Vins Gallico-Storia delle librerie d’Italia– Newton Compton Editori Roma-
Storia delle librerie d’Italia-ai negozi storici ai librai indipendenti, fino alle grandi catene moderne nel libro di Vins Gallico: l’evoluzione della vendita dei libri nel nostro Paese-Le librerie non sono semplici negozi, ma sono qualcosa di più e di diverso. Sono luoghi di incontro, di diffusione culturale, con alle spalle vicende incredibili (personali, aziendali, famigliari). Vins Gallico ricostruisce la storia delle librerie italiane, mostrando l’evoluzione che il commercio dei libri ha seguito, ma soprattutto racconta la storia di una passione, di una devozione, di un’utopia. Dalle botteghe ottocentesche alle soluzioni più moderne, dagli enormi store di catena alle minuscole librerie di quartiere dove c’è posto a malapena per qualche cliente alla volta, questo è un viaggio fra passato…
Nota Biografica di Vins Gallico
L’Autore Vins Gallico è nato a Melito Porto Salvo (RC) nel 1976. Ha pubblicato Portami Rispetto (Rizzoli 2010), Final Cut (Fandango 2015), La barriera (Fandango 2017), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore 2022). È stato direttore delle librerie Rinascita e Fandango Incontro a Roma.Vins Gallico (Melito di Porto Salvo, 1976) ha scritto Portami rispetto (Rizzoli), Final Cut (Fandango Libri), La barriera (Fandango Libri), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore) e Storia delle librerie d’Italia (Newton Compton). Ha lavorato come editor, traduttore, ufficio stampa, libraio e ha insegnato Lingua e letteratura italiana all’Università di Gottinga e di Brema. Fa parte del consiglio direttivo dei Piccoli Maestri ed è il coordinatore di Scena, ex Filmstudio, luogo storico del cinema italiano.
Le librerie più belle di Roma: la guida
Feltrinelli di Largo Argentina
La Feltrinelli è una delle migliori libreria di Roma, l’ideale per chi ama perdersi tra centinaia di libri. Si estende infatti su tre piani pieni di libri di ogni tipo.
Molto apprezzabile anche il caffè letterario che permette di immergersi nella lettura e di chiacchierare amabilmente sorseggiando caffè e cioccolate calde nella massima comodità.
Giufa
La libreria caffè Giufa è ottima per chi cerca un bel po’ di volumi di narrativa italiana e straniera. Nella libreria possiamo riposarci nei comodi salottini e leggere le molte pubblicazioni a tema arte, cinema, musica, fumetti sia di origine italiana che appartenenti ad altre culture.
Bookabar
Bookabar si espande su 450 metri. Si possono acquistare libri, CD musicali su arte, architettura e persino produzioni artigianali più moderne.
Libreria Caffé Bohèmien
La Libreria Caffé Bohèmien omaggia l’ospite con una elegante cornice novecentesca, dove si possono sorseggiare té e vini davvero gustosi. Gli artisti possono esporre gratuitamente le proprie opere. Si può anche suonare il pianoforte!
Caffè letterario
Il caffè letterario è ricordato come la prima libreria caffè romana. Il locale permette di scegliere tra molti libri e allo stesso tempo sorseggiare tè, caffè. magari mentre si naviga in internet. Il locale colpisce per le scelte particolari in tema di design, permette sia di acquistare che di leggere i libri, insomma è un vero paradiso di relax culturale.
Borri Books a Termini
La libreria Borri Books si distribuisce su tre livelli ed è molto popolata siccome è molto vicina alla stazione. Abbiamo libri di ogni genere (psicologia, teatro, cucina, libri per i più giovani, libri in altre lingue…). Vista la sua vicinanza alla stazione è molto comoda per comprare al volo libri comuni che possono essere trovati in store di queste dimensioni.
Libreria Caffè Mangiaparole
Libreria Caffè Mangiaparole è un locale chic ma accogliente, un luogo pregno di cultura dove si può assaporare un gustoso caffè mentre si legge un libro.
E tu che cosa ne pensi? Quali sono le tue librerie preferite con caffè annesso a Roma? Parliamone qua sotto!
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nedda Falzolgher –Il 2 marzo 1956 muore a Trento la poetessa Nedda Falzolgher – con Alessandro Tamburini. Repertorio: Corinna lo Castro legge alcune poesie tratte da Nedda Falzolgher , Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma 1949; Audio tratto da “Edda a Nedda. Poesie di Nedda Falzolgher recitare da Edda Albertini”, tratte da L’ora azzurra dell’ombra”, regia di Francesco dal Bosco, 2006. Alessandro Tamburini (Rovereto, 29 marzo 1954) è uno scrittore, insegnante e sceneggiatore italiano, autore di raccolte di racconti, romanzi e saggi. Di recente ha pubblicato “Ultimi miracolo”, otto racconti, Edizioni Pequod, 2022
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
La Terra
Ti ho respirata con l’alba
per non destarmi sola,
e ti ho chiamata nelle notti amare,
sorda di pietre e giovane di stelle
sotto il cielo che scende e non consola.
Ho veduto nel mio pianto infantile
tutti i colli velarsi e lontanare;
ho udito cantare gli uomini
per non sentirsi morire.
E la mia carne ti ritrovi,
o benedetta nei fiori e nei rovi,
terra, unico amore.
*
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore, per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera.
*
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata poetessa e scrittrice. Le sue pubblicazioni: En piaza del Littorio, Trento, 1934 Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma, 1949 Il libro di Nil – Prosa e poesia, Rebellato Padova, 1957 (postumo)
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GLI ASSENTI
(Nedda Falzolgher, detta Nil)
Il nostro volto, come una lampada,
più non ci illumina.
Ora ognuno ha rivolto la fronte
verso un vento notturno
e, forse, ricorda.
Tu eri una fresca radice
ansiosa di poca terra assolata,
e tu quello che sempre partiva,
e tu l’altro,
che all’alba veniva cantando
con una rama gemmata.
E senza nome
dalle vuote pianure dei venti
qualche volta sgomenti ci chiamiamo,
e invano tentiamo di amarci
col nostro pallido cuore di stelle,
perchè nel tempo immobile ritorni
quel pianto che mutava coi giorni,
vivido nella nostra carne d’amore.
L’ONDATA
Di giorno la mia porta
è una chiglia affiorante che vibra
al respiro alto del mare:
l’universo la viene a inondare
fiorendo col sole.
E le cose vivide e innamorate
passano nella mia casa pura,
e dicono caldi nomi di creatura,
di piante, di stelle serene.
Nei giorni che nulla avviene
felicità è nel vento
e porta vite in cammino
dal silenzio raggiante.
E la gioia passa con l’onda
che la riva larga ribeve:
rinasce più oltre, più breve,
e il mare torna e la consuma.
LE PAROLE DEI FIGLI
Fammi ponte alla vita
col tuo vivido corpo d’amore,
madre che sei l’isola in fiore
dove il mio tempo è fermo tra due mari.
Tu che avevi sapore di rose
nella carne ferita,
lascia che io cammini e non ti veda.
E prega per la mia nuda fame
se il tuo cuore fosse pane
dal petto ancora te lo coglierei
per i giorni miei desiderosi.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
NEDDA FALZOLGHER, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata una poetessa e scrittrice italiana.
Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…
Nedda Falzolgher
.
.
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Articolo di Marianna Malpaga
Scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. La poetessa trentina Nedda Falzolghernacque a Trento il 26 febbraio del 1906. A soli cinque anni, l’evento che influenzerà tutta la sua vita negli anni a venire, una poliomielite che le colpisce gambe e braccio destro, costringendola in carrozzina.
Nella poesia di Nedda Falzolgher, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato. Ecco quindi che lo scorrere dell’acqua avviene “nell’urlo delle piene”, che il fremito del vento sconvolge le “umide chiome delle querce”, mentre “il sole passa e consuma la carne della terra amara”.
In molte poesie compare e ritorna il tema dei fiumi e dell’acqua, metafora della vita e del suo fluire e rifluire. Nedda fu costretta a rinunciare alla maternità, ma nella sua poesia questo tema si presenta sotto forma di un “amore per il creato e l’increato, per il visibile e l’invisibile, per tutte le vibrazioni che palpitano nel cosmo, dai grandi astri al cuore trafitto dell’uomo all’ultimo fremere di uno stelo”.
Compose la sua prima poesia nel 1917, a undici anni, e la dedicò alla madre, una figura importantissima nella sua vita. È lei che, fino alla sua morte, avvenuta nel 1950, si occuperà della figlia e le insegnerà francese e latino, lasciandole in dono una grande passione per la letteratura e per la poesia. È sempre lei che si sente dire da un medico: “La creatura non morirà perché ha il cuore troppo fondo e resiste. Ma questo male improvviso le taglierà le strade dalla terra”. Ed è ancora lei che, distrutta eppure risoluta, gli risponderà: “Non importa. Muterà cammino”.
Nella sua casa sul Lungadige, quindi, Nedda comincerà a scrivere e, a partire dagli anni Trenta, raccoglierà attorno a sé un gruppo di amici amanti dell’arte e della cultura, un cenacolo che l’accompagnerà negli anni a venire. Nel gruppo, ci sono anche nomi conosciuti come quello di Marco Pola.
Per Nedda scrivere è “pura arte che vive nella luce”. E, a Dio, al quale è legata da una forte spiritualità, chiede: “Datemi la forza di poter scrivere, Signore; fate ch’io possa chiudere in me e alimentarla sempre della più pura luce questa forza divina e indomita come una limpida fonte”.
La poetessa è forte ma, come per tutti i poeti, la scuote un’ansia vitale e una paura – che è al tempo stesso una consapevolezza – della sua solitudine. “Devo avere il coraggio di vivere sola, di pensare sola, di soffrire sola”, scrive. “Nessuno potrà capire che la mia strada è questa; nessuno dirà: vengo con te”.
In occasione di un incontro dedicato alla poetessa, l’amico Raffaele Gadotti ricorda che, a un certo punto, “non voleva più saperne di cose scritte: voleva vedere”. Nedda, insomma, voleva conoscere quel mondo che aveva scoperto attraverso le lettere d’inchiostro stampate sui libri; voleva “vivere fuori”, uscire dalla sua casa sul Lungadige. E dopo – ma solo dopo – scrivere. “Dicevamo che a mano a mano che usciva fuori – ha ricordato Gadotti – a vedere il mondo e a conoscere la natura direttamente, la Nedda cambiava; e cambiava anche la sua poesia, il suo modo di scrivere. Non erano più fiori di carta, fiori di cartapesta, sia pure molto colorati, o di stagnola: le sue poesie adesso erano fiori vivi; erano rami spezzati, ma vivi; erano frutti vivi; erano qualche cosa di naturale, di spontaneo. E nella sua poesia incominciò a sentirsi di più, perché scavava più dentro di sé”.
Nedda Falzolgher morì molto giovane, a cinquant’anni. Era il 2 marzo 1956. Nella vignetta di Giorgio Romagnoni, una poesia che parla del suo slancio vitale. È lei quell’”allodola pura” che si adagia sul “respiro del mondo”.
Articolo di Marianna Malpaga
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Spiritualità e canto in Nedda Falzolgher
In questa “casa a specchio sul fiume / così sola nell’urlo delle piene” visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col “corpo segnato in croce” e “il canto di allodola pura”. Queste parole sono incise sulla targa commemorativa che il Comune di Trento volle dedicare alla poetessa Nedda Falzolgher (1906-1956), per onorarne la memoria nel centenario della nascita. “Il caso di Nedda Falzolgher resta, per i più, ancora da scoprire”, scriveva nel 1966 il grande critico e poeta Alberto Frattini. “Eppure è una voce che meriterebbe d’essere ascoltata, per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia, equilibrando l’ansia disperata d’amore in placata letizia d’ascesi e d’offerta, entro un dolceamaro colloquio tra la creatura e il Creatore che solo può suggerirle parole di verità e di salvezza”. T’amo, Signore, per la muta passione delle rose. T’amo per le cose della vita leggere, le cose che sognano i morti la sera dentro la terra calda, sotto il limpido brivido degli astri. Ma più t’amo, Signore, per la misericordia delle tue grandi campane che portano nel vento verso l’anima della sera la nostra povera preghiera. * Nedda Falzolgher appartiene, in effetti, a quel novero di poeti che non hanno avuto grandi riconoscimenti dalla critica, ma che purtuttavia hanno lasciato un corpus di opere di indiscusso valore artistico. La sua sfortunata vicenda umana (fu colpita dalla poliomielite all’età di cinque anni rimanendo paralizzata alle gambe e al braccio destro) le impedì una partecipazione attiva alla società letteraria del suo tempo, nondimeno si dedicò con entusiasmo allo studio dei classici e riuscì a riunire nella sua casa affacciata sull’Adige un piccolo cenacolo di amici e poeti per discutere di letteratura, filosofia e argomenti culturali. Poi venne la guerra, la casa sul fiume fu danneggiata dalle bombe, e quel piccolo gruppo si sciolse. Dopo la morte dell’amatissima madre (che l’aveva sempre incoraggiata nella sua spontanea vocazione poetica), Nedda rimase sola con il padre e con la fedele governante Adele, la quale, in un articolo a firma di Renzo Francescotti pubblicato nel 2006 sul quotidiano L’Adige, così la ricorda: “Era un creatura angelica. Aveva un volto molto bello ed una voce melodiosa aperta al dialogo con familiari ed amici. Era lei, paradossalmente, ad offrire loro conforto: lei, che fra tanti più fortunati che si piangono addosso, in nessuno di suoi versi alluse mai alla sua condizione fisica…”. Passano gli anni e la vita di Nedda Falzolgher continua ad esprimersi attraverso la scrittura. Attraverso quei versi che vergava con la mano sinistra prediligendo l’inchiostro verde, e che portavano alla luce il suo mondo di emozioni in delicata sintonia con l’ambiente naturale: …Che ansia, allodola pura, questo palpito d’angelo sommerso che ha smarrito la vena dei venti; sul respiro del mondo senti ancora tutte le stelle mutar la tua voce in chiarore… * Superati i quarant’anni, Nedda Falzolgher, che aveva sino ad allora pubblicato soltanto su alcune antologie, decise di raccogliere le sue liriche in volume. Il libro, intitolato Fin dove il polline cade, uscì nel 1949 a cura dell’editore Ubaldini con prefazione del grande critico teatrale Silvio D’Amico (una prefazione procurata dalla famosa attrice Edda Albertini, anch’essa trentina, che aveva fatto parte del gruppo della “casa sul fiume” e aveva conservato con la poetessa un’amicizia affettuosa). Non furono in molti ad accorgersene: tra questi lo scrittore Bruno Cicognani e il già citato Alberto Frattini. Ma, al di là della disattenzione della critica, sono versi che esprimono una profonda ansia spirituale; versi che affidano al canto un dolore centellinato nelle sue pieghe più amare, per sublimarlo in una superiore intuizione di vita. Ora tu vedi queste mie canzoni simili tanto alle foglie che sperdi, amaro Iddio del silenzio. E sai che non hanno feste di sole perché di tutto il sole tu inondi la Terra dove cammina l’amore. Ascolta ancora, Dio, le sorgenti, e perdona, e nella mano portaci, col seme delle stagioni innocenti. * Nedda morì giovane, ad appena cinquant’anni. Dopo la sua morte, il padre affidò a Franco Bertoldi, docente universitario a Milano e Trento (anche lui del gruppo degli amici della “casa sul fiume”), l’incarico di ordinare e pubblicare in una antologia le poesie della Falzolgher. Il volume uscì nel 1957 per i tipi dell’editore Rebellato e fu intitolato Il libro di Nil (il soprannome con cui Nedda veniva chiamata dagli amici). In quest’opera postuma c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dalla quale proponiamo alcuni versi, rivelatori di uno stato d’animo contraddittorio: sentimento della vita che sfugge e sofferenza per ciò che non si è vissuto… Stasera io sono stanca delle tue mani lontane; stanca di grandi stelle disumane, com’è sazia l’agnella di erbe amare… * Trascorreranno ancora molti anni prima che la critica inizi ad accorgersi dell’opera della poetessa trentina. Nel 1978, edita dal Comune di Trento, uscì l’antologia Nedda Falzolgher, poesie e prose (1935-1952). Tre anni dopo, il noto critico letterario Vittoriano Esposito pubblicò un’importante monografia intitolata Il caso letterario di Nedda Falzolgher. Nel 1986 fu la volta di Marcella Uffreduzzi, qualificata studiosa della poesia d‘ispirazione cristiana del ‘900, che pubblicò un volume intitolato La casa sull’Adige, comprendente quasi ottanta poesie della Falzolgher, da cui emergono una grande forza interiore, una fede salda seppure inquieta, e una profonda spiritualità. E oggi? Oggi per fortuna c’è la rete, grande serbatoio di memoria collettiva, dove è possibile rintracciare importanti testimonianze sulla vita e l’opera di Nedda Falzolgher e leggere alcune delle sue raffinate composizioni liriche. Ed è appunto con una di queste composizioni che ci congediamo dai nostri lettori, nella speranza d’aver dato anche noi un piccolo contributo per la riscoperta di una delle più sensibili autrici del ‘900 letterario. Non ti darò contro il petto dolore più che il rigoglio delle fronde sciolte. Dammi tu spazio allora per questa morte: io non ho solco per vivere e non ho paradiso per morire; e sento in me stormire quest’agonia d’amore, bionda, contro la zolla che la ignora…
FONTE-ZENIT-
Zenit è una agenzia di informazione internazionale no-profit formata da una équipe di professionisti e volontari convinti che la straordinaria saggezza del Pontefice e della Chiesa cattolica, possa alimentare la speranza e aiutare l’umanità tutta a trovare verità, giustizia e bellezza. Il nostro obiettivo è quello di raccogliere e diffondere le informazioni con la massima professionalità, fedeltà e servizio alla verità. Attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche intendiamo far conoscere il “mondo visto da Roma”. Per questo motivo pubblichiamo e traduciamo le parole, i messaggi, i documenti, gli interventi, l’Angelus e l’Udienza generale del Romano Pontefice. Riportiamo e spieghiamo tutto quanto avviene nei Dicasteri della Curia Vaticana, Nelle Università Pontificie, nelle Conferenze Episcopali, nei santuari nelle Diocesi e nelle parrocchie. Segnaliamo e informiamo sui grandi avvenimenti religiosi nel mondo, sui temi, i dibattiti e gli eventi che interessano i cristiani, gli uomini di fede e non, dei cinque continenti. zenit realizza questo servizio in modo indipendente. Copertura Giornalistica La copertura garantita dai nostri servizi informativi si orienta soprattutto a: Le attività del Papa: viaggi apostolico, documenti, incontri con i Capi di Stato e personalità di rilievo nell’ambito sociale, culturale e religioso. L’informazione riguarda in particolare le attività del Santo Padre, così come i suoi interventi. Le sue parole costituiscono uno stimolo per la riflessione non solo dei cattolici. Interviste a uomini e donne della Chiesa, del mondo della politica e della cultura su temi di speciale interesse per l’umanità tutta. L’attualità internazionale, con particolare attenzione alle questioni rilevanti per il rispetto dei diritti umani, della pace e dello sviluppo ovunque nel mondo.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
LA POESIA DI NIL -Articolo di Felice Serino
Nedda Falzolgher, detta Nil, nasce il 26 febbraio 1906 a Trento, quando quella parte del territorio è ancora sotto il dominio austriaco. Il padre era un bancario e la madre di ricca famiglia. Primogenita, sensibile, intelligente, vive nei primi anni una vita serena e gioiosa. La bimba cresce bene fino all’età di cinque anni, quando inattesa la disgrazia viene a stravolgere il suo destino: è colpita da paralisi infantile, o più comunemente detta, poliomielite.
Ella si sente attratta per vocazione naturale verso la scrittura e la poesia; vocazione che rappresenta per il suo spirito sofferto una specie di resurrezione.
“Nil non poteva andare verso le cose, ma le cose venivano a lei a cimentare la sua forza e la sua gioia, e tutto la investiva e subito l’abbandonava, lasciando segni di grazia sulla sua anima con il moto dell’onda marina che scrive parole di vita su tutta la riva” (da Il libro di Nil).
I genitori cercano di renderle la vita meno disagevole possibile. La mamma la incoraggia in quella sua insaziabile sete di cultura che la indirizza verso la scrittura alimentando il suo mondo interiore. Nedda apprenderà ad uscire da quel mondo circoscritto dalle pareti di casa per conoscere il mondo esterno, perseguendo il raggiungimento di un ideale superiore.
Dall’età di 27 anni, ella riceve in casa amici poeti e artisti, e la sua dimora diviene presto un punto d’incontro culturale. Fra i giovani frequentatori c’è un ragazzo, Franco Bertoldi, che resterà per lei un amore impossibile.
“Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…”.
Nella sua opera Il libro di Nil, pubblicato postumo dal padre, c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dove si leggono versi scritti durante la guerra.
“Stasera io sono stanca
delle tue mani lontane;
stanca di grandi stelle disumane,
com’è sazia l’agnella di erbe amare…”.
Il 2 settembre 1943 Trento fu bombardata e Nedda fu salvata dalle macerie, insieme ai genitori. In seguito, la ragazza inizierà una corrispondenza con Domenico, suo salvatore e amico, facente parte di un servizio di volontariato. Lo spirito altruistico e la bontà di Domenico fanno sì che Nedda si avvicini ad una dimensione spirituale personale intensa.
“Ma una luce è posata sulle cose,
come la carità senza parola;
e ogni vita attende sola
che la raccolga con gesto d’amore”.
La guerra termina e la ragazza può tornare a casa. Intanto la madre da tempo malata, viene a mancare nel settembre del ’50.
“T’amo, Signore, per la muta passione delle rose.
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera”.
Nedda ha sempre continuato a scrivere nel trascorrere degli anni. Ora, sente la vita sfuggirle e soffre per quel che non ha vissuto.
“Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore”.
“Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti”.
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nil rende lo spirito il 2 marzo ’56, a 50 anni.
Chiudiamo questo breve excursus con dei versi stupendi, nati da quest’anima candida:
“…Che ansia, allodola pura,
questo palpito d’angelo sommerso
che ha smarrito la vena dei venti;
sul respiro del mondo senti
ancora tutte le stelle
mutar la tua voce in chiarore…”.
[Notizie liberamente tratte da: Nedda Falzolgher – la poesia, la vita, Isa Zanni, Linguaggio Astrale n. 136/04]
Bibliografia
Nedda Falzolgher: poesia e spiritualità, edizione Comune di Trento 1990
Nedda Falzolgher: il cuore, la poesia, edizione Comune di Trento 1990
Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
IL LAGER
“Visin dela città, soto coline
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ingarbuiate d’erba sgrendenà,
se quacia el campo di concentramento: tuto a torno na mura de cemento
e na corona rùsena de spine:
davanti, sul portòn de piombo e fero na gran parola impiturà de nero LAGER
E drento, su do file, blochi sgionfi
de slorda de fetori e de pioci.
In meso a le do file un largo spiasso,
in fondo de traverso, longo, basso, schissà par tera, el bloco dele cele
e, drio, la tore dele sentinele
pronte col mitra par spassar el campo.” Egidio Meneghetti, matr. 10568
EPITAFFIO PER UNA GIOVANE EBREA
Ela no l’è che du gran oci in sogno e quatro pori osseti
sconti da pele fiapa.
Ebreeta, cos’èlo che te speti
e ci vedeli mai quei oci grandi? forsi to mama? Forsi ti moroso? opura i buteleti
che mai te g’avarè?
Ebreeta, te vo’ morir de fame
e nela fame t’è desmentegado
quela note e sto mondo strangossado da tormenti e bisogni.
Te si scapà nel mondo dei to sogni: la fame ghe volea,
piccola ebrea,
per darte un poca de felicità. Ormai fora da l’onda
dei dolori,
lontàn te miri,
piàn piànin te mori
e caressa legera
de soriso
te consola la boca moribonda. Po’ te chini la facia
verso tera
sempre più,
sempre
più.
Stanote s’è smorsada l’ebreeta come ‘na candeleta
de seriola
consumà.
Stanote Missa e Oto ià butà
nela cassa
du grandi oci in sogno e quatro pori osseti sconti da pele fiapa.
E adesso nela cassa
ciodi i pianta
a colpi de martèl
e de bastiema
(drento ale cele tuti i cori trema
e i ciodi va a piantarse nel servèl).
Traduzione
Non è che due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia. Piccola ebrea, cos’è che aspetti? cosa vedono mai quegli occhi grandi? forse la mamma? forse il moroso? oppure i bimbi che non avrai? Piccola ebrea, vuoi morir di fame e nella fame hai scordato quella notte e questo mondo angosciato da tormenti e bisogni. Sei fuggita nel mondo dei tuoi sogni: ci voleva la fame, piccola ebrea, per darti un poco di felicità.
Ormai fuori dall’onda dei dolori, guardi da lontano, muori impercettibilmente e una carezza leggera di sorriso ti consola la bocca moribonda. Poi chini il viso verso terra, sempre più, sempre più. Stanotte s’è spenta la piccola ebrea, come una candelina di cera consumata. Stanotte Misha e Otto hanno gettato nella cassa due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia.
E adesso nella cassa piantano chiodi a colpi di martello e di bestemmia (dentro le celle ogni cuore trema e i chiodi si piantano nel cervello.
Professor Egidio Meneghetti
PER LA PICCOLA EBREA
Quel giorno che l’è entrada nela cela l’era morbida, bela
e parl’ amòr matura.
Ma nela facia, piena
de paura,
sbate du oci carghi de’n dolor
che’l se sprofonda in sècoli de pena.
I l’à butada
sora l’ tavolasso
i l’à lassada ‘
Sola, qualche giorno,
fin tanto che ‘na sera
Missa e Oto
i s’à inciavado nela cela nera
e i gh’e restà par una note intiera.
Te dala cela vièn par ore e ore
straco un lamento de butìn che more. Da quela note no l’à più parlà,
da quela note no l’à più magnà.
L’è la, cuciada in tera, muta, chiete, nel scuro dela cela
che la speta
de morir.
Traduzione
Quel giorno che entrò in cella era morbida, bella e per l’amore matura. Ma nel viso, pieno di paura, sbatte due occhi carichi di un dolore che si sprofonda in secoli di pena. L’hanno gettata sopra il tavolaccio, l’hanno lasciata sola, qualche giorno, finché una sera Misha e Otto si sono chiusi a chiave nella cella nera e ci sono rimasti una notte intera. E dalla cella viene per ore e ore un lamento stanco di bimbo morente. Da quella notte non ha più parlato, da quella notte non ha più mangiato. È là, accucciata in terra, muta, quieta, nel buio della cella che aspetta di morire.
Professor Egidio Meneghetti
Biografia di Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.
Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini a Padova nel quartiere Arcella. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.
Fu rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947. Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, diede contributi fondamentali nel settore dei chemioterapici. A lui è dedicata la biblioteca di medicina presso gli Istituti Biologici dell’Università di Verona.
Il 7 gennaio 1945 fu arrestato[1] assieme a Attilio Casilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e sede della Gestapo, in Corso Porta Nuova (presso l’ex Palazzo di I.N.A. Assicurazioni) e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.
Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti. A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie, pesantemente e frequentemente bombardate nel 1945, fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.
A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha e soprannominato “il boia di Bolzano”, successivamente arrestato dopo moltissimi anni di latitanza in Canada, da dove fu estradato nel 2008 per morire in detenzione al termine del 2010.
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;
chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.
Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.
*
Ogni volta che tu
aspetti lei e io
ti osservo –
muta, da dietro,
ferita –
aspettarla,
siamo finalmente
uguali.
Aspettiamo
tutt’e due
la persona sbagliata.
*
Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all’angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
delle auto bianche,
del letto,
della guancia,
del petto.
* * *
Beatrice Zerbini-La foto di copertina è di Dino Ignani
Beatrice Zerbini, foto di Dino Ignani
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-Copia anastatica -Articolo dalla Rivista PAN aprile 1934
La formazione di Giuseppe Tominz dovette quindi avvenire alla «scuola del sig. Conti Bazzani» (Diario di Roma, 1817, p. 2), di cui furono allievi Giuseppe Bossi e Felice Giani, esercitandosi nello studio delle composizioni classiche e copiando i maestri del Rinascimento. Particolarmente stimolante dovette essere la restante scena artistica romana, dove poté entrare in contatto con i nazareni e approcciare le mostre d’arte destinate al pubblico borghese.
–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-
Biografia di Giuseppe Tominz-TOMINZ, Giuseppe Giacomo (Tominc Jožef Jakob, Tominc Josip, Tominz Josef)
Nacque a Gorizia il 6 luglio 1790 da Giovanni, commerciante, possidente e tesoriere comunale, e da Marianna Janesig (Janežič). Frequentò le scuole dei piaristi, dove ebbe come insegnante di disegno il viennese Johannes Zeindl, e successivamente fu messo a bottega da Carlo Kebar (1764-1810), ricordato come un «buon ritrattista» (Kociančič, 1854, p. 289). A questo periodo risale la prima opera nota dell’artista, il ritratto miniato di papa Pio VII (Genzano, Palazzo Jacobini), firmato per esteso e datato «Giuseppe Tominz 1802» (una seconda miniatura del pontefice è firmata «Gius. Tominz»). Tominz dovette eseguire anche il ritratto miniato della madre, deceduta nello stesso 1802, opera identificabile con quello visibile sulla tabacchiera nel ”Ritratto del padre” del 1848 (Lubiana, Narodna galerija) e noto anche da una derivazione non autografa (collezione privata). Nel 1809 soggiornò a Gorizia, proveniente da Roma, l’arciduchessa Marianna d’Austria, che s’impegnò a sostenere gli studi accademici del promettente pittore. Il 5 marzo Tominz partì per la città eterna e si stabilì presso l’abate Domenico Conti Bazzani (Mantova 1740/42 – Roma 1818), pittore e assessore alla pittura dello Stato pontificio. Tuttavia le prospettive di una formazione accademica non si concretizzarono a causa dell’occupazione napoleonica e della prematura scomparsa della principessa, morta il 1° ottobre 1809. Tominz dovette guadagnarsi da vivere eseguendo ritratti miniati e disegnando e incidendo. La sua attività calcografica è ricordata dal biografo croato Ivan Kukuljević Sakcinski (Vižintin, 1957) ed è documentata dalla lastra e dal bulino che egli stesso esibisce nell’Autoritratto (Firenze, Galleria degli Uffizi) riferibile agli inizi del periodo romano, quando è registrato come incisore nello Status animarum della parrocchia di S. Andrea delle Fratte per gli anni 1811 e 1812.
La formazione di Giuseppe Tominz dovette quindi avvenire alla «scuola del sig. Conti Bazzani» (Diario di Roma, 1817, p. 2), di cui furono allievi Giuseppe Bossi e Felice Giani, esercitandosi nello studio delle composizioni classiche e copiando i maestri del Rinascimento. Particolarmente stimolante dovette essere la restante scena artistica romana, dove poté entrare in contatto con i nazareni e approcciare le mostre d’arte destinate al pubblico borghese.
Nel 1814, caduto Napoleone, giunse a Roma il conte goriziano Giuseppe della Torre (o Thurn), che Tominz ritrasse in miniatura e forse in un dipinto documentato da un disegno eseguito a contorno (Trieste, Fondazione Scaramangà di Altomonte). Tominz avrebbe copiato anche alcuni pezzi della quadreria della dimora romana del nobile. In quell’anno poté così frequentare la Scuola di nudo dell’Accademia di S. Luca e presentarsi, al termine delle lezioni, all’annuale concorso con uno Studio di Apostolo (Roma, Accademia nazionale di S. Luca). La giuria, presieduta da Bertel Thorvaldsen, assegnò solamente un secondo premio assoluto proprio a Tominz, «goriziano giovine e di grandi speranze, e fornito di rari talenti per cui il suo nome diverrà famoso fra i professori seguaci delle tre alme sorelle» (Diario di Roma, 1814, p. 13). Tominz e il padre Giovanni colsero l’occasione per indirizzare all’imperatore Francesco I d’Austria una richiesta di sussidio. Rimasta senza esito, Tominz l’avrebbe reiterata ancora nel 1821.
Il 2 maggio 1816 Tominz si sposò nella parrocchia di S. Maria in Via con Maria Ricci, figlia della donna di casa di Domenico Conti Bazzani. Dal matrimonio nacquero i figli Augusto Cesare Costantino (Roma 1818 – Trieste 1883) e Raimondo (Gorizia 1822 – Trento 1906).
Sempre nel 1816 Tominz realizzò per lord William Cavendish Bentinck una copia della Madonna di Foligno, lodata sulle pagine del Diario di Roma (1817). L’incarico fu favorito dal goriziano Carlo Catinelli, che aveva prestato servizio nell’esercito inglese sotto il comando del citato gentiluomo e nello stesso 1816 fu a Roma, dove si fece ritrarre da Ingres.
Con la scomparsa di Conti Bazzani, Tominz fece ritorno a Gorizia. La sua presenza in città è ricordata in una lettera che Francesco Giuseppe Savio, consigliere del tribunale, spedì il 22 aprile 1818 al figlio Leopoldo Francesco, allora studente a Lubiana, mentre in una missiva del successivo 10 maggio si premurò di precisare che Tominz «non fa la bassa professione di ritrattista ma di pittore storico» (Tavano, 1984, p. 100). A Gorizia dovette dipingere il capolavoro d’esordio, l’Autoritratto con il fratello Francesco (Gorizia, Musei provinciali), manifesto delle proprie capacità e ambizioni artistiche e omaggio all’amicizia che lo legava al fratello.
Nel 1821 si svolse a Lubiana il Congresso della Santa Alleanza. Fu in quest’occasione che Tominz trovò nel ritratto la sua vera vocazione artistica, anche se inizialmente raggiunse la capitale carniola per copiare il ritratto dell’imperatore Francesco I, fatto giungere appositamente da Vienna. L’opera era destinata all’I.R. Accademia di commercio e nautica di Trieste, che nel 1838 avrebbe commissionato il pendant del Ritratto dell’imperatore Ferdinando I (entrambi si conservano ai Musei provinciali di Gorizia). La copia del ritratto aulico fu esposta nel 1822 nel ridotto del teatro di Lubiana riscuotendo un notevole successo e Leopoldo Francesco Savio la celebrò con un sonetto apparso in tedesco e in traduzione italiana sulla prima pagina dell’Illirisches Blatt dell’8 febbraio 1822. Tominz soggiornò a Lubiana ancora nel 1823, annunciandosi a «mecenati e amici» come «Historienmahler», ovvero pittore storico (Intelligenz-Blatt zur Laibacher Zeitung, 28 febbraio 1823, p. 244; 4 marzo 1823, p. 252).
Al 1825 dovrebbe risalire la pala dell’altar maggiore del duomo di Gorizia, opera pubblica di notevole impegno e potenziale prestigio, che tuttavia palesò il disagio del pittore nel comporre in grande e nell’affrontare un soggetto storico. Di questi limiti dovette prendere coscienza l’artista stesso, che per i temi religiosi si sarebbe in futuro limitato a riproporre invenzioni altrui (Raffaello, Gian Bettino Cignaroli, Pierre Mignard, Odorico Politi), attingendo a stampe di traduzione.
Nel frattempo le commissioni ufficiali provenienti da Trieste, dove già operava Placido Fabris (1802-59), ma soprattutto le notevoli possibilità offerte dalla rapida ascesa economica del porto franco convinsero Tominz a trasferirsi in quella città. L’approdo ufficiale fu sancito dall’annuncio apparso su L’Osservatore Triestino del 9 settembre 1826 (p. 224), nel quale Tominz si accreditò come pittore e «ritrattista a olio» e si propose come insegnante di disegno. Aprì lo studio nella piazza del Ponte Rosso e in seguito si trasferì nella poco distante via S. Lazzaro, alle spalle della chiesa di S. Antonio Nuovo, nella famosa casa delle Bisse.
Iniziò il periodo migliore della sua attività, scandita nei successivi tre lustri da capolavori quali il Ritratto di Giovanni Milost detto Zuan delle Rose (Trieste, Galleria nazionale d’arte antica), il Ritratto dei coniugi Di Demetrio (collezione privata), le Tre dame della famiglia Moscon (Lubiana, Narodna galerija), il Ritratto di Francesco Holzknecht, il Ritratto di Giuseppina Holzknecht, il Ritratto della famiglia de Brucker, il Ritratto di Giorgio Strudthoff, quest’ultimi conservati al Civico Museo Revoltella di Trieste. Tominz si guadagnò il favore della ricca e cosmopolita borghesia mercantile grazie alla verosimiglianza degli effigiati, ritratti con uno stile severo e nobile, alla nitida descrizione dei particolari e alla rapidità esecutiva: ricorrendo all’ausilio di una camera lucida poteva abbreviare le sedute di posa e licenziare un ritratto in pochi giorni. «Sono andata dal pittore perché egli non viene in casa: dice che può fare bene soltanto nel suo studio […] ma bisogna posare tre ore consecutive, poi ancora una volta mezz’ora», annotò il 19 ottobre 1835 nel proprio diario Fanny Toppo Herzog (Mostra di Giuseppe Tominz, 1966, p. 51). Per variare le pose attingeva alle stampe di traduzione (Rembrandt, Édouard-Louis Dubufe, Claude Marie Dubufe).
Dal 21 luglio al 1° agosto 1830 Tominz allestì alla sala Miglietti la sua prima personale triestina con una quarantina di ritratti ai quali l’anonimo recensore conferì «il titolo di parlanti» (L’Osservatore Triestino, 1830, p. 1972). In mostra dovette esserci anche l’Autoritratto alla finestra (Lubiana, Narodna galerija), dove il pittore si affaccia da una finestra contornata di viti, con un fischietto di madre-perla in mano per chiamare uccelli, probabile allusione alle giornate d’ozio trascorse nella villa Sansoussi di Gradišče nad Prvačino (Gradiscutta) nella Valle del Vipacco. Vi fu ospite pure Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844).
L’allestimento della personale fu stimolato dalla Prima esposizione triestina di belle arti organizzata nel 1829 dalla Società di Minerva con il dichiarato intento di promuovere i giovani talenti. Ma già alla seconda edizione del 1830 presero parte i maestri, e tra essi Tominz con due ritratti. L’anno seguente, alla Terza esposizione, allestita come le successive nel ridotto del teatro, Tominz si presentò con un Coro di frati, noto da disegni preparatori (Gorizia, Musei provinciali), e con otto ritratti, tra i quali il monumentale Ritratto della famiglia Buchler (collezione privata), commissionato da David Buchler in occasione della nomina a presidente della Camera di commercio. Alla Quarta esposizione del 1832 si presentò con quattordici ritratti, una Veduta di un interno di monastero al quale va riferito un disegno (Gorizia, Musei provinciali) e un Endimione e Diana, rara prova a soggetto mitologico. Infine furono ben ventuno i ritratti alla Quinta esposizione del 1833. Alle mostre esordirono i primi allievi documentati di Tominz: nel 1831 Luigi Capodaglio, l’anno seguente Cristiano de Mayr e nel 1833 Francesco Malacrea (1812-86), che si sarebbe affermato come pittore di nature morte. Nonostante la fama acquisita e la considerazione di Domenico Rossetti, Tominz non entrò nel novero degli artisti che nel 1834 furono scelti dal Magistrato civico per eseguire le sei pale per gli altari laterali della chiesa di S. Antonio Nuovo (furono incaricati Michelangelo Grigoletti, Ludovico Lipparini, Odorico Politi, Felice Schiavoni, Joseph Schönmann e Joseph Ernst Tunner).
Cessate le esposizioni della Società di Minerva, Tominz organizzò nel 1835 una seconda personale nella sala del ridotto. Ai ritratti, tra i quali figuravano quello di Drago Popovich (Trieste, Civico Museo Revoltella) e La famiglia del dott. Dimitrije Frussich (Frušić) (Lubiana, Narodna galerija), uno dei capolavori nel genere della scena di conversazione, l’artista affiancò poco impegnative telette di genere, con accattivanti effetti a lume di candela come nel caso della Donna con candela e un giovinetto (Gorizia, Musei provinciali). La mostra segnò l’esordio ufficiale del figlio Augusto e dell’allievo goriziano Giuseppe Giacomo Battich (1820-52), che dal 1836 avrebbero frequentato l’Accademia di Venezia. Oltre ai due citati, Kukuljević Sakcinski ricorda come terzo allievo Giovanni Madrian (1810-72) (Vižintin, 1957, p. 206).
Nel 1838 il ridotto ospitò una mostra collettiva, ma preponderante fu la parte riservata alla ritrattistica di Tominz e del ferrarese Giovanni Pagliarini (1809-78), da poco giunto in città, che fece proprie le soluzioni compositive del collega goriziano (singolare poi il caso di Caterina Buzzi Bozzini, che posò per entrambi gli artisti). L’esposizione segnò uno spartiacque nella fortuna di Tominz, che fu per la prima volta apertamente criticato dall’abate Francesco Dell’Ongaro sulle pagine de La Favilla. Forse anche in risposta a questa pubblica censura nacque l’irriverente Autoritratto (Trieste, Civico Museo Revoltella), un trompe-l’œil su tavola destinato alla parete di fondo del bagno nella villa Sansoussi. Non dissimile fu l’effetto dell’altro olio su tavola, il Nano ostricaro (Trieste, Civico Museo Revoltella), usato come fermaporta e anch’esso da ricondurre alla tradizione neerlandese delle sagome umane o animali dipinte a grandezza naturale.
Nel 1838 Tominz partecipò all’Esposizione delle opere degli artisti e dei dilettanti nella I.R. Accademia di belle arti in Venezia per onorare la visita di S.M.I.R.A. Ferdinando I inviando il Ritratto di Petar II Petrović Njegoš (Cetinje, Njegošev muzej) e un Ritratto di africano.
Gli anni dal 1840 al 1846 videro Tominz regolarmente presente alle annuali mostre-mercato organizzate dalla Società triestina di belle arti, meglio nota come Filotecnica, costituitasi a Trieste sul modello dei Kunstvereine tedeschi. Nel 1840 espose le due tele già presentate a Venezia e una Donna con lume (Gorizia, Musei provinciali), nel 1841 due ritratti e un Gruppo di due fanciulli (collezione privata), nel 1842 dei ritratti e un paesaggio, nel 1843 il ritratto di una famiglia, nel 1844 una Sacra Famiglia, nel 1845 due ritratti e un solo ritratto nel 1846. Il quinto decennio segnò una progressiva involuzione qualitativa: «Sempre lo stesso modo nel dipingere, un po’ duretto nei contorni, sempre lo stesso colorito, e sempre le stesse figure; colpa forse più del genere che sua» sentenziò Gaetano Merlato (1843, p. 304). La mostra allestita nel 1850, in occasione della visita dell’imperatore Francesco Giuseppe, sancì l’oblio dell’artista: furono esposte ben 115 opere, ma nessuna di Tominz.
Nel 1852 e 1853, secondo una logica propria di una bottega pittorica, Tominz firmò e datò due delle tre pale che il figlio Augusto aveva ideato e dipinto per una chiesa alle Bocche di Cattaro. Del resto la collaborazione tra padre e figlio si può far risalire almeno al 1837, alla pala per i cappuccini di Gorizia ricalcata sul modello dell’Assunta di Reni (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) e già dai contemporanei ritenuta opera di scarso valore.
Ritiratosi nel 1855 a Gradiscutta, Tominz non recise i legami con Trieste: nella primavera del 1856 inviò una Venere che allatta amore e una Madonna col Bambino all’esposizione dell’Istituzione promotrice delle belle arti, e sempre nella stessa città si fece ritrarre nello studio fotografico aperto nel 1862 dal figlio Augusto.
Morì a Gradiscutta il 22 aprile 1866 ed è sepolto nel cimitero del paese in una tomba congiunta con il fratello. Luogo e data del decesso furono annotati anche nel Liber baptizatorum del duomo goriziano, e chiosati con un «Celeberrimus pictor!».
Fonti e bibliografia
Diario di Roma, 5 ottobre 1814, pp. 12 s.; ibid., 18 gennaio 1817, pp. 2 s.; L’Osservatore Triestino, 31 luglio 1830, p. 1972; ibid., 10 novembre 1831, pp. 278 s.; ibid., 26 novembre 1833, pp. 566-568; ibid., 5 novembre 1835, p. 534; F. Dall’Ongaro, Di alcuni ritratti di G. T. e della pittura iconografica, in La Favilla, 2 dicembre 1838; G.J. Merlato, Quarta Esposizione di Belle Arti, in Il Caleidoscopio, 1843, n. 13, pp. 294-304; S. Kociančič, Odgovori na vprašanja družtva za jugoslavensko povestnico, in Arkiv za povjestnicu jugoslavensku, III (1854), pp. 259-309 (in partic. pp. 289, 291); S. Benco, Il pittore G. T., in Pan, 1934, n. 4, pp. 702-712; R. Marini, G. T., Venezia 1952; B. Vižintin, Prilog biografijama slovenskih slikara Josipa Tominca, Matije Tomca, Gaspara Götzla i Josefe Štrus, in Zbornik radova za povijest umjetnosti i arheologiju, 1957, n. 2, pp. 205-209; Mostra di G. T. (catal.), a cura di G. Coronini, Gorizia 1966; J. T, 1790-1866 (catal.), a cura di J. Brumen, Ljubljana 1967; K. Rozman, Der Maler J. T., in Mitteilungen der Österreichischen Galerie, XIX-XX (1975-1976), pp. 111-132; P. Dorsi, Documenti dell’Archivio di Stato di Trieste sull’attività di G. T. (1818-1820), in Arte in Friuli – Arte a Trieste, VII (1984), pp. 111-133; S. Tavano, Nuovi elementi sulla giovinezza di G. T., ibid., pp. 93-110; G. Pavanello, Le arti nel «porto franco», in Neoclassico. Arte, cultura e architettura a Trieste, 1790-1840 (catal., Trieste), a cura di F. Caputo, Venezia 1990, pp. 135-149; A. Tiddia, I nuovi triestini. Ritratti di G. T., ibid., pp. 164-179; F. Magani, G. T. ritrattista goriziano, in Ottocento di frontiera. Gorizia, 1780-1850. Arte e cultura (catal., Gorizia), a cura di G. Pavanello – G. Ganzer – E. Guagnini, Milano 1995, pp. 133-159; G. Pavanello, Le Belle Arti Goriziane, ibid., pp. 14-24; R. Barilli, Ritratti alla lente: G. T., in FMR, XVIII (1999), 131, pp. 21-50; J. T. Fiziognomija slike (catal.), a cura di B. Jaki Mozetič – M. Breščak, Ljubljana 2002; A. Quinzi, G. T., Trieste 2011; A. Quinzi, G. T.: inediti, recuperi, rimandi e nuove attribuzioni, in AFAT, 2012, n. 31, pp. 127-137.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana
Biblioteca DEA SABINA –Armando Venè-I VECCHI MULINI SULL’ADIGE-Rivista PAN aprile 1934-
Giuseppe Tominz (Gorizia, 6 luglio 1790 – Gradiscutta, 24 aprile 1866) è stato un pittore italiano, di fama internazionale, considerato il massimo ritrattista di area goriziano-triestina dell’Ottocento.
Autore-Vania Gransinigh–TOMINZ GIUSEPPE- Figlio di Giovanni, Giuseppe nacque a Gorizia il 6 luglio 1790. Avendo dimostrato una precoce predisposizione all’arte, nel 1809 si recò a Roma per completare quella che in patria era stata una prima formazione piuttosto disordinata e priva di punti di riferimento. A quel «pittore Giovanni», che i documenti indicano quale padrino di cresima di T., infatti, non è ancora stato possibile attribuire un’identità precisa, che permetta di individuare con certezza i modelli figurativi a cui il giovane artista ebbe modo di guardare agli esordi della sua carriera professionale. Risalgono a quel periodo il foglio raffigurante la Distruzione di Troia, ispirato alla stampa di analogo soggetto di Ulderico Moro (1807), e il Ritratto di Francesco Moncada, copia dal dipinto di Van Dyck mediata dall’incisione di Raffaello Morghen (1809), opere che, conservate entrambe nelle collezioni dei Musei Provinciali della città isontina, testimoniano la buona volontà, ma la scarsa preparazione artistica del loro artefice. Pare che, a segnare la fortuna del pittore, sia stato l’interessamento dell’arciduchessa Marianna d’Austria, sorella dell’imperatore Francesco I, la quale, giunta a Gorizia nel 1809 poco prima di morire, notò le capacità di T., auspicandone un soggiorno a Roma per completare là i suoi studi. Venuto subitaneamente a mancare al pittore l’appoggio di quest’ultima, egli si rivolse per un aiuto al nobile goriziano Giuseppe della Torre che, generale maggiore di Sua maestà imperiale, si era stabilito in quel torno di tempo nell’Urbe. Partito il 5 marzo di quello stesso anno alla volta della Città eterna, T. vi giunse alla fine del mese per rimanervi nei successivi nove anni, ospite e allievo del pittore mantovano Domenico Conti Bazzani. Seguendo gli insegnamenti di quest’ultimo e frequentando le lezioni della Scuola di nudo all’Accademia di S. Luca, T. perfezionò il proprio stile conseguendo, nel 1814, il secondo premio unico per il disegno con lo Studio di apostolo, oggi conservato presso gli archivi dell’istituzione scolastica. Diverse furono le suggestioni che l’ambiente figurativo della Città eterna dei primi decenni dell’Ottocento poté esercitare sul giovane artista goriziano: oltre alla rinnovata riflessione sulla pittura di matrice classica del Seicento romano, infatti, agirono su di lui anche gli esempi rappresentati dall’attività d’esordio, di impostazione purista, dei Nazareni tedeschi, che lì si erano trasferiti dando vita alla confraternita dei “Lukasbrüder”. A Roma T. conobbe e sposò nel 1816 Maria Ricci, da cui ebbe il figlio Augusto, nato nel 1818. Ad un periodo di poco precedente risalirebbe l’esecuzione dell’Autoritratto con il fratello (1812-1815 ca.; Gorizia, Musei Provinciali), realizzato verosimilmente prima del matrimonio, durante un soggiorno compiuto nella città isontina. Il dipinto, ricco di rimandi simbolici e allegorici, palesa nella composizione il richiamo ai modelli rappresentati da Batoni e Lampi, assai noti in ambito romano. Stando alle evidenze documentarie, T. fece rientro a Gorizia nei primi mesi del 1818, dove ebbe modo di incontrarlo Francesco Giuseppe Savio (V.) che, consigliere del tribunale cittadino, ne scrisse al figlio in alcune lettere rimaste un punto di riferimento fondamentale per ricostruire l’attività professionale del pittore in quei primi anni goriziani. Da queste fonti si evince l’impegno inizialmente profuso da T. sul versante della pittura di storia e solo in un secondo momento rivolto al genere ritrattistico per il tramite della commissione, risalente al 1818, di due copie del ritratto aulico dell’imperatore Francesco I da eseguirsi per il tribunale civico provinciale di Gorizia e per il tribunale commerciale di Trieste. A questi dipinti destinati all’arredo di uffici pubblici, ne fecero seguito molti altri per le città di Fiume e Lubiana, che vanno ad aggiungersi ai due sicuramente di mano del pittore goriziano, raffiguranti nuovamente Francesco I e, successivamente, Ferdinando I in vesti da parata (Gorizia, Musei Provinciali). Dopo aver compiuto un soggiorno a Vienna verosimilmente tra il 1819 e il 1820, T. si dedicò in via quasi esclusiva alla pittura di ritratti, genere nel quale appariva particolarmente versato. Se si eccettua la pala per l’altare maggiore del duomo cittadino, le opere certamente ascrivibili al periodo goriziano consistono in numerosi ritratti, tra i quali spicca il proprio, scanzonato Autoritratto (Trieste, Civico museo Revoltella), realizzato intorno al 1825 per la villa di famiglia di Gradiscutta, poco prima del trasferimento a Trieste, città nella quale fissò la propria residenza fino al 1855. Nel capoluogo giuliano T. trovò l’ambiente sociale più adatto ad accogliere la sua pittura levigata e cristallina, capace di rendere allo stesso tempo e con sorprendente abilità le effigi e l’anima dei suoi soggetti. Alla lunga serie di opere portate a compimento per gli esponenti della borghesia cittadina appartiene anche il Ritratto della famiglia Brucker (Trieste, Civico museo Revoltella), proposto all’attenzione del pubblico nel 1830 in occasione della mostra personale organizzata dal pittore a Trieste, con intenti modernamente promozionali. La tela rappresenta una delle migliori testimonianze della pittura tominziana nella seconda metà degli anni Venti, quando maggiormente si manifestò nell’artista l’adesione alla poetica Biedermeier, che lo indusse ad inserire i ritratti in ambientazioni domestiche e quotidiane. Le opere portate a termine negli anni seguenti evidenziano invece il concentrarsi del pittore sui personaggi effigiati, con una riduzione al minimo delle notazioni ambientali e una più grande attenzione riservata alla resa fisionomica, come testimonia ad esempio il Ritratto di Nicola Botta (Gorizia, Musei Provinciali), risalente verosimilmente alla fine del decennio successivo. Le medesime osservazioni potrebbero essere estese al Ritratto delpadre (Lubiana, Narodna Galerija), tradizionalmente datato al 1848, dove l’anziano Giovanni Tominz è raffigurato mentre con la mano sinistra regge una tabacchiera ornata dal ritratto miniato della moglie, scomparsa nel 1802. Caratterizzata da un rigoroso nitore formale e da una ricercata naturalezza espressiva, l’immagine rappresenta efficacemente l’ultima attività triestina di T., che, nel 1855, decise di ritirarsi a Gorizia, città nella quale fu accolto con ogni onore. Colpito qualche anno dopo da una forma di cecità progressiva, l’artista trasferì definitivamente la propria residenza nella villa di Gradiscutta, dove trascorse, accanto al fratello, gli ultimi anni della propria vita prima di morire il 22 aprile 1866.
A coadiuvare il padre Giuseppe nell’ultimo periodo della sua attività professionale fu il figlio Augusto, che era nato a Roma il 1° febbraio 1818 e che si dedicò alla pittura di genere storico e religioso e alla ritrattistica seguendo le orme del genitore. A lui spetta l’esecuzione delle diciassette tele che ornano il soffitto della sala da ballo di palazzo Revoltella a Trieste, ispirate al tema delle arti e dei mestieri e portate a compimento nel 1859. Nelle sale dello stesso edificio è ospitato anche il Ritratto dell’arciduca Massimiliano d’Austria, realizzato nel 1868 a un anno di distanza dalla scomparsa dello sfortunato fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe I. Dal 1872 e sino alla morte, avvenuta a Trieste il 17 giugno 1883, T. ricoprì la carica di primo direttore del Civico museo Revoltella.
Autore-Vania Gransinigh
Bibliografa –
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Giacomo Leopardi-Canti-A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo Leopardi-Canti
Descrizione del libro-Giacomo Leopardi «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le piú terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle piú acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta». Giacomo Leopardi
ET Classici
LXXIV – 448
€ 13,00
ISBN 9788806230043
A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo LEOPARDI
La vita di Giacomo Leopardi in breve
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798 da una famiglia nobile decaduta. Affidato dal padre Monaldo a precettori ecclesiastici, rivela doti eccezionali: a soli dieci anni sa tradurre all’impronta i testi classici e compone in latino.
Il rapporto coi genitori è molto difficile. Giacomo sta spesso da solo, studia nella grande biblioteca paterna, in dialogo muto con gli autori antichi. Tra il 1809 e il 1816 passa “sette anni di studio matto e disperatissimo”, durante i quali impara alla perfezione varie lingue, traduce i classici, compone opere erudite, studia poesia e filosofia. Questa vita solitaria e reclusa lo mina nel fisico e nello spirito.
Il 1816 è l’anno della “conversione letteraria”, passa dall’erudizione al bello e alla poesia. Invia le sue prime prove a Pietro Giordani, che lo incoraggia. Nel 1817 comincia a scrivere il suo diario infinito, lo Zibaldone (1817-1832) e scrive le prime canzoni civili.
Nel 1819 tenta di fuggire da casa, ma il padre lo ferma: Recanati è ora una prigione e il giovane cade in depressione. La produzione poetica però non ha sosta: compone gli Idilli (L’Infinito, Alla luna …) e le grandi canzoni civili.
Nel 1822 finalmente va a Roma dagli zii materni, ma il viaggio è deludente. Tornato a Recanati, nel 1823 scrive le Operette morali.
Nel 1825 è a Milano, dove lavora per l’editore Stella. In povertà, si sposta tra Bologna e Firenze, accolto nei circoli letterari e nei salotti mondani. Nel 1828 a Pisa ritrova la vena poetica che pareva perduta: inizia il ciclo dei Grandi Idilli.
Tra la fine del 1828 e il 1930 ritorna a Recanati. Ricorderà il periodo come “sedici mesi di notte orribile”, ma è allora che scrive alcuni tra i suoi canti più famosi: La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio…
Con l’aiuto di amici lascia per sempre il “natio borgo selvaggio” e va di nuovo a Firenze. Dall’amore non corrisposto con Fanny Targioni Tozzetti nasce Il ciclo di Aspasia. Nel 1832 sospende lo Zibaldone.
Nell’ottobre del 1833 si trasferisce a Napoli insieme all’amico Antonio Ranieri. Benché ormai molto provato nel fisico, partecipa alla vita culturale partenopea. A Torre del Greco, in fuga dal colera che imperversa in città, compone due tra le sue più grandi poesie: La ginestra o il fiore del deserto (1836) e Il tramonto della luna (1837), che costituiscono il suo testamento poetico e spirituale.
Muore a Napoli il 14 giugno 1837 e viene sepolto accanto all’amato Virgilio.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Lo schiaffo a Toscanini Bologna
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
Luciano Bergonzini, Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’inizio degli anni Trenta, Bologna, Il mulino, 1991
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Le strade di Bologna. Una guida alfabetica alla storia, ai segreti, all’arte, al folclore (ecc.), a cura di Fabio e Filippo Raffaelli e Athos Vianelli, Roma, Newton periodici, 1988-1989, vol. 4., p. 902
Teatro Comunale di Bologna, testi di Piero Mioli, fotografie di Carlo Vannini, Bologna, Scripta Maneant, 2019, p. 146
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Arturo Toscanini
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Arturo Toscanini
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
Arturo Toscanini
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 2007.
Adriano Bassi, Arturo Toscanini, Collana I Signori della Musica, Milano, Targa Italiana, 1991
(EN) B.H. Haggin, Contemporary Recollections of the Maestro, Boston, Da Capo Press, 1989 (ristampa di Conversations with Toscanini e di The Toscanini Musicians Knew)
Harvey Sachs, Toscanini, Boston, Da Capo Press, 1978 (edizione italiana EDT/Musica, 1981). – Nuova ed. ampliata in pubblicazione nel giugno 2017.
(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
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(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
Abbazia di FARFA -Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’Abbazia di Farfa – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
Archeologia
Il complesso medievale dell’abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell’epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l’oratorio costruito dall’abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall’identificazione di Schuster e dal fatto che l’oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l’antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell’oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell’epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all’estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell’edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l’abate Ugo all’inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell’abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l’epitaffio dell’abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell’abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell’11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l’archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell’oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all’esterno dell’oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all’esterno dell’abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall’angolo del transetto. Nell’ultima campagna è stata scavata quasi tutta l’area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell’abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l’edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell’8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all’abside; realizzato in due periodi diversi, l’ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un’abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all’abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L’ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l’abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell’819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l’ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L’area prospiciente l’oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell’imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall’angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L’area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell’edificazione dell’ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell’oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell’area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell’atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell’estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell’originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L’interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all’ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell’oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l’interno da un colonnato e verso l’esterno da un muro continuo. Secondo un’ipotesi diversa l’accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall’altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell’atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All’estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall’atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L’ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell’ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L’ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell’ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un’iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell’iscrizione trovano confronti nella fine dell’8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l’intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l’abside dell’11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un’epoca di abbandono durante la quale l’ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall’incendio dell’897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell’atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l’oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall’erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell’897, l’allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all’atrio-chiostro esistevano all’inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell’897.Le dimensioni dell’ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l’ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 15 ´ 11) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell’ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l’ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest’ultima – lontana dalla chiesa e all’interno della linea delle difese scoperte nel 1959 – mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell’area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell’abbazia, compreso l’imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell’imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell’830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell’archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all’abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un’analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l’abate Probato, e tra l’810 e l’820, all’epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l’acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
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LaBohème è un’opera in quattro quadri di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ispirato al romanzo di Henri MurgerScene della vita di Bohème. Il libretto ebbe una gestazione abbastanza laboriosa, per la difficoltà di adattare le situazioni e i personaggi del testo originario ai rigidi schemi e all’intelaiatura di un’opera musicale. Per completare il lavoro Puccini impiegò tre anni di lavoro passati fra Milano, Torre del Lago e la Villa del Castellaccio vicino Uzzano, messa a disposizione dal conte Orsi Bertolini.[1] Qui completò il secondo e terzo atto, come da lui annotato con una scritta rimasta sui muri della villa.[2] L’orchestrazione della partitura procedette invece speditamente e fu completata una sera di fine novembre del 1895.[3]
«Più invecchio, più mi convinco che La bohème sia un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello.»
Meno di due mesi dopo, il 1º febbraio 1896, La bohème fu rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino, con Evan Gorga, Cesira Ferrani, Antonio Pini Corsi, Camilla Pasini e Michele Mazzara, diretta dal ventinovenne maestro Arturo Toscanini, con buon successo di pubblico, mentre la critica ufficiale, dimostratasi all’inizio piuttosto ostile, dovette presto allinearsi ai generali consensi.[4] La versione finale invece venne messa in opera per la prima volta al Grande di Brescia, riscuotendo tanti applausi da far tremare le pareti di scena.[senza fonte][5][6][7] L’opera ha la stessa fonte e lo stesso titolo dell’omonimo spettacolo di Ruggero Leoncavallo, con cui al tempo Puccini ingaggiò una sfida.[8]
Trama
L’esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti bohémien costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell’opera, ambientata nella Parigi del 1830.
Quadro I
Adolf Hohenstein, bozzetto del costume di una rappezzatrice per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
In soffitta
La vigilia di Natale, il pittore Marcello sta dipingendo un paesaggio del Mar Rosso, e il poeta Rodolfo sta tentando di accendere il fuoco con la carta di un dramma scritto da lui (ma nel camino manca la legna). Giunge il filosofo Colline, che si unisce agli amici e si lamenta poiché la vigilia di Natale nessuno concede prestiti su pegno. Infine, il musicista Schaunard entra trionfante con un cesto pieno di cibo e la notizia di aver finalmente guadagnato qualche soldo. I festeggiamenti sono interrotti dall’inaspettata visita di Benoît, il padrone di casa venuto a reclamare l’affitto, che però viene liquidato con uno stratagemma. È quasi sera e i quattro bohémiens decidono di andare al caffè Momus. Rodolfo si attarda un po’ in casa, promettendo di raggiungerli appena finito l’articolo di fondo per il giornale “Il Castoro”.
Rimasto solo, Rodolfo sente bussare alla porta. Una voce femminile chiede di poter entrare. È Mimì, giovane vicina di casa: le si è spento il lume e cerca una candela per poterlo riaccendere. Una volta riacceso il lume, la ragazza si sente male: è il primo sintomo della tubercolosi. Quando si rialza per andarsene, si accorge di aver perso la chiave della stanza: inginocchiati sul pavimento, al buio (entrambi i lumi si sono spenti), i due iniziano a cercarla. Rodolfo la trova per primo ma la nasconde in una tasca, desideroso di passare ancora un po’ di tempo con Mimì e di conoscerla meglio. Quando la sua mano incontra quella di Mimì (“Che gelida manina”), il poeta chiede alla fanciulla di parlargli di lei. Mimì gli confida d’essere una ricamatrice di fiori e di vivere sola (“Sì, mi chiamano Mimì”).
L’idillio dei due giovani, ormai ad un passo dal dichiararsi reciproco amore, viene interrotto dagli amici che, dalla scala, reclamano Rodolfo. Il poeta vorrebbe restare in casa con la giovane, ma Mimì propone di accompagnarlo e i due, che dal “voi” formale del dialogo precedente, sono passati al “tu” degli innamorati, inneggiando all’amore (“O soave fanciulla”, anche conosciuta come “Amor, amor”) lasciano insieme la soffitta mentre si baciano.
Quadro II
Adolf Hohenstein, bozzetto della prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
Al caffè
Il caffè Momus. Rodolfo e Mimì raggiungono gli altri bohèmiens. Il poeta presenta la nuova arrivata agli amici e le regala una cuffietta rosa. Al caffè si presenta anche Musetta, una vecchia fiamma di Marcello, che lei ha lasciato per tentare nuove avventure, accompagnata dal vecchio e ricco Alcindoro. Riconosciuto Marcello, Musetta fa di tutto per attirare la sua attenzione, esibendosi (“Quando men vo“), facendo scenate ed infine cogliendo al volo un pretesto, il dolore al piede per una scarpetta troppo stretta, per scoprirsi la caviglia e far andare via Alcindoro a comprare un nuovo paio di scarpe. Marcello non può resisterle e i due amanti si riconciliano. Subito dopo si scopre che i quattro amici non possono pagare il conto. Musetta allora fa sommare al cameriere il conto di Alcindoro e dei bohèmiens e li mette in conto ad Alcindoro stesso. Quindi fuggono. Poco dopo Alcindoro, tornato con le scarpe per Musetta, scopre la fuga di quest’ultima e visto il doppio conto da pagare si accascia su una sedia.
Quadro III
Adolf Hohenstein, tavola di attrezzeria per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
La Barriera d’Enfer
Febbraio. Mentre la neve cade dappertutto, i doganieri lasciano passare le lattaie venute a portare latte e formaggi alla sordida osteria dove Marcello lavora come ritrattista; tra di esse giunge anche Mimì, venuta in cerca dell’amico per confidargli le sue pene. La vita in comune con Rodolfo le si è rivelata ben presto impossibile: le scene di gelosia sono ormai continue, come pure i litigi e le incomprensioni; lui la accusa ingiustamente di leggerezza e di infedeltà. Marcello le rivela che anche il suo rapporto con Musetta è in crisi, poiché la donna non riesce ad abbandonare la sua vita lasciva e lo tradisce ripetutamente con uomini facoltosi. In quella giunge Rodolfo, che ha passato la notte all’osteria: Mimì si nasconde e origlia mentre Marcello lo spinge a parlare di lei. Sulle prime lo scrittore conferma ciò che lei ha raccontato; tuttavia poi, incalzato dall’amico, gli rivela che le sue accuse sono un pretesto: ha capito che Mimì è gravemente malata e che la vita nella soffitta potrebbe pregiudicarne ancor più la salute. Mimì ascolta, non vista, queste confessioni, ma la sua tosse la fa scoprire: lei e Rodolfo hanno quindi uno struggente confronto nel corso del quale dapprima si accusano a vicenda, ma poi iniziano a ricordare tutti i bei momenti passati insieme. Nel frattempo giunge Musetta, la quale ha appena amoreggiato con un uomo: ciò causa le ire di Marcello, che rompe la loro relazione e la scaccia. Anche Mimì e Rodolfo decidono di separarsi, ma trovano che lasciarsi in inverno sarebbe come morire, così decidono di aspettare fino alla bella stagione, la primavera.
Quadro IV
In soffitta
Ormai separati da Musetta e Mimì, Marcello e Rodolfo si confidano le pene d’amore. Quando Colline e Schaunard li raggiungono, le battute e i giochi dei quattro bohémiens servono solo a mascherare la loro disillusione. All’improvviso sopraggiunge Musetta, che ha incontrato Mimì sofferente sulle scale, ormai prossima alla fine, in quella soffitta che vide il suo primo incontro con Rodolfo. Musetta manda Marcello a vendere i suoi orecchini per comperare medicine, ed esce lei stessa per cercare un manicotto che scaldi le mani gelide di Mimì. Anche Colline decide di vendere il suo vecchio cappotto (“Vecchia zimarra, senti”), al quale è molto affezionato, per contribuire alle spese. Qui, ricordando con infinita tenerezza i giorni del loro amore, Mimì si spegne dolcemente circondata dal calore degli amici (che le donano il manicotto e le offrono un cordiale) e dell’amato Rodolfo. Mimì è apparentemente assopita, inizialmente nessuno si avvede della sua morte. Il primo ad accorgersene è Schaunard, che lo confida a Marcello. Nell’osservare gli sguardi e i movimenti degli amici, Rodolfo si rende conto che è finita e, ripetendo straziato il nome dell’amata, l’abbraccia piangendo.
Fra gli interpreti della prima il baritono Giuseppe De Luca nella parte di Gianni Schicchi, il tenore Giulio Crimi in quella di Rinuccio, il soprano Florence Easton nella parte di Lauretta ed il tenore Angelo Badà come Gherardo. Fino al 2009 ha avuto 138 recite al Metropolitan.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Giacomo Puccini
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Del Trittico, Gianni Schicchi fu l’opera che godette subito del successo maggiore[1] ed iniziò quindi ben presto ad avere vita autonoma, nonostante l’esplicita volontà di Puccini che le tre opere andassero sempre in scena assieme e mai in abbinamento con altri titoli.
In tempi recenti si sta consolidando la prassi d’abbinare Gianni Schicchi a Una tragedia fiorentina di Alexander von Zemlinsky[1] o ad Alfred, Alfred di Franco Donatoni. Le due opere sono difatti accostabili non solo per la comune ambientazione fiorentina medievale, ma anche per la scenografia (interno d’abitazione per entrambe) e per la complementarità dei soggetti: una tragedia notturna ed una solare commedia brillante. C’è infine un legame storico: Puccini stesso, nel 1912, aveva pensato di musicare A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, uno scritto incompiuto dal quale Zemlinsky trasse pochi anni dopo ispirazione per la sua opera.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Trama
1299: Gianni Schicchi, famoso in tutta Firenze per il suo spirito acuto e perspicace, viene chiamato in gran fretta dai parenti di Buoso Donati, un ricco mercante appena spirato, perché escogiti un mezzo ingegnoso per salvarli da un’incresciosa situazione: il loro congiunto ha infatti lasciato in eredità i propri beni al vicino convento di frati, senza disporre nulla in favore dei suoi parenti.
Inizialmente Schicchi rifiuta di aiutarli a causa dell’atteggiamento sprezzante che la famiglia Donati, dell’aristocrazia fiorentina, mostra verso di lui, uomo della «gente nova». Ma le preghiere della figlia Lauretta (romanza «O mio babbino caro»), innamorata di Rinuccio, il giovane nipote di Buoso Donati, lo spingono a tornare sui suoi passi e a escogitare un piano, che si tramuterà successivamente in beffa. Dato che nessuno è ancora a conoscenza della dipartita, ordina che il cadavere di Buoso venga trasportato nella stanza attigua in modo da potersi lui stesso infilare sotto le coltri, e dal letto del defunto, contraffacendone la voce, dettare al notaio le ultime volontà.
Così infatti avviene, non senza che Schicchi abbia preventivamente assicurato i parenti circa l’intenzione di rispettare i desideri di ciascuno, tenendo comunque a ricordare il rigore della legge, che condanna all’esilio e al taglio della mano non solo chi si sostituisce ad altri in testamenti e lasciti, ma anche i suoi complici («Addio Firenze, addio cielo divino»).
Schicchi declina dinanzi al notaio le ultime volontà e quando dichiara di lasciare i beni più preziosi – la «migliore mula di Toscana», l’ambita casa di Firenze e i mulini di Signa – al suo «caro, devoto, affezionato amico Gianni Schicchi», i parenti esplodono in urla furibonde. Ma il finto Buoso li mette a tacere canterellando il motivo dell’esilio e infine li caccia dalla casa, divenuta di sua esclusiva proprietà.
Fuori, sul balcone, Lauretta e Rinuccio si abbracciano teneramente; mentre Gianni Schicchi sorridendo contempla la loro felicità, compiaciuto della propria astuzia.
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