Fotoreportage:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia.
La foresta rossa
Fotoreportage -La Russia è costellata di luoghi sorprendenti creati dalla “mano” magica della natura, che in questo angolo di mondo è stata particolarmente generosa in termini di bellezza e varietà. Il boschetto di cipressi nella valle di Sukko, nel sud paese, pur essendo di origine artificiale, è comunque impressionante! Giudicate voi stessi:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia
RUSSIA-La foresta rossa
Infatti i cipressi della palude (taxodium) non sono mai cresciuti qui e difficilmente sarebbero apparsi se non fosse stato per un esperimento sovietico. Si narra che negli anni ’30 furono portate delle piantine di cipresso dall’America del Nord, nella speranza di sviluppare in URSS una nuova coltura.
RUSSIA-La foresta rossa
Questi alberi furono piantati a 14 km da Anapa, nella valle collinare di Sukko, non lontano dall’omonimo villaggio.
RUSSIA-La foresta rossa
Con il passare degli anni, le piante hanno attecchito perfettamente e sono state oggetto di innumerevoli servizi fotografici e televisivi. Sono finite persino sulle pagine della rivista National Geographic.
Fonte Russia Beyond
Natura sensitiva tra la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino
Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
“E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene”
(William Shakespeare, “As you like it”)
Che le piante fossero degli esseri straordinari e super-eroici lo sosteniamo da tempo, ma essere capaci di rimediare ai disastri atomici sembra proprio una qualità da eroe Marvel.
Da Černobyl a Hiroshima, le piante stanno dimostrando a noi umani una potente volontà di vita: un misto di resilienza, fluidità e capacità di rinascita.
La Foresta Rossa di Černobyl
Il nome evocativo “Foresta Rossa” non indica una zona di qualche remota regione del Nord Europa o una magica foresta in stile “Il Signore degli Anelli”, ma una pineta di circa 4 km2 che subito dopo “l’incidente” di Černobyl virò di colpo al rosso, per poi morire.
Era l’una del mattino, 23 minuti e 46 secondi e successe l’impensabile.
Una serie di violazioni nel protocollo di sicurezza crearono uno spaventoso effetto domino: il reattore n° 4 della Centrale nucleare Vladimir Il’ iČ Lenin, vicino a Černobyl, vide la temperatura del proprio nocciolo aumentare bruscamente, portando l’acqua di refrigerazione a scindersi in ossigeno e idrogeno che, a contatto con l’incandescenza delle barre di controllo, provocò un esplosione, lo scoperchiamento della struttura e un vasto incendio.
Fu così che una nube di isotopi radioattivi si disperse.
Piombò con prepotenza su un’area specifica, distruggendo e contaminando.
É la “Zona” e copre circa 30 km2 dal punto zero, il reattore nucleare.
Fu immediatamente evacuata e abbandonata e qui, mentre foreste di betulle e pioppi sopravvissero, la pineta si trasformò in Foresta Rossa.
A 30 anni di distanza sappiamo che non capitò solo quello.
L’uomo se ne è andato e la “Zona” si è trasformata in una sorta di Parco Naturale involontario.
Ora, senza l’essere umano, ritornano animali come linci, procioni, cavalli di Przewalski, uccelli, alci, cervi, caprioli, cinghiali, volpi rosse, tassi, donnole, lepri, scoiattoli, l’orso bruno e specie a rischio di estinzione.
La popolazione di lupi è sette volte maggiore rispetto alle zone incontaminate circostanti.
Ora, senza l’uomo, sembra che quella zona, disabitata dalla nostra specie, sia popolata dalle altre quanto non sia mai stata.
Ora, senza l’uomo, le piante stanno letteralmente invadendo, come in una giungla post-apocalittica, anche le zone maggiormente colpite dal fall-out nucleare. Crescono sui tetti, si riversano sui terrazzi, spaccano l’asfalto, squarciano i muri, si appropriano di strade a sei corsie.
Come una fenice, quel territorio ora è una delle aree a maggiore biodiversità dell’Ex Unione Sovietica.
E non è tutto.
Stanno ripulendo dalle scorie radioattive, attraverso la loro capacità, unica, di assorbire radionuclidi dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Questo processo viene definito con un termine emblematico: fitorimediazione.
L’Eterno Giardino
La Foresta Rossa si sta trasformando in un Eterno Giardino: mancando per ora lombrichi, batteri e funghi, il naturale processo di marcescenza viene estremamente rallentato. Foglie e residui vegetali rimangono a terra per un tempo che sembra, ai nostri occhi, eterno.
L’unico vero nemico è il fuoco. Assorbendo quello che dall’aria cadde a terra, le piante si sono trasformate in scrigni di radioattività: la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino non devono bruciare. Mai.
Nonostante sembri una citazione di Ian Malcom, la vita vince sempre.
Marisa Carelli-Poesie inedite -pubblicate dalla Rivista AVANPOSTO-
MARISA CARELLI
è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Figlie: ci sogni bambine, dici: «È bello così».
Avrei voluto spiegarti che a me piace ora
il timbro delle nostre voci o che il passato
non si perde, fa da scivolo al presente,
sullo sterno fra i seni come fra le valli,
giù dai dorsi. O che la rosa va sfogliata
dei suoi petali per sentire che rinasce
quando non t’aspetti sullo stelo paradigma
e la ritrovi memoria in punta di dita.
Ma il non detto è una risalita al contrario,
su per spine-gradini dove tu
ti imbatti ancora in te.
***
Dove si fa giorno
a ogni paesaggio,
in te sia il suo risveglio.
Chiedi,
come Hegel sulle Alpi,
in che modo maturano i formaggi
e non dimenticare l’aurora.
Dai figli non pretendere
che a sé vogliano bene
indifferenti a strade,
aeroporti o ferrovie.
Perché talvolta chi
si strania
lo rimette al mondo
una piana,
le dolci colline,
le grida di montagne.
Una fisarmonica
che suona chiusa
è il sonno.
Si spalanca ed è
divinazione
imparare ad amarsi.
***
Sono nata con le mani strette
nella più mistica delle preghiere:
non chiedete per me
disegni dal futuro.
Cresciuta a ritroso,
mi sono fatta compasso
leggera su una bici
o cercando gli orari
dei tram per il rientro.
Ora torno a nutrirmi del petto,
un tronco che viene dal ramo.
(Fino allo scheletro della foglia
si affacciano queste parole.
Fino a te che leggi, in controluce).
***
Si potrebbe pianificare una fuga solare,
un appuntamento col raggio di luce,
nell’altrove, in un luogo non tuo:
un sasso, un punto, il prato battuto
che si apre nei suoi fili d’erba.
Il premio è la sanzione del mutare.
Guarda,
è tutto vero.
Achille e la testuggine
fianco a fianco,
sincroni avanzano
come nel dipinto
di un Quarto Stato.
Così nella costante è
la luce
il significante.
Marisa Carelli è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza- Traduttore Margherita Emo-Editore Einaudi-
Descrizione-del libro di Larry McMurtry-In “Voglia di tenerezza” siamo ben lontani dall’epopea western cantata da Larry McMurtry in “Lonesome Dove”. In questo romanzo si racconta principalmente la vita di due donne, madre e figlia, diverse tra di loro, fisicamente e caratterialmente. Aurora, la madre, è un’affascinante vedova quarantanovenne che ama farsi corteggiare dagli uomini, frivola, vanitosa, brillante ed impulsiva. Emma, la figlia, disordinata, poco ambiziosa, vive un matrimonio infelice, anche se sembra voler trovare una via di uscita che possa regalarle serenità. Altri personaggi circondano queste due donne: gli spasimanti, la donna di servizio, i vicini di casa, le amiche, ognuno di loro con la propria storia da raccontare.
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza-
McMurtry ci regala pagine divertenti, essendo capace di rendere i personaggi empatici e soprattutto umani, con le loro debolezze, manie e personalità. Ma è anche capace di toccare il nostro animo e di commuoverci, perché la vita riserva sempre gioie e dolori.
È trascorso molto tempo da quando vidi il film. La sensazione che provo oggi, ripensando a quest’ultimo, è che mi toccò molto, forse più del libro.Descrizione scritta da Elisabetta Porta-
Cenni biografici di Larry Mcmurtry
Larry McMurtry -Scrittore e sceneggiatore americano
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) è stato un autore e sceneggiatore americano. Nato nel 1936 a Archer City, nel Texas, romanziere e sceneggiatore, nel 1986 ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa con Lonesome Dove e nel 2006 l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con I segreti di Brokeback Mountain. Da molti dei suoi romanzi sono stati tratti film di grande successo come Hud il selvaggio, L’ultimo spettacolo e Voglia di tenerezza. Einaudi ha pubblicato, in una nuova traduzione, Lonesome Dove (2017), Le strade di Laredo (2018) e Voglia di tenerezza (2021). Nel 2024 esce Il cammino del morto (Einaudi).
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) was an American novelist, essayist, and screenwriter whose work was predominantly set in either the Old West or contemporary Texas.[1] His novels included Horseman, Pass By (1962), The Last Picture Show (1966), and Terms of Endearment (1975), which were adapted into films. Films adapted from McMurtry’s works earned 34 Oscar nominations (13 wins). He was also a prominent book collector and bookseller.
Tracy Daugherty‘s 2023 biography of McMurtry quotes critic Dave Hickey: “Larry is a writer, and it’s kind of like being a critter. If you leave a cow alone, he’ll eat grass. If you leave Larry alone, he’ll write books. When he’s in public, he may say hello and goodbye, but otherwise he is just resting, getting ready to go write.”[3]
Early life and education
McMurtry’s birth certificate states that he was born in Wichita Falls, Texas, the son of Hazel Ruth (née McIver) and William Jefferson McMurtry.[4] He grew up on his parents’ ranch outside Archer City, Texas. The city was the model for the town of Thalia which is a setting for much of his fiction.[5] He earned a BA from the University of North Texas in 1958 and an MA from Rice University in 1960.[6][7]
In his memoir, McMurtry said that during his first five or six years in his grandfather’s ranch house, there were no books, but his extended family would sit on the front porch every night and tell stories. In 1942, McMurtry’s cousin Robert Hilburn stopped by the ranch house on his way to enlist for World War II, and left a box containing 19 boys’ adventure books from the 1930s. The first book he read was Sergeant Silk: The Prairie Scout.[8]: 1–8
McMurtry and Kesey remained friends after McMurtry left California and returned to Texas to take a year-long composition instructorship at Texas Christian University.[11] In 1963, he returned to Rice University, where he served as a lecturer in English until 1969, and a visiting professor at George Mason College (1970) and American University (1970–71).[12] He entertained some of his early students with accounts of Hollywood and the filming of Hud, for which he was consulting. In 1964, Kesey and his Merry Pranksters conducted their noted cross-country trip, stopping at McMurtry’s home in Houston. The adventure in the day-glo-painted school bus Furthur was chronicled by Tom Wolfe in The Electric Kool-Aid Acid Test. That same year, McMurtry was awarded a Guggenheim Fellowship.[13]
He described his method for writing in Books: A Memoir. He said that from his first novel on, he would get up early and dash off five pages of narrative. When he published the memoir in 2008, he said this was still his method, although by then, he wrote 10 pages a day. He wrote every day, ignoring holidays and weekends.[8] McMurtry was a regular contributor to The New York Review of Books.[18]
In 1989, McMurtry testified on behalf of PEN America before the U.S. Congress in opposition to immigration rules in the 1952 McCarran–Walter Act that for decades permitted the visa denial and deportation of foreign writers for ideological reasons.[17] He recounted how before PEN America was to host the 1986 International PEN Congress, “there was a serious question as to whether such a meeting could in fact take place in this country… the McCarran–Walter Act could have effectively prevented such a gathering in the United States.” He denounced the relevant rules as “an affront to all who cherish the constitutional guarantees of freedom of expression and association. To a writer whose living depends upon the uninhibited interchange of ideas and experiences, these provisions are especially appalling.” Subsequently, some provisions that excluded certain classes of immigrants based on their political beliefs were revoked by the Immigration Act of 1990.[21]
Antiquarian bookstore businesses
Texas While at Stanford, McMurtry became a rare-book scout.[22] During his years in Houston, he managed a bookstore called the Bookman. In 1969, he moved to the Washington, D.C., area. In 1970 with two partners, he started a bookshop in Georgetown, which he named Booked Up. In 1988, he opened another Booked Up in Archer City. It became one of the largest antiquarian bookstores in the United States, carrying between 400,000 and 450,000 titles. Citing economic pressures from Internet bookselling, McMurtry came close to shutting down the Archer City store in 2005, but chose to keep it open after great public support.
In early 2012, McMurtry decided to downsize and sell off the greater portion of his inventory. He felt the collection was a liability for his heirs.[23] The auction was conducted on August 10 and 11, 2012, and was overseen by Addison and Sarova Auctioneers of Macon, Georgia. This epic book auction sold books by the shelf, and was billed as “The Last Booksale”, in keeping with the title of McMurtry’s The Last Picture Show. Dealers, collectors, and gawkers came out en masse from all over the country to witness this historic auction. As stated by McMurtry on the weekend of the sale, “I’ve never seen that many people lined up in Archer City, and I’m sure I never will again.”[24]
In 2006, he was co-winner (with Diana Ossana) of both the Best Screenplay Golden Globe[31] and the Academy Award for Best Adapted Screenplay for Brokeback Mountain, adapted from a short story by E. Annie Proulx. He accepted his Oscar while wearing a dinner jacket over jeans and cowboy boots.[32] In his speech, he promoted books, reminding the audience the movie was developed from a short story. In his Golden Globe acceptance speech, he paid tribute to his Swiss-made Hermes 3000 typewriter.[33]
Personal life
McMurtry married Jo Scott, an English professor who has authored five books.[34] Before divorcing, they had a son together, James McMurtry. Both James and his own son, Curtis McMurtry, are singer/songwriters and guitarists.[35]
In 1991 McMurtry underwent heart surgery.[36] During his recovery, he suffered severe depression. He recovered at the home of his future writing partner Diana Ossana and wrote his novel Streets of Laredo at her kitchen counter.[37][38]
McMurtry married Norma Faye Kesey, the widow of Ken Kesey, on April 29, 2011, in a civil ceremony in Archer City.[39]
McMurtry died on March 25, 2021, at his home in Tucson, Arizona. He was 84 years old.[40]
It was announced in early 2023 that McMurtry’s personal property, including his writing desk, typewriters and personal book collection would be sold at public auction by Vogt Auction in San Antonio, Texas, on May 29, 2023.[41]
L’Artista Silvano Campeggi ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood
L’Artista Silvano Campeggi (1923-2018)- Nella memoria collettiva che alcuni classici del cinema di Hollywood siano rimasti impressi proprio per l’efficacia della locandina, qui sta l’arte di Silvano Campeggi che ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood.
Silvano Campeggi
” Via col vento ” non avrebbe avuto lo stesso pathos senza Clark Gable che bacia Vivien Leigh sullo sfondo di Altanta in fiamme ma questo mostra anche un genere tipico degli illustratori di quel periodo presente in molta stampa italiana, dal Corriere della sera fino a Grand Hotel, ovvero l’enfasi con cui drammi e storie pubbliche venivano presentate, con tutto il carico emotivo privo di ogni leggerezza. Era l’eleganza dell’estremo in cui ogni bacio pareva l’ultimo, ogni abito quello dell’unica occasione della vita, ogni incontro una fatalità ineluttabile.
Silvano Campeggi
Uno stile che ha segnato non solo un arte visiva ma un modello di sensazioni di cui ancora subiamo il fascino.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema (1945/1970): negli Stati Uniti è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
Il padre, tipografo e stampatore, introduce il giovane Silvano alla grafica e al design. Campeggi frequenta l’Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Fra i cartelloni più famosi: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi, West Side Story, La gatta sul tetto che scotta, Vincitori e vinti, Exodus, Colazione da Tiffany.
Molte delle immagini create da Nano per i film più famosi hanno assunto valore iconico e sono immediatamente riconoscibili, come i quattro cavalli bianchi su sfondo rosso di Ben Hur e il volto di Leslie Caron utilizzato come puntino sulla prima lettera I di Gigi (che compare anche sulla copertina dell’album Ummagumma, del Pink Floyd).
Silvano Campeggi
Silvano Campeggi
Biografia di Silvano Campeggi-Nato a Firenze nel 1923, frequenta la scuola d’arte come allievo di ottone Rosai e Ardengo Soffici, iniziando poi a lavorare come illustratore di libri e giornali per diverse aziende grafiche.
Trasferitosi a Roma nel dopoguerra, entra nello studio del pittore Orfeo Tamburi e conosce il cartellonista Luigi Martinati, venendo attratto dalla cartellonistica cinematografica. Per la sua abilità nel ritratto e l’inventiva che gli è congeniale, lavora, firmandosi ‘Nano’, per le maggiori case cinematografiche americane come Metro Goldwyn Mayer, Universal, Paramount, Warner Bross, RKO, Dear Film, realizzando più di 3.000 manifesti, tra i quali Via col Vento, Un americano a Parigi, Singin’ in the Rain, West Side Story, Gigì, Ben Hur, Bambi.
Tornato a Firenze negli anni Settanta, realizza per l’Arma dei Carabinieri otto grandi quadri di battaglie del Risorgimento e il ritratto di Salvo d’Acquisto, eroe della Resistenza, che nel 1975 è utilizzato come francobollo commemorativo dalle Poste Italiane. Sempre dagli anni Settanta comincia a trascorrere molta parte dell’anno all’Isola d’Elba, dove fonda una scuola di ceramica per i giovani elbani. I sassi e le pietre dell’isola diventano protagonisti dei suoi quadri e della natura antropomorfa che essi rappresentano.
La personale fiorentina del 1988, intitolata Il Cinema nei manifesti di Silvano Campeggi, segna l’inizio di una nuova attenzione e valorizzazione dell’attività di Campeggi come autore di manifesti e locandine per il cinema, sancendone definitivamente l’importanza come artista in grado di contribuire alla definizione e costruzione di un immaginario visivo diffuso. Le sue opere sono richieste in tutto il mondo, espone a più riprese in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, dove si impone come uno degli artisti più apprezzati nel suo campo (nel 2005 viene premiato dallo Stato del New Jersey e nel 2007 il Lincoln Center di New York gli dedica una nuova mostra monografica).
Nel corso degli anni è coinvolto anche nella creazione di dipinti e opere per eventi e manifestazioni quali il Palio di Siena, la commemorazione della battaglia di Campaldino, il Calcio storico fiorentino, la Corsa del Saracino a Arezzo, fino ai ritratti delle protagoniste pucciniane per la Fondazione Puccini. Nel 2000 riceve dalla Città di Firenze il Fiorino d’oro, e tra dicembre 2017 e gennaio 2018 Palazzo Vecchio ospita l’importante antologica intitolata Nano tra divi e diavoli.
Si spegne a Firenze il 29 agosto 2018. Il suo autoritratto è esposto insieme a quello dei più grandi artisti nel Corridoio Vasariano degli Uffizi, testimonianza di una lunga vita dedicata con amore all’arte.
Firenze ricorda Silvano “Nano” Campeggi. Suoi gli storici manifesti di “Via col vento” e “Colazione da Tiffany”
Locandina opera di Silvano Campeggi
Silvano Campeggi
Locandina opera di Silvano Campeggi
Articolo di Costanza Baldini-Lunedì 23 gennaio per un giorno la sala d’Arme di Palazzo Vecchio diventerà sede di una mostra con pezzi esclusivi e originali, un evento speciale per celebrare il grande autore di locandine per i film di Hollywood. L’iniziativa per celebrare il Maestro scomparso nel 2018 a cento anni dalla nascita
Locandina opera di Silvano Campeggi
Il 23 gennaio 1923 nasceva a Firenze Silvano Nano Campeggipittore e insuperabile cartellonista, autore cioè di manifesti che hanno fatto letteralmente la storia del cinema, tra cui: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Via col Vento, Ben Hur, La gatta sul tetto che scotta, Colazione da Tiffany, West Side story, Un americano a Parigi, Exodus, Vincitori e Vinti e molti altri.
Campeggi, scomparso il 29 agosto del 2018, compirebbe 100 anni lunedì 23 gennaio, in questa data Palazzo Vecchio lo vuole ricordare con un evento speciale.
La sala d’Arme diventerà sede per un giorno di una mostra con pezzi esclusivi e originali della collezione della famiglia Campeggi e contenuti multimediali.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Dalle 10 alle 18, saranno esposte le tele dei più importanti cartelloni cinematografici realizzati per Hollywood, mentre sulle pareti un video mapping immersivo realizzato da Art Media Studio ripercorrerà tutta la carriera artistica di ‘Nano’, dall’inizio fino alle ultime opere realizzate.
Oltre alla mostra alle 17 si terrà il ricordo dell’artista alla presenza della vicesindaca Alessia Bettini, del presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, di Elena Campeggi, moglie di ‘Nano’, di Riccardo Nencini, scrittore e politico, di Cristina Acidini, presidente dell’Accademia delle arti e del disegno e Matteo Cichero organizzatore dell’evento. L’iniziativa, ad ingresso libero, è stata promossa dall’associazione Fuori scena e fatta propria dall’amministrazione comunale.
Locandina opera di Silvano Campeggi
L’avventura nel cinema di Nano Campeggi
Negli Stati Uniti Nano Campeggi è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema dal 1945 al 1970.
Impara grafica e design dal padre, tipografo e stampatore, poi frequenta l‘Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Con la crisi del cinema, Campeggi torna a Firenze, dove prosegue l’attività pittorica. Nel 1997 realizza 35 dipinti ispirati al calcio storico fiorentino, esposti poi in una mostra al Palagio di Parte Guelfa in Firenze e a Lione, in Francia. Nel 2001 realizza il drappellone per il palio dell’Assunta, a Siena.
Nel 2006 disegna la sua ultima locandina per il Peter Pan il Musical opera con le musiche tratte dall’album Sono solo canzonette di Edoardo Bennato, e riarrangiate in versione musical dallo stesso cantautore.
Nel 2008, in occasione del 150º anniversario della nascita di Giacomo Puccini, Campeggi espone a Torre del Lago una serie di ritratti immaginari delle protagoniste dell’opera del compositore, in una mostra dal titolo Puccini e le sue donne.
Nel 2018 gli è stato dedicato un documentario in cui appare per l’ultima volta in pubblico, dal titolo As Time Goes By – L’uomo che disegnava sogni, diretto da Simone Aleandri e prodotto da Clipper Media e Istituto Luce.
È stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2018 e ha vinto il Tiburon International Film Festival 2018 come miglior documentario.
Poesie scelte di CRISTINA CAMPO pubblicate dalla Rivista Avamposto-
Cristina Campo, Poetessa itliana
Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini) nasce a Bologna nel 1923 e muore a Roma nel 1977. Il padre di Cristina Campo Guido è musicista. La madre appartiene a una famiglia della buona borghesia bolognese. Trascorre la prima infanzia a Bologna, all’Istituto Rizzoli del quale lo zio materno, Vittorio Putti, è direttore. Il difetto cardiaco (che l’accompagnerà per tutta la vita) le impedisce di frequentare regolarmente la scuola. Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Impara le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare. È traduttrice e critica, in entrambi gli ambiti riuscendo a profondere originalità e acume non comuni. Fra le innumerevoli frequentazioni di rilievo: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. La Tigre Assenza comprende tutte le sue poesie e traduzioni poetiche, edite e inedite.
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
***
Cristina Campo, Poetessa itliana
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
***
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda, senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia –
e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni… Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Cristina Campo, Poetessa itliana
Estate indiana
Ottobre, fiore del mio pericolo –
primavera capovolta nei fiumi.
Un’ora m’è indifferente fino alla morte
– l’acero ha il volo rotto, i fuochi annebbiano –
un’ora il terrore di esistere mi affronta
raggiante, come l’astero rosso.
Tutto è già noto, la marea prevista,
pure tutto si ottenebra e rischiara
con fresca disperazione, con stupenda
fermezza…
La luce tra due piogge, sulla punta
di fiume che mi trafigge tra corpo
e anima, è una luce di notte
– la notte che non vedrò –
chiara nelle selve.
Elegia di Portland Road
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio…
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori)
Testi selezionati da La Tigre Assenza (Adelphi, 1991)
Biografia di Cristina Campo-Bologna 1923 – Roma 1977-
Fonte Enciclopedia delle donne- scheda di Delia Demarco
Cristina Campo, Poetessa itliana
“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle, esse penetrano in me per sempre attraverso la penna e la mano come per osmosi”
Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce il 29 aprile del 1923 a Bologna. Figlia del maestro di musica Guido Guerrini e di Emilia Putti.
Durante il suo percorso letterario usa numerosi altri pseudonimi: La Pisana, Bernardo Trevisano (personaggio realmente esistito e alchimista del 1400), Puccio Quaratesi, Giusto Cabianca, nascondendosi anche dietro la firma di Rodolfo Wilcock o di Elémire Zolla, suo compagno dalla fine degli anni ‘50 con cui collabora in traduzioni e progetti.
Per lei la scelta dello pseudonimo è un ritorno al gioco d’infanzia:
“Da bambini si giocava a darsi dei nomi, avevo 15 anni e giocavo con una mia dolcissima amica che morì sotto la prima bomba che cadde su Firenze. Da allora questo nome dato per gioco mi diventò più caro del mio, e questo è tutto”.
Una malformazione cardiaca, presente fin dalla nascita, le impedisce di frequentare le scuole con costanza, ripiegando su una formazione privata e sotto la guida paterna. Ben presto i libri diventano per lei compagni costanti e “pane sacramentale”. È impossibile, quindi, dividere la storia della vita di Cristina Campo dalla storia delle sue letture. Dalle prime letture profane, fiabe e poesia, a quelle più sacre dell’ultimo periodo della sua esistenza.
I suoi riferimenti culturali saranno per tutta la vita principalmente due: Simone Weil e Hugo Von Hofmannsthal, la “sua mano destra e la sua mano sinistra”, ama dire di loro agli amici.
Già da giovanissima conosce le opere di Shakespeare, Omero, Dante, Leopardi e la Bibbia. Le fiabe, in particolare, le svelano il potere del mondo dei simboli e la possibilità di dare senso all’esistenza:
“Insegnano a spiccarsi il cuore dalla carne…Poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile”
In casa Guerrini vige da sempre una regola alla quale Vittoria non si sottrae mai: i classici devono essere letti esclusivamente in lingua originale. Per Cristina Campo, quindi, non sarà difficile imparare la sottile arte della traduzione. Tradurre per lei significa non tradire né lo spirito e né l’intento dell’autore. Ciò le permette di diventare presto stimata traduttrice di autori della sfera anglosassone (John Donne, Emily Dickinson, Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, Thomas E. Lawrence, Christina Rossetti), ma non solo. Traduce anche dallo spagnolo, dal tedesco, dal francese e dal latino.
Durante gli anni della guerra, l’intera famiglia Guerrini si trasferisce a Firenze per seguire il padre impegnato a dirigere il Conservatorio Cherubini. Ben presto il capoluogo toscano diventa la città complice della crescita letteraria di Cristina. Qui inizia a frequentare un ambiente culturale molto fertile: il poeta Mario Luzi, i germanisti Leone Traverso – con il quale avrà una relazione – e Gabriella Bemporad e le amiche Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell.
Risalgono a questo periodo le sue traduzioni dei racconti di Katherine Mansfield, ma non dimentica mai l’amatissima Simone Weil, impegno di vita e centro del suo vocabolario interiore. Su di lei scrive un breve saggio Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio e, con la determinazione di un’esperta consulente editoriale, si spende nel promuovere la diffusione dell’opera dell’autrice francese presso varie case editrici italiane.
Nel 1953 l’editore Casini di Roma la coinvolge nella preparazione di un’ antologia di poetesse ai vertici della poesia al femminile. Per l’occasione Campo seleziona alcune delle poetesse più geniali: Saffo, Vittoria Colonna<, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Emily Dickinson, Christina Rossetti, ma Il libro delle 80 poetesse non vedrà mai pubblicazione e il manoscritto sarà purtroppo perduto.
Nel 1955 si trasferisce a Roma, seguendo gli impegni lavorativi del padre assegnato a dirigere il Conservatorio di Santa Cecilia. L’anno successivo al trasferimento romano, viene pubblicato Passo d’addio, raccolta di poesie scritte tra il 1954 e il 1955.
Alla fine degli anni ‘50 collabora per la RAI come recensore di libri, specialmente di poesia. È di questi anni l’incontro con Elémire Zolla, noto orientalista e marito della poetessa Maria Luisa Spaziani. Il sodalizio lavorativo tra i due si trasforma presto in relazione sentimentale.
Nel 1959 torna a occuparsi della sua amata Simone Weil curando una sezione a lei dedicata su Letteratura e ne traduce due testi: Venezia salva e L’Iliade o il poema della forza. Mentre è del 1958 la poesia Elegia di Portland Road, ultimo indirizzo di residenza di Simone Weil prima di morire a Londra per tubercolosi.
Tramite Zolla scrive per la rivista Conoscenza religiosa da lui diretta e vengono pubblicate due sue poesie (Missa Romana e La Tigre Assenza). Dagli anni ‘60 in poi, scrive poco ma traduce molto. Sono del 1961 le traduzioni per Einaudi delle poesie di William Carlos Williams, incontrato nell’estate del 1957 a Manziana e nel 1971 l’Italia scopre John Donne grazie a Poesie amorose e teologiche, da lei tradotte per Einaudi. Nel 1963 traduce alcuni testi per I mistici dell’Occidente di Zolla con lo pseudonimo di Giusto Cabianca. La vicinanza a Zolla la spinge a interessarsi sempre di più a tematiche religiose e al mondo dei miti e dei simboli. È, infatti, del 1962 la pubblicazione del volume Fiaba e mistero.
Pur frequentando ambienti intellettuali vivissimi e raffinati – dalla Firenze di Mario Luzi alla Roma di Maria Zambrano, Elsa Morante e Maria Bellonci – preferisce riunire nella sua casa romana un piccolo gruppo di amici fidati. Dal salotto di Cristina Campo prenderà corpo il progetto di quella che sarà la casa editrice Adelphi: Bobi Bazlen e Luciano Foà, infatti, frequentano da sempre le serate a casa di Cristina. Nel 1963 nasce l’Adelphi, Bazlen e Foà decidono di portarsi con sé un altro amico e frequentatore del salotto di Cristina Campo: l’allora ventunenne Roberto Calasso. Tra le numerose e preziose pubblicazioni, L’Adelphi avrà anche il merito di diffondere l’opera di Cristina Campo in Italia.
Donna fragile come il vetro ma dura come il cristallo e dallo spirito guerriero, Campo legge e fa leggere, traduce, scrive. I suoi amori sono letterari: il germanista Traverso, il poeta Luzi, l’intellettuale Zolla, che la ricorda così:
“Aveva un carattere molto curioso. Da un lato c’era una volontà di comunicare i suoi entusiasmi, che era la sua grande carta, perché con questa si conquistava la simpatia di tutti coloro che fossero minimamente in vita. E ne aveva parecchi di entusiasmi. Per un paesaggio, per un quadro, per una persona, per un libro. Fissava su ciascuno questi fari potentissimi e suggestionava, faceva spiccare un volo. Era il suo lato seducente. Ma subito dopo poteva accendersi una fiammata di stizza(…) Accadeva era quasi fatale. Ed erano attacchi furibondi. Quando vuole, Cristina sa essere tagliente come un diamante. Può rompere un’amicizia per una piccola caduta di stile, disconoscere un poeta amato per un verso appena al di sotto dell’eccellenza”
Antimoderna e antiprogressista con simpatie politiche apertamente di destra, è, come tutte le personalità complesse, contraddittoria: ama uomini sposati (Luzi, Zolla), è apertamente di destra ma frequenta amici di sinistra, anche ex partigiani. È aristocratica, odia il consumismo e la mediocrità della società di massa, ma aiuta concretamente le persone ai margini, mostrandosi sensibile verso i perdenti e gli esclusi. Detesta l’avanguardia letteraria e l’impegno sociale e politico da parte dello scrittore. Per lei essere scrittore significa scrivere per sottrazione, tacere, dare la penna ad altri, “scrivere per nessuno”, da qui la complessità delle contraddizioni dell’essere Cristina Campo, da qui la sua inafferrabilità.
Da un parte c’è la poesia, la pratica della scrittura, dall’altra l’adesione alla chiesa bizantino-ortodossa. L’amore per la liturgia bizantina, in comune con la Weil, la spinge a prendere casa vicino all’Abbazia di Sant’Anselmo sull’Aventino di cui diventa assidua frequentatrice. Durante il decennio di proteste tra il 1960-1970, non è mai attivista per nessuna causa politica o sociale, ma manifesta aspre critiche verso l’introduzione della messa in italiano; per lei, da sempre amante della bellezza della liturgia latina, è un cambiamento talmente sconvolgente da rasentare l’oltraggio. Decide, così, di esporsi e di stendere un manifesto-appello in difesa della liturgia tradizionale. Il manifesto, reso pubblico il 5 febbraio del 1966, è firmato da trentasette artisti e intellettuali, tra i quali Auden, Borges, Bresson, De Chirico, Dreyer, Montale, Quasimodo, Zolla. Inizia a scrivere lettere di protesta e petizioni fondando l’associazione “Una Voce” che vede Eugenio Montale come presidente.
Nonostante il desiderio di scrivere poco e pubblicare meno, è invece molto generosa nella corrispondenza epistolare con amici, conoscenti, colleghi, come, ad esempio, la poetessa argentina Alejandra Pizarnik, conosciuta a Parigi negli anni ‘60 e alla quale scriverà fino al 1970.
Lascia così numerose lettere che vengono raccolte in libri postumi: da Lettera a Mita a Se tu fossi qui – Lettere a Maria Zambrano, da Lettere a un amico lontano a Il mio pensiero non vi lascia – Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino.
Su tutti, Lettere a Mita rimane il carteggio fondamentale per comprendere l’universo interiore di Cristina Campo: lettere paragonabili, secondo Cesare Galimberti, a quelle del Tasso e del Leopardi e destinate all’amica Margherita Pieracci Harwell, a testimonianza di un’amicizia – nata nel 1952 – tra due donne che si incontrano grazie alla passione comune per la sempre presente Simone Weil.
Leggere Cristina Campo non è quasi mai impresa facile: è come scalare “una montagna su cui si può cercare tutta la vita”, come sostiene giustamente Cristina De Stefano, autrice della biografia Belinda e il mostro. I suoi testi sono profondi e con continui rimandi ad altri scritti, ma l’originalità delle sue riflessioni, l’uso musicale della parola e il ritmo della lettura, ripagano di ogni sforzo compiuto per avvicinarla e in continua scoperta del valore sacrale della parola:
“La parola per me è una cosa terribile, è un filo scoperto, elettrico… con il verbo non si scherza… Possiamo fare un male terribile, dire immense sciocchezze di cui ci pentiremo dieci anni dopo. Possiamo educare, formare anime ancora tenere con una sicurezza bersagliera che dopo alcuni anni rimpiangeremo. Ho sempre avuto una gran paura della parola: ho scritto molte cose che non ho pubblicato e non me ne importa nulla. Domani, se stessi per morire, ne butterei nel fuoco molte. ‘Di ogni parola inutile sarà chiesto conto’, dice la Scrittura”.
Oggi critica e pubblico l’hanno finalmente riscoperta grazie a pubblicazioni postume, spesso curate dall’amica Margherita Pieracci Harwell, come la raccolta dell’intera opera saggistica in Gli imperdonabili (1987) e La Tigre assenza (1991), raccolta delle sue poesie e delle sue traduzioni poetiche.
Il volume Sotto falso nome (1998) raccoglie, invece, articoli, prefazioni e altri scritti sparsi e pubblicati con diversi pseudonimi.
È l’inizio di una seconda vita editoriale.
Scompare a Roma, a 53 anni, il 10 gennaio del 1977 nel silenzio di un ambiente letterario che non l’aveva ancora compresa.
Sarà Roberto Calasso a ricordarla in quell’inverno del 1977 su Il Corriere della Sera:
“Una scrittrice che ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori, e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Cristina Campo
Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, 2002
Camillo Langone, Cristina Campo, in Italiane, a cura di E. Roccella – L. Scaraffia, III, Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Roma, 2004
La Rivista «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Rivista Avamposto-
-Contatti
Corso Siracusa 67, 10137 Torino (c/o Sergio Bertolino)
Roma al Teatro San Raffaele va in scena :”TERESA, un donna che ha scelto la povertà”- Regia di Francesco Sala-
Il 9, 10 e 11 Maggio 2025, al Teatro San Raffaele, a Roma, L’Amàca Onlus metterà in scena “Teresa, una donna che ha scelto la povertà”, liberamente tratto dal Musical di Michele Paulicelli, sapientemente rivisto e riadattato in chiave attuale dal bravissimo regista Francesco Sala, con le spettacolari coreografie di Rossana Longo.
L’Amàca Onlus, associazione che promuove in Italia (Roma) e in Africa (Sénégal, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo) progetti di assistenza sociale e socio-sanitaria con l’obiettivo di favorire forme di solidarietà, l’inclusione sociale e l’aiuto a famiglie in difficoltà, ha ripreso un suo progetto di successo di circa 20 anni fa ed ha rimesso in scena il Musical sulla storia di Madre Teresa, con il quale – tra il 2005 e il 2007 – aveva girato l’Italia. La regia di questa edizione è stata affidata al bravissimo Francesco Sala, le coreografie invece ora come allora sono opera di Rossana Longo. Nuovo il cast: cantanti, attori e ballerini, immutata la passione e l’entusiasmo con cui si è allestito lo spettacolo.
Un racconto in musica, dunque, che mette al centro dello spettacolo, del tutto in primo piano, le parole di Madre Teresa di Calcutta, che ha dedicato la sua esistenza ai poveri e agli emarginati. Concretezza assoluta nel quotidiano, piglio assai deciso e pratico, preghiera e azione all’unisono, ma anche l’esperienza dello sconforto, della sofferenza, di paure e timori: questi gli ingredienti che vengono portati sapientemente sul palco da un ricco cast di attori, cantanti e ballerini.
Tutti insieme danno vita e ripercorrono alcuni momenti – decisivi momenti – dell’opera missionaria di Madre Teresa. In uno spazio epico da bassofondo dove regna la povertà, la fame e la malattia, i suoi gesti, le sue preghiere diventano canto e danza, le sue parole si “incarnano” nella voce e nei corpi degli attori-danzatori. E tutto assume un’altra luce.
Il regista Sala sottolinea come: il Teatro abbia la capacità di portarci “al risveglio della coscienza”, facendoci riflettere, magari anche con leggerezza, su temi gravi come il dramma della povertà e della malattia. E prosegue: “Ci auguriamo che la vita della Santa di Calcutta possa essere di ispirazione e di esempio per le nuove generazioni, per consentire loro di aprirsi ad una vita più vera, che non può essere quella mediata dai social o da uno smartphone, e possa davvero aiutarle a scoprire il miracolo delle piccole cose vissute con gioia, semplicità e condivisione”.
Regia Francesco Sala – Coreografie Rossana Longo
Cast:
Madre Teresa: Aurora Ghidini
Suor Bettina: Laura De Angelis
Mister Adams: Francesco Sala
Capo Brahmini/malato: Fabio Fois
Volontario: Andrea De Bruyn
Donna indiana povera/Peccatrice: Erica Tuzzi
Donna indiana ricca/Suorina: Gea Catania
Giornalista pazzo: Fabrizio Damiani
Malato/presentatore: Pietro Mosso
Suorina: Flavia Fiorini
Corpo di ballo formato dagli allievi del Centro studi danza Classica di Roma:
Giuliana Bruno-Rovine con vista Napoli e il cinema di Elvira Notari-
Quodlibet Studio-Editore-Macerata-Roma
Descrizione del libro di Giuliana Bruno-Una grande città, Napoli – con le sue strade, le sue vedute, il suo universo iconografico, la sua vocazione filmica – guardata a distanza di anni attraverso gli occhi di due donne.
Elvira Coda Notari (1875-1946), la prima e più prolifica cineasta italiana, tra il 1906 e il 1930 realizza più di sessanta lungometraggi, un centinaio di corti di «attualità» e numerosi brevi documentari commissionati da emigrati napoletani trasferiti in America, finché la censura fascista e la transizione al sonoro costringono la sua casa di produzione, la Dora Film, a cessare le attività.
Giuliana Bruno, napoletana, si trasferisce a New York negli anni Ottanta e lì inizia a ricostruire un momento particolare della storia della sua città di origine; quello in cui, insieme al cinema, nasceva la modernità, con i suoi innovativi linguaggi di movimento, i nuovi mezzi di trasporto, le gallerie o passages e le altre trasformazioni tecnologiche e urbanistiche che rivoluzionarono le modalità della percezione tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
A partire da frammenti filmici, fotogrammi, copioni e scritti emersi da una lunga ricerca d’archivio condotta in Italia e negli Stati Uniti tra quanto è rimasto a documentare la pionieristica opera di Elvira Notari e della Dora Film, Rovine con vista fa propria la visione del mondo di una regista dimenticata, che con la sua cinepresa ha cercato di catturare la città e le sue forme di vita «dal vero». Ne deriva una ricognizione trasversale che coinvolge il cinema e la fotografia, la letteratura e la storia dell’arte, la cultura popolare, i palcoscenici, le riviste, l’architettura e la storia della medicina.
«Un bellissimo libro… Rovine con vista può essere letto come racconto di un viaggio. Ci si mette in movimento e si seguono due piste: una, rigorosa e preziosissima, è la accurata ricostruzione analitica del cinema di Elvira Notari. L’altra, appena dissimulata da un filtro critico “alto” ma non impervio, è la tensione personale della donna che ha scritto il libro. Parlando da regista, è come se adesso esistesse un testo che potrebbe persino invitarmi alla trasposizione cinematografica, cioè a un impossibile remake, di un film che di fatto nessuno può più vedere. Oltre che per il suo impegno critico, è di questa tensione creativa e vitale che sono grato a Giuliana».
— Mario Martone
Indice
Premessa all’edizione italiana
Ringraziamenti
Introduzione. Coordinate di una ricerca
Parte prima. Elvira Coda Notari e il cinema napoletano: panorama storico
1. Problemi di storia e di cinema nella cultura italiana
2. Riviste di cinema e storiografia filmica
Parte seconda. Cinema su sfondo urbano: topoanalisi della spettatorialità
3. Passeggiando attorno alla caverna di Platone, ovvero l’inconscio ha trovato casa
4. Incorporamenti spettatoriali: anatomie del visibile e corpo-paesaggio femminile
Parte terza. La fabbrica della cultura cinematografica
5. Dora Film: una casa di produzione cittadina
6. Donne al lavoro: la manifattura filmica
7. La Dora Film d’America: donne ed emigranti nel sogno americano
8. Censura: tagliare le ali al desiderio
Parte quarta. Il tessuto metropolitano
9. Frammenti di un discorso analitico: lacune
10. L’architettura del melodramma pubblico: la corporeità della strada
11. Tra festa e legge: la carnevalizzazione del racconto
12. Vedute urbane: città-paesaggio cinematografica, prospettiva artistica e viaggio turistico
Parte quinta. Geografie femminili
13. Anatomia di un’analisi. Il noir d’autore
14. Cinema popolare e letteratura delle donne: il transito del discorso femminile
15. Figure della medicina: isteria e lezione d’anatomia
16. Topografie di oscuri piaceri femminili
17. Scritto sul corpo: erotismo, morte e agiografia
Postfazione. La mappa in rovina, riconnessa
Filmografia
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
Giuliana Bruno-Rovine con vista-
L’autore-Giuliana Bruno
Giuliana Bruno, nata a Napoli, vive a New York. È titolare della cattedra di Visual and Environmental Studies alla Harvard University ed è nota a livello internazionale per la sua ricerca che esplora le intersezioni tra arti visive, architettura e media. Con Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Bruno Mondadori, 2006; Johan & Levi, 2015) ha introdotto la categoria interpretativa della «geografia emozionale» e ha vinto il Premio Kraszna-Krausz per il miglior libro sulle immagini in movimento. Tra i suoi volumi si ricordano Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (Bruno Mondadori, 2009) e Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (Johan & Levi, 2016). Il suo ultimo libro è Atmospheres of Projection. Environmentality in Art and Screen Media (University of Chicago Press, 2022). Nel 2020 è stata insignita di un dottorato honoris causa dall’Institute for Doctoral Studies in the Visual Arts.
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Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-Figure di celluloide, di peluche e di carta
Quodlibet Studio
Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-
Descrizione del libro di Philippe-Alain Michaud, Anime primitive-Biblioteca DEA SABINA–Quindi è un libro di cinema? Non esattamente, o meglio, non soltanto, anche se tratta di immagini animate o di animazione. Parla piuttosto di disegno e di giochi, di trance, di sogno, di spettri, di unione e disgiunzione dell’anima e del corpo…
Un libro di storia dell’arte, di antropologia, di filosofia? Non direi, anche se prendo a prestito concetti di queste discipline per raccontare una storia che in fondo è la storia di tutte le storie: quella della trasformazione del corpo in figura e della sua comparsa nella rappresentazione. Cerco le tracce di questo fenomeno nelle forme più disparate, dall’universo di Krazy Kat o di Little Nemo, al cinema burlesco o scientifico, dal tarantismo del Sud d’Italia alle mitologie indoamericane…
E perché il titolo Anime primitive? Le anime primitive sono le anime separate, come lo sono le figure. Perché una figura appaia bisogna che un corpo scompaia: la figurabilità non è altro che il racconto di una separazione. È per questo che la questione della rappresentazione è così connessa al lutto e a sua volta il lutto ci rimanda sempre all’enigma della rappresentazione.
«In L’anima primitiva, Lucien Lévy-Bruhl descrive i morti, o meglio i fantasmi, come degli esseri che somigliano ai vivi ma sono “incompleti e decaduti”: al momento delle loro apparizioni hanno piuttosto l’aria di fantasmi o di ombre, anziché di esseri reali. Hanno un corpo simile al nostro, ma senza consistenza o spessore. Alla logica dell’essere si sostituisce quindi una logica dell’apparire: i ghosts sono figure persistenti che si caricano di un effetto di ritardo o di sospensione».
Indice
Introduzione. Guignol, o della non vita
I. Sullo schermo
II. Simulacri
III. La commedia di distruzione
IV. Uomini-ragno
V. Peluche psicopompi
VI. Krazy Katchina
VII. Il coniglio Oswald, macchina desiderante
VIII. Dreamland (pavor nocturnus)
IX. I figli della notte
X. Fantasmagoria
XI. Thanatografia
XII. A volte ritornano
Ringraziamenti
Indice dei nomi
L’autore-Philippe-Alain Michaud, filosofo e storico dell’arte, dirige il Dipartimento di cinema sperimentale del Centre Pompidou di Parigi e insegna all’Université de Genève. Tra le mostre da lui curate: Comme le rêve le dessin (Musée du Louvre-Centre Pompidou, Parigi, 2005); Electric Nights (MAMM, Mosca, 2010); Tapis volants / Tappeti volanti (Tolosa-Roma, 2012); Hans Richter. La traversée du siècle (Centre Pompidou, Metz, 2013-2014); Beat Generation (Centre Pompidou, Parigi, 2016); L’Œil extatique. Sergueï Eisenstein à la croisée des arts (Centre Pompidou, Metz, 2019-2020). Tra le sue pubblicazioni: Aby Warburg et l’image en mouvement (Macula, Paris 1998); Sketches. Histoire de l’art, cinéma (Kargo & l’Éclat, Paris 2006); Sur le film (Macula, Paris 2016); Âmes primitives (Macula, Paris 2019). Fa parte del comitato di redazione dei «Cahiers du musée national d’art moderne» e dirige la collana «La littérature artistique» per Macula.
Recensione di Luigi Azzariti-Fumaroli-«Antinomie»
Nel tentativo di trovare «riposo nell’erudizione, in questa fuga lungi dalla nostra vita che non abbiamo il coraggio di guardare», o, più semplicemente, da ciò che di «altro un altro anno prepar[a]», si è atteso alla lettura dell’edizione italiana, appena apparsa presso Quodlibet, d’un volume pubblicato originariamente in Francia nell’estate 2019 per l’editrice parigina Macula, e di cui si era avuta notizia qualche mese dopo, scorrendo le pagine di Critique d’art. Guitemie Maldonado vi aveva dedicato una breve recensione: «Leggere questo libro di Philippe-Alain Michaud significa percorrere un’intera sezione della cultura e del pensiero visivo moderno in compagnia di una guida tanto colta quanto ispirata. Dall’introduzione, si passa dalle prime esperienze di Franz Kafka, Maxim Gorki e Siegfried Kracauer come spettatori di film alla storia del teatro delle ombre: si stabilisce così un movimento dialettico tra “rappresentazione del reale” e “presentazione dell’irrealtà”, radicato nell’idea di “reale” e “irreale”, ancorato all’idea che “tanto quanto l’apparizione delle figure, è la scomparsa dei corpi che il cinema racconta”, “il battito meccanico dell’otturatore […] inscrive un evento di scomparsa nel cuore dell’esperienza filmica per farne la condizione di possibilità della formazione delle figure”». Con le dande offerte da una pletora di phares, ora incliti ora oscuri, l’autore – si leggeva – prosegue in una disamina volta ad «individuare il ruolo dell’animismo» nella cultura moderna, ricorrendo ad esempi tratti non soltanto dalle pellicole cinematografiche, ma pure dai fumetti, dalla pittura, da alcuni riti tribali e persino dalla storia di certi giocattoli, considerati capaci di perpetuare un insieme di credenze relative alla vita dell’anima in virtù del loro mettere in scena dei «fenomeni d’incorporazione che si prolungano oltre i limiti dell’esistenza grazie all’intervento della figura animale». Pur nutrendo, colpevole forse anche un’eccessiva frequentazione delle “laboriose inezie” manganelliane, qualche scetticismo verso le recensioni che intendano far opera di servizio per il lettore, si è dunque preso a leggere lo studio di Michaud essendo già avverti, benché per sommi capi, dei suoi contenuti, e perciò interessati soprattutto ad approfondire alcuni temi ch’erano stati profilati in quel ritaglio di rivista. Del resto, secondo quanto ha insegnato Walter Benjamin, affinché un’esegesi possa risultare efficace è sufficiente ch’essa si componga di due parti: la glossa e la citazione. Le quali, a loro volta, non sono altro che «segnali indicativi» tracciati sulle pagine dalla matita, nella sua veste – direbbe Valerio Magrelli – di «ossatura / esile del pensiero».
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Il titolo (come uno dei due eserghi) del lavoro di Michaud richiama espressamente l’opera dell’antropologo Lucien Lévy-Bruhl, L’Âme primitive (1927), nella quale, come osservò, nel 1948, Ernesto De Martino introducendo l’edizione pubblicata per i tipi di Boringhieri, veniva per la prima volta delucidata quella mentalità che «rende misticamente partecipe ciò che, per noi, è distinto»: il che la fa essere poco o punto sensibile al principio di contraddizione (per cui A è diverso da B), con la conseguenza ch’essa si troverebbe prigioniera d’un delirio immodificabile, perché refrattario ad essere smentito dall’esperienza. Un delirio, tuttavia, dotato di una logica retta da quella particolare legge che governa ogni forma di soppressione di “linguaggio concordante”, sicché a connotare quest’ultimo sarebbe soltanto una “confusione”, che, d’accordo con Filone di Alessandria, si dirà non già equiparabile ad un “miscuglio”, ad una “combinazione” o ancora ad una “giustapposizione” e neppure ad una “separazione” o “divisione”, bensì alla sparizione di ogni elemento che non possa più essere separato, tanto che nulla più rimane delle qualità originarie, e tutto inclina verso la formazione di un’unica qualità. Lévy-Bruhl la chiama“mana”, termine melanesiano che indica una forza anonima e impersonale della quale parteciperebbero tutti gli esseri: essa sarebbe «sostanza, essenza, forza e unità di qualità diverse», in grado di conferire alle cose e agli esseri animati un carattere misterioso. Ed è di questo enigmatico potere interiore che Michaud si propone di indagare i riverberi che si prolungano in quegli spazi interstiziali compresi «tra la parte visibile ed il piano di fondo», e dai quali come da un leonardesco spiracolo o da un sartriano buco della serratura guateremmo «la pura coscienza delle cose e le cose stesse», così da non essere più osservatori, ma meri oggetti, cose fra cose.
Per Michaud, questa forma di reificazione troverebbe una prima esemplificazione nelle pantomime dei clown ovvero nelle gag interpretate dai protagonisti di certe pellicole di genere slapstick, in quanto il corpo vi sarebbe rappresentato come «un organismo privo di anima e dotato d’una plasticità che eccede o ignora il dato fisiologico e le regole di verosimiglianza che dovrebbero regolarne l’azione». Ma sarebbe stato specialmente un «film pressocché insopportabile», The Act of Seeing with One’s Own Eyes, terzo capitolo del trittico dei Pittsburgh Documents (1970) di Stan Brakhage (fig. 1), a mettere in scena in modo definitivo, attraverso la ripresa cinematografica d’una granguignolesca autopsia, non delle figure, ma dei corpi, i quali, però, finirebbero per non rappresentare altro che la condizione d’ogni figura, rendendosi così sopportabili o semplicemente possibili. Un cortocircuito che peraltro – nota Michaud – caratterizzerebbe anche le tante lezioni d’anatomia che la storia dell’arte annovera, a cominciare da quelle di Rembrandt (fig. 2), e nelle quali s’assisterebbe alla descrizione della vita attraverso la sua assenza.
Attorno a questa assenza, a questo vuoto indefinibile, Michaud indugia con lo specillo dell’anatomista, nella convinzione di poter così celebrare «i fasti e le superiori geometrie della vita», la quale, per farsi oggetto di conoscenza e di osservazione, parrebbe dover cessare d’essere tale. In tal senso, la seconda metà del suo studio parrebbe potersi leggere come il tentativo di teorizzare ciò che Francis Bacon definiva “emanazioni”, ossia di catalogare quelle “figure” che sembrano per certi versi promanare dalla loro stessa carne. Jean-Louis Schefer le ha definite simili a pittura che si può spazzolare, gettare, una pasta liquida, una sostanza senza soggetto che produce figure: lo sperma della vita di cui parla Proust. Michaud preferisce cogliere questo “qualcosa” che è creato dalla forma stessa, in certe figure semi-animali come le katcinas (fig. 3) degli indiani Hopi: «bambole o pupazzi di cui ai bambini si raccontano storie a volte paurose a volte divertenti, ma che sono anche una rappresentazione dei defunti e assicurano una continuità tra i vivi e i morti. Sono le immagini lasciate dagli spiriti prima di scomparire per sempre». Esse, non diversamente da quanto accade per i peluches quando intesi come “oggetti transizionali”, rappresenterebbero un principio vitale in un corpo inumano. La figura zoomorfa assolverebbe insomma ad una funzione psicopompica. La medesima assolta dal cartone animato di marca disneyana, considerato – anche sulla scorta di alcuni rilievi di Ėjzenštejn – il segno del completo abbandono di ogni costruzione psicologica, a vantaggio di un movimento perpetuo, nevrotico e febbricitante.
Questo stato spasmodico sembra invero pervadere lo stesso dettato di Michaud, che scivola avanti e indietro fra i diversi autori ch’egli convoca a sostegno delle proprie affermazioni, ma sempre guardandoli di sfuggita. È per questo forse che i riferimenti bibliografici, scelti per lo più in forza d’una regola analogica, rivelano nella sua scrittura un certo manierismo, se è vero che questo, linguisticamente, può individuarsi, secondo Ludwig Binswanger, in una pluralità di riferimenti “innaturali” enorme, smisurata, che fa saltare o lascia negletti i “confini naturali”. Vi è, nel citazionismo che caratterizza la scrittura di Michaud, un che di compulsivo, non dissimile dal modo di disegnare o di scrivere di artisti e scrittori ch’egli stesso ricorda, come Winsor McCay, Gabriel de Saint-Aubin (fig. 4) o Thomas Browne.
Quest’ultimo è in particolare evocato per la sua familiarità coi fantasmi, al centro delle pagine finali di Anime primitive, ispirate dal desiderio di offrire un ulteriore tassello a quella “scienza degli spettri” di cui Pierre Le Loyer, nel secolo XVII, intendeva gettare le basi, interrogandosi sui diversi “non essere” che hanno accompagnato per secoli il discorso più intimo della cultura occidentale e che ci insegnerebbero a considerare ogni esistenza soltanto nelle sue intermittenze. A partire da quella che si pone sotto il nome di “Io”. Infatti, «se la possibilità della mia scomparsa in generale» – ha scritto Jacques Derrida, fra i riferimenti più ricorrenti nelle pagine di Michaud – «deve essere vissuta in un certo modo perché possa istituirsi un rapporto alla presenza in generale, non si può più dire che l’esperienza della possibilità della mia scomparsa assoluta (della mia morte) venga ad intaccarmi, sopravvenga ad un io sono e modifichi il soggetto». Questo sarebbe infatti già da sempre solo un’ombra in congedo ed in annuncio, memore appena del suo dileguare. Farne l’epicrisi sarebbe perciò impossibile, a meno di sconfinare nel comico, come accade in Autopsia de un fantasma (1968) di Ismael Rodriguez. Peraltro, La scienza del comico (ma Umberto Eco, nella prefazione, segnalava che miglior titolo sarebbe probabilmente stato Il comico della scienza) è un saggio di Giorgio Celli che Michaud non manca di menzionare, traendolo dal «Mottenwelt», dal «mondo di tarme» in cui il tempo l’ha confinato, e di cui rammenta un passo nel quale si tratteggia la figura dell’anatomista come «un carnefice per delega cadaverica». Una definizione dove echeggia la passione, comune a Celli e a Michaud, per il grottesco: «rire vrai, rire violent» – osservava Baudelaire – a cospetto di oggetti che non sono un segno di debolezza o di sventura, ma, all’opposto, «créations fabuleuses», come, ad esempio, gli anaglifi, gli automati, le bambole, i peluches, le cere anatomiche, gli utensili chirurgici del dottor Farabeuf.
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– ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -Edizione del TCI anno 1929-copia anastatica-
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ABBAZIA di FARFA-situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’abbazia – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
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Tutto avviene in un lungo e incredibile week end dal 18 al 21 di Maggio.La Mille Miglia fa Tappa a ROMA e ritorno a Brescia .La 35esima edizione rievocativa partirà da Brescia il 18 maggio: quattro tappe, passaggio da Roma e ritorno. In forte crescita le domande di iscrizioni.
La Mille Miglia compie 90 anni dalla prima edizione del 1927 e si appresta a disputare la trentacinquesima edizione rievocativa. La manifestazione è stata presentata ieri a Palazzo Loggia, sede del Comune di Brescia. Sono in forte crescita le iscrizioni: 695 sono le domande di partecipazione e 440 saranno le vetture accettate (tutte costruite tra il 1927 e il 1957), provenienti da 41 Paesi di cinque Continenti. Per il quinto anno consecutivo, a curare la corsa su strada più celebre di ogni tempo, sarà 1000 Miglia Srl, società totalmente partecipata dall’Automobile Club di Brescia. Il percorso della Mille Miglia 2017 presenta alcune varianti rispetto al 2016. Da giovedì 18 a domenica 21 maggio saranno attraversati più di 200 comuni, 7 regioni e la Repubblica di San Marino. Tra le novità, spiccano le “prove spettacolo” che le vetture in gara disputeranno in alcune piazze storiche italiane. Le prove cronometrate salgono a 112, più 18 rilevamenti in 7 prove a media imposta. La classifica finale, dopo l’applicazione dei coefficienti sarà così costituita da un totale di 130 tratti a cronometro. Le “prove spettacolo” si correranno nelle piazze di Verona, Castelfranco Veneto, Ferrara, Pistoia, Busseto e Canneto sull’Oglio. Le ultime prove cronometrate della Mille Miglia 2017, decisive per la classifica, saranno disputate in un contesto suggestivo: le piste dei Tornado del 6 Stormo dell’Aeroporto Militare di Ghedi. La Mille Miglia 2017 continuerà a essere disputata in quattro tappe. Il prologo, martedì 16 maggio, sarà il Trofeo Roberto Gaburri, gara di regolarità alla quale prenderanno parte un centinaio di vetture. La partenza avverrà da Viale Venezia, alle ore 14.30 di giovedì 18 maggio. Rispettando la tradizione nata nel 1927 e la prima tappa si concluderà a Padova. Il giorno dopo, venerdì 19 maggio, la seconda tappa porterà i concorrenti a Roma, con la passerella in Via Veneto. Sabato 20, con start alle 6.30, il percorso dalla Capitale resterà invariato fino alla Toscana e si concluderà a Parma da dove ripartirà la domenica per far ritorno a Brescia.
La Mille Miglia è stata una competizione automobilisticastradale di granfondo disputata in Italia in 24 edizioni tra il 1927 e il 1957. Si trattava di una gara di velocità in linea con partenza ed arrivo a Brescia in cui i concorrenti arrivavano fino a Roma attraverso il Centro–Nord Italia. Il nome della gara deriva dalla lunghezza del percorso; infatti, nonostante diverse variazioni nel corso degli anni, rimase lungo circa 1600 chilometri equivalenti a circa mille migliaimperiali. Fu cancellata dopo l’edizione 1957 a causa della tragedia di Guidizzolo.
Dal 1977 la Mille Miglia rivive sotto forma di gara di regolarità storica a tappe la cui partecipazione è limitata alle vetture, prodotte entro il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale. Il percorso Brescia-Roma-Brescia ricalca, pur nelle sue varianti, quello della gara originale mantenendo costante il punto di partenza/arrivo in viale Venezia all’altezza dei giardini del Rebuffone.
L’edizione del novantesimo anniversario del 2017 è quella con il record di iscritti: 705[1].
Prima della guerra
«Mille Miglia; qualcosa di non definito, di fuori dal naturale, che ricorda le vecchie fiabe che da ragazzi ascoltavamo avidamente, storie di fate, di maghi dagli stivali, di orizzonti sconfinati. Mille Miglia: suggestiva frase che indica oggi il progresso dei mezzi e l’audacia degli uomini. Corsa pazza, estenuante, senza soste, per campagne e città, sui monti e in riva al mare, di giorno e di notte. Nastri stradali che si snodano sotto le rombanti macchine, occhi che non si chiudono nel sonno, volti che non tremano, piloti dai nervi d’acciaio.»
(Giuseppe Tonelli, da: 100 macchine si lanciano da Brescia per le “Mille Miglia”, La Stampa, 27 marzo 1927[2])
La corsa venne ideata ed organizzata, come gara di velocità in linea (non a tappe) da quattro amici in risposta alla mancata assegnazione a Brescia, loro città natale, del Gran Premio d’Italia, organizzato nel nuovo autodromo di Monza.
I quattro, che divennero poi noti come i quattro moschettieri della Mille Miglia, sono il conte Aymo Maggi, pilota e finanziatore, il conte Franco Mazzotti, giornalista, pilota, finanziatore e presidente del RACI di Brescia, Renzo Castagneto, l’organizzatore vero e proprio, e Giovanni Canestrini, il decano dei giornalisti italiani nel settore automobilistico.
Fu scelto un percorso a forma di “otto” da Brescia a Roma e ritorno lungo circa 1600 km, equivalenti a circa 1000 miglia, da cui il nome, suggerito da Franco Mazzotti, di recente ritorno da un viaggio in America. A Mazzotti nel secondo dopoguerra sarà poi intitolato il trofeo “Coppa delle Mille Miglia”, attribuito ai vincitori della gara, che venne quindi denominata anche “Coppa Franco Mazzotti”.
La prima edizione partì alle 13 del 26 marzo 1927, con la partecipazione di 77 equipaggi, 2 soli dei quali stranieri (al volante delle piccole Peugeot 5 CV). Di loro 55 portarono a termine la corsa mentre 22 vetture furono costrette al ritiro. Alla fine un equipaggio bresciano composto da Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi a bordo di una bresciana OM 665 “Superba” S torpedo tagliò per primo il traguardo completando il percorso in 21 ore, 4 minuti, 48 secondi e 1/5 alla media di 77,238 km/h.
Solo dopo l’enorme successo della prima Mille Miglia si decise di ripetere la prova negli anni a venire e l’evento divenne così importante che il tracciato fu modificato per ben tredici volte per far passare la gara anche da altre città.
Preparativi per la partenza della Mille Miglia 1930.
Il 1938 fu segnato da un grave incidente a Bologna, infatti una Lancia Aprilia uscì di strada, finì sulla folla, uccise dieci spettatori, di cui sette bambini, e ferì altre ventitré persone. In seguito a tale sciagura il capo del governo, Benito Mussolini, decise di non concedere più l’autorizzazione per svolgere gare di velocità su strade pubbliche.
Dopo la pausa del 1939, nel 1940, a guerra iniziata, si riuscì a organizzare una nuova gara, chiamata ufficialmente Gran Premio di Brescia delle 1000 Miglia, che consisteva in nove giri di un circuito chiuso triangolare che toccava le città di Brescia, Cremona e Mantova in modo da raggiungere la lunghezza di circa 1000 Miglia.
Tra il 1941 e il 1946 non fu possibile organizzare la corsa a causa della seconda guerra mondiale.
Questa fu l’ultima vittoria di un’Alfa Romeo alla Mille Miglia, l’anno dopo si aprì la schiera di successi Ferrari continuata fino al 1957 e interrotta solo nel biennio 1954-55 dalle vittorie di Lancia e Mercedes-Benz. Proprio alla Mercedes-Benz 300 SLR#722 di Stirling Moss e Denis Jenkinson appartiene il record assoluto della gara con i 1.592 km percorsi in 10 ore, 7 minuti e 48 secondi a 157,650 km/h di media[3]. Il segreto di questa straordinaria prestazione risiedeva in un rotolo di carta lungo quattro metri e mezzo che Jenkinson usò per dirigere Moss durante la gara e su cui aveva annotato le caratteristiche della strada in base alle ricognizioni del percorso effettuate prima della corsa.
Nel 1957 una Ferrari 335 S fu coinvolta in un incidente sulla Goitese nei pressi di Guidizzolo (ma nel territorio comunale di Cavriana), in provincia di Mantova, causato dallo scoppio di uno pneumatico, che costò la vita al pilota spagnoloAlfonso de Portago, al navigatore americano Edmund Gurner Nelson, e a nove spettatori, cinque dei quali bambini. A causa dello shock provocato nell’opinione pubblica la corsa venne definitivamente soppressa. A seguito dell’incidente Enzo Ferrari, costruttore della vettura coinvolta nell’incidente, subì un processo che durò alcuni anni e dal quale uscì assolto.[4]
L’Automobile Club di Brescia effettuò un tentativo per dare continuità alla corsa e nel 1958, nel 1959 e nel 1961, di fronte alla irremovibilità delle autorità che non concessero i nulla-osta necessari per le corse di velocità su strada, organizzò tre edizioni ancora denominate Mille Miglia ma disputate secondo una formula che prevedeva brevi tratti di velocità alternati a lunghe tratte di trasferimento da percorrere alla velocità media di 50 km/h (con penalizzazione per gli eventuali ritardi).
La Mille Miglia rese vittoriosi e noti in tutto il mondo marchi di auto sportive italiane come Alfa Romeo, Lancia e Ferrari.
Escludendo l’edizione del 1940 (svoltasi su un veloce circuito stradale Brescia-Cremona-Mantova) e le ultime tre Mille Miglia del 1958, 1959 e 1961 (edizioni di regolarità e velocità), le altre 23 edizioni della corsa – quelle che potremmo definire le “classiche” Mille Miglia – si sono disputate con partenza e traguardo a Brescia e giro di boa intermedio a Roma, su itinerari di lunghezza prossima ai 1600 km (approssimativamente 1000 miglia). Negli anni sono state ben tredici le variazioni apportate al percorso Brescia-Roma-Brescia, che ha avuto una lunghezza compresa tra un minimo di 1512 km (edizione 1953) e un massimo di 1830 km (edizione 1948) e che ha avuto un senso talvolta “orario” e talvolta “antiorario”.
Poiché il tracciato ha subito nel corso degli anni parecchie variazioni più o meno rilevanti, un confronto delle prestazioni ottenute dai diversi vincitori, anno dopo anno, non è formalmente corretto, in particolare se ci si riferisce ai tempi di percorrenza. È invece invalso l’uso di prendere a riferimento la media oraria per stabilire l’evoluzione delle prestazioni. Ciò premesso, la media ottenuta dai vincitori delle diverse edizioni della Mille Miglia su questo percorso classico Brescia-Roma-Brescia è più che raddoppiata, passata nel corso degli anni dai 77,238 km/h ottenuti nella prima edizione della corsa (1927) dalla OM 665 “Superba” di Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi ai 157,650 km/h raggiunti nel 1955 da Stirling Moss e Denis Jenkinson: questa media oraria non sarà più superata e pertanto verrà unanimemente considerata la “media record” della corsa.
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