Rita Pacilio-Poesie e Recensione “Così l’anima invoca un soffio di poesia”
dalla Rivista L’Altrove-
Recensione di Rosa Pacillo-La cifra poetica di Rita Pacilio contiene una collezione privata e suggestiva dell’essenzialità sensibile, consolida la capacità di decantare la qualità introspettiva dei versi nella sorgente creativa di un linguaggio spontaneo, colto nell’immediatezza emblematica dell’indirizzo intuitivo dell’anima. Rita Pacilio orienta la direzione dell’intensità nel sublime itinerario intorno al riflesso umano, concentrando in accordo con il silenzioso contatto con la caducità, la disposizione interiore dei pensieri, la vocazione a fronteggiare la provvisorietà attraverso la percezione consolatoria della natura, nell’innata emozione dell’arrendevole sguardo verso una realtà che elargisce il dono di distinguere l’infinito, oltre il confine delimitato della ricerca umana. Amplia il registro scrupoloso e inesorabile dell’inclinazione generatrice delle cose, riconosce la predisposizione contrastante delle persone catalogando la motivazione del paradosso umano nell’evoluzione speculativa tra le tendenze incompatibili di indifferenza e desiderio, nella determinazione ponderata di dipendenza emotiva e libertà, nella volontà di razionalità e impulso affettivo, nell’interpretazione di spirito e materia.
Rita Pacillo
La poesia di Rita Pacilio è in divenire, nel flusso perenne della sostanza poetica, esposta alla vulnerabilità del tempo e alle sue suscettibili trasformazioni, ammette la scrittura elegiaca come confessione lirica nel valore universale dell’urgenza espressiva in grado di illuminare la vita e gli azzardi del mondo. Le poesie scelte racchiudono la consistenza di una coscienza sconfinata, rinnovata in una vertiginosa catarsi tra l’incessante avvertimento delle assenze e l’autenticità compassionevole della memoria, custodiscono la profonda attrazione sovrumana nella trascendenza delle intonazioni significanti, nel legame strutturale ed evocativo tra segno linguistico ed elemento concettuale, esplorano la regione segreta e contemplativa dell’inconoscibile. Sperimentano l’estensione della poesia come intesa corrispondente alla selezione stilistica e letteraria, annotano la responsabilità delle inquietudini morali lacerate, illustrano l’inaugurazione sensibile alla meraviglia della bellezza, il filamento impercettibile e inafferrabile della spiritualità. Il soffio della poesia muove il passaggio esistenziale di una voce impalpabile ed esitante che sussurra il tremolio appassionante delle parole e modella i versi nella corrente dell’invisibile, nell’alito di vento sfiorato dalla purificazione del vissuto.
Rita Pacilio pone l’accento sull’accuratezza del dolore e sulla rivelazione confortante delle confidenze, annota la gravità dell’abisso nei dettagli obliqui della contemporaneità, supplica la presenza fedele dei ricordi, codifica la cadenza visionaria del linguaggio, la sua inattesa possibilità di mutamento, consacra forma e contenuto nella funzione esegetica dell’immaginazione, adottando una comunicazione elegante e saggia, nell’identificazione di un’appartenenza, nel discernimento dal varco impenetrabile di ogni orizzonte.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Alcuni testi selezionati per voi dalla raccolta:
Io l’ho amata ogni mattina nell’eternità celeste questa terra travestita a festa e silenzio. L’ho amata di felicità sull’isola come fossi io stessa stesa sull’acqua nel canto libero di chi crede ancora che amarsi è tutto questo coprirsi di baci.
Benedirò con ogni benedizione le betulle di mio padre i cristallini riflessi sulla pioggia soleggiata la speranza in continua trasformazione tra il bianco latte del tronco e la libertà. Benedirò le voci che passano nelle nuvole per ricordare che non potrai tornare indietro nemmeno nei legni intagliati, saperti a piedi uniti e con le spalle appoggiate.
Così hai imparato la misura dello spazio hai aperto la cerniera del vento come fa l’abisso baciato la pupilla osando il perdono di te stesso davanti a tutte le finestre che danno sul retro lì hai sentito la magnificenza nello stesso momento in cui metti a confronto le lettere maiuscole e minuscole.
Hai mai pensato di svegliarti presto passeggiare l’occhio fresco e la guancia nella neve nuova frugare a lungo con il naso gli invisibili segreti voci profetiche sospese intorno ai lampioni, alla fontana padrona della piazza. La luce fa così quando scuote il fuoco di dicembre e si sparge sopra i tetti, sugli specchi impolverati, sul monte. Un rito silenzioso e astuto testimone di chi scrive da lontano e aspetta il giorno crescere lievito o anima.
L’assenza ha una forma quieta dischiusa, indecifrabile, bianchissima un tumulto di cellule nella gravità delle spalle fino a riaprire un rumore spezzettato
fermato nell’ansietà del chiarore tra due costole nello stesso istante piegate alla redenzione mansueta. Sembra possibile la partecipazione la prima appartenenza fuori da queste cose
in cui metto le mani, un bicchiere, un rosario, un libro, tante voci e mai la tua.
Mille volte i canti delle magnolie ritornano nell’imbrunire al mio respiro. Non temono l’intreccio dei venti né linee curve nel seno delle nuvole. Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.
L’AUTRICE –Rita Pacilio è poeta, scrittrice, collaboratore editoriale, Sociologo e Mediatore familiare, nata a Benevento nel 1963. Si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro e di vocal jazz.
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Sopra le coltri elefantine delle aiuole
un cactus gotico fiorisce in teschi regali
e nelle cavità di malinconici organi,
nei metallici grappoli cannosi,
marciscono antiche melodie.
Palle di cannone, semi di guerra
ha disperso il vento.
Sopra ogni cosa svetta la notte,
e nel bosso di cupole sempre verdi
lo sventato imperatore in punta di piedi se ne va
ai giardini magici delle sue stòrte,
e nella bonaccia delle rosee serate
tintinna un fogliame vetroso,
che le dita degli alchimisti toccano
come vento.
Accecano i telescopi per orrore del cosmo;
e i fantastici occhi degli stellonauti
se li è bevuti la morte.
e intanto la luna ha deposto uova nelle nubi,
stelle nuove sono sgusciate a frotte come uccelli
che migrano da terre nericce
canticchiando la canzone dei destini umani,
ma nessuno c’è che li possa intendere.
Ascoltate le fanfare del silenzio,
su tappeti logori come sindoni di secoli
ci incamminiamo verso l’invisibile futuro
e Sua maestà la polvere
si adagia lieve sul trono vuoto.
Da: Vestita di luce, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1986, p. 23
Vi sono città che sembrano fatte per la poesia. Una di queste certamente è Praga. Fu uno dei centri artistici principali dell’epoca barocca, poi della mitteleuropa (oltre a Franz Kafka vi era nato qui anche Rainer Maria Rilke nel 1875). Nel 1918 divenne capitale della Cecoslovacchia. Allora Jaroslav Seifert aveva diciassette anni (era nato a Žižkov, un sobborgo operaio di Praga). A quel tempo aiutava il padre al suo negozio di quadri, unica fonte di sostentamento della famiglia, che però chiuse i battenti nel corso della guerra per via delle dure condizioni di vita imposte dal conflitto bellico. Si diplomò come privatista nel 1919 e già allora simpatizzava per la Rivoluzione Russa e per la causa del comunismo. Quell’anno cominciò a pubblicare su riviste e nel ’21 pubblicò la sua prima raccolta di poesia, La città in lacrime. Nello stesso anno si iscrisse al Partito comunista e cominciò a lavorare per la stampa di partito (scriveva sul quotidiano «Rude pravo», collaborava con la casa editrice di partito e fece parte della redazione di alcune riviste letterarie). Conobbe in questi anni František Halas, il quale si era da qualche anno trasferito da Brno. Anche quest’ultimo simpatizzava con la causa del comunismo, frequentava gli stessi ambienti di Seifert e pubblicò sulle riviste in cui quest’ultimo lavorava. Tra i due poeti nacque un’amicizia fraterna. Seifert fu tra i fondatori del gruppo di poeti e artisti del movimento Devětsil, fondato a Praga nel 1920 e attorno a cui si erano raccolti critici e poeti di primo piano (in seno a questo gruppo nacque nel 1924 il poetismo, un movimento artistico e poetico di fondamentale importanza nel ‘900 ceco e non solo, che propugnò e attuò un impetuoso rinnovamento nella scena letteraria sotto il segno delle avanguardie letterarie europee). Figura di primo piano di questo raggruppamento fu il critico Karel Teige, col quale nel 1924 Seifert fece un memorabile viaggio in Italia proprio nel momento in cui il fascismo stava prendendo il potere. Nel 1925 fu in Unione Sovietica e l’anno successivo pubblicò la raccolta L’usignolo canta male, nella quale si avverte il passaggio da una prima fase influenzata dalla poesia proletaria a una fase più matura sotto il segno delle avanguardie europee (surrealismo, dadaismo). Notevole e profetica per quanto riguarda i futuri destini dell’Europa è la poesia dal tono espressionista Il vecchio campo di battaglia (“Il sole gira l’ombra alle cose,/ la terra è incinta di morti./ Già si spacca, andiamo e balliamo/ in tondo!// È notte, è mattino e fra le nebbie fa giorno,/ avvolti in brandelli tutti dormono./ È il mantello di Arlecchino, la terra,/ una scacchiera sfondata,/ è l’Europa”). Nel 1929 Seifert firma un manifesto contro l’affermazione della linea stalinista all’interno del Partito Comunista cecoslovacco e per questo ne venne espulso. Proprio in quell’anno pubblicò la raccolta di poesia Il piccione viaggiatore nella quale compare la citata poesia dedicata alla sua città natale. L’allontanamento dal partito fu una svolta importante nella sua biografia intellettuale e artistica. A partire da questo momento guardò l’Unione Sovietica e la causa del comunismo mondiale in modo sempre più scettico e critico. Anche dal punto di vista formale le sue poesie cambiarono: si passò da forme metriche irregolari o assenti a metri più regolari e tradizionali mentre dal punto di vista stilistico il poeta gradualmente passò a un tono più intimista e lirico. Il soggetto della sua poesia a cui rimase fedele per tutta la sua vita, fu proprio Praga, città nella quale i suoi ricordi d’infanzia si intrecciano con i riferimenti al mito di una città nella quale l’arte e la storia avevano lasciato tracce indelebili. Con lo smembramento della Cecoslovacchia del ’39 e l’occupazione di Praga da parte delle truppe naziste prevalsero nella sua poesia gli accenti di indignazione civile. Nel 1948 si espresse chiaramente contro la “sovietizzazione” del suo paese (per questo fino al 1956 fu costretto al silenzio). Nel 1968, a seguito della sua posizione fortemente critica nei confronti dell’invasione sovietica del suo paese, fu di nuovo ridotto al silenzio (anche se le sue poesie circolavano sotto forma di samizdat). Il premio Nobel assegnato nel 1984 (due anni prima della sua morte) non giovò molto alla sua fama a livello mondiale. Forse proprio perché per tutta la sua vita rimase così fedele alla sua amata città.
Il libro di Ludovico Quaroni, l’architetto che fotografava Roma
By Angela Madesani
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Ludovico Quaroni
È stato uno dei protagonisti della ricostruzione postbellica, uno dei più noti docenti della facoltà di Architettura della Capitale, Ludovico Quaroni (Roma, 1911-1987), al quale Humboldt Books dedica un volumetto delizioso, Roma 1968. Il libro contiene le immagini che Ludovico e il nipote Livio hanno dedicato a Roma, ma, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non ci troviamo di fronte a un libro di immagini di architettura, piuttosto a una serie di fotografie di documentazione della città, dove accanto agli edifici ci sono le persone, anch’esse protagoniste delle immagini. Quella del grande architetto è una lettura libera, che ha un precedente nel bel volume pubblicato da Laterza nel 1969, Immagine di Roma. LE FOTOGRAFIE ROMANE DI LUDOVICO QUARONI
Ludovico Quaroni
Il libro è accompagnato da un prezioso testo di un allievo di Quaroni, Francesco Pecoraro, introdotto da una frase dell’architetto che ci fa comprendere il senso di tale lavoro: “Vogliamo che si sviluppi una critica delle città, accanto alla critica letteraria, alla critica delle arti plastiche, del cinematografo e della musica”. Le sue non sono delle semplici immagini, ma un autentico strumento di lavoro: “Per lui fotografare Roma” ‒ spiega Pecoraro ‒ “significava coglierne qui e là, con un solo scatto, la complessità e la manomissione, la contraddizione e la sovrapposizione degli elementi che la compongono (che la componevano negli anni Sessanta), il lascito, le ferite indelebili, le effrazioni, le profanazioni, le distruzioni, su cui, se davvero ce ne importasse qualcosa, piangeremmo”. In quelle foto sono poste accanto tante città diverse, quella dei poveri, della piccola borghesia, degli accattoni. Una città complessa, che potrebbe somigliare, per certi punti di vista, a quella che Pasolini ci ha raccontato in Mamma Roma, uno dei suoi capolavori cinematografici.
Ludovico Quaroni
ROMA VISTA DA QUARONI
Ci troviamo proprio, secondo il pensiero di Quaroni, di fronte a un continuum, di case, cose, persone, alberi, fiume. Non c’è soluzione di continuità. Uno spazio particolare hanno le automobili spesso presenti, simbolo di conquista negli Anni del boom. La sua è un’indagine di matrice sociale di notevole importanza, che ci aiuta a comprendere la situazione romana di quel periodo, assai diversa da quella milanese. I casermoni popolari sono accanto ai campi e alle baraccopoli nella prima periferia della città, in un insieme in cui è la tristezza a dominare.
Chiude il libro un bel testo di Ludovico Quaroni accompagnato dai provini annotati a mano dall’architetto, che ci fanno comprendere la sua metodologia lavorativa.
‒ Angela Madesani
Ludovico Quaroni – Roma 1968
Humboldt Books, Milano 2021
Pagg. 112, € 20
ISBN 9788899385873 www.humboldtbooks.com
Ludovico Quaroni-Nacque a Roma il 28 marzo 1911, figlio di Giuseppe, ingegnere, e di Sofia Pia Seitz. I Seitz erano un’antica famiglia di pittori e incisori tedeschi che avevano aderito al movimento dei nazareni. Sofia Pia era figlia di Ludovico (Roma, 11 giugno 1844-Albano Laziale, 11 settembre 1908), autore della cappella dei Tedeschi nella basilica di Loreto e dell’affresco della chiesa di S. Maria dell’Anima a Roma; fu anche direttore della Pinacoteca Vaticana. A sua volta Ludovico era figlio di Alexander Maximilian, un allievo di Peter von Cornelius, al seguito del quale, nella prima metà dell’Ottocento, si era trasferito in Italia con tutta la famiglia.
Quaroni ebbe due fratelli maggiori, Pietro (1898-1971), diplomatico e politico, presidente della RAI tra il 1964 e il 1969, e Giorgio (1907-1960), pittore e scultore, esponente della corrente artistica del muralismo nella sua declinazione italiana, che vide come massimo esponente Mario Sironi. Giorgio e Ludovico ebbero un ruolo importante nelle opere romane per l’E42, il quartiere pianificato da Marcello Piacentini per l’Esposizione universale del 1942, che non ebbe luogo a causa della guerra; i due fratelli collaborarono anche alla realizzazione della chiesa per la messa al campo nel foro Mussolini a Roma (1937), all’allestimento del padiglione delle Conquiste alla Mostra d’Oltremare di Napoli (1940) e al progetto della chiesa del Prenestino di Roma (1947).
Dopo aver frequentato il liceo classico Ennio Quirino Visconti ottenendo il diploma nel 1928, Quaroni intraprese gli studi di architettura, come dichiarò in alcune interviste, per seguire le orme del padre. L’altro suo grande interesse fu la musica, che aveva cominciato a studiare fin da giovane frequentando i corsi di violoncello presso il conservatorio di Roma e giungendo alle soglie del diploma.
La musica fu una passione che lo accompagnò per tutta la vita, diventando il centro di lunghe dissertazioni con alcuni suoi collaboratori, convinti che per parlare di architettura si dovesse anche parlare d’altro, mantenendo alta la tensione intellettuale, tra analisi sistematica, confronti, metafore.
Nel 1934 si laureò con lode a Roma, con un progetto per il ministero degli Esteri. La laurea concludeva un percorso di studi di eccellenza in tutte le materie, coronato dall’assegnazione della medaglia d’oro come miglior laureato, che gli valse una borsa di studio della Fondazione Mario Palanti intitolata a Manfredo Manfredi. In seguito, ottenuta l’abilitazione all’esercizio della professione, aprì uno studio con Francesco Fariello e Saverio Muratori, con i quali partecipò ai concorsi di architettura della metà degli anni Trenta, che furono, a Roma in particolare, campo di sperimentazione per un’architettura nuova. È del 1935 il progetto di concorso per il nuovo auditorium di Roma, per il quale successivamente, nel 1937, i tre elaborarono una versione ideale da inserire nel parco di villa Borghese; del 1936 è quello per il piano regolatore di Aprilia e quello per la pretura unificata di Roma. Nel 1937 i tre risultarono vincitori ex aequo con Luigi Moretti del concorso per la piazza Imperiale dell’E42, uno dei complessi del quartiere romano destinato all’esposizione universale, la cui costruzione cominciò prima della guerra per concludersi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del 1960, in occasione delle Olimpiadi romane.
La grande piazza è perimetrata da quattro edifici che ospitano i Musei delle scienze, etnografico, dell’arte antica e dell’arte moderna. Il gruppo di Quaroni è autore degli ultimi due.
In questo primo periodo di attività, molto intenso sotto il profilo culturale, Quaroni proseguì il suo percorso di formazione frequentando da neolaureato la scuola di perfezionamento in urbanistica di Roma e nel 1936 il corso di scenografia presso il Centro sperimentale di cinematografia. Strinse legami con l’ambiente intellettuale romano, entrando in contatto con figure di spicco quali Massimo Bontempelli, Giuseppe Capogrossi, Cipriano Efisio Oppo. Gli anni della formazione si svolsero in un clima culturale contraddittorio. A Roma, la tensione verso il rinnovamento dell’architettura affondava le radici nella retorica nazionalista; timidi tentativi di aprirsi al dibattito internazionale erano soffocati all’interno dello scontro tra modernisti e conservatori, tra MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) e RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani), alla ricerca di un bilanciamento fra tradizione, modernità e stile.
In questo contesto nel 1936 ebbe inizio anche l’impegno di Quaroni nella didattica universitaria: fu assistente di Enrico Del Debbio nel corso di disegno architettonico e rilievo dei monumenti, e di Piacentini nel corso di urbanistica. In seguito, dal 1939 fu assistente di Plinio Marconi e nel 1940 ottenne la libera docenza in composizione architettonica.
Sia l’impegno accademico sia quello professionale si interruppero quando, il 31 maggio 1940, fu chiamato alle armi: sbarcato a Tripoli, in Libia, l’8 giugno di quell’anno, fu impegnato in azioni di guerra a Bengasi dall’11 giugno al 6 febbraio 1941; disperso nella battaglia di Agedabia in Cirenaica, fu fatto prigioniero dagli inglesi il 7 febbraio 1941 e portato prima in Egitto e da lì in India, ove scontò una lunga prigionia durante la quale trovò conforto alla privazione della libertà impegnandosi nell’organizzazione di concorsi di architettura, mostre, corsi di urbanistica per gli architetti, gli ingegneri e i geometri che con lui condividevano la reclusione.
Per riempire le lunghe giornate di prigionia disegnava progetti ideali: al centro, il tema della residenza unifamiliare, ma anche dell’abitare collettivo, frutto della riflessione sull’esperienza personale del «vivere insieme», che sarebbe diventata materia di lavoro nell’immediato dopoguerra. E durante questo periodo elaborò anche alcuni progetti per il maragià dello Stato di Dewas.
Dopo quasi cinque lunghi anni di prigionia in India, ritornò in patria sbarcando a Taranto il 2 gennaio 1946. Nel 1949 sposò Marcella Coromaldi, dalla quale ebbe una figlia cui fu dato il nome della madre di Ludovico, Sofia.
Il ritorno all’attività fu segnato dal coinvolgimento nell’opera di rinnovamento dell’architettura italiana a più livelli: nella didattica, all’interno dell’APAO (Associazione Per l’Architettura Organica) di Bruno Zevi e dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), del quale fu vicepresidente dal 1947 al 1951 e presidente del consiglio direttivo per il Lazio dal 1949 al 1951, ma soprattutto nell’attività progettuale. Con Mario Ridolfi inaugurò la stagione neorealista dell’architettura italiana, partecipando ai due progetti-manifesto della ricostruzione del Paese: il concorso per il fabbricato viaggiatori della stazione Termini (1947) e il progetto per il quartiere Tiburtino, entrambi a Roma.
Il primo progetto, sviluppato con Ridolfi, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Arrigo Carè, Giulio Ceradini, è considerato il vincitore morale del concorso, anche se l’edificio realizzato è il frutto della collaborazione dei due primi classificati ex aequo, il raggruppamento composto da Leo Calini e Eugenio Montuori e quello formato da Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati, Achille Pintonello, Annibale Vitellozzi. Per il secondo, il Tiburtino, Ridolfi e Quaroni furono capigruppo di uno dei principali interventi di ricostruzione nati con la legge n. 43 del 28 febbraio 1949, ideata da Amintore Fanfani per realizzare alloggi a basso costo e favorire l’impiego di massa di lavoratori non specializzati nel settore edilizio.
A Roma, insieme al Tuscolano e a Valco San Paolo, l’esperienza del Tiburtino (1950-56) fu terreno di sperimentazione delle ricerche sull’abitazione per giovani architetti che si affacciavano alla professione, guidati dai maestri della generazione precedente, tra i quali Quaroni, delusi dall’esperienza dell’architettura come arte di Stato, che aveva loro fornito occasioni progettuali di grande respiro, ma li aveva anche condotti a discutibili compromessi tra metafisiche astrazioni e monumentali neoclassicismi.
I quartieri INA-Casa, in tutta Italia, furono una sorta di laboratorio per le ricerche sull’abitazione. In particolare, il Tiburtino accoglie gran parte delle ricerche svolte da Ridolfi presso il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche) ed esemplifica la proposta culturale veicolata dalla pubblicazione del Manuale dell’architetto (1945). Il quartiere è composto di diversi tipi di edifici (a torre, a schiera, in linea), collocati in modo da ricreare la contiguità spaziale propria delle città, secondo un nuovo modello – quello che documentò la posizione presa da Quaroni sul disegno della città – poi sviluppato nel decennio successivo e che ritenne l’impegno sociale la via del riscatto del Paese dalle ferite della guerra. Una sorta di responsabilità morale del progettista che condusse il Quaroni degli anni Cinquanta a produrre un’architettura anonima, quella che fu appunto collocata dalla critica all’interno del movimento neorealista, ma che Quaroni stesso, nel 1957, immediatamente dopo la conclusione dell’esperienza della ricostruzione, disconobbe e definì «Paese dei barocchi»: architettura degli stati d’animo, prodotto di un’urgenza da una parte, e dall’altra di una revisione e di una rinuncia al dibattito sulla modernità.
«Il paese dei barocchi non è il risultato di una cultura solidificata, di una tradizione viva: è il risultato di uno stato d’animo. Lo stato d’animo che ci sosteneva in quei giorni, nei quali, per ognuno di noi, qui a Roma, interessava solo fare qualche cosa che fosse distaccato da certi errori di un certo passato al quale rimproveravamo la sterilità e il fallimento sul piano umano» (Quaroni, in Casabella Continuità, 1957, n. 215, p. 24).
Fu con la costruzione del villaggio operaio della Martella (Matera, 1951) che Quaroni mise definitivamente al centro del progetto la questione sociale. La vicenda ebbe inizio nell’ambito degli studi dell’UNRRA-Casas (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), sostegno economico che l’amministrazione delle Nazioni Unite elargì per favorire la ricostruzione italiana. Nel 1949 Quaroni, con Piero Maria Lugli, Michele Valori, Federico Gorio e Luigi Agati, fece parte della commissione incaricata della realizzazione di alloggi per la comunità contadina che viveva nei Sassi. Questa esperienza fu l’occasione dell’avvio di un sodalizio duraturo con Adriano Olivetti, che all’epoca era commissario dell’UNRRA-Casas e presidente dell’INU. Quaroni avrebbe partecipato al movimento olivettiano e alla rivista Comunità e sarebbe stato redattore del piano regolatore di Ivrea (1952).
Se nell’esperienza del Tiburtino erano le «case con il tetto» a definire la figura urbana, laconica, del dopoguerra come antitesi alle architetture con la copertura piana, icone del moderno, alla Martella si rileva la pressoché totale assenza di ricerca figurativa a favore di una perentoria opzione per il valore del vicinato. Unica concessione all’immagine neorealista, la chiesa del villaggio, posta in cima all’altura, con la parete di fondo in vetro perché le celebrazioni fossero aperte a tutti.
Appartiene al complesso di opere che Quaroni realizzò nel dopoguerra anche la chiesa di Francavilla al Mare (1949-58), un’architettura semplice, frutto della collaborazione con Pietro Cascella, costruita sulle ceneri della precedente chiesa settecentesca, distrutta durante il secondo conflitto mondiale. Il progetto vincitore del concorso, indetto nel 1948, affrontava il tema dell’edificio sacro come occasione per riflettere sul «moderno misticismo» (Tafuri, 1964, p. 84), vicina allo spirito della gente nella scelta dell’impianto, variazione ottagonale allungata dell’aula basilicale, anticipatrice dello stile post-antico che Quaroni espresse nelle sue ultime opere per il riuso di alcuni elementi del lessico storico.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati da progetti sulla grande scala. Quaroni fu interprete della rinascita del town design, anticipando già nel 1954, con la redazione del piano di Ivrea e con gli studi per quello di Roma, il suo interesse per il progetto urbano, sviluppato poi nel piano di Ravenna (1956-57), di Cortona (1957) e di Bari (1965), messo in pratica nelle proposte per il centro direzionale di Torino e per l’asse attrezzato di Roma. Fu però con il progetto di concorso per il quartiere CEP (Coordinamento dell’Edilizia Popolare) alle Barene di San Giuliano (1958), un’area compresa tra Marghera, Mestre e Venezia, che Quaroni, coordinatore di un gruppo composto da Massimo Boschetti, Adolfo De Carlo, Gabriella Esposito, Luciano Giovannini, Aldo Livadotti, Luciana Menozzi, Alberto Polizzi e Ted Musho, aprì nuovi orizzonti operativi per il progetto a scala urbana.
Recuperava la dimensione utopistica e visionaria nel disegno di grandi piazze circolari che raggiungevano ampiezze di 400 m di diametro, delimitate da edifici, adibiti a centro direzionale, alti fino a 16 piani.
Importante si rivelò l’impegno di Quaroni nella pubblicistica negli anni Sessanta e Settanta: dal 1972 fu curatore della collana Planning & design, per i tipi di Mazzotta editore, e dal 1977 fece parte del comitato di redazione della rivista Parametro.
Con La Torre di Babele (Padova 1967), su suggerimento di Aldo Rossi, raccolse in un unico libro gli scritti sulla città, affrontando il problema del disegno per la città moderna, cioè della necessità e della possibilità di ridare figura alla metropoli attraverso nuovi strumenti progettuali.
Dieci anni dopo Quaroni diede alle stampe Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura (1977).
Questa volta il testo era rivolto agli studenti di architettura, scritto come dispensa per il corso di progettazione architettonica nell’anno accademico 1974-75: ancora oggi esso è ritenuto testo fondamentale per la didattica della progettazione, adottato in tutta Italia nei corsi universitari.
In questi anni Quaroni sposò in seconde nozze Gabriella Esposito, dalla quale ebbe un figlio, Massimiliano Emilio.
Se gli anni Sessanta furono caratterizzati da studi alla grande scala, quelli dell’ultimo periodo di attività ebbero come tema la grande forma. Mentre nasceva il postmoderno, Quaroni proponeva una sorta di architettura post-antica. Gli elementi architettonici (colonna, basamento, attacco a terra e attacco al cielo) divennero elementi archetipici, geometrici o iconici.
Ne sono esempi la sfera della chiesa di Gibellina (concorso del 1970, con Luisa Anversa, Giangi D’Ardia, Livio Quaroni) e il colonnato del progetto per l’ampliamento del teatro dell’Opera a Roma (1983), che doveva essere formato da ottantadue colonne di granito rosa scuro legate da una trabeazione di derivazione industriale.
Quaroni è autore di più di 340 tra progetti e realizzazioni e fu per tutta la vita un grande didatta.
A Roma tra il 1949 e il 1951 fu incaricato di storia della critica urbanistica, e di urbanistica a Roma e Napoli tra il 1951 e il 1955. Nel 1955 vinse il concorso per la cattedra di urbanistica a Firenze, dove insegnò, svolgendo anche il compito di direttore dell’istituto di urbanistica, fino al 1964, quando fu chiamato a Roma a coprire il ruolo di ordinario nella cattedra di composizione architettonica rimasta vacante per la morte improvvisa di Adalberto Libera. A Roma insegnò dal 1965 al 1981, anno del pensionamento, ricoprendo anche il ruolo di direttore dell’istituto di progettazione.
Fu visiting professor presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology), responsabile per le relazioni culturali tra le Università di Roma e di Teheran, vicepresidente dell’Accademia di S. Luca dal 1981 al 1982, presidente nel biennio successivo e membro del Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Risultò vincitore di numerosi premi, tra i quali il Diplome de Grand Prix all’Exposition internationale de l’urbanisme et de l’habitation nel 1947, e ricevette più volte la targa IN/Arch (Istituto Nazionale di Architettura), oltre a riconoscimenti in sei edizioni della Triennale di Milano (1936, 1940, 1947, 1951, 1954 e 1960).
Agli studenti dedicò un documento in 42 punti, esposto nella sua ultima lezione presso la facoltà di architettura e pubblicato postumo sulla rivista Domus (dicembre 1987, n. 689), dove, come in un testamento, tocca tutti i temi relativi al progettare, alla conoscenza, alla città e alla storia.
Crespi, Profili di architetti: Q., in Comunità, novembre 1957, n. 54, pp. 52-59; M. Tafuri, L. Q. e lo sviluppo dell’architettura moderna in Italia, Milano 1964; A. Quistelli, Progetti dello studio Quaroni. Dieci anni di esperienze didattiche e professionali, in Controspazio, luglio-agosto 1973, n. 2, pp. 8-42; L. Q. Architetture per cinquant’anni, a cura di A. Terranova, Roma-Reggio Calabria 1985; L. Q.: dieci quesiti e cinque progetti, a cura di A. Orlandi, Roma 1986; L. Q., in Lezioni di progettazione. 10 maestri dell’architettura italiana, a cura di M. Montuori, Roma 1988, pp. 182-217; L. Barbera, Cinque pezzi facili dedicati a L. Q., Roma 1989; P. Ciorra, L. Q. 1911-1987. Opere e progetti, Milano 1989; C. Conforti, L. Q., in Dizionario dell’architettura del XX secolo, a cura di C. Olmo – M.L. Scalvini, V, Torino 2001, pp. 177-180; Il moderno attraverso Roma: guida alle opere romane di L. Q., a cura di A. Greco – G. Remiddi, Roma 2003; ModernoContemporaneo. Scritti in onore di L. Q., a cura di F. Toppetti – O. Carpenzano, Roma 2006; P. Bonifazio, Fondo L. Q., in Bollettino AAA/Italia, 2010, n. 9, p. 42; Intervista a L. Q., Ivrea 2011; A. Riondino, L. Q. e la didattica dell’architettura nella Facoltà di Roma tra gli anni ’60 e ’70, Roma 2012; L’architettura delle città – The Journal of the scientific society L. Q., 2013, nn. 1-2, monografico: L.Q. l’Architetto/L.Q. the Architect, a cura di A. Del Monaco et. al.
Riccardo Zandonai Musicista (Sacco, Trento, 1883 – Pesaro 1944). Riccardo Zandonai studiò a Rovereto con V. Gianferrari e a Pesaro con P. Mascagni. Esordì (1902) con un poema sinfonico: Il ritorno di Odisseo per soli, coro e orchestra. Scriveva intanto romanze e altri pezzi il cui pregio gli procurò da Ricordi la commissione d’una opera: Il grillo del focolare (1908). Musicista di facile vena, sensibile all’influsso di R. Strauss, di G. Puccini, ecc., scrisse numerose opere e composizioni d’altro genere, tra le quali emergono: Conchita (1911), Melenis (1912), Francesca da Rimini (1914), l’opera più celebre di Z., La via della finestra (1915), Giulietta e Romeo (1921), I cavalieri di Ekebù (1925), Giuliano (1928), Una partita (1933), La farsa amorosa (1933), oltre i lavori sinfonici: Primavera in Val di Sole, e Patria lontana (1914-18), Ballata eroica (1929), Quadri di Segantini (1930), Concerto romantico per violino (1919), Serenata medioevale per violoncello e strumenti (1909), Concerto andaluso per violoncello (1934), e varie liriche per canto e pianoforte e canto e orchestra.
Biblioteca DEA SABINA-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Musica di Riccardo Zandonai con autografo – Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914- Autografo di Riccardo ZANDONAIGabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-Gabriele D’Annunzio- “FRANCESCA da RIMINI”- Edizione 1914-
Marta López Vilar- Poesie inedite-Rivista Atelier-
traduzione dallo spagnolo di Marcela Filippi Plaza
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Porto de Mágoas
Elegí los puertos que más se parecieran a tu voz.
Elegí los barcos, las olas, los peces
que tuvieron que morir entre cenizas…
Elegí los puentes desde donde mirar la noche.
Pero nada importa.
Elegí la vida y tus palabras nunca regresaron.
Marta López Vilar
Porto de Mágoas
Ho scelto i porti che più somigliassero alla tua voce.
Ho scelto le navi, le onde, i pesci
che hanno dovuto morire nelle ceneri…
Ho scelto i ponti da dove guardare la notte.
Ma nulla importa.
Ho scelto la vita e le tue parole non sono mai ritornate.
Marta López Vilar
Después de un sueño
De muy lejos vengo, como el viento claro
que abandoné en tu voz
para protegerte de la muerte.
No me despedí de tí.
Por eso ven a mí
y sálvame como tantas otras noches
de mis sueños.
Marta López Vilar
Dopo un sogno
Da molto lontano vengo, come il vento chiaro
che ho lasciato cadere nella tua voce
per proteggerti dalla morte.
Non ti salutai.
Perciò vieni a me
e salvami come tante altre notti
dai miei sogni.
Marta López Vilar
Melancolía de una statua
Cansada, reclinas la cabeza buscando tu memoria
entre esa pesadumbre.
Cierras los ojos en busca de ese mar
que a otros cuerpos se llevó de tu lado,
vuelto en cenizas y vejez, siendo calor
prematuro de la muerte.
Reclinas la cabeza y no sientes la mano
frágil que sostiene tu cansancio,
esa oscuridad que albergan tus ojos
en pleno amanecer.
Nada tienes salvo la soledad esculpida
en todo lo guardado, el oleaje minucioso
del dolor horadando el tiempo
hasta borrarte.
Cansada, te preguntas dónde se hará
el cántico hermoso de la noche,
en qué lugar recogerás tu luz y tu presencia,
y hacia qué lugar se marcharon las palabras
de todo lo perdido.
Marta López Vilar
Malinconia di una statua
Stanca, inclini la testa cercando la tua memoria
in quella pena.
Chiudi gli occhi alla ricerca di quel mare
che portò via altri corpi che ti erano accanto,
trasformato in cenere e vecchiaia, essendo calore
prematuro della morte.
Inclini la testa e non senti la mano
fragile che sostiene la tua stanchezza,
quell’oscurità che i tuoi occhi ospitano
in piena alba.
Non hai nulla tranne la solitudine scolpita
in ciò che è custodito, il moto ondoso minuzioso
del dolore penetrando il tempo
fino a cancellarti.
Stanca, ti chiedi dove si farà
il bellissimo cantico della notte,
in quale luogo raccoglierai la tua luce e la tua presenza,
e in quale luogo sono andate le parole
di quel che è perduto.
Marta López Vilar
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Marcela Filippi Plaza (1968) è una traduttrice cilena che vive in Italia. E’ impegnata da molti anni nello studio e nella traduzione della poesia contemporanea in lingua spagnola, portoghese e italiana. Ideatrice del progetto delle antologie bilingue Buena Letra 1 (2012) e Buena Letra 2 (2014) di scrittori ibero-americani tradotti per la prima volta in italiano, e della collana bilingue Fascinoso Verbum che, nei primi tre volumi, comprende il poeta e critico letterario italiano Domenico Cara, la poetessa cilena Jeannette N. Catalàn e il poeta spagnolo Miguel Veyrat. Per Atelier ha tradotto Edmundo Herrera.
La poesía de Marta López Vilar: Convivencia con la herida
Marta López Vilar (Madrid, 1978) es ganadora del Premio de Poesía Blas de Otero, con De sombras y sombreros olvidados (Amargord, 2007), y del Premio Arte Joven de la Comunidad de Madrid, con La palabra esperada (Hiperión, 2007). Continúa su andadura literaria al ritmo con el que regresan los ecos y recuerdos de personas y lugares que demandan una traducción en palabras precisas. La poeta y profesora vuelve con su nuevo poemario, En las aguas de octubre (Bartleby, 2016), y la antología (Tras)lúcidas, poesía escrita por mujeres (Bartleby, 2016). Como en el resto de sus anteriores trabajos, en estos se concentran, una vez más, el poso de una erudición y una sensibilidad tan penetrantes como prudentes.
Entiendo que, para los autores, no debe ser fácil —por no decir, no debe ser divertido— someterse a estos procesos inquisitoriales del periodismo y la crítica literaria que son las entrevistas. Sobre todo en los años en que, como es tu caso, son varias las obras que han salido a la luz. Me planteo: «seguro que piensan… otra vez las mismas preguntas, las mismas respuestas…» ¿Puede, entonces, el escritor sacar algún provecho de estos mecanismos mediáticos?
Personalmente, creo que sí que se puede sacar provecho. Es más, creo que siempre ayuda a comprender lo que se escribe. La mirada ajena —en este caso la del entrevistador— siempre saca a la luz cuestiones que, en el extraño e inexplicable proceso de escritura, nunca nos habíamos planteado. Esa misma mirada ajena genera preguntas. Responderlas hace que lo escrito tome cuerpo, lógica interna, cierto orden. Por todo esto, no pienso en absoluto que siempre sean las mismas preguntas ni respuestas. De hecho, esta pregunta es la primera vez que me la hacen, y me ha hecho comprender cómo el otro puede crear una nueva existencia ajena al escritor, convirtiendo la escritura —su creación— en un objeto nuevo para cada lectura, prismático.
¿La propia obra se puede enriquecer?
Sí que puede enriquecerse. Creo que siempre hemos cometido el error de pensar que una obra se acaba cuando el poeta decide concluir un libro. Bajo mi punto de vista, es un error porque la obra siempre está en continuo movimiento: nunca acaba, y no concluye tampoco cuando el poeta decide poner fin a un libro. Tras esa conclusión —ficticia— queda la otra mirada que da sentido, aquella que pertenece al lector que siente todo aquello amoldado a su mundo, a sus razones y necesidades. No hay libro sin escritor, como tampoco lo hay sin aquel que lo lea. Con ello no quiero decir que sea indispensable la publicación del libro. El propio escritor, pasado un tiempo, ya se ha convertido en el otro. Leer lo escrito tras las huellas del tiempo hace que el texto tenga otro lugar, otro sentido y necesidad.
Tu poesía brinda por la poesía, la respeta, se preocupa por ella, por la intimidad humana y el recuerdo. Además, no eres dada a la proliferación de textos ni a la publicidad, sino a la precisión y la brevedad. ¿Cómo lidiar, entonces, con los mecanismos a los que nos obliga el mercado literario?
Confieso que, para mí, es complicado. Siempre he sentido la poesía, su escritura, como un ejercicio íntimo, alejado del ruido. Me resulta muy difícil asimilar el proceso posterior de exposición pública. Por ello, aunque una vez que se publica un libro existen esos mecanismos del mercado literario que son inevitables, procuro que cada acto público sea un espacio cercano para «entregar» los textos a los asistentes, explicar cómo es ese lugar íntimo del que nacieron, para que ellos los acojan en sus espacios de intimidad.
¿Cómo congeniar la pureza con el comercio?
Es algo muy complicado. Por ello, más allá de estos gestos, procuro mantenerme alejada del ruido, permanecer en ese espacio silencioso y humilde que, sin embargo, provoca deslumbramiento cuando leo; y un encuentro callado conmigo misma, cuando escribo. Las excesivas voces del afuera, los movimientos muchas veces previsibles y, en otros casos, luciferinos, las muestras estruendosas de logros, me disuelven, no me siento cómoda en ellos, me dicen que ahí no estoy yo. Las redes sociales están ayudando mucho a generar ese ruido —con el añadido de la distancia que produce una pantalla de ordenador—, sin embargo, casi nunca uso las redes para difusión de mi propia obra, sino para compartir textos literarios de otros autores que me han conmovido, que me han dado una respuesta a algo que desconocía, con la esperanza de que para alguien signifiquen lo mismo que han significado para mí. En ese caso sí que siento que las redes sociales ayudan. Sólo siento la literatura desde el lugar interior. Comparto un fragmento literario con la esperanza de que, después, alguien a quien le ha conmovido se acerque a una librería o a una biblioteca a por ese mismo libro.
Como profesora, ¿qué se siente cuando pasamos de críticos a criticados? Supongo que debe de ser una de las mayores frustraciones eso de leer desvaríos sobre la obra propia.
Bueno, eso forma parte del mecanismo de publicación de un libro, y hay que aceptar las cosas. Creo que hay un tipo de crítica, cada vez más minoritario, que sí que construye de manera esclarecedora la obra que reseña, aunque pueda destacar cosas negativas. Ese tipo de crítica, constructiva, muestra un pensamiento estructurado y lúcido aunque, repito, muestre aspectos negativos de una obra. Pero hay otros tipos de crítica que, confieso, no entiendo: aquellas que sólo se escriben para hacer publicidad editorial, o bien para destruir.
Creo que nos equivocamos, porque cada lectura es subjetiva, y aquel crítico que parece mostrar su verdad como única no está siendo justo con su trabajo. Siempre me espantaron los pensamientos extremos. Por supuesto que he tenido situaciones en las que, si no he leído desvaríos completos —bueno, alguno sí—, sí que no he entendido realmente lo que el crítico quería decir, como si la reseña hubiera sido un medio para mostrar su teoría acerca de algo —generalmente sin mucho que ver con el libro del que tendría que hablar—, o para encapsular en la página su malestar por algo que poco tiene que ver con el libro. Eso no he llegado a entenderlo y creo que empobrece el concepto de la crítica literaria. Hace que deje de ser un género desde el momento en el que el crítico piensa que por destruirlo todo muestra mejor sus conocimientos, o es más lúcido, más llamativo. La destrucción empobrece en todos los aspectos. Mientras te estoy diciendo esto, recuerdo una carta que le escribió Walter Benjamin a Gershom Scholem en 1930, creo. En ella le decía que la crítica literaria ya no era considerada un género serio en Alemania. Creo que aquí está ocurriendo lo mismo aunque, afortunadamente, hay excepciones, por supuesto. Sigue leyendo en Revista Borrador
Mario Vargas LLosa -Avventure della ragazza cattiva-
-Traduttore Glauco Felici-Einaudi Editore-
Mario Vergas LLosa Una vita trasformata in un inferno. Ma un inferno in cui c’è tutto: passione, gioia, amicizia, follia, disperazione, sesso, delirio.Nel 1950 il giovane Ricardo scopre di essere innamorato di una ragazza cattiva, una niña mala che lo fa impazzire con il suo charme ma gli dice sempre di no. Quando le loro strade si separano, Ricardo si trasferisce a Parigi. Ma anche qui la niña mala riappare, in una nuova versione: una militante del Mir in partenza per Cuba, dove verrà addestrata alla guerriglia. Da allora, nella vita di Ricardo, si alternano il lavoro di interprete e i tormenti che la ragazza cattiva gli infligge, in un crescendo che porterà il protagonista ad affrontare il suo vero sogno: scrivere. Un ritratto palpitante del mondo europeo e latinoamericano, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, un’ispirata rievocazione condotta senza nostalgie ma con lucida intensità, sostenuta da una scrittura che si fa sempre piú limpida e rarefatta. Con protagonisti ed eventi reali e altri di fantasia, che insieme congiurano a creare l’affresco illuminante di un’intera stagione.
Dettagli
Autore:Mario Vargas LLosa
Traduttore:Glauco Felici
Editore:Einaudi
Collana:Super ET
Anno edizione e in commercio dal:27 gennaio 2014
Pagine:362 p.
EAN:9788806219390
Opere
Dopo una prima raccolta di racconti, Los jefes (1959), acquistò fama con il già citato La ciudad y los perros, raffigurazione crudamente realistica (in parte autobiografica) della vita nel collegio militare di Lima. Seguirono: La casa verde, romanzo di grande complessità strutturale ambientato in un postribolo della provincia peruviana; Los cachorros (1967; trad. it. 1978); Conversación en la catedral (1969; trad. it. 1971). Registri narrativi più ariosi e meno crudi e una sottesa interrogazione sulla scrittura e i rapporti tra realtà e finzione caratterizzano i successivi romanzi, in cui l’erotismo è spesso uno dei motivi dominanti: oltre a Pantaleón y las visitadoras, La tía Julia y el escribidor e El paraíso en la otra esquina, La guerra del fin del mundo (1981; trad. it. 1983); Historia de Mayta (1984; trad. it. 1985); ¿Quién mató a Palomino Molero? (1986; trad. it. 1987); El hablador (1987; trad. it. 1989); Elogio de la madrasta (1988; trad. it. 1990); Lituma en los Andes (1993; trad. it. 1995); Los cuadernos de don Rigoberto (1997; trad. it. 1997); La fiesta del Chivo (2000; trad. it. 2001); Travesuras de la niña mala (2006; trad. it. 2006), El sueño del celta (2010, trad. it. 2011). Ha scritto, inoltre, Diálogo de damas (2007), raccolta di componimenti poetici ispirati alle sculture di Manolo Valdés nell’aeroporto Barajas di Madrid. Notevole è anche la sua produzione di testi teatrali (La chunga, 1986, trad. it. 1987; El loco de los balcones, 1993; Ojos bonitos, cuadros feos,1996; Odiseo y Penélope, 2007; Al pie del Támesis, 2008) e di saggi (García Márquez: historia de un deicidio, 1971; La orgía perpetua: Flaubert y “Madama Bovary”, 1975, trad. it. 1986; Contra viento y marea, 1983; La utopía arcaica. José María Arguedas y las ficciones del indigenismo, 1996; Cartas a un joven novelista, 1997; El lenguaje de la pasión, 2001; Diario de Irak, 2003; La tentación de lo imposible, 2004; El viaje a la ficción, 2008). Nel 2009 è stata tradotta in italiano la raccolta di articoli Israel/Palestina. Paz o guerra santa (2006), in cui lo scrittore ripercorre non senza dubbi e contraddizioni le fasi cruciali della crisi mediorientale. Nel 2012 è uscito il suo primo testo dopo l’assegnazione del Nobel, il saggio La civilización del espectáculo (trad. it. 2013), in cui lo scrittore affronta il tema della difficoltà di elaborare modelli artistici e letterari creativi in un presente dominato dalla superficialità delle tecnologie di massa; del 2012 è anche la pubblicazione della monumentale opera in tre volumi Piedra de toque, che raccoglie gli articoli apparsi dal 1962 al 2012 su riviste e quotidiani latinoamericani. Tra le opere successive occorre citare i romanzi El héroe discreto (2013; trad. it. 2013) e Cinco esquinas (trad. it. Crocevia, 2016), thriller erotico-politico ambientato nel Perù degli anni di Fujimori. Nel febbraio 2017 è stato pubblicato in Italia a cura di B. Arpaia il volume Romanzi, primo della raccolta integrale della sua opera narrativa, cui hanno fatto seguito il saggio La llamada de la tribu (2018; trad. it. 2019) e il romanzo Tiempos recios (2019; trad. it. 2020), ambientato nel tormentato Guatemala degli anni Cinquanta. Della sua produzione più recente si citano anche: Encuentros con Mario Vargas Llosa (con J. Cruz Ruiz, 2017; trad. it. Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz, 2023); Medio siglo con Borges (2020; trad. it. 2022); La mirada quieta (de Pérez Galdós) (2022); Un bárbaro en París. Textos sobre la cultura francesa (2023); Le dedico mi silenzio (2023; trad. it. 2024). Nel 2025 è stato tradotto in Italia il saggio La orgía perpetua. Flaubert y Madame Bovary (1975), dedicato all’opera dello scrittore francese e, più in generale, alla passione per la narrativa.
Mario Vargas LiosaMario Vargas LiosaMario Vargas LiosaMario Vargas Liosa
Bell Hooks è morta, fu l’ispiratrice del femminismo “radicale”e intersezionale.
Bell Hooks –Gloria Jean Watkins (Hopkinsville, 25 settembre 1952 – Berea, 15 dicembre 2021) -Nata a Hopkinsville, in Kentucky, Stato segregazionista, figlia di un bidello scolastico e di una donna di servizio, frequenta una scuola per soli neri fino a fine anni Sessanta, quando il Kentucky finalmente recepisce pienamente la direttiva della sentenza del 1954 Brown v. Board of Education.-
Per celebrare le opere della scrittrice femminista, scomparsa il 15 dicembre 2021 a 69 anni, pubblichiamo un estratto del suo “Insegnare a trasgredire” (Meltemi edizioni)
Bell Hooks
Il 15 dicembre è morta la scrittrice e intellettuale bell hooks, punto di riferimento del pensiero femminista. Per sé e le sue opere scelse uno pseudonimo da usare rigorosamente con le lettere minuscole perché fosse data più importanza alle sue idee che al suo nome. Per ricordarla e celebrarla, oggi ancora di più, pubblichiamo un estratto del suo “Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà”, pubblicato da Meltemi nel 2020.
“Estasi. Insegnare e apprendere senza limiti
In una splendida giornata estiva del Maine, sono ruzzolata da una collina e mi sono rotta il polso in maniera grave. Mentre stavo seduta in terra attanagliata da un dolore lancinante, più intenso di qualsiasi altro avessi mai provato in vita mia, un’immagine mi attraversò la mente. Ero io, ragazzina, che ruzzolavo da un’altra collina. In entrambi i casi, la causa della mia caduta era il tentativo di superare i miei limiti. Da bambina era il limite della paura. Da adulta, era il limite della stanchezza, direi persino dell’esaurimento fisico. Ero giunta a Skowhegan per tenere una conferenza nell’ambito di un programma estivo di studi artistici. Alcuni studenti non bianchi mi avevano confidato che raramente il loro lavoro veniva preso in considerazione da studiosi e artisti di colore. Anche se mi sentivo stanca e nauseata, volevo supportare il loro lavoro e i loro bisogni, così mi svegliai al mattino presto per salire sulla collina e visitare gli atelier.
Un tempo Skowhegan era una fattoria funzionante, mentre ora i vecchi granai erano stati convertiti in atelier. Quello che stavo lasciando, dopo un’intensa discussione con alcuni giovani artisti neri, maschi e femmine, portava a un pascolo di mucche. Seduta dolorante in fondo alla collina, vidi nel volto dell’artista nera di cui avevo cercato di raggiungere la porta dell’atelier una delusione incredibile. Quando venne ad aiutarmi espresse preoccupazione, eppure quello che percepii era un altro sentimento. Aveva davvero bisogno di parlare del suo lavoro con qualcuno di cui potersi fidare, che non l’avrebbe affrontato con pregiudizio razzista, sessista o classista, qualcuno il cui intelletto e la cui visione sentiva di rispettare. Quando penso alla mia vita da studente, ricordo vividamente i volti, i gesti e i modi di essere di tutti i diversi insegnanti che mi hanno educato e guidato, che mi hanno offerto l’opportunità di provare gioia nell’apprendimento, che hanno reso la classe un luogo di pensiero critico, che hanno reso lo scambio di informazioni e idee una sorta di estasi. Senza la capacità di pensare criticamente a noi stessi e alle nostre vite, nessuno di noi è in grado di andare avanti, cambiare, crescere, indipendentemente dalla classe, dalla razza, dal genere o dalla posizione sociale di una persona. Nella nostra società, che è fondamentalmente anti-intellettuale, non viene incoraggiato il pensiero critico. La pedagogia impegnata è stata essenziale per il mio sviluppo come intellettuale e insegnante, perché il cuore di questo approccio all’apprendimento è il pensiero critico. Negli ambiti di apprendimento in cui studenti e insegnanti celebrano la propria capacità di pensare in modo critico e di impegnarsi nelle prassi pedagogiche si manifestano le condizioni di un’apertura radicale.
La scelta di andare controcorrente, di sfidare lo status quo, ha spesso conseguenze negative. E questo è parte di ciò che rende tale scelta politicamente non neutra. Nei college e nelle università, l’insegnamento è spesso il meno apprezzato dei nostri numerosi compiti professionali. Idealmente, l’educazione dovrebbe essere tale per cui la necessità di diversi metodi e stili di insegnamento venga considerata importante, incoraggiata, vista come essenziale per l’apprendimento. Durante la mia carriera di insegnante i miei corsi sono stati troppo frequentati per essere efficaci quanto potevano essere. Nel corso del tempo, ho compreso che la pressione dei dipartimenti volta a spingere i docenti “popolari” ad accettare classi più grandi è anche un modo per minare la pedagogia impegnata. Una strategia utile che ho utilizzato è stata quella di incontrare ogni studente delle mie lezioni, anche se solo per breve tempo. Piuttosto che sedermi nel mio ufficio per ore ad aspettare che i singoli studenti scegliessero di incontrarmi o che i problemi si manifestassero, ho preferito programmare pranzi con gli studenti.
La pedagogia impegnata (in una delle sue molte varianti) è davvero l’unico tipo di insegnamento che genera realmente eccitazione in classe, che consente agli studenti e ai docenti di provare la gioia di apprendere.
Questa evidenza si è manifestata nuovamente durante il mio viaggio al pronto soccorso, dopo essere caduta da quella collina. Ho discusso così intensamente delle mie idee con i due studenti che mi stavano portando di corsa in ospedale, che ho dimenticato il dolore che stavo provando. È questa passione per le idee, per il pensiero critico e per lo scambio dialogico che voglio celebrare in classe, che desidero condividere con gli studenti.
È stata la reciproca interazione tra il pensare, lo scrivere e il condividere idee come intellettuale e insegnante che ha dato vita a ogni intuizione presente nel mio lavoro. La mia devozione a tale interazione mi costringe a insegnare in contesti accademici, nonostante la loro difficoltà.
Quando ho letto Strangers in Paradise: Academics from the Working Class, sono rimasta colpita dall’intensa amarezza espressa nelle singole narrazioni. Questa amarezza non mi era sconosciuta. Ho capito cosa intendeva Jane Ellen Wilson quando ha dichiarato: “Conquistare un alto livello di istruzione ha rappresentato per me un processo di perdita di fede”. Ho provato in particolare quell’amarezza nei confronti dei colleghi accademici. Emergeva dalla mia convinzione che così tanti di loro avessero tradito volentieri la promessa di comunione intellettuale e apertura radicale che credo siano il cuore e l’anima dell’apprendimento. Quando sono andata oltre quei sentimenti per focalizzare la mia attenzione sull’aula, l’unico posto nell’accademia in cui avrei potuto avere il massimo impatto, sono diventati meno intensi. Sono diventata più appassionata nel mio impegno per l’arte dell’insegnamento. Viaggio al fianco degli studenti mentre vivono la loro vita al di là della nostra esperienza in aula. In molti modi, continuo a insegnare loro, anche se loro diventano più capaci di insegnare a me. La lezione importante che impariamo insieme, la lezione che ci consente di muoverci insieme all’interno e oltre l’aula, è quella dell’impegno reciproco. Non potrei mai dire di non avere idea del modo in cui gli studenti rispondono alla mia pedagogia; mi danno un feedback costante.
Agli studenti non piace sempre studiare con me. Spesso si sentono sfidati dai miei corsi, e questo li destabilizza molto. Affrontare questo aspetto si è rivelato particolarmente difficile all’inizio della mia carriera di insegnante, perché volevo essere apprezzata e ammirata. Sono stati necessari tempo ed esperienza per capire che i vantaggi della pedagogia impegnata potevano non emergere nella durata di un corso. Fortunatamente, ho insegnato a molti studenti che si sono presi il tempo di ricontattarmi e condividere con me l’impatto del nostro comune lavoro sulla loro vita. E così il mio lavoro di insegnante ottiene riconoscimenti continui, non solo quelli che mi sono stati elargiti, ma anche quelli derivanti dalle scelte professionali degli studenti, dai loro modi di essere.
Ho iniziato questa raccolta di saggi confessando di non aver voluto diventare un’insegnante. Dopo vent’anni di insegnamento, posso affermare di essere spesso più felice in classe, più vicina al Nirvana qui che nella maggior parte delle mie esperienze di vita. In un recente numero di Tricycle, una rivista sul pensiero buddista, Pema Chodron parla dei modi in cui gli insegnanti diventano modelli di vita, descrivendo coloro che più hanno toccato il suo spirito:
[…] i miei modelli erano persone che uscivano dagli schemi convenzionali e che erano veramente in grado di fermare i miei pensieri, aprirmi la mente e liberarla, anche solo per un momento, dal modo convenzionale e abituale di guardare alle cose… Quando ci si prepara per davvero all’impermanenza, alla realtà dell’esistenza umana, si vive sul filo del rasoio e bisogna abituarsi a una realtà di cambiamenti continui. Nulla è certo ed eterno, e non sappiamo cosa accadrà. I miei insegnanti mi hanno sempre spinta ad andare oltre…
Leggendo quel passaggio ho avvertito un’intensa sintonia, poiché in tutti gli aspetti della mia vita ho cercato insegnanti capaci di sfidarmi ad andare oltre ciò che avrei potuto scegliere per me stessa, e attraverso quella sfida mi hanno permesso di sperimentare uno spazio di apertura radicale nel quale sono veramente libera di scegliere, in grado di imparare e crescere senza limitazioni. L’accademia non è il paradiso. Ma l’apprendimento è il luogo in cui è possibile creare il paradiso. L’aula, con tutti i suoi limiti, rimane un luogo di possibilità. In quel campo di possibilità abbiamo l’opportunità di lavorare per la libertà, di chiedere a noi stessi e ai nostri compagni un’apertura di mente e cuore che ci consenta di affrontare la realtà anche mentre immaginiamo collettivamente dei modi di oltrepassare i confini, di trasgredire. Questa è l’educazione come pratica della libertà”.
Fonte il Fatto Quotidiano di F. Q. | 16 Dicembre 2021
Serena Romano- La basilica di San Francesco ad Assisi-
-Pittori, botteghe, strategie narrative-
-Viella Libreria Editrice Roma-
Sinossi del libro di Serena Romano-La basilica di San Francesco ad Assisi–I sette saggi di cui si compone il libro, nella maggior parte inediti, hanno per tema la decorazione pittorica della chiesa di S. Francesco ad Assisi, a partire dalla prima fase di affrescatura della basilica inferiore fino al ciclo francescano nella navata di quella superiore. Nel loro insieme costituiscono il frutto di più di venti anni di ricerche dell’autrice, e studiano la veste pittorica della basilica secondo due approcci diversi ma non indipendenti l’uno dall’altro.
Il primo è l’analisi della maniera di pittori e botteghe, del mestiere dell’artista e del funzionamento del cantiere: un problema sempre complesso e sempre sfuggente, per la difficoltà dell’indagine e la scarsezza di fonti e di informazioni. Ad Assisi ogni tranche della decorazione pittorica ha proprie caratteristiche tecniche, proprie modalità di funzionamento, propri sistemi di organizzazione del lavoro, e il libro ne studia le ricadute sul risultato pittorico finale.
Il secondo approccio, o metodo, è l’analisi iconografica. Essa schiude le porte della storia, e ad Assisi più che altrove. Non si tratta di cercare il significato delle “figure” in un episodio storico, o in una fonte letteraria: quelle figure sono il testo, sono la storia, la fanno e la svelano senza subordinazioni, l’immagine ha una natura complessa che si annida all’interno della storia organica del monumento, preso in una rete di relazioni di cui la figuratività è un aspetto.
INDICE
Introduzione
1. Le storie parallele di Assisi: il Maestro di S. Francesco
Note Aggiornamento bibliografico.
2. L’inizio dei lavori di decorazione nella chiesa superiore. Pittori nordici e pittori romani fra Cimabue e Jacopo Torriti
Note
3. La doppia Crocifissione e il programma “nascosto” di Cimabue
Note
4. Assisi e Roma. Cimabue, il ritratto di città, e il senso della storia
Note
5. La Morte di Francesco
Note
6. Come si inventa una nuova iconografia: l’Estasi di S. Francesco
Note
7. La redazione del programma e lo svolgimento del cantiere della navata
Note
Appendice: A proposito de Il cantiere di Giotto
Schemi
Antologia di documenti
Abbreviazioni
Bibliografia
Referenze fotografiche
AUTORE-Serena Romano è professore di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Losanna. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La O di Giotto (Electa, 2008); Il Duecento e la cultura gotica (Jaca Book, 2012); Modernamente antichi (Viella, 2014). Nel 2015 è stata curatrice delle mostre, con i relativi cataloghi, “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza” e “Giotto, l’Italia”, ambedue a Milano, Palazzo Reale.
Serena Romano is Professor of Medieval art at the University of Lausanne. Her publications include Il Duecento e la cultura gotica (Jaca Book, 2012), L’histoire de Rome par la peinture (avec I. Foletti, Citadelle & Mazenod 2010), and La Basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative (Viella, 2001). In 2015 she has been the curator of the exhibitions “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza” and “Giotto, l’Italia” both held in Milan, Palazzo Reale.
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma
Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Eliseo l’Armeno romanzo Storia di Vardan e compagni martiri
Eliseo l’Armeno
Descrizione-La Storia di Eliseo è un’opera poliedrica in cui convivono molteplici generi letterari. È la principale fonte storica per ricostruire gli eventi bellici del 451, che videro gli Armeni scendere in campo contro i Persiani per difendere la propria fede cristiana dalle imposizioni zoroastriane. È anche opera agiografica, che immortala il martirio di san Vardan e dei suoi compagni. È opera teologica, ricca di professioni di fede e formule cristologiche. È opera apologetica, che ci restituisce stralci delle controversie cristiane contro i zoroastriani. Ed è anche un’opera segnata da passaggi di intenso afflato lirico. Il volume fa parte dell’Opera Omnia di Eliseo. Accanto al capolavoro principale il volume contiene scritti minori, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in una lingua occidentale, che appartengono all’esperienza monastica dell’autore, che rivestono un interesse notevole non solo per la disciplina canonica e la storia del monachesimo, ma anche per alcuni importanti passaggi teologici. Per la prima volta al mondo La Storia di Vardan e le altre opere di Eliseo sono riprodotte nel testo critico armeno con traduzione in una lingua moderna (nel nostro caso l’italiano) a fronte. Introduzione, traduzione e note di Riccardo Pane.
Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA – Dalle addizioni all’identità di Eulero
Editore: Gruppo Albatros Il Filo
Descrizione del libro-Matematica e poesia sono due discipline apparentemente molto distanti ma che, a ben guardare, si nutrono delle stesse passioni: la sintesi a cui l’una è costretta e a cui sempre l’altra si appella, le regole alle quali la prima è per definizione sottoposta e a cui la seconda piace costringersi, ma anche le emozioni che generano in chi le frequenta da attore o da spettatore, e l’ambizione di rappresentare la realtà nella consapevolezza che non viene loro richiesto di essere vere. È l’idea di contaminazione tra due discipline dal volto così diverso che ha guidato Alessandro Moriconi nella composizione di questa raccolta di sonetti in romanesco che, celebrando il matrimonio tra matematica e poesia, rivisitano molti concetti della scienza dei numeri con l’efficacia del dialetto della Città Eterna. Un progetto audace quanto naturale, nato dal desiderio di un matematico-poeta di sottolineare quanto sia fantastica la razionalità della matematica e razionale la fantasia della poesia. Un libro da gustare con il cuore e con la mente.
Editore Gruppo Albatros Il Filo
Collana Nuove voci I saggi
Recensione
Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA
-Fonte –OnlineNew
Premessa. Odio la matematica, mi annoia la poesia. L’accostamento tra i due elementi? Curioso, un gioco intellettuale. Per carattere e mestiere non rifiuto a priori alcuna esperienza. E apro una parentesi personale. Stavo curiosando tra i libri della libreria che ho scelto di frequentare da anni, quando con la coda dell’occhio colgo l’avvicinarsi di una persona con un libro in mano. Ho la mente allenata, fotografa la copertina e contemporaneamente la rivedo assieme ad altre, tutte uguali, esposte in un corner. E’ tutto chiaro, il signore in questione è l’autore in persona. Mi vuole presentare il suo lavoro. Lo ascolto con educazione, poi lo anticipo e mi presento. L’argomento del libro in questa fase è prematuro, mi interessa l’approccio. E’ un gesto di coraggio, va recepito in modo positivo. Mi è già capitato. Sono già pronto a prescindere a prendere in carico l’opera e a sfidarne l’autore: se mi convince lo recensisco sul mio giornale. Nessuna valutazione preconcetta.E l’ opera “Matematica e Poesia” di Alessandro Moriconi, sicuramente originale, non è di mio interesse. Come ho già detto non mi fanno fremere i due elementi separati, l’accostamento voluto o fortuito mi lascia indifferente. Ma Moriconi non è un aspirante scrittore, è un matematico dell’Istituto di ingegneria del mare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Inm) e divulgatore scientifico. E questo accende il mio interesse. Scopriamo anche di avere conoscenze comuni. Ma non mi chiedete di leggere i sessanta “Sonetti matematici” contenute nel libro. Mi spiega che il libro è una raccolta di 60 sonetti in dialetto romanesco che trattano altrettanti argomenti matematici, ognuno dei quali è anticipato da un disegno e da un’introduzione tecnico-storica, che facilita la comprensione dei versi. Le regole usate sono quelle dettate dalla grammatica stilata dall’Accademia Romanesca, aggiunge (arabo per me), che sostanzialmente si ispira alla poesia del Trilussa. Onore al merito, all’impegno, alla fantasia. Lo scrittore è più interessante del libro. E probabilmente proprio per questo il libro va letto e tenuto su uno scaffale della libreria nello studio. Qualcuno lo noterà e lo sfoglierà incuriosito. Un bel successo. Moriconi è un matematico, dicevo, e da 35 anni svolge l’attività di divulgazione scientifica. Ma la passione per le discipline umanistiche lo porta a contaminazioni con altri mondi, a teatro e poesia. Il passo per approdare ai sonetti in romanesco è breve, ma il tentativo di avvicinare i due elementi di cui si parla resta forzato. Più interessante è quello che si può definire un “retrogusto” culturale. Lo scoprire che matematica e poesia hanno cose in comune, la sintesi, le regole, in qualche modo le emozioni (dal rabbioso rifiuto al piacere intellettuale), una concreta astrazione. Si può raccontare la matematica in versi ( in dialetto per di più)? Secondo l’autore è lecito e possibile Gli argomenti matematici trattati spaziano dalle semplici addizioni a concetti più complessi di geometria, di analisi matematica, di insiemistica o di statistica, senza dimenticare temi imprescindibili come ad esempio la filosofia che ha accompagnato per secoli i cosiddetti solidi Platonici. E non mancano alcuni elementi di logica matematica che avvicinano il lettore al concetto di paradosso, uno dei princìpi cardine del lavoro svolto dal più grande logico del Novecento Kurt Gödel. Scoprire la razionalità della matematica attraverso la comunicatività della poesia, è possibile. Provare per credere
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