Giuliana Bruno-Rovine con vista Napoli e il cinema di Elvira Notari-
Quodlibet Studio-Editore-Macerata-Roma
Descrizione del libro di Giuliana Bruno-Una grande città, Napoli – con le sue strade, le sue vedute, il suo universo iconografico, la sua vocazione filmica – guardata a distanza di anni attraverso gli occhi di due donne.
Elvira Coda Notari (1875-1946), la prima e più prolifica cineasta italiana, tra il 1906 e il 1930 realizza più di sessanta lungometraggi, un centinaio di corti di «attualità» e numerosi brevi documentari commissionati da emigrati napoletani trasferiti in America, finché la censura fascista e la transizione al sonoro costringono la sua casa di produzione, la Dora Film, a cessare le attività.
Giuliana Bruno, napoletana, si trasferisce a New York negli anni Ottanta e lì inizia a ricostruire un momento particolare della storia della sua città di origine; quello in cui, insieme al cinema, nasceva la modernità, con i suoi innovativi linguaggi di movimento, i nuovi mezzi di trasporto, le gallerie o passages e le altre trasformazioni tecnologiche e urbanistiche che rivoluzionarono le modalità della percezione tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
A partire da frammenti filmici, fotogrammi, copioni e scritti emersi da una lunga ricerca d’archivio condotta in Italia e negli Stati Uniti tra quanto è rimasto a documentare la pionieristica opera di Elvira Notari e della Dora Film, Rovine con vista fa propria la visione del mondo di una regista dimenticata, che con la sua cinepresa ha cercato di catturare la città e le sue forme di vita «dal vero». Ne deriva una ricognizione trasversale che coinvolge il cinema e la fotografia, la letteratura e la storia dell’arte, la cultura popolare, i palcoscenici, le riviste, l’architettura e la storia della medicina.
«Un bellissimo libro… Rovine con vista può essere letto come racconto di un viaggio. Ci si mette in movimento e si seguono due piste: una, rigorosa e preziosissima, è la accurata ricostruzione analitica del cinema di Elvira Notari. L’altra, appena dissimulata da un filtro critico “alto” ma non impervio, è la tensione personale della donna che ha scritto il libro. Parlando da regista, è come se adesso esistesse un testo che potrebbe persino invitarmi alla trasposizione cinematografica, cioè a un impossibile remake, di un film che di fatto nessuno può più vedere. Oltre che per il suo impegno critico, è di questa tensione creativa e vitale che sono grato a Giuliana».
— Mario Martone
Indice
Premessa all’edizione italiana
Ringraziamenti
Introduzione. Coordinate di una ricerca
Parte prima. Elvira Coda Notari e il cinema napoletano: panorama storico
1. Problemi di storia e di cinema nella cultura italiana
2. Riviste di cinema e storiografia filmica
Parte seconda. Cinema su sfondo urbano: topoanalisi della spettatorialità
3. Passeggiando attorno alla caverna di Platone, ovvero l’inconscio ha trovato casa
4. Incorporamenti spettatoriali: anatomie del visibile e corpo-paesaggio femminile
Parte terza. La fabbrica della cultura cinematografica
5. Dora Film: una casa di produzione cittadina
6. Donne al lavoro: la manifattura filmica
7. La Dora Film d’America: donne ed emigranti nel sogno americano
8. Censura: tagliare le ali al desiderio
Parte quarta. Il tessuto metropolitano
9. Frammenti di un discorso analitico: lacune
10. L’architettura del melodramma pubblico: la corporeità della strada
11. Tra festa e legge: la carnevalizzazione del racconto
12. Vedute urbane: città-paesaggio cinematografica, prospettiva artistica e viaggio turistico
Parte quinta. Geografie femminili
13. Anatomia di un’analisi. Il noir d’autore
14. Cinema popolare e letteratura delle donne: il transito del discorso femminile
15. Figure della medicina: isteria e lezione d’anatomia
16. Topografie di oscuri piaceri femminili
17. Scritto sul corpo: erotismo, morte e agiografia
Postfazione. La mappa in rovina, riconnessa
Filmografia
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
Giuliana Bruno-Rovine con vista-
L’autore-Giuliana Bruno
Giuliana Bruno, nata a Napoli, vive a New York. È titolare della cattedra di Visual and Environmental Studies alla Harvard University ed è nota a livello internazionale per la sua ricerca che esplora le intersezioni tra arti visive, architettura e media. Con Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Bruno Mondadori, 2006; Johan & Levi, 2015) ha introdotto la categoria interpretativa della «geografia emozionale» e ha vinto il Premio Kraszna-Krausz per il miglior libro sulle immagini in movimento. Tra i suoi volumi si ricordano Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (Bruno Mondadori, 2009) e Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (Johan & Levi, 2016). Il suo ultimo libro è Atmospheres of Projection. Environmentality in Art and Screen Media (University of Chicago Press, 2022). Nel 2020 è stata insignita di un dottorato honoris causa dall’Institute for Doctoral Studies in the Visual Arts.
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Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-Figure di celluloide, di peluche e di carta
Quodlibet Studio
Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-
Descrizione del libro di Philippe-Alain Michaud, Anime primitive-Biblioteca DEA SABINA–Quindi è un libro di cinema? Non esattamente, o meglio, non soltanto, anche se tratta di immagini animate o di animazione. Parla piuttosto di disegno e di giochi, di trance, di sogno, di spettri, di unione e disgiunzione dell’anima e del corpo…
Un libro di storia dell’arte, di antropologia, di filosofia? Non direi, anche se prendo a prestito concetti di queste discipline per raccontare una storia che in fondo è la storia di tutte le storie: quella della trasformazione del corpo in figura e della sua comparsa nella rappresentazione. Cerco le tracce di questo fenomeno nelle forme più disparate, dall’universo di Krazy Kat o di Little Nemo, al cinema burlesco o scientifico, dal tarantismo del Sud d’Italia alle mitologie indoamericane…
E perché il titolo Anime primitive? Le anime primitive sono le anime separate, come lo sono le figure. Perché una figura appaia bisogna che un corpo scompaia: la figurabilità non è altro che il racconto di una separazione. È per questo che la questione della rappresentazione è così connessa al lutto e a sua volta il lutto ci rimanda sempre all’enigma della rappresentazione.
«In L’anima primitiva, Lucien Lévy-Bruhl descrive i morti, o meglio i fantasmi, come degli esseri che somigliano ai vivi ma sono “incompleti e decaduti”: al momento delle loro apparizioni hanno piuttosto l’aria di fantasmi o di ombre, anziché di esseri reali. Hanno un corpo simile al nostro, ma senza consistenza o spessore. Alla logica dell’essere si sostituisce quindi una logica dell’apparire: i ghosts sono figure persistenti che si caricano di un effetto di ritardo o di sospensione».
Indice
Introduzione. Guignol, o della non vita
I. Sullo schermo
II. Simulacri
III. La commedia di distruzione
IV. Uomini-ragno
V. Peluche psicopompi
VI. Krazy Katchina
VII. Il coniglio Oswald, macchina desiderante
VIII. Dreamland (pavor nocturnus)
IX. I figli della notte
X. Fantasmagoria
XI. Thanatografia
XII. A volte ritornano
Ringraziamenti
Indice dei nomi
L’autore-Philippe-Alain Michaud, filosofo e storico dell’arte, dirige il Dipartimento di cinema sperimentale del Centre Pompidou di Parigi e insegna all’Université de Genève. Tra le mostre da lui curate: Comme le rêve le dessin (Musée du Louvre-Centre Pompidou, Parigi, 2005); Electric Nights (MAMM, Mosca, 2010); Tapis volants / Tappeti volanti (Tolosa-Roma, 2012); Hans Richter. La traversée du siècle (Centre Pompidou, Metz, 2013-2014); Beat Generation (Centre Pompidou, Parigi, 2016); L’Œil extatique. Sergueï Eisenstein à la croisée des arts (Centre Pompidou, Metz, 2019-2020). Tra le sue pubblicazioni: Aby Warburg et l’image en mouvement (Macula, Paris 1998); Sketches. Histoire de l’art, cinéma (Kargo & l’Éclat, Paris 2006); Sur le film (Macula, Paris 2016); Âmes primitives (Macula, Paris 2019). Fa parte del comitato di redazione dei «Cahiers du musée national d’art moderne» e dirige la collana «La littérature artistique» per Macula.
Recensione di Luigi Azzariti-Fumaroli-«Antinomie»
Nel tentativo di trovare «riposo nell’erudizione, in questa fuga lungi dalla nostra vita che non abbiamo il coraggio di guardare», o, più semplicemente, da ciò che di «altro un altro anno prepar[a]», si è atteso alla lettura dell’edizione italiana, appena apparsa presso Quodlibet, d’un volume pubblicato originariamente in Francia nell’estate 2019 per l’editrice parigina Macula, e di cui si era avuta notizia qualche mese dopo, scorrendo le pagine di Critique d’art. Guitemie Maldonado vi aveva dedicato una breve recensione: «Leggere questo libro di Philippe-Alain Michaud significa percorrere un’intera sezione della cultura e del pensiero visivo moderno in compagnia di una guida tanto colta quanto ispirata. Dall’introduzione, si passa dalle prime esperienze di Franz Kafka, Maxim Gorki e Siegfried Kracauer come spettatori di film alla storia del teatro delle ombre: si stabilisce così un movimento dialettico tra “rappresentazione del reale” e “presentazione dell’irrealtà”, radicato nell’idea di “reale” e “irreale”, ancorato all’idea che “tanto quanto l’apparizione delle figure, è la scomparsa dei corpi che il cinema racconta”, “il battito meccanico dell’otturatore […] inscrive un evento di scomparsa nel cuore dell’esperienza filmica per farne la condizione di possibilità della formazione delle figure”». Con le dande offerte da una pletora di phares, ora incliti ora oscuri, l’autore – si leggeva – prosegue in una disamina volta ad «individuare il ruolo dell’animismo» nella cultura moderna, ricorrendo ad esempi tratti non soltanto dalle pellicole cinematografiche, ma pure dai fumetti, dalla pittura, da alcuni riti tribali e persino dalla storia di certi giocattoli, considerati capaci di perpetuare un insieme di credenze relative alla vita dell’anima in virtù del loro mettere in scena dei «fenomeni d’incorporazione che si prolungano oltre i limiti dell’esistenza grazie all’intervento della figura animale». Pur nutrendo, colpevole forse anche un’eccessiva frequentazione delle “laboriose inezie” manganelliane, qualche scetticismo verso le recensioni che intendano far opera di servizio per il lettore, si è dunque preso a leggere lo studio di Michaud essendo già avverti, benché per sommi capi, dei suoi contenuti, e perciò interessati soprattutto ad approfondire alcuni temi ch’erano stati profilati in quel ritaglio di rivista. Del resto, secondo quanto ha insegnato Walter Benjamin, affinché un’esegesi possa risultare efficace è sufficiente ch’essa si componga di due parti: la glossa e la citazione. Le quali, a loro volta, non sono altro che «segnali indicativi» tracciati sulle pagine dalla matita, nella sua veste – direbbe Valerio Magrelli – di «ossatura / esile del pensiero».
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Il titolo (come uno dei due eserghi) del lavoro di Michaud richiama espressamente l’opera dell’antropologo Lucien Lévy-Bruhl, L’Âme primitive (1927), nella quale, come osservò, nel 1948, Ernesto De Martino introducendo l’edizione pubblicata per i tipi di Boringhieri, veniva per la prima volta delucidata quella mentalità che «rende misticamente partecipe ciò che, per noi, è distinto»: il che la fa essere poco o punto sensibile al principio di contraddizione (per cui A è diverso da B), con la conseguenza ch’essa si troverebbe prigioniera d’un delirio immodificabile, perché refrattario ad essere smentito dall’esperienza. Un delirio, tuttavia, dotato di una logica retta da quella particolare legge che governa ogni forma di soppressione di “linguaggio concordante”, sicché a connotare quest’ultimo sarebbe soltanto una “confusione”, che, d’accordo con Filone di Alessandria, si dirà non già equiparabile ad un “miscuglio”, ad una “combinazione” o ancora ad una “giustapposizione” e neppure ad una “separazione” o “divisione”, bensì alla sparizione di ogni elemento che non possa più essere separato, tanto che nulla più rimane delle qualità originarie, e tutto inclina verso la formazione di un’unica qualità. Lévy-Bruhl la chiama“mana”, termine melanesiano che indica una forza anonima e impersonale della quale parteciperebbero tutti gli esseri: essa sarebbe «sostanza, essenza, forza e unità di qualità diverse», in grado di conferire alle cose e agli esseri animati un carattere misterioso. Ed è di questo enigmatico potere interiore che Michaud si propone di indagare i riverberi che si prolungano in quegli spazi interstiziali compresi «tra la parte visibile ed il piano di fondo», e dai quali come da un leonardesco spiracolo o da un sartriano buco della serratura guateremmo «la pura coscienza delle cose e le cose stesse», così da non essere più osservatori, ma meri oggetti, cose fra cose.
Per Michaud, questa forma di reificazione troverebbe una prima esemplificazione nelle pantomime dei clown ovvero nelle gag interpretate dai protagonisti di certe pellicole di genere slapstick, in quanto il corpo vi sarebbe rappresentato come «un organismo privo di anima e dotato d’una plasticità che eccede o ignora il dato fisiologico e le regole di verosimiglianza che dovrebbero regolarne l’azione». Ma sarebbe stato specialmente un «film pressocché insopportabile», The Act of Seeing with One’s Own Eyes, terzo capitolo del trittico dei Pittsburgh Documents (1970) di Stan Brakhage (fig. 1), a mettere in scena in modo definitivo, attraverso la ripresa cinematografica d’una granguignolesca autopsia, non delle figure, ma dei corpi, i quali, però, finirebbero per non rappresentare altro che la condizione d’ogni figura, rendendosi così sopportabili o semplicemente possibili. Un cortocircuito che peraltro – nota Michaud – caratterizzerebbe anche le tante lezioni d’anatomia che la storia dell’arte annovera, a cominciare da quelle di Rembrandt (fig. 2), e nelle quali s’assisterebbe alla descrizione della vita attraverso la sua assenza.
Attorno a questa assenza, a questo vuoto indefinibile, Michaud indugia con lo specillo dell’anatomista, nella convinzione di poter così celebrare «i fasti e le superiori geometrie della vita», la quale, per farsi oggetto di conoscenza e di osservazione, parrebbe dover cessare d’essere tale. In tal senso, la seconda metà del suo studio parrebbe potersi leggere come il tentativo di teorizzare ciò che Francis Bacon definiva “emanazioni”, ossia di catalogare quelle “figure” che sembrano per certi versi promanare dalla loro stessa carne. Jean-Louis Schefer le ha definite simili a pittura che si può spazzolare, gettare, una pasta liquida, una sostanza senza soggetto che produce figure: lo sperma della vita di cui parla Proust. Michaud preferisce cogliere questo “qualcosa” che è creato dalla forma stessa, in certe figure semi-animali come le katcinas (fig. 3) degli indiani Hopi: «bambole o pupazzi di cui ai bambini si raccontano storie a volte paurose a volte divertenti, ma che sono anche una rappresentazione dei defunti e assicurano una continuità tra i vivi e i morti. Sono le immagini lasciate dagli spiriti prima di scomparire per sempre». Esse, non diversamente da quanto accade per i peluches quando intesi come “oggetti transizionali”, rappresenterebbero un principio vitale in un corpo inumano. La figura zoomorfa assolverebbe insomma ad una funzione psicopompica. La medesima assolta dal cartone animato di marca disneyana, considerato – anche sulla scorta di alcuni rilievi di Ėjzenštejn – il segno del completo abbandono di ogni costruzione psicologica, a vantaggio di un movimento perpetuo, nevrotico e febbricitante.
Questo stato spasmodico sembra invero pervadere lo stesso dettato di Michaud, che scivola avanti e indietro fra i diversi autori ch’egli convoca a sostegno delle proprie affermazioni, ma sempre guardandoli di sfuggita. È per questo forse che i riferimenti bibliografici, scelti per lo più in forza d’una regola analogica, rivelano nella sua scrittura un certo manierismo, se è vero che questo, linguisticamente, può individuarsi, secondo Ludwig Binswanger, in una pluralità di riferimenti “innaturali” enorme, smisurata, che fa saltare o lascia negletti i “confini naturali”. Vi è, nel citazionismo che caratterizza la scrittura di Michaud, un che di compulsivo, non dissimile dal modo di disegnare o di scrivere di artisti e scrittori ch’egli stesso ricorda, come Winsor McCay, Gabriel de Saint-Aubin (fig. 4) o Thomas Browne.
Quest’ultimo è in particolare evocato per la sua familiarità coi fantasmi, al centro delle pagine finali di Anime primitive, ispirate dal desiderio di offrire un ulteriore tassello a quella “scienza degli spettri” di cui Pierre Le Loyer, nel secolo XVII, intendeva gettare le basi, interrogandosi sui diversi “non essere” che hanno accompagnato per secoli il discorso più intimo della cultura occidentale e che ci insegnerebbero a considerare ogni esistenza soltanto nelle sue intermittenze. A partire da quella che si pone sotto il nome di “Io”. Infatti, «se la possibilità della mia scomparsa in generale» – ha scritto Jacques Derrida, fra i riferimenti più ricorrenti nelle pagine di Michaud – «deve essere vissuta in un certo modo perché possa istituirsi un rapporto alla presenza in generale, non si può più dire che l’esperienza della possibilità della mia scomparsa assoluta (della mia morte) venga ad intaccarmi, sopravvenga ad un io sono e modifichi il soggetto». Questo sarebbe infatti già da sempre solo un’ombra in congedo ed in annuncio, memore appena del suo dileguare. Farne l’epicrisi sarebbe perciò impossibile, a meno di sconfinare nel comico, come accade in Autopsia de un fantasma (1968) di Ismael Rodriguez. Peraltro, La scienza del comico (ma Umberto Eco, nella prefazione, segnalava che miglior titolo sarebbe probabilmente stato Il comico della scienza) è un saggio di Giorgio Celli che Michaud non manca di menzionare, traendolo dal «Mottenwelt», dal «mondo di tarme» in cui il tempo l’ha confinato, e di cui rammenta un passo nel quale si tratteggia la figura dell’anatomista come «un carnefice per delega cadaverica». Una definizione dove echeggia la passione, comune a Celli e a Michaud, per il grottesco: «rire vrai, rire violent» – osservava Baudelaire – a cospetto di oggetti che non sono un segno di debolezza o di sventura, ma, all’opposto, «créations fabuleuses», come, ad esempio, gli anaglifi, gli automati, le bambole, i peluches, le cere anatomiche, gli utensili chirurgici del dottor Farabeuf.
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– ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -Edizione del TCI anno 1929-copia anastatica-
Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-
ABBAZIA di FARFA-situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’abbazia – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
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Tutto avviene in un lungo e incredibile week end dal 18 al 21 di Maggio.La Mille Miglia fa Tappa a ROMA e ritorno a Brescia .La 35esima edizione rievocativa partirà da Brescia il 18 maggio: quattro tappe, passaggio da Roma e ritorno. In forte crescita le domande di iscrizioni.
La Mille Miglia compie 90 anni dalla prima edizione del 1927 e si appresta a disputare la trentacinquesima edizione rievocativa. La manifestazione è stata presentata ieri a Palazzo Loggia, sede del Comune di Brescia. Sono in forte crescita le iscrizioni: 695 sono le domande di partecipazione e 440 saranno le vetture accettate (tutte costruite tra il 1927 e il 1957), provenienti da 41 Paesi di cinque Continenti. Per il quinto anno consecutivo, a curare la corsa su strada più celebre di ogni tempo, sarà 1000 Miglia Srl, società totalmente partecipata dall’Automobile Club di Brescia. Il percorso della Mille Miglia 2017 presenta alcune varianti rispetto al 2016. Da giovedì 18 a domenica 21 maggio saranno attraversati più di 200 comuni, 7 regioni e la Repubblica di San Marino. Tra le novità, spiccano le “prove spettacolo” che le vetture in gara disputeranno in alcune piazze storiche italiane. Le prove cronometrate salgono a 112, più 18 rilevamenti in 7 prove a media imposta. La classifica finale, dopo l’applicazione dei coefficienti sarà così costituita da un totale di 130 tratti a cronometro. Le “prove spettacolo” si correranno nelle piazze di Verona, Castelfranco Veneto, Ferrara, Pistoia, Busseto e Canneto sull’Oglio. Le ultime prove cronometrate della Mille Miglia 2017, decisive per la classifica, saranno disputate in un contesto suggestivo: le piste dei Tornado del 6 Stormo dell’Aeroporto Militare di Ghedi. La Mille Miglia 2017 continuerà a essere disputata in quattro tappe. Il prologo, martedì 16 maggio, sarà il Trofeo Roberto Gaburri, gara di regolarità alla quale prenderanno parte un centinaio di vetture. La partenza avverrà da Viale Venezia, alle ore 14.30 di giovedì 18 maggio. Rispettando la tradizione nata nel 1927 e la prima tappa si concluderà a Padova. Il giorno dopo, venerdì 19 maggio, la seconda tappa porterà i concorrenti a Roma, con la passerella in Via Veneto. Sabato 20, con start alle 6.30, il percorso dalla Capitale resterà invariato fino alla Toscana e si concluderà a Parma da dove ripartirà la domenica per far ritorno a Brescia.
La Mille Miglia è stata una competizione automobilisticastradale di granfondo disputata in Italia in 24 edizioni tra il 1927 e il 1957. Si trattava di una gara di velocità in linea con partenza ed arrivo a Brescia in cui i concorrenti arrivavano fino a Roma attraverso il Centro–Nord Italia. Il nome della gara deriva dalla lunghezza del percorso; infatti, nonostante diverse variazioni nel corso degli anni, rimase lungo circa 1600 chilometri equivalenti a circa mille migliaimperiali. Fu cancellata dopo l’edizione 1957 a causa della tragedia di Guidizzolo.
Dal 1977 la Mille Miglia rivive sotto forma di gara di regolarità storica a tappe la cui partecipazione è limitata alle vetture, prodotte entro il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale. Il percorso Brescia-Roma-Brescia ricalca, pur nelle sue varianti, quello della gara originale mantenendo costante il punto di partenza/arrivo in viale Venezia all’altezza dei giardini del Rebuffone.
L’edizione del novantesimo anniversario del 2017 è quella con il record di iscritti: 705[1].
Prima della guerra
«Mille Miglia; qualcosa di non definito, di fuori dal naturale, che ricorda le vecchie fiabe che da ragazzi ascoltavamo avidamente, storie di fate, di maghi dagli stivali, di orizzonti sconfinati. Mille Miglia: suggestiva frase che indica oggi il progresso dei mezzi e l’audacia degli uomini. Corsa pazza, estenuante, senza soste, per campagne e città, sui monti e in riva al mare, di giorno e di notte. Nastri stradali che si snodano sotto le rombanti macchine, occhi che non si chiudono nel sonno, volti che non tremano, piloti dai nervi d’acciaio.»
(Giuseppe Tonelli, da: 100 macchine si lanciano da Brescia per le “Mille Miglia”, La Stampa, 27 marzo 1927[2])
La corsa venne ideata ed organizzata, come gara di velocità in linea (non a tappe) da quattro amici in risposta alla mancata assegnazione a Brescia, loro città natale, del Gran Premio d’Italia, organizzato nel nuovo autodromo di Monza.
I quattro, che divennero poi noti come i quattro moschettieri della Mille Miglia, sono il conte Aymo Maggi, pilota e finanziatore, il conte Franco Mazzotti, giornalista, pilota, finanziatore e presidente del RACI di Brescia, Renzo Castagneto, l’organizzatore vero e proprio, e Giovanni Canestrini, il decano dei giornalisti italiani nel settore automobilistico.
Fu scelto un percorso a forma di “otto” da Brescia a Roma e ritorno lungo circa 1600 km, equivalenti a circa 1000 miglia, da cui il nome, suggerito da Franco Mazzotti, di recente ritorno da un viaggio in America. A Mazzotti nel secondo dopoguerra sarà poi intitolato il trofeo “Coppa delle Mille Miglia”, attribuito ai vincitori della gara, che venne quindi denominata anche “Coppa Franco Mazzotti”.
La prima edizione partì alle 13 del 26 marzo 1927, con la partecipazione di 77 equipaggi, 2 soli dei quali stranieri (al volante delle piccole Peugeot 5 CV). Di loro 55 portarono a termine la corsa mentre 22 vetture furono costrette al ritiro. Alla fine un equipaggio bresciano composto da Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi a bordo di una bresciana OM 665 “Superba” S torpedo tagliò per primo il traguardo completando il percorso in 21 ore, 4 minuti, 48 secondi e 1/5 alla media di 77,238 km/h.
Solo dopo l’enorme successo della prima Mille Miglia si decise di ripetere la prova negli anni a venire e l’evento divenne così importante che il tracciato fu modificato per ben tredici volte per far passare la gara anche da altre città.
Preparativi per la partenza della Mille Miglia 1930.
Il 1938 fu segnato da un grave incidente a Bologna, infatti una Lancia Aprilia uscì di strada, finì sulla folla, uccise dieci spettatori, di cui sette bambini, e ferì altre ventitré persone. In seguito a tale sciagura il capo del governo, Benito Mussolini, decise di non concedere più l’autorizzazione per svolgere gare di velocità su strade pubbliche.
Dopo la pausa del 1939, nel 1940, a guerra iniziata, si riuscì a organizzare una nuova gara, chiamata ufficialmente Gran Premio di Brescia delle 1000 Miglia, che consisteva in nove giri di un circuito chiuso triangolare che toccava le città di Brescia, Cremona e Mantova in modo da raggiungere la lunghezza di circa 1000 Miglia.
Tra il 1941 e il 1946 non fu possibile organizzare la corsa a causa della seconda guerra mondiale.
Questa fu l’ultima vittoria di un’Alfa Romeo alla Mille Miglia, l’anno dopo si aprì la schiera di successi Ferrari continuata fino al 1957 e interrotta solo nel biennio 1954-55 dalle vittorie di Lancia e Mercedes-Benz. Proprio alla Mercedes-Benz 300 SLR#722 di Stirling Moss e Denis Jenkinson appartiene il record assoluto della gara con i 1.592 km percorsi in 10 ore, 7 minuti e 48 secondi a 157,650 km/h di media[3]. Il segreto di questa straordinaria prestazione risiedeva in un rotolo di carta lungo quattro metri e mezzo che Jenkinson usò per dirigere Moss durante la gara e su cui aveva annotato le caratteristiche della strada in base alle ricognizioni del percorso effettuate prima della corsa.
Nel 1957 una Ferrari 335 S fu coinvolta in un incidente sulla Goitese nei pressi di Guidizzolo (ma nel territorio comunale di Cavriana), in provincia di Mantova, causato dallo scoppio di uno pneumatico, che costò la vita al pilota spagnoloAlfonso de Portago, al navigatore americano Edmund Gurner Nelson, e a nove spettatori, cinque dei quali bambini. A causa dello shock provocato nell’opinione pubblica la corsa venne definitivamente soppressa. A seguito dell’incidente Enzo Ferrari, costruttore della vettura coinvolta nell’incidente, subì un processo che durò alcuni anni e dal quale uscì assolto.[4]
L’Automobile Club di Brescia effettuò un tentativo per dare continuità alla corsa e nel 1958, nel 1959 e nel 1961, di fronte alla irremovibilità delle autorità che non concessero i nulla-osta necessari per le corse di velocità su strada, organizzò tre edizioni ancora denominate Mille Miglia ma disputate secondo una formula che prevedeva brevi tratti di velocità alternati a lunghe tratte di trasferimento da percorrere alla velocità media di 50 km/h (con penalizzazione per gli eventuali ritardi).
La Mille Miglia rese vittoriosi e noti in tutto il mondo marchi di auto sportive italiane come Alfa Romeo, Lancia e Ferrari.
Escludendo l’edizione del 1940 (svoltasi su un veloce circuito stradale Brescia-Cremona-Mantova) e le ultime tre Mille Miglia del 1958, 1959 e 1961 (edizioni di regolarità e velocità), le altre 23 edizioni della corsa – quelle che potremmo definire le “classiche” Mille Miglia – si sono disputate con partenza e traguardo a Brescia e giro di boa intermedio a Roma, su itinerari di lunghezza prossima ai 1600 km (approssimativamente 1000 miglia). Negli anni sono state ben tredici le variazioni apportate al percorso Brescia-Roma-Brescia, che ha avuto una lunghezza compresa tra un minimo di 1512 km (edizione 1953) e un massimo di 1830 km (edizione 1948) e che ha avuto un senso talvolta “orario” e talvolta “antiorario”.
Poiché il tracciato ha subito nel corso degli anni parecchie variazioni più o meno rilevanti, un confronto delle prestazioni ottenute dai diversi vincitori, anno dopo anno, non è formalmente corretto, in particolare se ci si riferisce ai tempi di percorrenza. È invece invalso l’uso di prendere a riferimento la media oraria per stabilire l’evoluzione delle prestazioni. Ciò premesso, la media ottenuta dai vincitori delle diverse edizioni della Mille Miglia su questo percorso classico Brescia-Roma-Brescia è più che raddoppiata, passata nel corso degli anni dai 77,238 km/h ottenuti nella prima edizione della corsa (1927) dalla OM 665 “Superba” di Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi ai 157,650 km/h raggiunti nel 1955 da Stirling Moss e Denis Jenkinson: questa media oraria non sarà più superata e pertanto verrà unanimemente considerata la “media record” della corsa.
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Poesie di Mary Carolyn Davies ,Poetessa statunitense
La poetessa statunitense Mary Carolyn Davies :la poetessa americana che sparì nel nulla.Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
Mary Carolyn Davies si sente parte del risveglio, non si limita ad osservarlo ma se ne fa interprete scrivendo la sua poesia sullo spartito già predisposto dalla natura
(Mary Carolyn Davies)
Morirò anch’io,
fiore, tra poco,
non essere così orgoglioso.
PRIMA CHE COMINCI APRILE
Il giorno che precede aprile,
sola soletta,
ho camminato per i boschi
e mi sono seduta su una pietra.
La pietra sembrava un leggio
e cantavano gli uccelli.
La melodia era opera di Dio
ma le parole erano mie.
(da Poetry. A Magazine of Verse, X, 5, agosto 1917)
La primavera è all’intorno ma anche dentro di noi: seduta in mezzo ai boschi, la poetessa statunitense Mary Carolyn Davies si sente parte del risveglio, non si limita ad osservarlo ma se ne fa interprete scrivendo la sua poesia sullo spartito già predisposto dalla natura
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
IL MATTINO
Il mattino è in piedi, alla finestra, guarda nella mia camera e dice:
“Cosa vuoi fare di me?
Sono il tuo schiavo,
ti porterò ciò che desideri:
dimmi cosa vuoi che faccia
e lo farò,
dimmi cosa vuoi
e sarà tuo”.
Un improvviso fruscio di lacrime ha scosso il cuore, e ho detto:
“Oh, mattino, non voglio nulla.
C’è una cosa che voglio. Moltissimo.
Ma non so dirti con esattezza.
Forse morire, forse vivere”.
ERO SOLA CON ME STESSA
Ero sola con me stessa, l’altra sera,
con il me che nessuno conosce,
il mio me, la persona più gentile che abbia mai incontrato
(direi, la più bella!)
Ero sola con me,
avevamo molto di cui parlare,
non ci eravamo mai incrociati prima
se non per scorci, per sbagli
(a volte, volevamo incontrarci,
altre, speravamo di non incontrarci mai).
Abbiamo avuto anni per discutere
e anni seguenti di cui sparlare,
e poi c’erano altre cose -noi, la vita-
e tutte quelle cose di cui parlare.
Così, ci siamo seduti, in silenzio,
senza dire una parola.
la poetessa americana che sparì nel nulla
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
<<Non ho paura del mio cuore. Non ho paura di ciò che accade nei luoghi in cui si dispongono le ombre.>>
*Versi di Mary Carolyn Davies (Sprague, 1888 – ? New York, 1940 o 1974), poetessa dalla vita misteriosa e dalla morte ancora più oscura.
Considerata una promessa della letteratura americana, l’autrice statunitense fu per alcuni anni una brillante animatrice degli ambienti culturali di New York e ricevette importanti riconoscimenti per le sue liriche, i suoi racconti ed il suo unico romanzo.
All’improvviso si eclissò dalla scena pubblica per motivi mai chiariti, forse per depressione, forse per malattia.
Sulla sua nebulosa scomparsa prova a far luce l’enciclopedia dell’Oregon Historical Society: “Nel 1940, il giornale quotidiano Oregonian riferì che Davies era indigente, malata ed emaciata, viveva in una squallida stanza piena di manoscritti e poco altro. Secondo quanto riferito, i medici la diagnosticarono come anemica e i vicini dissero che aveva poco cibo. Ethel Romig Fuller, poetessa di Portland ed editrice di poesie dell’Oregon, la visitò a New York e raccontò che era in uno ‘stato deplorevole’ da almeno due anni. Non spiegò come avesse raggiunto un tale stato. Non c’è traccia della sua morte in Oregon e nessun necrologio fu pubblicato né sull’Oregonian né sul New York Times”.
Secondo altre fonti, tuttavia, quando la sua condizione di estrema povertà e di malnutrizione fu segnalata pubblicamente, venne aiutata da amici e ritornò in salute, vivendo fino al 19 maggio 1974, giorno in cui sarebbe deceduta in una casa di cura di New York.
Il critico Davide Brullo, che definisce la scrittrice “figura stravagante e straziata della poesia americana”, commenta invece così la sua indecifrabile sparizione dopo l’iniziale successo mondano: “Pare sia morta nel 1940: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile. Così muore un poeta: si fa invisibile, cioè eterno.”
I ‘Mary Carolyn Davies papers’, ovvero tutti i suoi manoscritti, le sue fotografie e le sue corrispondenze epistolari, sono oggi custoditi dall’University of Oregon.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
Mary Carolyn Davies
Canti di ragazza
I
Forse,
mentre piantava l’Eden
a Dio è caduto per errore un seme
nella tessitura prossima al Tempo:
è sbocciato
in quest’ora?
II
Abbiamo preso in mano la Vita, fissandola con curiosità
senza sapere se prenderla per un giocattolo o meno.
Era bella da vedere, sembrava un petardo rosso
eravamo certi della sua scia luminosa.
L’abbiamo gettata mentre la miccia stava bruciando…
III
Morirò anch’io, fiore, tra poco
non essere così orgoglioso.
IV
Il sole muore
solo
su un’isola
nella baia.
Chiudete gli occhi, papaveri
non voglio che vediate la morte
siete troppo giovani!
V
Il sole cade
come la goccia di sangue
di un qualche eroe.
Noi
che amiamo il dolore
ne gioiamo.
Canti di ragazza
(versione pubblicata su “Others”, n.1, July 2015)
I
Il mattino è in piedi, alla finestra, guarda nella mia camera e dice:
“Cosa vuoi fare di me?
Sono il tuo schiavo
ti porterò ciò che desideri:
dimmi cosa vuoi che faccia
e lo farò
dimmi cosa vuoi
e sarà tuo”.
Un improvviso fruscio di lacrime ha scosso il cuore, e ho detto:
“Oh, mattino, non voglio nulla.
C’è una cosa che voglio. Moltissimo.
Ma non so dirti con esattezza. Forse morire – forse vivere –”
II
Non ho paura del mio cuore.
Non ho paura di ciò che accade
nei luoghi dove si appaltano le ombre.
Non ho paura – vieni, entra
e guarda ovunque.
Non ho paura – cos’è quello?
Un posto pericoloso su cui passeggiare – il cuore.
Soprattutto – il proprio.
III
Tornare giovani
abbastanza giovani per ridere di ciò di cui devi piangere.
IV
Io siamo in tre; la ragazzina che ero, la ragazza che sono, la donna che sarò. Ci consultiamo spesso riguardo al tessuto con cui vogliamo tessere il sogno che stiamo facendo.
A volte dicono che sogno ad occhi aperti,
ignorano che stiamo tenendo consiglio, la bambina, la ragazza che sono, la donna che sto diventando.
Ci sono molte cose che ignoro.
V
Ero sola con me stessa, l’altra sera
con il me che nessuno conosce
il mio me, la persona più gentile che abbia mai incontrato.
(Direi, la più bella!)
Ero sola con me
avevamo molto di cui parlare
non ci eravamo mai incrociati prima
se non per scorci, per sbagli
(a volte, volevamo incontrarci
altre, speravamo di non incontrarci mai)
Abbiamo avuto anni per discutere e anni
seguente di cui sparlare
e poi c’erano altre cose – noi, la vita –
e tutte quelle cose di cui parlare.
Così, ci siamo seduti, in silenzio, senza dire una parola.
VI
Un piccolo bacio trema sulle mie labbra
non esce di casa, ha paura.
“Vai, vai”, gli dico, ma piange e non si muove.
Un piccolo bacio è irrequieto sulle mie labbra
“Devo andare”, sibila, “devo andare”
“Aspetta ancora un attimo”, gli dico, “aspetta” –
VII
Lo sguardo di uno sconosciuto
a volte di avvicina a me.
Un colore,
un suono,
e sento il tuo respiro;
i tuoi occhi mi toccano.
La stanza oscura in cui muore il giorno,
e io che piango per te;
un uccello che grida contro chi gli ruba il nido,
un fiore appena nato, che trema –
e il mio cuore batte di gioia per te –
per te, che non conosco
che so soltanto amare.
VIII
Tra poco morirò anch’io, fiore,
non essere così orgoglioso –
*
La porta
La più piccola porta spalanco,
la porta interiore.
Ora il mio cuore non ha più nulla
da nascondere.
La più lontana porta – la serratura
è vinta, e puoi capirlo anche tu:
la sala è una fortezza fragile.
Che tu sia buono.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
*
Canto d’amore
Un muro ciclopico mi protegge:
è costruito con le parole che mi hai sussurrato.
Spade mi tengono al sicuro:
sono i baci delle tue labbra.
Davanti a me, uno scudo a guardia del male:
è l’ombra delle tue braccia tra me e il pericolo.
I desideri della mente sanno il tuo nome
i bianchi sentieri del cuore
sbocciano in te.
Il grido del mio corpo incompiuto
è consacrato a te.
Il sangue ritma il tuo nome
incessante, spietato,
il tuo nome, il tuo nome.
*
Claustrale
Questa notte la piccola suora è morta.
Le mani posate
sul petto; l’ultimo sole ha tentato
di baciare la sua treccia;
hanno ricavato una tomba
dove il fiume s’incassa, intimidito.
L’anima della piccola suora, ritratta
nel pudore, è andata in silenzio
da suo fratello Cristo
sotto l’Albero della Vita;
il Suo viso si è contratto in un sospiro
quando la vide piangere.
Ha posato le mani sulle sue
le ha benedette: “Cieco
chi ti ha fatto questo” – sorrise
anche il pianto va arguito
“D’altronde, nessuno si è accorto che Maria
cresceva un figlio in grembo”.
*
Prima che cominci aprile
Il giorno che precede aprile
sola, sola,
ho camminato nei boschi
mi sono seduta su una pietra.
La pietra sembrava un leggio
e cantavano gli uccelli.
Il ritmo è opera di Dio:
io metto le parole.
*
Stelle impaurite
Le stelle sono come noi bambini
che non vogliamo crescere.
Di notte, le piccole stelle impaurite
si raccolgono nella Via Lattea –
I coraggiosi stanno sempre da soli!
*
La fata solitaria
Una goccia di rugiada brilla
ancora sull’erba, il sole non
l’ha consumata: è una lacrima caduta
nella notte, il resto del pianto
della più solitaria fata.
*
L’abito
Sotto gli sguardi curiosi dei morti
per varcare i cieli (oh, i frutti immaturi
i peccati inconfessabili!)
vestivo
un abito tessuto delle tue promesse.
Potrei essere sola, spaventata
ma ogni donna si accorgerà di me.
* Paura dei morti
Pietà di noi: dobbiamo temere
i terribili morti.
Queste creature di carne e ossa
che ora ascendono al loro trono.
Da lì giudicano, senza giudizio, ciò che facciamo.
Non abbiamo altra legge che quella che hanno
forgiato per noi: i loro desideri sono i nostri
e con il loro metro distinguiamo il bene dal male.
Siamo liberi e in catene, ci ricordano.
Pietà di noi; dobbiamo temere
i terribili morti.
*
Canto notturno per un bimbo
Una volta, una donna, a Betlemme
ha avuto un bimbo, come me:
una volta, ha fissato la sua testa
insonne, l’ha tenuta sulle ginocchia
e con i giovani annebbiati occhi
ha pregato per lui.
Ogni vita è fatta di lotta e di dolore
ogni vita ha un portagioie:
che su quei sentieri interrotti
possa camminare, fiero,
così lei, ieri come oggi,
per il figlio prega.
Che il mio bambino, mentre gli anni
precipitano veloci, non abbia bisogno
di altre mani: tienilo con te
libero dal male, al sicuro dal dolore.
Mary Carolyn Davies
Mary Carolyn Davies-poetessa americana (Foto dl 1936)
Mary Carolyn Davies: la poetessa americana che sparì nel nulla
Fin dal primo numero, però, la figura più affascinante che transita per “Others” è Mary Carolyn Davies, a cui è dato l’onore di inaugurare il carosello poetico con Songs of a Girl, poemetto di ipnotica facilità.
Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley. Tuttavia, la vita universitaria non la conquista e poco dopo sbarca a New York, decisa a vivere di scrittura. Pare sia tenace, indomita: entra nei club di Greenwich, conosce Marianne Moore e Duchamp, è adorata da Kreymborg che ne fa una delle collaboratrici più assidue di “Others”. I suoi primi libri in versi, The Drums on our Street: A Book of War Poems (1918), Youth Riding (1919) e The Skyline Trail: A Book of Western Verse (1924), vengono paragonati a quelli di Edna St. Vincent Millay. I versi per bambini sono accolti in importanti antologie del tempo; nel 1921 pubblica il suo unico romanzo, The Husband Test.
Qualcosa, però, resta evidentemente irrisolto: un tarlo, la tenia del disgusto, un’affabile afflizione. Nel 1918 divorzia dal marito, Leland Davis; negli anni Venti torna a Portland dove, tra l’altro, diventa presidente della Northwest Poetry Society. Alcune rare fotografie del 1936 la vedono di fianco a un cavallo, in un bosco; è magra, minuta, sorride. Il ritorno a New York è devastante. Mary Carloyn Davies scompare dalla vita pubblica quasi subito. Non pubblica più, non frequenta più nessuno. Alcuni amici hanno detto di una malattia, che la inibiva a spostarsi; hanno detto della cupa indigenza, di una solitudine che si fa palude ma non abbastanza pena.
Tutti, infine, mollano Mary Carolyn Davies, la promessa della poesia americana. E lei, infine, infinitamente, scomparve. “Non esistono tracce della sua morte”, si limitano a scrivere i reperti biografici. La University of Oregon custodisce, in due scatole, i “Mary Carolyn Davies papers”: le poesie, una manciata di racconti manoscritti, una serie di atti unici, qualche fotografia, i taccuini, la smilza corrispondenza con gli editori.
Pare avesse tre fratelli, pare che qualcuno l’abbia messa al mondo, creatura di evanescenze e notti striate. Nessuno ha riscattato il corpo di Mary Carolyn Davies, in pochi ne ricordano il corpus. Estremità francescana, putredine della più pura povertà, veglia sulla cenere. Pare sia morta nel 1940, Mary Carolyn Davies: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile.
C’era sempre l’attesa negli occhi di nostra madre,
Ansia, meraviglia e supposizione,
Durante le lunghe giornate, e nel più lungo, lento,
Ancora pomeriggi, che sembravano non andare mai,
E la sera, quando era solita sedersi
Ascolta il nostro discorso casuale e lavora.
Quando il giorno era buio e piovoso,
Non è in grado di essere all’estero, lei sarebbe in piedi
Accanto alla finestra, sbircia fuori e tremare,
Come piccole gocce di pioggia slegate per fare un fiume
Che si precipitò, tempestoso, giù per il vetro della finestra,
E di’: “Mi chiedo cosa fanno nella pioggia?
È bagnato lì nelle trincee, pensi?”
E lei si chiederebbe se avesse il suo inchiostro
E le lame e il dentifricio che ha mandato;
E se leggeva molto nel suo Testamento,
O lamentele pulite, alcune mattine, come lo faranno i ragazzi.
Ma sempre l’unica meraviglia nei suoi occhi
Era: “È che vive, vive, vive, è ancora
Vivo e gay? O giacere morto da qualche parte
E là lo troveranno a terra?».
Chiuse i coperchi ogni notte a quello sguardo
Di attesa, come una mano potrebbe chiudere un libro
Ma non cambiare mai le parole che c’erano dentro.
E quando i rumori del mattino iniziavano
Un nuovo giorno, e un giovane sole toccò il cielo,
Si svegliò di nuovo con l’attesa negli occhi.
Ma ora e’ finita. Lei non legge
Le liste di vittime, da quando è arrivato
Una o due settimane fa. Non c’è bisogno.
Sta facendo maglioni per altri uomini
E lavorare a maglia con la stessa attenzione di allora.
Non c’è cambiamento, tranne che mentre si veste
I suoi aghi, veloci e ritmici come prima,
Non c’è attesa agli occhi di nostra madre,
Ansia o meraviglia più.
Questa poesia è di pubblico dominio. Pubblicato in Poem-a-Day il 7 dicembre 2024, dall’Accademia dei poeti americani.
Salvatore Quasimodo,Premio Nobel 1959, le 5 poesie più belle
Eclettico per natura, Salvatore Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera
.
Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna si scioglie lenta nel sereno, tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra di pianura, i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera. Ho lasciato i compagni, ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura, per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna, ora che sale il giorno e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
.
Già la pioggia è con noi
Già la pioggia è con noi, scuote l’aria silenziosa. Le rondini sfiorano le acque spente presso i laghetti lombardi, volano come gabbiani sui piccoli pesci; il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso un giorno.
.
Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi, della notte consorte, ora dissepolta quasi tepore d’una nuova gioia, grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta dal silenzio il suo nome quando chiamano i morti.
Ed è morte uno spazio nel cuore.
.
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera, come indolente è svanito l’ultimo tuo passo che appare appena il fiore sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti, provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela il tempo specchiato. Addolora come la morte, bellezza ormai in altri volti fulminea. Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite a imitare la gioia.
Biografia di Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo nasce a Modica nel 1901. Il padre è capostazione, e da piccolo Salvatore viaggia molto; anche la sua adolescenza trascorre serena, all’insegna degli spostamenti in diversi paesi siciliani per via del lavoro paterno.
Eclettico per natura, Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Intanto, a Milano ottiene una cattedra per l’insegnamento della letteratura. Il cognato Elio Vittorini ha un grande ruolo nella carriera di Salvatore Quasimodo: è proprio lui che presenta lo scrittore agli intellettuali legati alla rivista letteraria Solaria, dove vengono pubblicate le prime poesie dell’autore.
Presto, Quasimodo si lega ai poeti ermetici e fa dell’ermetismo la sua cifra poetica. Le sue raccolte affrontano i temi più disparati ma, soprattutto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, larga parte della sua produzione è dedicata esclusivamente alla tematica bellica e all’impegno civile. Nel 1959 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Muore improvvisamente a Napoli, nel 1968.
Salvatore QuasimodoSalvatore Quasimodo: vita, opere e poetica-Articolo di Ilaria Roncone
Salvatore Quasimodo, vincitore del premio Nobel nel 1959, è stato uno dei più importanti poeti italiani del Novecento. Vediamo insieme la vita, le opere e la poetica di questo grande scrittore alvatore Quasimodo, esponente di rilievo dell’ermetismo, è uno tra i poeti italiani più importanti del Novecento. Vincitore del premio Nobel nel 1959, Quasimodo è stato anche un fondamentale traduttore: ha contribuito alla traduzione di numerose liriche greche e di opere teatrali di Shakespeare e di Molière.
Nonostante il Nobel, la grandezza di Salvatore Quasimodo è stata ed è ancora oggi al centro del dibattito letterario. Negli ultimi anni si è provato sempre più a riascoltare la sua voce, ricollocando la sua opera nella giusta dimensione. Le sue poesie sono state tradotte in ben quaranta lingue e vengono studiate in tutti i paesi del mondo.
Vediamo ora nello specifico come si è svolta la vita di Salvatore Quasimodo, quali sono state le sue maggiori opere e cerchiamo di capire i punti principali della sua poetica.
Salvatore Quasimodo: la vita
Salvatore Quasimodo nasce in provincia di Ragusa, precisamente a Modica, il 20 agosto del 1901. Lo scrittore trascorre l’infanzia a Modica, seguendo il padre nel suo lavoro come capostazione di Ferrovie dello Stato. La sua famiglia viene colpita dal terribile terremoto del 1908 e in seguito è costretta a trasferirsi a Messina, dove il padre è stato chiamato per riorganizzare la stazione locale.
Come molti dei superstiti, appena dopo la grande catastrofe Quasimodo deve vivere nei vagoni dei treni, esperienza che segna profondamente la vita del poeta.
Il giovane Quasimodo si diploma a Messina presso l’Istituto Tecnico “A.M. Jaci” nella sezione fisico-matematica. Già a quell’epoca accade il primo fondamentale evento che lo condurrà lungo la via della scrittura nonostante la sua iniziale formazione: il sodalizio con Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti, legame che si porterà dietro poi per tutta la vita.
A Messina Quasimodo comincia, di tanto in tanto, a scrivere versi, che pubblica su riviste locali. Non appena conseguito il diploma, il giovane lascia l’adorata Sicilia — con la quale manterrà un legame edipico — per trasferirsi a Roma e studiare ingegneria. Qui, mentre continua a scrivere versi, studia latino e greco fino a venire assunto, nel 1926, al Ministero dei Lavori Pubblici, venendo assegnato al Genio Civile di Reggio Calabria. Nel ruolo di geometra, tecnico e magazziniere, Quasimodo fatica a coltivare la sua passione per la scrittura e l’impegno lavorativo lo porta ad allontanarsi dal suo vero interesse, la letteratura. Contestualmente all’allontanamento dalla poesia, il suo incarico segnerà anche la perdita di qualsiasi ambizione di tipo politico.
Sempre nel 1926, per lavoro, si trova a Reggio Calabria. Qui ritrova la fiducia nelle sue capacità letterarie, soprattutto grazie al rapporto con Pugliatti, e riscopre la forza per perseguire il suo obiettivo, riprendendo in mano i versi scritti durante il suo periodo a Roma e lavorandoci su.
Proprio in questo modo nasce una prima bozza delle poesie di Acqua e terre, raccolta che verrà poi pubblicata nel 1930 a Firenze.
Dal 1931 Quasimodo inizia a stendere una seconda raccolta di poesie in Liguria, dove si è recato al Genio Civile. Con questa raccolta, Oboe sommerso, lo scrittore dichiara di aver dato il via all’ermetismo.
Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano e riesce a trovare lavoro nel settore editoriale come segretario di Cesare Zavattini. Questi, più tardi, lo fa entrare nella redazione del settimanale “Il Tempo”. In questa fase della sua vita scrive Erato e Apollion, pubblicato poi nella stessa città nel 1936. Con questo scritto, che celebra Apollo e Ulisse, si conclude la fase ermetica delle sua poesia.
Risale al 1938 l’uscita della sua prima importante raccolta antologica, Poesie, che rimane tra le principali opere per la critica quasimodiana. Nel mentre, Quasimodo collabora anche con “Letteratura”, la principale rivista fiorentina dell’ermetismo.
In questo periodo scopre la sua profonda affinità con i lirici greci (da Saffo ad Alceo, passando per Anacreonte). La facilità espressiva della letteratura greca e di questi autori in particolare lo fulminano, e l’immediatezza e la suggestione delle parole nei loro scritti gli appare come frutto di una ricerca profonda e ostinata. In questo momento collimano alcuni aspetti della ricerca ermetica di Quasimodo e alcuni aspetti dell’antica letteratura greca.
Risale al 1940 il primo ruolo come insegnante, precisamente per la cattedra di Italiano al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Questo è il lavoro che farà fino al momento della sua morte.
Il suo più grande successo risale a due anni dopo, nel 1942: questo è l’anno della pubblicazione di Ed è subito sera, sintesi antologica che segna il bilancio del suo primo decennio di poesia. L’opera fu un best seller, evento rarissimo per la poesia.
La Seconda guerra mondiale rappresenta uno spartiacque nella vita del poeta che, nonostante le mille difficoltà, continua a lavorare proficuamente. A partire dal 1947, con la raccolta Giorno dopo giorno, avviene il cambiamento stilistico: la poesia di Quasimodo diventa più attenta alla società e impegnata. Frutto di questo cambiamento sono opere come La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958).
Nel 1959 a Salvatore Quasimodo viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura:
“Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.
Questo evento è una sorpresa per molti, tanto che in tanti lo ritengono immeritato e criticano il poeta a favore di Montale, Ungaretti e Saba.
L’ultima raccolta della vita di Salvatore Quasimodo è Dare e averee risale al 1966. Il poeta muore nel 1968 ad Amalfi, colto da un ictus.
Quasimodo e le sue opere
Come già accennato, Salvatore Quasimodo è stato un autore molto prolifico. Ecco le sue più famose raccolte poetiche: Acque e terre, Firenze, sulla rivista Solaria, 1930; Oboe sommerso, Genova, sulla rivista Circoli, 1932; Odore di eucalyptus ed altri versi, Firenze, Antico Fattore, 1933; Erato e Apòllìon, Milano, Scheiwiller, 1936; Nuove Poesie, Milano, Primi Piani, 1938; Ed è subito sera, Milano-Verona, A. Mondadori, 1942; Giorno dopo giorno, Milano, A. Mondadori, 1947; La vita non è sogno, Milano, A. Mondadori, 1949; Il falso e vero verde (1949-1955), Milano, Schwarz, 1956; La terra impareggiabile, Milano, A. Mondadori, 1958; Dare e avere (1959-1965), Milano, A. Mondadori, 1966.
Tra tutte queste, Quasimodo ha tradotto anche le opere di moltissimi autori greci e non solo (tra gli altri, anche William Shakespeare e Pablo Neruda) e prodotto altri scritti.
La poetica di Salvatore Quasimodo
Quasimodo è l’esponente più importante dell’ermetismo, il movimento poetico spontaneo e capillare che, solo col tempo, ha trovato una sua inquadratura stilistica, basata sul rovesciamento del decadentismo di D’Annunzio. Etica e estetica, in questa chiave, rivendicano la profonda libertà spirituale dell’uomo e la ricerca di una poesia pura, le cui parole si ribellano da qualsiasi imposizione estern
Ilaria Roncone-Redattrice di SoloLibri da settembre 2018, mi occupo principalmente di articoli di news per la rubrica Scuola e approfondimenti di storia della letteratura.
Sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli e di nuove esperienze, scrivo e viaggio per passione. Voglio portare ciò che di bello c’è fuori dentro di me e, attraverso la parole, migliorare il mondo. Laureata in giornalismo, scrivo di vari argomenti e sono particolarmente interessata a libri, ambiente e diritti civili.
Vins Gallico-Storia delle librerie d’Italia– Newton Compton Editori Roma-
Storia delle librerie d’Italia-ai negozi storici ai librai indipendenti, fino alle grandi catene moderne nel libro di Vins Gallico: l’evoluzione della vendita dei libri nel nostro Paese-Le librerie non sono semplici negozi, ma sono qualcosa di più e di diverso. Sono luoghi di incontro, di diffusione culturale, con alle spalle vicende incredibili (personali, aziendali, famigliari). Vins Gallico ricostruisce la storia delle librerie italiane, mostrando l’evoluzione che il commercio dei libri ha seguito, ma soprattutto racconta la storia di una passione, di una devozione, di un’utopia. Dalle botteghe ottocentesche alle soluzioni più moderne, dagli enormi store di catena alle minuscole librerie di quartiere dove c’è posto a malapena per qualche cliente alla volta, questo è un viaggio fra passato…
Nota Biografica di Vins Gallico
L’Autore Vins Gallico è nato a Melito Porto Salvo (RC) nel 1976. Ha pubblicato Portami Rispetto (Rizzoli 2010), Final Cut (Fandango 2015), La barriera (Fandango 2017), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore 2022). È stato direttore delle librerie Rinascita e Fandango Incontro a Roma.Vins Gallico (Melito di Porto Salvo, 1976) ha scritto Portami rispetto (Rizzoli), Final Cut (Fandango Libri), La barriera (Fandango Libri), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore) e Storia delle librerie d’Italia (Newton Compton). Ha lavorato come editor, traduttore, ufficio stampa, libraio e ha insegnato Lingua e letteratura italiana all’Università di Gottinga e di Brema. Fa parte del consiglio direttivo dei Piccoli Maestri ed è il coordinatore di Scena, ex Filmstudio, luogo storico del cinema italiano.
Le librerie più belle di Roma: la guida
Feltrinelli di Largo Argentina
La Feltrinelli è una delle migliori libreria di Roma, l’ideale per chi ama perdersi tra centinaia di libri. Si estende infatti su tre piani pieni di libri di ogni tipo.
Molto apprezzabile anche il caffè letterario che permette di immergersi nella lettura e di chiacchierare amabilmente sorseggiando caffè e cioccolate calde nella massima comodità.
Giufa
La libreria caffè Giufa è ottima per chi cerca un bel po’ di volumi di narrativa italiana e straniera. Nella libreria possiamo riposarci nei comodi salottini e leggere le molte pubblicazioni a tema arte, cinema, musica, fumetti sia di origine italiana che appartenenti ad altre culture.
Bookabar
Bookabar si espande su 450 metri. Si possono acquistare libri, CD musicali su arte, architettura e persino produzioni artigianali più moderne.
Libreria Caffé Bohèmien
La Libreria Caffé Bohèmien omaggia l’ospite con una elegante cornice novecentesca, dove si possono sorseggiare té e vini davvero gustosi. Gli artisti possono esporre gratuitamente le proprie opere. Si può anche suonare il pianoforte!
Caffè letterario
Il caffè letterario è ricordato come la prima libreria caffè romana. Il locale permette di scegliere tra molti libri e allo stesso tempo sorseggiare tè, caffè. magari mentre si naviga in internet. Il locale colpisce per le scelte particolari in tema di design, permette sia di acquistare che di leggere i libri, insomma è un vero paradiso di relax culturale.
Borri Books a Termini
La libreria Borri Books si distribuisce su tre livelli ed è molto popolata siccome è molto vicina alla stazione. Abbiamo libri di ogni genere (psicologia, teatro, cucina, libri per i più giovani, libri in altre lingue…). Vista la sua vicinanza alla stazione è molto comoda per comprare al volo libri comuni che possono essere trovati in store di queste dimensioni.
Libreria Caffè Mangiaparole
Libreria Caffè Mangiaparole è un locale chic ma accogliente, un luogo pregno di cultura dove si può assaporare un gustoso caffè mentre si legge un libro.
E tu che cosa ne pensi? Quali sono le tue librerie preferite con caffè annesso a Roma? Parliamone qua sotto!
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nedda Falzolgher –Il 2 marzo 1956 muore a Trento la poetessa Nedda Falzolgher – con Alessandro Tamburini. Repertorio: Corinna lo Castro legge alcune poesie tratte da Nedda Falzolgher , Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma 1949; Audio tratto da “Edda a Nedda. Poesie di Nedda Falzolgher recitare da Edda Albertini”, tratte da L’ora azzurra dell’ombra”, regia di Francesco dal Bosco, 2006. Alessandro Tamburini (Rovereto, 29 marzo 1954) è uno scrittore, insegnante e sceneggiatore italiano, autore di raccolte di racconti, romanzi e saggi. Di recente ha pubblicato “Ultimi miracolo”, otto racconti, Edizioni Pequod, 2022
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
La Terra
Ti ho respirata con l’alba
per non destarmi sola,
e ti ho chiamata nelle notti amare,
sorda di pietre e giovane di stelle
sotto il cielo che scende e non consola.
Ho veduto nel mio pianto infantile
tutti i colli velarsi e lontanare;
ho udito cantare gli uomini
per non sentirsi morire.
E la mia carne ti ritrovi,
o benedetta nei fiori e nei rovi,
terra, unico amore.
*
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore, per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera.
*
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata poetessa e scrittrice. Le sue pubblicazioni: En piaza del Littorio, Trento, 1934 Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma, 1949 Il libro di Nil – Prosa e poesia, Rebellato Padova, 1957 (postumo)
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GLI ASSENTI
(Nedda Falzolgher, detta Nil)
Il nostro volto, come una lampada,
più non ci illumina.
Ora ognuno ha rivolto la fronte
verso un vento notturno
e, forse, ricorda.
Tu eri una fresca radice
ansiosa di poca terra assolata,
e tu quello che sempre partiva,
e tu l’altro,
che all’alba veniva cantando
con una rama gemmata.
E senza nome
dalle vuote pianure dei venti
qualche volta sgomenti ci chiamiamo,
e invano tentiamo di amarci
col nostro pallido cuore di stelle,
perchè nel tempo immobile ritorni
quel pianto che mutava coi giorni,
vivido nella nostra carne d’amore.
L’ONDATA
Di giorno la mia porta
è una chiglia affiorante che vibra
al respiro alto del mare:
l’universo la viene a inondare
fiorendo col sole.
E le cose vivide e innamorate
passano nella mia casa pura,
e dicono caldi nomi di creatura,
di piante, di stelle serene.
Nei giorni che nulla avviene
felicità è nel vento
e porta vite in cammino
dal silenzio raggiante.
E la gioia passa con l’onda
che la riva larga ribeve:
rinasce più oltre, più breve,
e il mare torna e la consuma.
LE PAROLE DEI FIGLI
Fammi ponte alla vita
col tuo vivido corpo d’amore,
madre che sei l’isola in fiore
dove il mio tempo è fermo tra due mari.
Tu che avevi sapore di rose
nella carne ferita,
lascia che io cammini e non ti veda.
E prega per la mia nuda fame
se il tuo cuore fosse pane
dal petto ancora te lo coglierei
per i giorni miei desiderosi.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
NEDDA FALZOLGHER, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata una poetessa e scrittrice italiana.
Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…
Nedda Falzolgher
.
.
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Articolo di Marianna Malpaga
Scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. La poetessa trentina Nedda Falzolghernacque a Trento il 26 febbraio del 1906. A soli cinque anni, l’evento che influenzerà tutta la sua vita negli anni a venire, una poliomielite che le colpisce gambe e braccio destro, costringendola in carrozzina.
Nella poesia di Nedda Falzolgher, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato. Ecco quindi che lo scorrere dell’acqua avviene “nell’urlo delle piene”, che il fremito del vento sconvolge le “umide chiome delle querce”, mentre “il sole passa e consuma la carne della terra amara”.
In molte poesie compare e ritorna il tema dei fiumi e dell’acqua, metafora della vita e del suo fluire e rifluire. Nedda fu costretta a rinunciare alla maternità, ma nella sua poesia questo tema si presenta sotto forma di un “amore per il creato e l’increato, per il visibile e l’invisibile, per tutte le vibrazioni che palpitano nel cosmo, dai grandi astri al cuore trafitto dell’uomo all’ultimo fremere di uno stelo”.
Compose la sua prima poesia nel 1917, a undici anni, e la dedicò alla madre, una figura importantissima nella sua vita. È lei che, fino alla sua morte, avvenuta nel 1950, si occuperà della figlia e le insegnerà francese e latino, lasciandole in dono una grande passione per la letteratura e per la poesia. È sempre lei che si sente dire da un medico: “La creatura non morirà perché ha il cuore troppo fondo e resiste. Ma questo male improvviso le taglierà le strade dalla terra”. Ed è ancora lei che, distrutta eppure risoluta, gli risponderà: “Non importa. Muterà cammino”.
Nella sua casa sul Lungadige, quindi, Nedda comincerà a scrivere e, a partire dagli anni Trenta, raccoglierà attorno a sé un gruppo di amici amanti dell’arte e della cultura, un cenacolo che l’accompagnerà negli anni a venire. Nel gruppo, ci sono anche nomi conosciuti come quello di Marco Pola.
Per Nedda scrivere è “pura arte che vive nella luce”. E, a Dio, al quale è legata da una forte spiritualità, chiede: “Datemi la forza di poter scrivere, Signore; fate ch’io possa chiudere in me e alimentarla sempre della più pura luce questa forza divina e indomita come una limpida fonte”.
La poetessa è forte ma, come per tutti i poeti, la scuote un’ansia vitale e una paura – che è al tempo stesso una consapevolezza – della sua solitudine. “Devo avere il coraggio di vivere sola, di pensare sola, di soffrire sola”, scrive. “Nessuno potrà capire che la mia strada è questa; nessuno dirà: vengo con te”.
In occasione di un incontro dedicato alla poetessa, l’amico Raffaele Gadotti ricorda che, a un certo punto, “non voleva più saperne di cose scritte: voleva vedere”. Nedda, insomma, voleva conoscere quel mondo che aveva scoperto attraverso le lettere d’inchiostro stampate sui libri; voleva “vivere fuori”, uscire dalla sua casa sul Lungadige. E dopo – ma solo dopo – scrivere. “Dicevamo che a mano a mano che usciva fuori – ha ricordato Gadotti – a vedere il mondo e a conoscere la natura direttamente, la Nedda cambiava; e cambiava anche la sua poesia, il suo modo di scrivere. Non erano più fiori di carta, fiori di cartapesta, sia pure molto colorati, o di stagnola: le sue poesie adesso erano fiori vivi; erano rami spezzati, ma vivi; erano frutti vivi; erano qualche cosa di naturale, di spontaneo. E nella sua poesia incominciò a sentirsi di più, perché scavava più dentro di sé”.
Nedda Falzolgher morì molto giovane, a cinquant’anni. Era il 2 marzo 1956. Nella vignetta di Giorgio Romagnoni, una poesia che parla del suo slancio vitale. È lei quell’”allodola pura” che si adagia sul “respiro del mondo”.
Articolo di Marianna Malpaga
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Spiritualità e canto in Nedda Falzolgher
In questa “casa a specchio sul fiume / così sola nell’urlo delle piene” visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col “corpo segnato in croce” e “il canto di allodola pura”. Queste parole sono incise sulla targa commemorativa che il Comune di Trento volle dedicare alla poetessa Nedda Falzolgher (1906-1956), per onorarne la memoria nel centenario della nascita. “Il caso di Nedda Falzolgher resta, per i più, ancora da scoprire”, scriveva nel 1966 il grande critico e poeta Alberto Frattini. “Eppure è una voce che meriterebbe d’essere ascoltata, per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia, equilibrando l’ansia disperata d’amore in placata letizia d’ascesi e d’offerta, entro un dolceamaro colloquio tra la creatura e il Creatore che solo può suggerirle parole di verità e di salvezza”. T’amo, Signore, per la muta passione delle rose. T’amo per le cose della vita leggere, le cose che sognano i morti la sera dentro la terra calda, sotto il limpido brivido degli astri. Ma più t’amo, Signore, per la misericordia delle tue grandi campane che portano nel vento verso l’anima della sera la nostra povera preghiera. * Nedda Falzolgher appartiene, in effetti, a quel novero di poeti che non hanno avuto grandi riconoscimenti dalla critica, ma che purtuttavia hanno lasciato un corpus di opere di indiscusso valore artistico. La sua sfortunata vicenda umana (fu colpita dalla poliomielite all’età di cinque anni rimanendo paralizzata alle gambe e al braccio destro) le impedì una partecipazione attiva alla società letteraria del suo tempo, nondimeno si dedicò con entusiasmo allo studio dei classici e riuscì a riunire nella sua casa affacciata sull’Adige un piccolo cenacolo di amici e poeti per discutere di letteratura, filosofia e argomenti culturali. Poi venne la guerra, la casa sul fiume fu danneggiata dalle bombe, e quel piccolo gruppo si sciolse. Dopo la morte dell’amatissima madre (che l’aveva sempre incoraggiata nella sua spontanea vocazione poetica), Nedda rimase sola con il padre e con la fedele governante Adele, la quale, in un articolo a firma di Renzo Francescotti pubblicato nel 2006 sul quotidiano L’Adige, così la ricorda: “Era un creatura angelica. Aveva un volto molto bello ed una voce melodiosa aperta al dialogo con familiari ed amici. Era lei, paradossalmente, ad offrire loro conforto: lei, che fra tanti più fortunati che si piangono addosso, in nessuno di suoi versi alluse mai alla sua condizione fisica…”. Passano gli anni e la vita di Nedda Falzolgher continua ad esprimersi attraverso la scrittura. Attraverso quei versi che vergava con la mano sinistra prediligendo l’inchiostro verde, e che portavano alla luce il suo mondo di emozioni in delicata sintonia con l’ambiente naturale: …Che ansia, allodola pura, questo palpito d’angelo sommerso che ha smarrito la vena dei venti; sul respiro del mondo senti ancora tutte le stelle mutar la tua voce in chiarore… * Superati i quarant’anni, Nedda Falzolgher, che aveva sino ad allora pubblicato soltanto su alcune antologie, decise di raccogliere le sue liriche in volume. Il libro, intitolato Fin dove il polline cade, uscì nel 1949 a cura dell’editore Ubaldini con prefazione del grande critico teatrale Silvio D’Amico (una prefazione procurata dalla famosa attrice Edda Albertini, anch’essa trentina, che aveva fatto parte del gruppo della “casa sul fiume” e aveva conservato con la poetessa un’amicizia affettuosa). Non furono in molti ad accorgersene: tra questi lo scrittore Bruno Cicognani e il già citato Alberto Frattini. Ma, al di là della disattenzione della critica, sono versi che esprimono una profonda ansia spirituale; versi che affidano al canto un dolore centellinato nelle sue pieghe più amare, per sublimarlo in una superiore intuizione di vita. Ora tu vedi queste mie canzoni simili tanto alle foglie che sperdi, amaro Iddio del silenzio. E sai che non hanno feste di sole perché di tutto il sole tu inondi la Terra dove cammina l’amore. Ascolta ancora, Dio, le sorgenti, e perdona, e nella mano portaci, col seme delle stagioni innocenti. * Nedda morì giovane, ad appena cinquant’anni. Dopo la sua morte, il padre affidò a Franco Bertoldi, docente universitario a Milano e Trento (anche lui del gruppo degli amici della “casa sul fiume”), l’incarico di ordinare e pubblicare in una antologia le poesie della Falzolgher. Il volume uscì nel 1957 per i tipi dell’editore Rebellato e fu intitolato Il libro di Nil (il soprannome con cui Nedda veniva chiamata dagli amici). In quest’opera postuma c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dalla quale proponiamo alcuni versi, rivelatori di uno stato d’animo contraddittorio: sentimento della vita che sfugge e sofferenza per ciò che non si è vissuto… Stasera io sono stanca delle tue mani lontane; stanca di grandi stelle disumane, com’è sazia l’agnella di erbe amare… * Trascorreranno ancora molti anni prima che la critica inizi ad accorgersi dell’opera della poetessa trentina. Nel 1978, edita dal Comune di Trento, uscì l’antologia Nedda Falzolgher, poesie e prose (1935-1952). Tre anni dopo, il noto critico letterario Vittoriano Esposito pubblicò un’importante monografia intitolata Il caso letterario di Nedda Falzolgher. Nel 1986 fu la volta di Marcella Uffreduzzi, qualificata studiosa della poesia d‘ispirazione cristiana del ‘900, che pubblicò un volume intitolato La casa sull’Adige, comprendente quasi ottanta poesie della Falzolgher, da cui emergono una grande forza interiore, una fede salda seppure inquieta, e una profonda spiritualità. E oggi? Oggi per fortuna c’è la rete, grande serbatoio di memoria collettiva, dove è possibile rintracciare importanti testimonianze sulla vita e l’opera di Nedda Falzolgher e leggere alcune delle sue raffinate composizioni liriche. Ed è appunto con una di queste composizioni che ci congediamo dai nostri lettori, nella speranza d’aver dato anche noi un piccolo contributo per la riscoperta di una delle più sensibili autrici del ‘900 letterario. Non ti darò contro il petto dolore più che il rigoglio delle fronde sciolte. Dammi tu spazio allora per questa morte: io non ho solco per vivere e non ho paradiso per morire; e sento in me stormire quest’agonia d’amore, bionda, contro la zolla che la ignora…
FONTE-ZENIT-
Zenit è una agenzia di informazione internazionale no-profit formata da una équipe di professionisti e volontari convinti che la straordinaria saggezza del Pontefice e della Chiesa cattolica, possa alimentare la speranza e aiutare l’umanità tutta a trovare verità, giustizia e bellezza. Il nostro obiettivo è quello di raccogliere e diffondere le informazioni con la massima professionalità, fedeltà e servizio alla verità. Attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche intendiamo far conoscere il “mondo visto da Roma”. Per questo motivo pubblichiamo e traduciamo le parole, i messaggi, i documenti, gli interventi, l’Angelus e l’Udienza generale del Romano Pontefice. Riportiamo e spieghiamo tutto quanto avviene nei Dicasteri della Curia Vaticana, Nelle Università Pontificie, nelle Conferenze Episcopali, nei santuari nelle Diocesi e nelle parrocchie. Segnaliamo e informiamo sui grandi avvenimenti religiosi nel mondo, sui temi, i dibattiti e gli eventi che interessano i cristiani, gli uomini di fede e non, dei cinque continenti. zenit realizza questo servizio in modo indipendente. Copertura Giornalistica La copertura garantita dai nostri servizi informativi si orienta soprattutto a: Le attività del Papa: viaggi apostolico, documenti, incontri con i Capi di Stato e personalità di rilievo nell’ambito sociale, culturale e religioso. L’informazione riguarda in particolare le attività del Santo Padre, così come i suoi interventi. Le sue parole costituiscono uno stimolo per la riflessione non solo dei cattolici. Interviste a uomini e donne della Chiesa, del mondo della politica e della cultura su temi di speciale interesse per l’umanità tutta. L’attualità internazionale, con particolare attenzione alle questioni rilevanti per il rispetto dei diritti umani, della pace e dello sviluppo ovunque nel mondo.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
LA POESIA DI NIL -Articolo di Felice Serino
Nedda Falzolgher, detta Nil, nasce il 26 febbraio 1906 a Trento, quando quella parte del territorio è ancora sotto il dominio austriaco. Il padre era un bancario e la madre di ricca famiglia. Primogenita, sensibile, intelligente, vive nei primi anni una vita serena e gioiosa. La bimba cresce bene fino all’età di cinque anni, quando inattesa la disgrazia viene a stravolgere il suo destino: è colpita da paralisi infantile, o più comunemente detta, poliomielite.
Ella si sente attratta per vocazione naturale verso la scrittura e la poesia; vocazione che rappresenta per il suo spirito sofferto una specie di resurrezione.
“Nil non poteva andare verso le cose, ma le cose venivano a lei a cimentare la sua forza e la sua gioia, e tutto la investiva e subito l’abbandonava, lasciando segni di grazia sulla sua anima con il moto dell’onda marina che scrive parole di vita su tutta la riva” (da Il libro di Nil).
I genitori cercano di renderle la vita meno disagevole possibile. La mamma la incoraggia in quella sua insaziabile sete di cultura che la indirizza verso la scrittura alimentando il suo mondo interiore. Nedda apprenderà ad uscire da quel mondo circoscritto dalle pareti di casa per conoscere il mondo esterno, perseguendo il raggiungimento di un ideale superiore.
Dall’età di 27 anni, ella riceve in casa amici poeti e artisti, e la sua dimora diviene presto un punto d’incontro culturale. Fra i giovani frequentatori c’è un ragazzo, Franco Bertoldi, che resterà per lei un amore impossibile.
“Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…”.
Nella sua opera Il libro di Nil, pubblicato postumo dal padre, c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dove si leggono versi scritti durante la guerra.
“Stasera io sono stanca
delle tue mani lontane;
stanca di grandi stelle disumane,
com’è sazia l’agnella di erbe amare…”.
Il 2 settembre 1943 Trento fu bombardata e Nedda fu salvata dalle macerie, insieme ai genitori. In seguito, la ragazza inizierà una corrispondenza con Domenico, suo salvatore e amico, facente parte di un servizio di volontariato. Lo spirito altruistico e la bontà di Domenico fanno sì che Nedda si avvicini ad una dimensione spirituale personale intensa.
“Ma una luce è posata sulle cose,
come la carità senza parola;
e ogni vita attende sola
che la raccolga con gesto d’amore”.
La guerra termina e la ragazza può tornare a casa. Intanto la madre da tempo malata, viene a mancare nel settembre del ’50.
“T’amo, Signore, per la muta passione delle rose.
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera”.
Nedda ha sempre continuato a scrivere nel trascorrere degli anni. Ora, sente la vita sfuggirle e soffre per quel che non ha vissuto.
“Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore”.
“Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti”.
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nil rende lo spirito il 2 marzo ’56, a 50 anni.
Chiudiamo questo breve excursus con dei versi stupendi, nati da quest’anima candida:
“…Che ansia, allodola pura,
questo palpito d’angelo sommerso
che ha smarrito la vena dei venti;
sul respiro del mondo senti
ancora tutte le stelle
mutar la tua voce in chiarore…”.
[Notizie liberamente tratte da: Nedda Falzolgher – la poesia, la vita, Isa Zanni, Linguaggio Astrale n. 136/04]
Bibliografia
Nedda Falzolgher: poesia e spiritualità, edizione Comune di Trento 1990
Nedda Falzolgher: il cuore, la poesia, edizione Comune di Trento 1990
Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
IL LAGER
“Visin dela città, soto coline
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ingarbuiate d’erba sgrendenà,
se quacia el campo di concentramento: tuto a torno na mura de cemento
e na corona rùsena de spine:
davanti, sul portòn de piombo e fero na gran parola impiturà de nero LAGER
E drento, su do file, blochi sgionfi
de slorda de fetori e de pioci.
In meso a le do file un largo spiasso,
in fondo de traverso, longo, basso, schissà par tera, el bloco dele cele
e, drio, la tore dele sentinele
pronte col mitra par spassar el campo.” Egidio Meneghetti, matr. 10568
EPITAFFIO PER UNA GIOVANE EBREA
Ela no l’è che du gran oci in sogno e quatro pori osseti
sconti da pele fiapa.
Ebreeta, cos’èlo che te speti
e ci vedeli mai quei oci grandi? forsi to mama? Forsi ti moroso? opura i buteleti
che mai te g’avarè?
Ebreeta, te vo’ morir de fame
e nela fame t’è desmentegado
quela note e sto mondo strangossado da tormenti e bisogni.
Te si scapà nel mondo dei to sogni: la fame ghe volea,
piccola ebrea,
per darte un poca de felicità. Ormai fora da l’onda
dei dolori,
lontàn te miri,
piàn piànin te mori
e caressa legera
de soriso
te consola la boca moribonda. Po’ te chini la facia
verso tera
sempre più,
sempre
più.
Stanote s’è smorsada l’ebreeta come ‘na candeleta
de seriola
consumà.
Stanote Missa e Oto ià butà
nela cassa
du grandi oci in sogno e quatro pori osseti sconti da pele fiapa.
E adesso nela cassa
ciodi i pianta
a colpi de martèl
e de bastiema
(drento ale cele tuti i cori trema
e i ciodi va a piantarse nel servèl).
Traduzione
Non è che due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia. Piccola ebrea, cos’è che aspetti? cosa vedono mai quegli occhi grandi? forse la mamma? forse il moroso? oppure i bimbi che non avrai? Piccola ebrea, vuoi morir di fame e nella fame hai scordato quella notte e questo mondo angosciato da tormenti e bisogni. Sei fuggita nel mondo dei tuoi sogni: ci voleva la fame, piccola ebrea, per darti un poco di felicità.
Ormai fuori dall’onda dei dolori, guardi da lontano, muori impercettibilmente e una carezza leggera di sorriso ti consola la bocca moribonda. Poi chini il viso verso terra, sempre più, sempre più. Stanotte s’è spenta la piccola ebrea, come una candelina di cera consumata. Stanotte Misha e Otto hanno gettato nella cassa due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia.
E adesso nella cassa piantano chiodi a colpi di martello e di bestemmia (dentro le celle ogni cuore trema e i chiodi si piantano nel cervello.
Professor Egidio Meneghetti
PER LA PICCOLA EBREA
Quel giorno che l’è entrada nela cela l’era morbida, bela
e parl’ amòr matura.
Ma nela facia, piena
de paura,
sbate du oci carghi de’n dolor
che’l se sprofonda in sècoli de pena.
I l’à butada
sora l’ tavolasso
i l’à lassada ‘
Sola, qualche giorno,
fin tanto che ‘na sera
Missa e Oto
i s’à inciavado nela cela nera
e i gh’e restà par una note intiera.
Te dala cela vièn par ore e ore
straco un lamento de butìn che more. Da quela note no l’à più parlà,
da quela note no l’à più magnà.
L’è la, cuciada in tera, muta, chiete, nel scuro dela cela
che la speta
de morir.
Traduzione
Quel giorno che entrò in cella era morbida, bella e per l’amore matura. Ma nel viso, pieno di paura, sbatte due occhi carichi di un dolore che si sprofonda in secoli di pena. L’hanno gettata sopra il tavolaccio, l’hanno lasciata sola, qualche giorno, finché una sera Misha e Otto si sono chiusi a chiave nella cella nera e ci sono rimasti una notte intera. E dalla cella viene per ore e ore un lamento stanco di bimbo morente. Da quella notte non ha più parlato, da quella notte non ha più mangiato. È là, accucciata in terra, muta, quieta, nel buio della cella che aspetta di morire.
Professor Egidio Meneghetti
Biografia di Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.
Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini a Padova nel quartiere Arcella. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.
Fu rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947. Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, diede contributi fondamentali nel settore dei chemioterapici. A lui è dedicata la biblioteca di medicina presso gli Istituti Biologici dell’Università di Verona.
Il 7 gennaio 1945 fu arrestato[1] assieme a Attilio Casilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e sede della Gestapo, in Corso Porta Nuova (presso l’ex Palazzo di I.N.A. Assicurazioni) e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.
Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti. A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie, pesantemente e frequentemente bombardate nel 1945, fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.
A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha e soprannominato “il boia di Bolzano”, successivamente arrestato dopo moltissimi anni di latitanza in Canada, da dove fu estradato nel 2008 per morire in detenzione al termine del 2010.
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;
chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.
Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.
*
Ogni volta che tu
aspetti lei e io
ti osservo –
muta, da dietro,
ferita –
aspettarla,
siamo finalmente
uguali.
Aspettiamo
tutt’e due
la persona sbagliata.
*
Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all’angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
delle auto bianche,
del letto,
della guancia,
del petto.
* * *
Beatrice Zerbini-La foto di copertina è di Dino Ignani
Beatrice Zerbini, foto di Dino Ignani
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
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