese va a morire
Un’altra voce che ha contribuito a quest’intento è sicuramente quella di Renata Viganò, che ha il merito di proporre al lettore la prospettiva di una donna, Agnese, negli anni drammatici tra il ’43 e il ’45. La stessa Viganò fu partigiana e partecipò come infermiera ma anche come staffetta e collaboratrice per la stampa clandestina. Già nel 1949 il romanzo L’Agnese va a morire fu pubblicato per Einaudi, ottenendo grande successo: oltre all’attribuzione del Premio Viareggio nello stesso anno, fu realizzata una trasposizione cinematografica, nel 1976, con la regia di Giuliano Montaldo.
Renata Viganò costruisce un personaggio sfaccettato e duplice, con una narrazione in prima persona che immerge maggiormente il lettore nell’animo di Agnese. È una donna pratica e pragmatica, che nonostante l’apparente durezza esteriore, dimostra inizialmente insicurezza nel rapportarsi con i compagni partigiani. Anche la sua partecipazione alla Resistenza non è immediata: è proprio dalle parole di Agnese che traspare un suo iniziale attutito interesse per le questioni politiche o di partito, che contrariamente riguardavano il marito. Da queste parole si riscontra la precedente distanza ma anche il momento di trasformazione, in particolare a seguito della cattura del marito da parte di un gruppo di soldati tedeschi:
«Vennero a trovarla tre uomini che abitavano a poca distanza dal paese […] – Voi certo sapete che Palita è del nostro partito. […] L’Agnese li guardava, uno dopo l’altro, e la sua grossa faccia esprimeva un timore attento, quasi uno sforzo di stare in ascolto per togliere da quelle parole l’eco della lontana voce di Palita. Rispose: – Mio marito ne parlava, ma erano cose di politica e di partito, cose da uomini. Io non ci badavo. So che ha sempre voluto male ai fascisti, e dopo anche ai tedeschi, e diceva che i comunisti ci avrebbero pensato loro per tutti, anche per i padroni che ci sfruttano, a fare piazza pulita -. Appena l’ombra di un sorriso passò nei suoi occhi: – Diceva proprio così: piazza pulita. I tre annuirono con forza, e il più giovane disse: – Per far questo, bisogna lavorare. Palita è un bravo compagno. Faceva molto per noi –. L’Agnese lo interruppe: – Se c’è qualcosa che posso fare io… – Arrossì, come se si fosse azzardata a dir troppo, e si strinse il fazzoletto sotto il mento: – Chissà se sarò buona, – aggiunse. Allora le spiegarono che cosa avrebbe dovuto fare, e lei diceva di sì, meravigliata che fossero cose tanto facili. Si vedeva che era contenta, che prendeva coraggio. Si attentò anche a suggerire qualche suo parere e i compagni l’approvarono […] – Se “loro” vi pescano, ci rimettete la pelle […] Palita deve ritrovarvi, quando ritornerà – […] – Io non mi farò prendere da “loro”, ma Palita non ritornerà –. […] Le lacrime le segnarono due righe sul viso largo ed immobile; se le asciugò con le punte del fazzoletto, indispettita di farsi vedere piangere»[1].
Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Attraverso lo sguardo di Agnese e la penna dell’autrice, con la sua capacità evocativa e con la scelta di pochi elementi descrittivi, è possibile avere una piccola sensazione dell’atmosfera cupa e straziante di quegli anni. Anche le Valli di Comacchio, in cui è ambientata la vicenda e che l’autrice conosce a fondo, partecipano a quest’atmosfera, diventando anch’esse l’ennesimo ostacolo con cui i partigiani devono confrontarsi:
«Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto. Clinto arrivò al canale, proseguì lungo l’argine. […] Guardava lontano, con i suoi occhi avvezzi ai colori della valle, e, proprio dai colori, a conoscerne i segreti. Presso la riva l’acqua era torbida, grigia, si muoveva col vento, ma al largo appariva lucida e ferma, con un riflesso quasi azzurro: senza nebbia, una trasparenza di vetro spesso, un pauroso senso di continuità, di saldezza, di peso. Clinto sapeva che cosa era, l’aveva visto tante volte: l’acqua di tutta la valle non era più acqua ma ghiaccio»[2].
La durezza della quotidianità è ovviamente determinata dalla presenza dei fascisti, vili e che «spadroneggiavano con prepotenza, cogliendo l’occasione di vendicarsi di vecchi rancori e di umiliazioni recenti»[3], e dei soldati tedeschi, la cui altrettanta meschinità porta la protagonista a compiere un gesto estremo, violento e sulla cui descrizione l’autrice non indugia ma piuttosto rivela come la sua repentinità fosse determinata quasi da uno strazio interiore:
«Era stata un’azione che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come il comando di un estraneo. Adesso se la trascinava dietro come un peso, un fagotto scuro, e aveva voglia di svolgerla, di rivederla, ma non ne era capace»[4].
Tra le ultime pagine del romanzo, emergono con forza le parole di Agnese, che con la sapienza e la consapevolezza dei partigiani, testimoni di quegli anni fondamentali, enuncia queste parole, che in alcuni punti appaiono innocenti e portatrici di quell’illusione che la fine di un conflitto porta sempre con sé: l’impossibilità che possano accadere nuovamente uguali atrocità
«Io sono vecchia e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerra. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bello anche per me»[5].
[1] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 23
[2] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 174.
[3] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 40
[4] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 55
[5] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 229.
Immagine di copertina: Al centro: Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014. Partendo dall’alto, da sinistra a destra: Lidia Menapace, Margherita Mo detta Meghi, Carla Capponi, Nilde Iotti, Irma Bandiera, Gina Galeotti Bianchi, Agape Nulli Quilleri.
Cavalleria rusticana è un’opera in un unico atto di Pietro Mascagni-
Cavalleria rusticana Andò in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, con Gemma Bellincioni e Roberto Stagno.Viene spesso rappresentata insieme a un’altra opera breve, Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo, con la quale è considerata una delle più rappresentative opere veriste.[1] Questo singolare abbinamento venne proposto fin dall’anno seguente il debutto di Pagliacci, al Metropolitan Opera House di New York il 22 dicembre 1893,[1] e venne legittimato dallo stesso Mascagni, che nel 1926, al Teatro alla Scala di Milano, diresse, nella stessa soirée, entrambe le opere. Cavalleria rusticana veniva talvolta eseguita insieme a Zanetto, dello stesso compositore.
Cavalleria rusticana
Cavalleria rusticana fu la prima opera composta da Mascagni ed è certamente la più nota fra le sedici composte dal compositore livornese (oltre a Cavalleria rusticana, solo Iris e L’amico Fritz sono rimaste nel repertorio stabile dei principali enti lirici). Il suo successo fu enorme già dalla prima volta in cui venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890 e tale è rimasto nel ventunesimo secolo.
Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un’opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.
Mascagni, che all’epoca risiedeva a Cerignola, dove dirigeva la locale banda musicale, venne a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni e chiese al suo amico Targioni-Tozzetti, poeta e professore di letteratura all’Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. Targioni-Tozzetti scelse Cavalleria rusticana, di Verga come base per l’opera. Egli e il suo collega Guido Menasci lavoravano per corrispondenza con Mascagni, mandandogli i versi su delle cartoline. L’opera fu completata l’ultimo giorno valido per l’iscrizione al concorso. In tutto, furono esaminate settantatré opere e il 5 marzo 1890 la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni, e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.[2]
Cavalleria rusticana
Trama
La vicenda si svolge a Vizzini, un paesino della Sicilia. All’alba di una domenica di Pasqua, nel paese s’ode una serenata dedicata a Lola, moglie di compare Alfio, un carrettiere. Pian piano il paese si sveglia e tutti si preparano per il giorno di festa; Lucia, madre di Turiddu e proprietaria di un’osteria, prepara il vino per i festeggiamenti che avranno luogo dopo la messa. Da lei si reca Santuzza, fidanzata di suo figlio; all’invito della donna a entrare in casa, la ragazza rifiuta, rivelandole un’amara verità: Turiddu la tradisce. Prima di partire per il servizio militare, il ragazzo si era promesso a Lola; tuttavia il periodo di leva si era protratto e la donna, stanca di aspettare, dopo un anno si era sposata con Alfio. Al suo ritorno, per ripicca, Turiddu si era allora fidanzato con Santuzza, ma successivamente aveva preso ad approfittare delle assenze di Alfio per riprendere una relazione clandestina con Lola.
Lucia non crede alle parole di Santuzza, ma il loro discorso è interrotto dalla processione iniziale della messa. Poco dopo arriva lo stesso Turiddu, che saluta la sua fidanzata; questa, ormai esasperata, gli rinfaccia i continui tradimenti, ma lui dapprima nega e in seguito cerca di troncare con rabbia il discorso. La lite è interrotta dall’arrivo della stessa Lola, che provoca Santuzza cantando una canzone dedicata al suo amato; i due si recano insieme in chiesa, mentre Santuzza, al colmo della disperazione, scaglia una maledizione su Turiddu.
Poi compare Alfio, che chiede a Santuzza dove sia sua moglie; lei, incautamente, gli dice che ella è andata a messa con Turiddu e gli svela tutta la tresca, pentendosene immediatamente dopo. Alfio giura vendetta e fugge via. Poco dopo termina la messa e tutti si recano all’osteria di Nunzia, dove intonano gioiosi brindisi alle gioie della vita. Torna Alfio, al quale Turiddu offre un bicchiere di vino; questi rifiuta sdegnosamente, e tutti comprendono che lui voglia sfidare il rivale a duello all’arma bianca. Le donne portano via Lola e Santuzza, mentre Turiddu, con la scusa di abbracciare Alfio, gli morde l’orecchio: con questo gesto accetta la sfida. Turiddu sa di essere nel torto e si lascerebbe uccidere per espiare la propria colpa, ma non può lasciare sola Santuzza, disonorata dal suo tradimento, dunque combatterà con tutte le sue forze. Alfio gli dà appuntamento a un orto poco distante per duellare.
Turiddu si prepara al duello: prima di recarvisi saluta Lucia, raccomandando di fare da madre a Santuzza se lui non dovesse tornare, poi corre via. Lucia comprende solo allora quanto fossero vere le parole di Santuzza; mentre le due donne si abbracciano, si ode un mormorio venire da lontano e poco dopo una popolana urla che Turiddu è stato ammazzato, gettando tutti nella disperazione.
Cavalleria rusticana
Sinossi di Cavalleria rusticana
Preludio
Siciliana O Lola ch’ai di latti la cammisa (Turiddu)
Atto unico
Coro d’introduzione Gli aranci olezzano (Coro)
Scena e sortita Dite, mamma Lucia… Il cavallo scalpita (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Scena e preghiera Beato voi, compar Alfio… Inneggiamo il Signor non è morto (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Romanza e scena Voi lo sapete, o mamma… Andate, o mamma, ad implorare Iddio (Santuzza, Lucia)
Duetto Tu qui, Santuzza (Santuzza, Turiddu)
Stornello Fior di giaggiolo (Lola)
Duetto Il Signore vi manda, compar Alfio (Santuzza, Alfio)
Intermezzo sinfonico
Scena e brindisi A casa, a casa, amici… Viva il vino spumeggiante (Turiddu, Lola, Coro)
Finale A voi tutti salute… Mamma, quel vino è generoso (Santuzza, Turiddu, Lucia, Alfio, Lola, Coro)
Brani celebri
Preludio, dove Turiddu canta La siciliana
O Lola, c’hai di latti la cammisa, canzone siciliana di Turiddu
L’aria introduttiva O Lola, c’hai di latti la cammisa, detta anche Siciliana, è uno dei due brani in lingua dialettale presenti all’interno del repertorio lirico italiano. L’altro brano è la celebre aria Io de’ sospiri dalla Tosca di Puccini, scritta in dialetto romanesco.
Cristina Mandosi-I paramenti liturgici dell’Abbazia di Farfa
Libreria Editrice Vaticana
Descrizione-Il Dipartimento dei Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana ha realizzato nel 2009 un progetto di inventariazione dei paramenti sacri dell’Abbazia di Farfa (sita nel comune di Fara Sabina, in provincia di Rieti), ponendosi l’obiettivo di valorizzare, nell’ambito di uno studio scientifico, un importante patrimonio storico, culturale e religioso.Il volume illustra dunque i paramenti inventariati, facendo cenno all’arte tessile e al linguaggio dei colori liturgici, e fornisce anche una descrizione della Chiesa abbaziale e della storia farfense.Il testo è inoltre corredato dalle foto della Chiesa e di alcuni dei paramenti conservati nell’Abbazia.Uno studio di sicuro interesse per gli appassionati di storia della Chiesa.
Alcuni dei paramenti liturgici sono nei colori liturgici del periodo dell’anno liturgico o della particolare celebrazione.
Il termine “paramento liturgico” è riservato ai particolari tipi di abbigliamento propri della liturgia, benché in essa si adoperino anche altri abiti particolari che usano il clero (diaconi, presbiteri, vescovi) o i religiosi fuori dalla liturgia per sottolineare il loro particolare stato.
Nei secoli VIII e IX incominciò a introdursi una varietà di colori al posto dell’unico colore bianco.
cotta: è di colore bianco e viene indossata sulla veste talare, come abito corale o per azioni liturgiche al di fuori della messa, eventualmente insieme alla stola;
rocchetto: è una sopravveste bianca, solitamente di lino, con maniche strette e lunga fino a mezza gamba; simile alla cotta, è proprio dei prelati;
dalmatica: è del colore liturgico del giorno; è indossata dal diacono come abito proprio e nei pontificali dal vescovo sotto la casula o pianeta ad indicare la pienezza del sacerdozio;
berretta o tricorno, di vari colori e fogge, a seconda del grado gerarchico o famiglia religiosa di appartenenza;
piviale: è del colore liturgico del giorno; è indossato per le celebrazioni diverse dalla Messa (nel rito ambrosiano anche dai lettori in alcune messe solenni);
Alcuni dei paramenti elencati di seguito sono stati aboliti o resi facoltativi o semplicemente caduti in disuso:
tunicella: del colore liturgico del giorno; indossata in passato anche dal suddiacono;
chiroteche: sono particolari guanti, indossati dai vescovi, dai cardinali e dal papa;
falda papale: camice con lunga falda indossato in tempi passati dal papa durante le celebrazioni;
fanone papale: di forma circolare, tessuto in duplice strato, di uso omerale sulla pianeta o casula, cucito di strisce color bianco, oro e rosso, usato dal papa nelle solenni celebrazioni;
manipolo: del colore liturgico del giorno (nella messa tridentina);
Esistono inoltre indumenti ecclesiastici, che vengono utilizzati anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, come l’abito talare e lo zucchetto, mentre altri tipi di abbigliamento ecclesiastico come la greca, il mantello, il tabarro, il ferraiolo ed il ferraiolone, (che sono soprabiti) o il cappello romano (detto anche saturno), che si indossano sopra la veste talare, non sono mai usati nella liturgia.
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