Descrizione del libro di Luigi Inzaghi. La vita di Beniamino Gigli è stata tra le più affascinanti del secolo XX. Non bello di forme come Franco Corelli, giudicato anzi troppo grasso e brutto per comparire sulle scene del Colón, Gigli cantava invece ammirevolmente più di qualsiasi altro tenore del suo tempo, escluso Caruso, in quanto possedeva la virilità di Martinelli, il pathos di Caruso, la liquidità di Bonci, il temperamento di Crimi, la grazia di Gayarre, la dolcezza di Angelo Masini e il calore di Roberto Stagno. I suoi modi di fare contrastavano grandemente da quelli convenzionali degli altri tenori, grazie alla sua voce che risuonava piena, ricca ed espressiva nel timbro. Là dove limitò il suo ardore per giovare all’arte, sfoggiò in cambio delle meravigliose mezze-voci e delle sonore note di testa. Non cercò neppure di convincere il pubblico presentando sempre una figura idilliaca o di appassionato fervore, né pronunciare un francese perfetto, ma anche in ciò la sua approssimazione meritava un elogio. Là dove ostentava note acute, in barba al dettato melodico del compositore, venne stigmatizzato dai critici ma apprezzato da Cilèa e da Alfano che approvarono le modifiche al loro genio creativo. I suoi do di petto nella pira verdiana furono alquanto arrischiati, arrivando bene solamente al Si naturale: il resto lo lasciava ai suoi falsettoni più arditi! Sposo non integerrimo, oltre ad aver cantato in 62 diverse opere di ogni genere dal 1907 al 1953, beneficò una quantità enorme di persone, di enti privati e pubblici, da meritargli medaglie, diplomi, onorificenze da capi di Stato e dalla Chiesa Cattolica. Accusato di collaborazionismo con nazisti e fascisti, venne escluso dal grande concerto toscaniniano che inaugurò il Teatro alla Scala di Milano nel primo dopoguerra. Avvicinatosi allora alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, accettò la candidatura a deputato delle Marche.
Il libro contiene oltre 300 illustrazioni – Le origini e gli studi – Le famiglie – La carriera – Il litigio col Metropolitan – I concerti – Attore cinematografico – La discografia – La Musica Sacra – Città delle esibizioni gigliane – Le opere della carriera – Cronologia – Documenti – Registrazioni – Film e cortometraggi
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Scritto con Jan Brachmann-Traduzione di Nicola Cattò
Zecchini Editore
Descrizione del libro del grande David Geringas-Spesso le autobiografie di grandi artisti si riassumono in una serie di dati, persone e luoghi di relativa importanza per il lettore: del tutto diverso è quanto si legge nelle “Memorie di un violoncellista” (questo il sottotitolo del volume scritto con Jan Brachmann) del grande David Geringas, l’allievo prediletto di Rostropovič, vincitore del Premio Čajkovskij nel 1970. La sua vita è anche il riflesso della storia, anzi della Grande Storia, fra l’infanzia in Lituania, gli studi nelle Mosca sovietica, l’emigrazione in Germania (con una lunga parentesi verso l’Italia, paese da Geringas amatissimo) e la lunga carriera di violoncellista e insegnante, in un continuo scambio con tutti i compositori più importanti del secondo ’900, che hanno scritto per lui. Nella vita di David Geringas, insomma, c’è la storia musicale e culturale degli ultimi 70 anni: e non è poco.
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Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario –
Così descrive Arturo Graf lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Arturo Graf -Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
La vetta di Arturo Graf
Avanti! pochi altri passi
e poi sarem sulla vetta;
avanti pur senza fretta,
in mezzo agli sterpi e ai sassi!
La vetta è là, tutta sgombra,
tutta serena nel sole,
lungi da quando si duole,
fuor dalle nebbie e dall’ombra.
Anima inquieta e stanca,
non ti rivolgere indietro:
in basso il vapore tetro,
in alto la luce bianca.
Voi, cui travaglia ed opprime
un cruccio greve e nascoso,
ponete mente: riposo
non è, se non sulle cime.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
La poesia che state per leggere è stata scritta da Arturo Graf il 19 gennaio 1848 per il suo caro micino. Dolce, spiritosa, scanzonata, è una vera e propria dichiarazione d’amore all’amico a quattro zampe.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
mentre al quieto lume
d’una lampa modello,
io, com’è mio costume,
sui libri mi scervello;
mentre assassino l’ore
cercando il pel nell’uovo,
o con l’antico errore
affastellando il nuovo;
tu vieni quatto quatto
a farmi compagnia,
e mi schizzi d’un tratto
sopra la scrivania.
Ti muovi a coda ritta
fra libri e scartafacci,
poi sulla carta scritta
placido t’accovacci.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
io prendo gran satolle
di testi con le note;
tu rimani in panciolle
sulle morbide piote;
se beato sonnecchi,
pieno di scienza infusa,
o mi guardi sottecchi,
sbadigli e fai le fusa.
E non so se m’inganno:
ma talvolta direi
che tu, così soppanno,
ridi de’ fatti miei.
Poi, quando finalmente
ci vengono a chiamare,
e come l’altra gente
andiamo a desinare;
io mangio quanto un grillo
consunto d’etisia;
tu pappi franco e arzillo,
la tua parte e la mia.
PRIMAVERA
(Arturo Graf)
Torna l’aprile e si rinnova il mondo,
e tutta un riso la natura appare:
de’ primi fiori inghirlandate, o care
fanciulle, il crine inanellato e biondo.
Torna l’aprile ed in leggiadre gare
apre natura il suo spirto profondo:
sciogliete, o care vergini, a giocondo
inno le voci armoniose e chiare.
Esultate, esultate al dolce orezzo.
Ché a voi s’addice e a vostra età fiorita,
obblivïosa di una certa sorte:
non a me, cui dà noja e fa ribrezzo
questo rigoglio di novella vita
intesa solo a preparar la morte.
SE SI POTESSE
Se si potesse in un tino
spremer con agili dita
la poesia dalla vita
come dai grappoli il vino!
E innebrïarsi di quella
come d’un vino giocondo,
ricreando il vecchio mondo
in una ebrezza novella!
Spremer la dolce follia
da tutti i grappoli!
Bere in un pulito bicchiere,
e i graspi buttarli via!
Bere, guardando allo insù!
Poi, dopo avere bevuto,
dire: bicchier, ti saluto!
Non voglio bevere più.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Pensiero fulmineo”
Talora, quando più secreta e folta
la notte incombe e l’emisfero tace.
Io, da vana deluso ombra di pace,
gli sparsi miei pensier chiamo a raccolta.
E la speranza suscito che giace
sotto le antiche ceneri sepolta,
e di tesser mi studio anco una volta
bella vita il sottil sogno fallace.
Ma d’improvviso, sì ch’io non l’avverto,
piomba dall’alto sulla mia follia
fulminando il pensier dell’infinito:
dissipa il frale e dilicato ordito,
e lascia dentro a me l’anima mia
fatta un gorgo di mar, fatta un deserto. Arturo Graf
SERA
Dalla chiesetta alpestre
giunge il clamor dell’ora:
al ciel che si scolora
olezzan le ginestre.
Una quïete stanca
scende implorata ai vivi:
la luce ai campi, ai clivi
gradatamente manca.
Un vertice selvaggio,
scabra, sassosa mole,
riceve ancor del sole
il moribondo raggio;
e sul pendio, raccolti
dentro un recinto breve,
sotto la terra greve
riposano i sepolti.
Un divino silenzio
tutte le cose ammanta,
e l’anime rincanta
beverate d’assenzio.
Solo, tra l’erbe, il grillo,
salutando la sera,
scande la tiritera
del suo gracile trillo;
nentre dall’erme lande
il mite odor del fieno
sotto il cielo sereno
lento s’eleva e spande.
Immortale favilla,
nitida gemma ardente,
espero in occidente,
là, sulla selva, brilla.
in quell’innamorato
lume il mio sguardo mira:
l’anima mia delira
risognando il passato.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Le Campane di Lucerna”
Il suono delle campane di Lucerna ha colpito l’animo del poeta. La loro voce romba cupa, ma quel rombo giunge gradito all’orecchio di colui che soffre. è l’annuncio di un regno di pace, di un al di là sereno. E nel cuore nasce vivo, acuto, pungente il desiderio della vita eterna. La lirica si chiude con una quartina altamente poetica. Leggetela attentamente: sono versi musicali, pare quasi di sentire l’eco del rombo di quelle campane.
Le campane di Lucerna
romban cupe in cieli oscuri:
agli afflitti, ai morituri
fan sognar la vita eterna.
La lor voce è come un tuono
che sorvoli ai monti, ai piani,
conclamando accenti arcani
di corruccio e di perdono.
Quei che prega e si prosterna,
quei che nega e si rivolta,
ciascun freme allor che ascolta
le campane di Lucerna.
A quel suono che accommiata
l’ore stanche, i dì consunti,
treman l’ossa dei defunti
nella terra consacrata (1)
O desio di vita eterna,
come pungi e come aneli,
quando rombano ne’ cieli
le campane di Lucerna!
1) nel cimitero
“Superstite”
Della chiesa superba
questo avanzo rimane,
quattro livide mura,
un arco immane,
la distesa scalea, vestita d’erba.
Dal cielo guata la luna l’ignudo altar
gl’inscritti sepolcri
e il muto pulpito e i diritti pilastri
cui la fosca edera abbruna,
e gli altri vaneggianti finestroni all’ingiro,
ove sui fondo oro e di zaffiro
un giorno sfavillar
Madonne e Santi.
Tra le deserte mura tutto è silenzio e morte
d’una vita che fu, d’un altra sorte
un solo e vivo testimonio or dura dietro
alla vota occhiaia dell’oriuolo incombe
alla ruina e le forbite trombe ancor lo smisurato
organo appaia.
Ancor grandeggia e brilla sotto la buia volta,
e par che intuoni a un popolo che ascolta
l’orror del Dies Irae Dies Illa.
Me ne’ fianchi l’intendo fiato più non comprime,
più non rompe terribile e sublime
dalle cento sue bocche il canto immenso
e sol malora, quando nei cilindri sonori s’ingorga un venticel,
l’aria di fuori freme d’un canto doloroso e blando.
E sulla sponda estrema della grigia parete
alcun pallido fior morto di sete
sul flessuoso stel palpita e trema.
“Fantasmi”
Mezzanotte: fremendo l’orïuolo
i lenti squilli nel silenzio esala;
è mezzanotte; pensieroso e solo
io seggo in mezzo alla profonda sala.
Splende d’un lume abbacinato e fioco
delle finestre il gotico traforo;
come una nebbia di stemprato foco
raggian nel buio i lacunari d’oro.
Nel ciel cui spazza il gelido rovaio,
dietro i frastagli d’una guglia bruna,
come uno scudo di forbito acciaio
il disco sale della colma luna.
È mezzanotte; una mortal quïete
il freddo e sonnolento aere ingombra;
un organo s’addossa alla parete,
e con le terse canne allistan l’ombra.
Io guardo innanzi a me lo steso arazzo,
e a poco a poco, trasparenti e pure,
veggo apparir sul fondo pavonazzo,
colorirsi e passar care figure.
Larve di donne innamorate e morte,
coronate di gigli e d’amaranti,
belle, soavi, in cheta estasi assorte,
piene di carità nei lor sembianti.
Passan lente e leggiere, in compagnia,
e tornano a vanir nell’aer scuro;
io veggo la dipinta anima mia
istorïarsi a mano a man sul muro.
L’organo si ridesta; entro le cave
trombe gorgoglia un gemebondo nato;
trema un canto nell’aria arcano e grave,
il canto della morte e del passato.
“Pallida Mors”
Mentre intorno ai fioriti e scintillanti
deschi sediam entro dorata sala,
e dalle tazze traboccanti esala
il sonoro e gentil spirto dei canti;
mentre ferve la gioia, e accende il volto
alle fanciulle e scalda il sen di neve,
dietro i serici arazzi il passo greve
e il riso acuto io della morte ascolto.
E gli occhi, pieno di sgomento il core,
ficco nei viso a mi orïuol beffardo,
e il negro, maledetto indice guardo
per l’angusto volar cerchio dell’ore.
Mi guardo a fianco, e sull’amata fronte
veggo di tratto inaridir le rose,
e spegnersi il balen dell’amorose
luci che al mio piacere eran sì pronte;
illividir le tempie ed il soave
labbro farsi di gel, sciorsi le chiome,
e sulla sedia arrovesciarsi, come
morto, il bel corpo illanguidito e grave.
E mi s’agghiaccia il cor; falso né vero
più non discerno, non rido, non piango;
ma, con le braccia al sen, muto rimango,
immobile, a guatar l’empio mistero.
“Simulacro”
Dal marmoreo fonte
ritto si leva il bianco simulacro:
ancora par che dal selvoso monte
Diana scenda al gelido lavacro.
Le fredde ignude membra
un arcano e sottil spirito avviva;
ancora sui divini omeri sembra
che balzi e suoni la faretra argiva.
Sotto l’arco del ciglio
immobilmente la pupilli guata,
guata dell’onde il lucido scompiglio
e l’ozïosa danza interminata.
Sulla fronte superba
un’ombra di pensier tacito vaga,
misterïoso desiderio, acerba
reminiscenza, fantasia presaga.
Dimmi, ricordi i chiari
gioghi d’Olimpo, il ciel liquido immenso?
De’ numi il lieto popolo, gli altari
su cui bruciava l’odorato incenso?
Ricordi tu le selve
dense, al fragor dell’irruente caccia
alto sonanti, e le inseguite belve,
e i can travolti sulla lunga traccia?
Ricordi i lieti e vaghi
recessi dove dal sanguigno ludo
posavi? i monti solitarii, i laghi
ove immergevi il divin corpo ignudo?
Ricordi i baci ardenti
d’Endimïone e il venturato scoglio?
del mal vinto pudore i turbamenti
soavi e il novo femminile orgoglio?
Ricordi ancorar? Or dove,
dov’è quel tempo e quel felice mondo?
ove il tuo culto e il nume tuo giocondo,
superba figlia dell’egioco Giove?
Buon per te che sei morta!
Il pellegrin dolente e affaticato
ti passa innanzi, e meditando il fato
de’ numi erge la fronte e si conforta.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Teschio”
In mezzo a una pianura erma e scoverta
sorge la gran piramide d’un monte,
che, solcata da’ fulmini, la fronte
avventa al cielo minacciosa ed erta.
L’uom di lassù potria mirar le glorie
di cinquanta città: opere e fasti
d’antiene genti, alte ruine e vasti
regni, teatro di famose istorie.
Sopra una guglia dritta acuminata,
a cui l’aquila il vol drizzar non osa,
un teschio ignudo e solitario posa,
e muto spettator dall’alto guata.
E pensa? E par così meditabondo!
e così triste! O nudo teschio e vano,
o teschio pien d’un gran pensiero arcano,
dimmi, per dio, che pensi tu del mondo?
“Sangue”
Strano licor! nell’infingarda creta
qual’arte arcana, qual poter t’instilla?
Vive per te la sciagurata argilla;
vive: il ciel può saper quanto n’è lieta.
Nullo acume di mente o di pupilla
può penetrar la tua virtù secreta;
bagni l’inerte fibra e irrequieta
vampa l’imperscrutata anima brilla.
Tu fomenti il pensier; dal cor profondo
reggi estuoso della vita il gioco,
mesci gli effetti in turbolente gare.
Strano licore! ogni tua stilla è un mondo;
e non conosce i tuoi fervori il foco,
e non conosce le tue rabbie il mare.
“Lo specchio”
Nella mia cameretta ove l’amica
luna dal ciel traguarda e il sol morente,
sovra il camin pende uno specchio, antica
d’arte venezïana opra lucente.
L’immacolato vetro intorno intorno
di negro legno una cornice accoglie,
ove industre scalpel, con stile adorno,
fiori e frutta intagliò, viticci e foglie.
D’empia Medusa al negro cerchio in cima
la turpe faccia boccheggiar si vede;
scolta è nel legno e viva altri la stima,
e dall’aspetto orribile recede.
Lo specchio d’un baglior pallido brilla
da soli antichi nel cristal piovuto;
oh, la sua grande, immobile pupilla
sa dio le orribil cose che ha veduto,
nei marmorei palazzi, entro secrete
stanze, o di simulati usci pel vano,
lucida e tonda in mezzo alla parete,
che sorda, muta, custodia l’arcano!
Or più non serba e non respinge indietro
larva né segno del veduto mondo;
lucido, eguale, immacolato il vetro
si stende come un lago senza fondo.
Talor mi pongo a riguardar furtivo
entro il suo lume, quando il giorno muore,
e nel vedermi, e nel sentirmi vivo,
d’orror mi riempio, mi s’agghiaccia il core.
E l’empia Gorgo mi saetta addosso
l’atroce sguardo e mi trapassa dentro;
vorrei fuggire e il piè mover non posso,
immobil guardo ed impietrar mi sento
Fonte-Poesie pubblicate da Lunaria
Arturo Graf: una guida verso la ricorrenza -di Fabio Cecchi-
Fabio Cecchi
Nell’ombra che attende. Passata la ricorrenza legata al cantore sammaurese, i suoi ben noti versi ci introducono quella oramai prossima dell’altrettanto illustre (all’epoca, s’intende) Arturo Graf (1848-1913). Il padre, di provenienza teutonica, poté fornirgli il cognome che, anomalo nel panorama di casa nostra, è ed è stato d’aiuto alla folla nel consolidarsi in mente. Se sembrava prerogativa di molte voci romantiche e dei personaggi loro una giovinezza nomade, anche a Graf toccò un biculturalismo, lui che si insedierà a ponte tra le esperienze letterarie dei secoli XIX e XX. La biblioteca della facoltà di Lettere di Torino ne reca oggi il nome, e ivi risiede inoltre, come da volontà, il patrimonio culturale della sua persona:
«Gode lo studio mio, se nol sapete, di più comodità, di varii pregi:
quattro migliaia di volumi egregi veston dall’alto al basso la parete.
C’è la bibbia in tedesco ed in latino, con le Mille e una Notte e il Pecorone;
c’è con l’Emilio l’Imitazione; ci sono l’opre di Pietro Aretino.» (da Notte di Natale, 1893)
Nel capoluogo torinese Graf esercitò per un largo ventennio l’insegnamento della letteratura italiana, formando tra i molti Attilio Momigliano, Francesco Pastonchi e Giovanni Cena. Prima di ciò riuscì ad apporre la firma su pagine di giornali letterari sempre con base a Torino; lo sappiamo accanto a un redattore quale Rodolfo Renier e già definito “di ingegno squisito e coltura molta” da parte di Antonio Labriola.
Nelle aule accademiche il suo nome circola oggi nella veste di storico della letteratura e dei costumi, rendendo onore agli sforzi di lui ricercatore ma eludendo quella produzione in versi che per le scuole secondarie è assolutamente nulla cosa (discorso estensibile a molteplici altri casi).
Forte del sodalizio con Hermann Loescher egli produsse una buona lista di scritti, alcuni mai tramontati, come Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, altri noti a pochi come La poesia popolare rumena; molte lezioni sulla Commedia sono poi confluite in libelli dati prontamente alle stampe. Questo metterà il nostro in contatto epistolare con un professore in erba che al vate fiorentino e nazionale riservava uno dei tavoli di studi nella dimora di Castelvecchio, e troveremo Zvanì citarlo con devozione nelle postille ai Poemi Conviviali. Per finire, elenchiamo un romanzo ben accolto, Il riscatto, ed un libro, Ecce Homo, piuttosto cospicuo considerando che raccoglie aforismi e brevi detti, scaturiti sia dall’ingegno che dalla coscienza.
STILE E MATERIA POETICA
Cosa abbiamo sott’occhio? Sonetti, innanzitutto, regolari ma anche minimi. Gli endecasillabi, affiancati talvolta ai più capienti alessandrini, prevalgono nella prima fase, fin che il poeta sposa il verso breve (settenari, ottonari) prima in Morgana poi nelle Rime della Selva per l’intero canzoniere.
«Semplice, chiaro, preciso è, pur nel verso, il mio dire.
Non so, non voglio mentire, né la parola, né il viso.» (Rime della Selva, Prologo)
Vorrei ora riportare un passaggio da una mia sortita in un dizionario degli autori. «Il Graf – vi è scritto – è tra i pochissimi a uscire indenne dalla lezione carducciana […]». Del tutto vero: nessuna trattazione politico-patriottica, con la materia storica che cede la scena a quella mitologica (Tantalo, Invocazione a Venere, Flora Nivalis, la Fenice). Neppure troveremo, netta distinzione dallo Zanella (per il quale, si ricorda, il nostro stilò una sentita prefazione allegata alle uscite postume per Le Monnier) carmi celebrativi con dedica a esponenti delle alte classi.
Invece, al pari del corrispondente romano Domenico Gnoli, e rispondendo ad un nascente astro d’origine romagnola, Graf tratteggia molto abilmente squarci naturali e paesaggi, spendendo senza riserbo lodi e paragoni per il fonte e l’invitta cima, la tea e gli arguti e festanti augelli.
Dove Graf può accostarsi al nostro primo vincitor del Nobel e, senza tralasciare numerosi passaggi appartenenti a Psiche, per molti vetta della poesia di Giovanni Prati, è evidente l’intento d’innalzare la posizione dell’intellettuale. Questi detiene il sacro compito di diffondere la ragione, di fronte un volgo reticente e dalla minima volontà di accogliere precetti ed inviti. Di seguito si allega una selezione certamente indicativa al riguardo: “diffida della garrula plebe”; “addio, pestifera proda”; “vive nell’ora presente, nell’ora corta e declive, senza saper come vive, per la più parte la gente…” e ci par lecito aggiungere: “O martire cruento, sai tu di che genìa / pieno ed infetto sia, il mondo ch’hai redento?” (da Ad un Crocifisso lungo la Via).
La questione pare aver coinvolto pure il Rapisardi, il quale assai di rado ebbe ad astenersi dall’emetter voce a nome della collettività. A dimostrazione, ne le ammirevoli Poesie religiose (1887, Catania) si alternano espressioni quali “gagliarda invitta stirpe” ed altre del tipo “turba rea” e “vili objetti del volgo”.
Con Medusa in molti cominciarono e chiusero con l’autore. Egli salta difatti alle cronache come poeta del male di vivere, e non nel senso tanto caro e fruttuoso ai poetucoli d’oggi. Ivi s’apprende che all’affermazione dello studioso corrisponde una sfera sociale scarna tutt’altro che esaltante.
La terzina che segue, impostata in prima persona, lo vede esporre con scarsa ritrosia la negatività del momento.
«Così vivo e mi sfaccio e mi consumo,
La notte il bujo, il dì guardo la polve,
Piego le braccia neghittose e aspetto» (Terrore)
Una soggettività non celata quindi, che riesce ad adombrare i cauti tinteggiamenti leopardiani, così riecheggianti di Petrarca ed altri nomi della classicità. Una valutazione sarà certamente soggetta ai punti di vista, e per chi “impegnato” anche alla corrente d’appartenenza. Ancora:
«Quand’io contemplo la funesta arena
ove men perde chi più presto muore
[…]
sento stringermi il cor, sento piu scura
farsi la notte dello stanco ingegno.
Ed un pensiero immobile m’assedia
e prorompo in un grido: Empia Natura,
quanto ha mai da durar questa tragedia?» (Umana tragedia)
Inevitabile per i viventi l’incontro con oppressione e dolore, vengono innalzati temibili appelli nichilisti:
«Taciam noi pur! regni il silenzio dove
regna destino forsennato, e immenso
empia di sé l’inesorabil etra.» (Omnia ruunt)
Il poeta, parte attiva in parecchi dibattiti del suo tempo anche di genere filosofico-epistemologico, giunge – dopo spasmodiche deviazioni di percorso – a proclamarsi cattolico di confessione. Per una Fede, opuscolo dato alle stampe nel 1906, espone le motivazioni dietro la scelta. È insieme curioso e lodevole constatare però come nella produzione lirica ciò non provochi stravolgimenti o un modo differente di porsi nei confronti dell’Ordine delle Cose o di Sé. Ne Le Rime della Selva, con cui Graf sceglie preventivamente di congedarsi dal vasto pubblico lasciando gli ultimissimi esercizi alle pagine della «Nuova Antologia», l’ardore iniziale s’ammorza sfociando ripetutamente in un distacco nostalgico ma coscienzioso.
«Il benvenuto non posso, non posso dartelo come
fanno, per dir qualche nome, lo sgricciolo e il pettirosso.
[…]
Vecchio e finito. Dio buono! Chi è che sa dirmi al vero
ov’abbian lor cimitero i giorni che più non sono?» (Al novo giorno)
Non possiamo tuttavia attestare la sommessa invocazione degli ultimi passaggi come forzata e dissonante. In linea col sentimento espresso notiamo meglio calzare tutt’altra esclamazione, se non che teniamo in conto il codice etico dei letterati del tempo.
Ci serviamo ad ogni modo dei precedenti stralci al fine di una sintesi: un linguaggio calibrato e spesso steso con originalità, una certa tensione emotiva e di pensiero, un’atmosfera complessiva che risente di molta esplorazione, dunque delle cadute e degli slanci di questa.
CAMMINO POETICO
Lungo il Novecento parecchi poeti di valore e risonanza riuscirono a vedere le loro fatiche riunite in volume unico (in altri casi, come per Carducci e Cena, si optò per gli scritti completi).
Il primo omaggio postumo sfornato dalla patria torinese consiste nel volume piuttosto sgangherato che è POESIE 1893-1906, apparso nel 1915. Si conta un certo numero di errori di stampa ed oltre alle Danaidi, uscite all’incirca a mezzo del periodo indicato, sono poi omesse le aggiunte apportate ai libri dall’autore in un secondo tempo. In bene, oltre ad un ritratto fotografico quel giusto lugubre, rileviamo l’inclusione di Fiori, poesia inedita in copia da fac-simile.
Ogni opera appare in edizione definitiva nel più moderno e corposo LE POESIE dato alle stampe nel 1922 da Giovanni Chiantore (chiamato a succedere dalla vedova di Graf, la quale già fu vedova Loescher). Vistato dall’allievo poi francesista Ferdinando Neri, esso si avvale della prefazione del membro del Senato Vittorio Cian, che del professore sapeva molto più di quanto abbia voluto presentarci (uno dei tanti carteggi a cura di Clara Allasia).
Nelle note preposte all’Indice si fa doverosamente presente come piuttosto che selezionare si è optato per escludere POESIE E NOVELLE (Roma, 1876), primissima apparizione – per l’Italia – del nostro. Se può esser stata mossa ragionevole l’aggirare un eccessivo ingombro, non possiamo tuttavia in questa sede segnalare una maggiore coincidenza dei canti sopra accennati rispetto ai Poemetti (vedi sotto).
Il viaggio a ritroso nel tempo continua con il piuttosto raro VERSI che nel 1874 il nostro diede alle stampe nella città di Braila, Romania, dove la madre gestiva una attività dall’alterna fortuna. I più arditi collezionisti potrebbero infine mettersi sulle tracce di Versi di Filarete Franchi (riportato come Bianchi in altre fonti) fatica primissima di un Graf appena quattordicenne e celato da pseudonimo.
MEDUSA (1880, poi 1890): Graf dà avvio alla sua produzione di rilievo con un libro non meno sinistro del titolo affibiatogli. La lettura viene per così dire alleviata dal centinaio di disegni realizzati da Carlo Chessa (anch’egli con studio a Torino) che inframezzano i componimenti. L’edizione terza, sempre affidata all’esimio compare Loescher, accresce notevolmente l’opera di una terza sezione in linea con le antecedenti. La critica, come da previsione, è spaccata: si contano opinioni a favore ineggianti al vivido simbolismo e al linguaggio sofisticato (in buon numero i dantismi) ed altre meno accondiscenti che rilevano un “gelido leopardismo” e “il difetto di un’ansiosa morale”.
DOPO IL TRAMONTO (1893): sono qui raccolti nuovi spunti, molti di materia autobiografica. Il pessimismo che contraddistingue Medusa da cima a fondamenta va attenuandosi lasciando il posto ad un più artistico intento che apre una fase di discreto equilibrio. Una certa divulgazione è stata favorita dalla larga antologizzazione di Breve la Vita? componimento esemplare per il pensiero dell’autore.
LE DANAIDI (1897, poi 1905): in prima apparizione non ripagano le attese, nonostante, attingendo dall’Alighieri sulla scia di Tennyson, Graf produca Ultimo Viaggio di Ulisse, poema di buona caratura e lunghezza. Il riesumato Loescher provvederà, dopo una certa attesa, a rieditare la presente raccolta in veste definitiva; un valore aggiunto sarà dato da liriche come Sic transit e la collana di sonetti “Consigli a un Poeta Giovane”.
MORGANA (1901): ritorno alle edizioni milanesi, che propongono un volume alquanto ingombrante al paragone con gli esili cartoncini dei rivali. L’autore fa scelta di declinare eventuali spasmi filosofici virando su brani impressionistici e rischiando il plagio argomentativo di quanto fatto vedere ne Le Danaidi. Da segnalare sono Venezia e Napoli, catture dei rispettivi ambienti e atmosfere rese in capitoletti di quartine brevi. Qui contenuta è inoltre quella perla occulta degli annali letterari che risponde al titolo Il Canto della Vecchia Cattedrale, susseguirsi di più voci, chiaro preludio ai Poemetti che sappiamo esser già in stesura. Il successo è molto modesto e pure la seconda edizione non porterà maggiori clamori.
POEMETTI DRAMATICI (1905): In carta a mano, stampato in rosso e in nero, illustrato da composizioni a intero formato e fregiato di testate e finali squisitamente stilizzati, legato in pergamena. Questa la presentazione che Treves allega alle sue uscite, soffermandosi con lecito orgoglio sul prezioso ricamo che contorna i testi. Graf può ora dar frutto letterario alle letture sacre di cui si è sempre accompagnato, chiamando a raccolta le figurue del Messia, dei profeti e molti altri soggetti. I modelli sono svariati: le Operette del beneamato Leopardi, i libretti di Pietro Trapassi, e l’opera magna del Rapisardi, Lucifero (1880) dove possiam discernere somiglianze nel tono e nell’impostazione (canto XII, per la precisione).
Ad ogni modo, sia per materia sia per i ricercati accostamenti di versi, trattasi d’un lavoro adatto a palati fini mentre indigesto ha modo di presentarsi al lettore occasionale.
LE RIME DELLA SELVA (1906) è l’opera che garantisce al professore una certa fama postuma: in essa si condensa l’essenza delle sua poetica. Alla prima versione, rivisitata per il soddisfatissimo Treves, non si aggiungeranno che un pugno di liriche, alcune però assai estese.
Graf anticipa quelli che saranno a breve i cavalli di punta della “penna del Wessex” Thomas Hardy: l’invettiva ad un Tempo impietoso ed implacabile (Al Novo Giorno, L’Oriuolo a Cùculo) nonché il commento steso su un Allora rievocato (Quella Sera, Voce dal Passato).
Dove più, dove meno riuscita, molti passaggi dell’opera di Graf non hanno perso il loro lustro, e hanno ispirato a suo tempo non poche voci di lato rinnovatore oltre che crepuscolare. Non era comunque possibile che il Graf superasse anche quest’ultimo orizzonte, preda precoce, come aveva a definirsi, d’una “incresciosa vecchiezza”.
Non importa: un sincero desiro di ascolto risulta sufficiente per accoglierlo, ripagati, sugli scaffali di casa nostra. E in fondo, il professore, per come sappiamo ebbero a evolversi molti avanguardisti, sull’esempio di Mario Rapisardi suo idolo (il quale prese nel nuovo secolo a firmarsi classicista per rimarcare un’opposizione), avrebbe forse gradito non ispirarli.
Bibliografia minima
Arturo Graf, Le Poesie (Chiantore, Torino 1922)
Luigi Baldacci, Poeti Minori del’800
Fabio Cecchi
Fabio Cecchi è nato a Cesena nel 1991. Risiede a Igea Marina ed è studente universitario di ramo umanistico. Nella variegata sfera delle “attività in seconda” si alternano la composizione pianistica, il volontariato, il calcetto amatoriale, lettura e scrittura. Ignoto e convinto hardiologo (seguace della poetica di Thomas Hardy), nel vasto mar letterario si è sospinto in particolare sull’ottocento meno considerato (Guerrini, Prati, Graf, Cena…). Da questi e non solo attinge nella lenta formazione, tra slanci sociali e squarci intimisti, di un corpus poetico di – sempre relativo – valore.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Biografia di Arturo Graf
Arturo Graf fu poeta, aforista e critico letterario. Nacque ad Atene da padre tedesco e madre italiana il 19 gennaio 1848. Tre anni più tardi si trasferì a Trieste con la famiglia. Alla morte del padre andò a vivere a Brăila, in Romania, ospite del fratello della madre. Solamente nel 1863 rientrò in Italia dove frequentò il liceo a Napoli. Terminato il liceo seguì le lezioni di Francesco de Sanctis; in seguito si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza conseguendo la laurea in legge nel 1870. Intanto, per un breve periodo, Arturo Graf si dedicò al commercio a Braila e al ritorno in Italia si recò a Roma dove conobbe Ernesto Monaci; con quest’ultimo strinse una salda amicizia, iniziando approfonditi studi sul Medioevo del quale si occupò anche in seguito, con particolare attenzione ai suoi aspetti simbolici. Nel 1875 ottenne la libera docenza in Letteratura italiana; il primo incarico lo portò a Roma, come docente di Letteratura italiana e di Letteratura romanza all’Università della capitale. Nel 1876 gli venne affidata la cattedra di Letteratura neolatina presso l’Università degli Studi di Torino, dove iniziò i corsi con la conferenza “Di una trattazione scientifica della storia letteraria”; nel 1882 si trasferì definitivamente nel capoluogo piemontese, insegnando sempre – come professore ordinario – letteratura italiana fino al 1907. Nel 1883 fondò, insieme a Francesco Novati e Rodolfo Renier, il “Giornale storico della letteratura italiana” del quale divenne poi condirettore. Collaborò anche alla rivista “Critica Sociale” e a “Nuova Antologia”; su quest’ultima pubblicò le opere in versi “Medusa” nel 1880, “Dopo il tramonto” nel 1890, e “Rime delle selva” nel 1906: queste opere rispecchiano la sua lenta e graduale conversione al razionalismo positivistico, dove si trova un primo accenno di simbolismo cristiano. Le dolorose vicende familiari di quel periodo, tra le quali la morte per suicidio del fratello Ottone nel 1894, lo fecero avvicinare alla religione: il poeta scrisse l’opera “Per una fede” nel 1906, il “Saggio sul ‘Santo’ di A. Fogazzaro”, gli aforismi e le parabole di “Ecce Homo” nel 1908 e il suo unico romanzo, “Il riscatto”, nel 1901. Nel contesto della Letteratura italiana, “Il riscatto” è uno degli elaborati più caratteristici dello spiritualismo del primo Novecento, dove viene rappresentata, anche con riferimenti autobiografici, la contrapposizione fra la legge dell’ereditarietà, nella quale necessariamente ogni avvenimento deve essere determinato da quello che lo precede, e la volontà individuale, intenta a liberarsi dei legami e a fuggire. L’opera poetica di Arturo Graf risente dell’atmosfera cupa delle leggende medievali, tipiche del primo romanticismo con le meditazioni sulla morte, sul male del mondo, la visione di paesaggi solitari e patetiche esistenze tragiche che troppo spesso si risolvono in macabre rappresentazioni e, solo di rado, in un più acuto simbolismo che consente all’autore di raggiungere un’efficace simbologia funebre, tetra, sommessa, percorsa da lunghi brividi musicali. Le sue opere:
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Poesie e novelle di gioventù (1876)
Il riscatto (1901)
Della poesia popolare romena (1875)
Di una trattazione scientifica della storia letteraria (1877)
La leggenda del paradiso terrestre (1878)
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medioevo (1882-1883)
Attraverso il Cinquecento (1888)
Il diavolo (1889)
Foscolo, Manzoni, Leopardi (1889)
Miti, leggende e superstizioni del medioevo (1892-1893)
L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII (1911)
Medusa (1880)
Polve
Dopo il tramonto (1890)
Le Danaidi (1897)
Morgana (1901)
Poemetti drammatici (1905)
Rime della selva (1906)
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Cenni biografici di Arturo Graf (Atene, 1848 – Torino, 1913) tratti dal componimento ‘Consigli a un poeta giovane’.
Nato in Grecia da padre tedesco e da madre italiana, di Ancona, il cosmopolita autore trascorse una gioventù girovaga al seguito della famiglia. Visse dall’età di 15 anni dapprima a Trieste, poi in Romania, ed ancora a Napoli, dove si diplomò e si laureò in Legge seguendo i corsi di Francesco de Sanctis, ed in seguito a Roma, per stabilirsi infine stabilmente a Torino, città in cui ottenne le cattedre universitarie di letteratura neolatina e di letteratura italiana.
Oggi è ricordato per la sua poesia ‘pessimista’ e per i suoi rigorosi saggi di critica letteraria, grazie ai quali è considerato uno dei massimi esperti italiani di filologia classica.
Così lo descrive lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
A proposito delle sue liriche, aggiunge: “La sua poetica trae alimento da un sentimento sostanzialmente ‘pagano’ della vita, dove non c’è la luce della provvidenza della religione e del cristianesimo. Siamo in quei decenni fra Ottocento e primi del Novecento in cui tutto appare in crisi, che in poesia producono il crepuscolarismo, il decadentismo, l’edonismo dannunziano. Graf è fuori da queste correnti, più legato ai classici e ad esperienze della poesia tedesca e inglese e agli italiani Foscolo, Leopardi, Manzoni e Carducci. Però la sua poesia risente molto del clima di crisi e della crisi si fa portavoce. Il suo non è un ‘pessimismo eroico’, come è stato a volte definito quello del Leopardi, ma piuttosto una pretesa, personale e soggettiva, di ‘realismo’.”
Fotoreportage:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia.
La foresta rossa
Fotoreportage -La Russia è costellata di luoghi sorprendenti creati dalla “mano” magica della natura, che in questo angolo di mondo è stata particolarmente generosa in termini di bellezza e varietà. Il boschetto di cipressi nella valle di Sukko, nel sud paese, pur essendo di origine artificiale, è comunque impressionante! Giudicate voi stessi:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia
RUSSIA-La foresta rossa
Infatti i cipressi della palude (taxodium) non sono mai cresciuti qui e difficilmente sarebbero apparsi se non fosse stato per un esperimento sovietico. Si narra che negli anni ’30 furono portate delle piantine di cipresso dall’America del Nord, nella speranza di sviluppare in URSS una nuova coltura.
RUSSIA-La foresta rossa
Questi alberi furono piantati a 14 km da Anapa, nella valle collinare di Sukko, non lontano dall’omonimo villaggio.
RUSSIA-La foresta rossa
Con il passare degli anni, le piante hanno attecchito perfettamente e sono state oggetto di innumerevoli servizi fotografici e televisivi. Sono finite persino sulle pagine della rivista National Geographic.
Fonte Russia Beyond
Natura sensitiva tra la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino
Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
“E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene”
(William Shakespeare, “As you like it”)
Che le piante fossero degli esseri straordinari e super-eroici lo sosteniamo da tempo, ma essere capaci di rimediare ai disastri atomici sembra proprio una qualità da eroe Marvel.
Da Černobyl a Hiroshima, le piante stanno dimostrando a noi umani una potente volontà di vita: un misto di resilienza, fluidità e capacità di rinascita.
La Foresta Rossa di Černobyl
Il nome evocativo “Foresta Rossa” non indica una zona di qualche remota regione del Nord Europa o una magica foresta in stile “Il Signore degli Anelli”, ma una pineta di circa 4 km2 che subito dopo “l’incidente” di Černobyl virò di colpo al rosso, per poi morire.
Era l’una del mattino, 23 minuti e 46 secondi e successe l’impensabile.
Una serie di violazioni nel protocollo di sicurezza crearono uno spaventoso effetto domino: il reattore n° 4 della Centrale nucleare Vladimir Il’ iČ Lenin, vicino a Černobyl, vide la temperatura del proprio nocciolo aumentare bruscamente, portando l’acqua di refrigerazione a scindersi in ossigeno e idrogeno che, a contatto con l’incandescenza delle barre di controllo, provocò un esplosione, lo scoperchiamento della struttura e un vasto incendio.
Fu così che una nube di isotopi radioattivi si disperse.
Piombò con prepotenza su un’area specifica, distruggendo e contaminando.
É la “Zona” e copre circa 30 km2 dal punto zero, il reattore nucleare.
Fu immediatamente evacuata e abbandonata e qui, mentre foreste di betulle e pioppi sopravvissero, la pineta si trasformò in Foresta Rossa.
A 30 anni di distanza sappiamo che non capitò solo quello.
L’uomo se ne è andato e la “Zona” si è trasformata in una sorta di Parco Naturale involontario.
Ora, senza l’essere umano, ritornano animali come linci, procioni, cavalli di Przewalski, uccelli, alci, cervi, caprioli, cinghiali, volpi rosse, tassi, donnole, lepri, scoiattoli, l’orso bruno e specie a rischio di estinzione.
La popolazione di lupi è sette volte maggiore rispetto alle zone incontaminate circostanti.
Ora, senza l’uomo, sembra che quella zona, disabitata dalla nostra specie, sia popolata dalle altre quanto non sia mai stata.
Ora, senza l’uomo, le piante stanno letteralmente invadendo, come in una giungla post-apocalittica, anche le zone maggiormente colpite dal fall-out nucleare. Crescono sui tetti, si riversano sui terrazzi, spaccano l’asfalto, squarciano i muri, si appropriano di strade a sei corsie.
Come una fenice, quel territorio ora è una delle aree a maggiore biodiversità dell’Ex Unione Sovietica.
E non è tutto.
Stanno ripulendo dalle scorie radioattive, attraverso la loro capacità, unica, di assorbire radionuclidi dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Questo processo viene definito con un termine emblematico: fitorimediazione.
L’Eterno Giardino
La Foresta Rossa si sta trasformando in un Eterno Giardino: mancando per ora lombrichi, batteri e funghi, il naturale processo di marcescenza viene estremamente rallentato. Foglie e residui vegetali rimangono a terra per un tempo che sembra, ai nostri occhi, eterno.
L’unico vero nemico è il fuoco. Assorbendo quello che dall’aria cadde a terra, le piante si sono trasformate in scrigni di radioattività: la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino non devono bruciare. Mai.
Nonostante sembri una citazione di Ian Malcom, la vita vince sempre.
Marisa Carelli-Poesie inedite -pubblicate dalla Rivista AVANPOSTO-
MARISA CARELLI
è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Figlie: ci sogni bambine, dici: «È bello così».
Avrei voluto spiegarti che a me piace ora
il timbro delle nostre voci o che il passato
non si perde, fa da scivolo al presente,
sullo sterno fra i seni come fra le valli,
giù dai dorsi. O che la rosa va sfogliata
dei suoi petali per sentire che rinasce
quando non t’aspetti sullo stelo paradigma
e la ritrovi memoria in punta di dita.
Ma il non detto è una risalita al contrario,
su per spine-gradini dove tu
ti imbatti ancora in te.
***
Dove si fa giorno
a ogni paesaggio,
in te sia il suo risveglio.
Chiedi,
come Hegel sulle Alpi,
in che modo maturano i formaggi
e non dimenticare l’aurora.
Dai figli non pretendere
che a sé vogliano bene
indifferenti a strade,
aeroporti o ferrovie.
Perché talvolta chi
si strania
lo rimette al mondo
una piana,
le dolci colline,
le grida di montagne.
Una fisarmonica
che suona chiusa
è il sonno.
Si spalanca ed è
divinazione
imparare ad amarsi.
***
Sono nata con le mani strette
nella più mistica delle preghiere:
non chiedete per me
disegni dal futuro.
Cresciuta a ritroso,
mi sono fatta compasso
leggera su una bici
o cercando gli orari
dei tram per il rientro.
Ora torno a nutrirmi del petto,
un tronco che viene dal ramo.
(Fino allo scheletro della foglia
si affacciano queste parole.
Fino a te che leggi, in controluce).
***
Si potrebbe pianificare una fuga solare,
un appuntamento col raggio di luce,
nell’altrove, in un luogo non tuo:
un sasso, un punto, il prato battuto
che si apre nei suoi fili d’erba.
Il premio è la sanzione del mutare.
Guarda,
è tutto vero.
Achille e la testuggine
fianco a fianco,
sincroni avanzano
come nel dipinto
di un Quarto Stato.
Così nella costante è
la luce
il significante.
Marisa Carelli è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza- Traduttore Margherita Emo-Editore Einaudi-
Descrizione-del libro di Larry McMurtry-In “Voglia di tenerezza” siamo ben lontani dall’epopea western cantata da Larry McMurtry in “Lonesome Dove”. In questo romanzo si racconta principalmente la vita di due donne, madre e figlia, diverse tra di loro, fisicamente e caratterialmente. Aurora, la madre, è un’affascinante vedova quarantanovenne che ama farsi corteggiare dagli uomini, frivola, vanitosa, brillante ed impulsiva. Emma, la figlia, disordinata, poco ambiziosa, vive un matrimonio infelice, anche se sembra voler trovare una via di uscita che possa regalarle serenità. Altri personaggi circondano queste due donne: gli spasimanti, la donna di servizio, i vicini di casa, le amiche, ognuno di loro con la propria storia da raccontare.
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza-
McMurtry ci regala pagine divertenti, essendo capace di rendere i personaggi empatici e soprattutto umani, con le loro debolezze, manie e personalità. Ma è anche capace di toccare il nostro animo e di commuoverci, perché la vita riserva sempre gioie e dolori.
È trascorso molto tempo da quando vidi il film. La sensazione che provo oggi, ripensando a quest’ultimo, è che mi toccò molto, forse più del libro.Descrizione scritta da Elisabetta Porta-
Cenni biografici di Larry Mcmurtry
Larry McMurtry -Scrittore e sceneggiatore americano
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) è stato un autore e sceneggiatore americano. Nato nel 1936 a Archer City, nel Texas, romanziere e sceneggiatore, nel 1986 ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa con Lonesome Dove e nel 2006 l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con I segreti di Brokeback Mountain. Da molti dei suoi romanzi sono stati tratti film di grande successo come Hud il selvaggio, L’ultimo spettacolo e Voglia di tenerezza. Einaudi ha pubblicato, in una nuova traduzione, Lonesome Dove (2017), Le strade di Laredo (2018) e Voglia di tenerezza (2021). Nel 2024 esce Il cammino del morto (Einaudi).
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) was an American novelist, essayist, and screenwriter whose work was predominantly set in either the Old West or contemporary Texas.[1] His novels included Horseman, Pass By (1962), The Last Picture Show (1966), and Terms of Endearment (1975), which were adapted into films. Films adapted from McMurtry’s works earned 34 Oscar nominations (13 wins). He was also a prominent book collector and bookseller.
Tracy Daugherty‘s 2023 biography of McMurtry quotes critic Dave Hickey: “Larry is a writer, and it’s kind of like being a critter. If you leave a cow alone, he’ll eat grass. If you leave Larry alone, he’ll write books. When he’s in public, he may say hello and goodbye, but otherwise he is just resting, getting ready to go write.”[3]
Early life and education
McMurtry’s birth certificate states that he was born in Wichita Falls, Texas, the son of Hazel Ruth (née McIver) and William Jefferson McMurtry.[4] He grew up on his parents’ ranch outside Archer City, Texas. The city was the model for the town of Thalia which is a setting for much of his fiction.[5] He earned a BA from the University of North Texas in 1958 and an MA from Rice University in 1960.[6][7]
In his memoir, McMurtry said that during his first five or six years in his grandfather’s ranch house, there were no books, but his extended family would sit on the front porch every night and tell stories. In 1942, McMurtry’s cousin Robert Hilburn stopped by the ranch house on his way to enlist for World War II, and left a box containing 19 boys’ adventure books from the 1930s. The first book he read was Sergeant Silk: The Prairie Scout.[8]: 1–8
McMurtry and Kesey remained friends after McMurtry left California and returned to Texas to take a year-long composition instructorship at Texas Christian University.[11] In 1963, he returned to Rice University, where he served as a lecturer in English until 1969, and a visiting professor at George Mason College (1970) and American University (1970–71).[12] He entertained some of his early students with accounts of Hollywood and the filming of Hud, for which he was consulting. In 1964, Kesey and his Merry Pranksters conducted their noted cross-country trip, stopping at McMurtry’s home in Houston. The adventure in the day-glo-painted school bus Furthur was chronicled by Tom Wolfe in The Electric Kool-Aid Acid Test. That same year, McMurtry was awarded a Guggenheim Fellowship.[13]
He described his method for writing in Books: A Memoir. He said that from his first novel on, he would get up early and dash off five pages of narrative. When he published the memoir in 2008, he said this was still his method, although by then, he wrote 10 pages a day. He wrote every day, ignoring holidays and weekends.[8] McMurtry was a regular contributor to The New York Review of Books.[18]
In 1989, McMurtry testified on behalf of PEN America before the U.S. Congress in opposition to immigration rules in the 1952 McCarran–Walter Act that for decades permitted the visa denial and deportation of foreign writers for ideological reasons.[17] He recounted how before PEN America was to host the 1986 International PEN Congress, “there was a serious question as to whether such a meeting could in fact take place in this country… the McCarran–Walter Act could have effectively prevented such a gathering in the United States.” He denounced the relevant rules as “an affront to all who cherish the constitutional guarantees of freedom of expression and association. To a writer whose living depends upon the uninhibited interchange of ideas and experiences, these provisions are especially appalling.” Subsequently, some provisions that excluded certain classes of immigrants based on their political beliefs were revoked by the Immigration Act of 1990.[21]
Antiquarian bookstore businesses
Texas While at Stanford, McMurtry became a rare-book scout.[22] During his years in Houston, he managed a bookstore called the Bookman. In 1969, he moved to the Washington, D.C., area. In 1970 with two partners, he started a bookshop in Georgetown, which he named Booked Up. In 1988, he opened another Booked Up in Archer City. It became one of the largest antiquarian bookstores in the United States, carrying between 400,000 and 450,000 titles. Citing economic pressures from Internet bookselling, McMurtry came close to shutting down the Archer City store in 2005, but chose to keep it open after great public support.
In early 2012, McMurtry decided to downsize and sell off the greater portion of his inventory. He felt the collection was a liability for his heirs.[23] The auction was conducted on August 10 and 11, 2012, and was overseen by Addison and Sarova Auctioneers of Macon, Georgia. This epic book auction sold books by the shelf, and was billed as “The Last Booksale”, in keeping with the title of McMurtry’s The Last Picture Show. Dealers, collectors, and gawkers came out en masse from all over the country to witness this historic auction. As stated by McMurtry on the weekend of the sale, “I’ve never seen that many people lined up in Archer City, and I’m sure I never will again.”[24]
In 2006, he was co-winner (with Diana Ossana) of both the Best Screenplay Golden Globe[31] and the Academy Award for Best Adapted Screenplay for Brokeback Mountain, adapted from a short story by E. Annie Proulx. He accepted his Oscar while wearing a dinner jacket over jeans and cowboy boots.[32] In his speech, he promoted books, reminding the audience the movie was developed from a short story. In his Golden Globe acceptance speech, he paid tribute to his Swiss-made Hermes 3000 typewriter.[33]
Personal life
McMurtry married Jo Scott, an English professor who has authored five books.[34] Before divorcing, they had a son together, James McMurtry. Both James and his own son, Curtis McMurtry, are singer/songwriters and guitarists.[35]
In 1991 McMurtry underwent heart surgery.[36] During his recovery, he suffered severe depression. He recovered at the home of his future writing partner Diana Ossana and wrote his novel Streets of Laredo at her kitchen counter.[37][38]
McMurtry married Norma Faye Kesey, the widow of Ken Kesey, on April 29, 2011, in a civil ceremony in Archer City.[39]
McMurtry died on March 25, 2021, at his home in Tucson, Arizona. He was 84 years old.[40]
It was announced in early 2023 that McMurtry’s personal property, including his writing desk, typewriters and personal book collection would be sold at public auction by Vogt Auction in San Antonio, Texas, on May 29, 2023.[41]
L’Artista Silvano Campeggi ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood
L’Artista Silvano Campeggi (1923-2018)- Nella memoria collettiva che alcuni classici del cinema di Hollywood siano rimasti impressi proprio per l’efficacia della locandina, qui sta l’arte di Silvano Campeggi che ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood.
Silvano Campeggi
” Via col vento ” non avrebbe avuto lo stesso pathos senza Clark Gable che bacia Vivien Leigh sullo sfondo di Altanta in fiamme ma questo mostra anche un genere tipico degli illustratori di quel periodo presente in molta stampa italiana, dal Corriere della sera fino a Grand Hotel, ovvero l’enfasi con cui drammi e storie pubbliche venivano presentate, con tutto il carico emotivo privo di ogni leggerezza. Era l’eleganza dell’estremo in cui ogni bacio pareva l’ultimo, ogni abito quello dell’unica occasione della vita, ogni incontro una fatalità ineluttabile.
Silvano Campeggi
Uno stile che ha segnato non solo un arte visiva ma un modello di sensazioni di cui ancora subiamo il fascino.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema (1945/1970): negli Stati Uniti è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
Il padre, tipografo e stampatore, introduce il giovane Silvano alla grafica e al design. Campeggi frequenta l’Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Fra i cartelloni più famosi: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi, West Side Story, La gatta sul tetto che scotta, Vincitori e vinti, Exodus, Colazione da Tiffany.
Molte delle immagini create da Nano per i film più famosi hanno assunto valore iconico e sono immediatamente riconoscibili, come i quattro cavalli bianchi su sfondo rosso di Ben Hur e il volto di Leslie Caron utilizzato come puntino sulla prima lettera I di Gigi (che compare anche sulla copertina dell’album Ummagumma, del Pink Floyd).
Silvano Campeggi
Silvano Campeggi
Biografia di Silvano Campeggi-Nato a Firenze nel 1923, frequenta la scuola d’arte come allievo di ottone Rosai e Ardengo Soffici, iniziando poi a lavorare come illustratore di libri e giornali per diverse aziende grafiche.
Trasferitosi a Roma nel dopoguerra, entra nello studio del pittore Orfeo Tamburi e conosce il cartellonista Luigi Martinati, venendo attratto dalla cartellonistica cinematografica. Per la sua abilità nel ritratto e l’inventiva che gli è congeniale, lavora, firmandosi ‘Nano’, per le maggiori case cinematografiche americane come Metro Goldwyn Mayer, Universal, Paramount, Warner Bross, RKO, Dear Film, realizzando più di 3.000 manifesti, tra i quali Via col Vento, Un americano a Parigi, Singin’ in the Rain, West Side Story, Gigì, Ben Hur, Bambi.
Tornato a Firenze negli anni Settanta, realizza per l’Arma dei Carabinieri otto grandi quadri di battaglie del Risorgimento e il ritratto di Salvo d’Acquisto, eroe della Resistenza, che nel 1975 è utilizzato come francobollo commemorativo dalle Poste Italiane. Sempre dagli anni Settanta comincia a trascorrere molta parte dell’anno all’Isola d’Elba, dove fonda una scuola di ceramica per i giovani elbani. I sassi e le pietre dell’isola diventano protagonisti dei suoi quadri e della natura antropomorfa che essi rappresentano.
La personale fiorentina del 1988, intitolata Il Cinema nei manifesti di Silvano Campeggi, segna l’inizio di una nuova attenzione e valorizzazione dell’attività di Campeggi come autore di manifesti e locandine per il cinema, sancendone definitivamente l’importanza come artista in grado di contribuire alla definizione e costruzione di un immaginario visivo diffuso. Le sue opere sono richieste in tutto il mondo, espone a più riprese in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, dove si impone come uno degli artisti più apprezzati nel suo campo (nel 2005 viene premiato dallo Stato del New Jersey e nel 2007 il Lincoln Center di New York gli dedica una nuova mostra monografica).
Nel corso degli anni è coinvolto anche nella creazione di dipinti e opere per eventi e manifestazioni quali il Palio di Siena, la commemorazione della battaglia di Campaldino, il Calcio storico fiorentino, la Corsa del Saracino a Arezzo, fino ai ritratti delle protagoniste pucciniane per la Fondazione Puccini. Nel 2000 riceve dalla Città di Firenze il Fiorino d’oro, e tra dicembre 2017 e gennaio 2018 Palazzo Vecchio ospita l’importante antologica intitolata Nano tra divi e diavoli.
Si spegne a Firenze il 29 agosto 2018. Il suo autoritratto è esposto insieme a quello dei più grandi artisti nel Corridoio Vasariano degli Uffizi, testimonianza di una lunga vita dedicata con amore all’arte.
Firenze ricorda Silvano “Nano” Campeggi. Suoi gli storici manifesti di “Via col vento” e “Colazione da Tiffany”
Locandina opera di Silvano Campeggi
Silvano Campeggi
Locandina opera di Silvano Campeggi
Articolo di Costanza Baldini-Lunedì 23 gennaio per un giorno la sala d’Arme di Palazzo Vecchio diventerà sede di una mostra con pezzi esclusivi e originali, un evento speciale per celebrare il grande autore di locandine per i film di Hollywood. L’iniziativa per celebrare il Maestro scomparso nel 2018 a cento anni dalla nascita
Locandina opera di Silvano Campeggi
Il 23 gennaio 1923 nasceva a Firenze Silvano Nano Campeggipittore e insuperabile cartellonista, autore cioè di manifesti che hanno fatto letteralmente la storia del cinema, tra cui: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Via col Vento, Ben Hur, La gatta sul tetto che scotta, Colazione da Tiffany, West Side story, Un americano a Parigi, Exodus, Vincitori e Vinti e molti altri.
Campeggi, scomparso il 29 agosto del 2018, compirebbe 100 anni lunedì 23 gennaio, in questa data Palazzo Vecchio lo vuole ricordare con un evento speciale.
La sala d’Arme diventerà sede per un giorno di una mostra con pezzi esclusivi e originali della collezione della famiglia Campeggi e contenuti multimediali.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Dalle 10 alle 18, saranno esposte le tele dei più importanti cartelloni cinematografici realizzati per Hollywood, mentre sulle pareti un video mapping immersivo realizzato da Art Media Studio ripercorrerà tutta la carriera artistica di ‘Nano’, dall’inizio fino alle ultime opere realizzate.
Oltre alla mostra alle 17 si terrà il ricordo dell’artista alla presenza della vicesindaca Alessia Bettini, del presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, di Elena Campeggi, moglie di ‘Nano’, di Riccardo Nencini, scrittore e politico, di Cristina Acidini, presidente dell’Accademia delle arti e del disegno e Matteo Cichero organizzatore dell’evento. L’iniziativa, ad ingresso libero, è stata promossa dall’associazione Fuori scena e fatta propria dall’amministrazione comunale.
Locandina opera di Silvano Campeggi
L’avventura nel cinema di Nano Campeggi
Negli Stati Uniti Nano Campeggi è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema dal 1945 al 1970.
Impara grafica e design dal padre, tipografo e stampatore, poi frequenta l‘Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Locandina opera di Silvano Campeggi
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Con la crisi del cinema, Campeggi torna a Firenze, dove prosegue l’attività pittorica. Nel 1997 realizza 35 dipinti ispirati al calcio storico fiorentino, esposti poi in una mostra al Palagio di Parte Guelfa in Firenze e a Lione, in Francia. Nel 2001 realizza il drappellone per il palio dell’Assunta, a Siena.
Nel 2006 disegna la sua ultima locandina per il Peter Pan il Musical opera con le musiche tratte dall’album Sono solo canzonette di Edoardo Bennato, e riarrangiate in versione musical dallo stesso cantautore.
Nel 2008, in occasione del 150º anniversario della nascita di Giacomo Puccini, Campeggi espone a Torre del Lago una serie di ritratti immaginari delle protagoniste dell’opera del compositore, in una mostra dal titolo Puccini e le sue donne.
Nel 2018 gli è stato dedicato un documentario in cui appare per l’ultima volta in pubblico, dal titolo As Time Goes By – L’uomo che disegnava sogni, diretto da Simone Aleandri e prodotto da Clipper Media e Istituto Luce.
È stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2018 e ha vinto il Tiburon International Film Festival 2018 come miglior documentario.
Poesie scelte di CRISTINA CAMPO pubblicate dalla Rivista Avamposto-
Cristina Campo, Poetessa itliana
Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini) nasce a Bologna nel 1923 e muore a Roma nel 1977. Il padre di Cristina Campo Guido è musicista. La madre appartiene a una famiglia della buona borghesia bolognese. Trascorre la prima infanzia a Bologna, all’Istituto Rizzoli del quale lo zio materno, Vittorio Putti, è direttore. Il difetto cardiaco (che l’accompagnerà per tutta la vita) le impedisce di frequentare regolarmente la scuola. Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Impara le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare. È traduttrice e critica, in entrambi gli ambiti riuscendo a profondere originalità e acume non comuni. Fra le innumerevoli frequentazioni di rilievo: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. La Tigre Assenza comprende tutte le sue poesie e traduzioni poetiche, edite e inedite.
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
***
Cristina Campo, Poetessa itliana
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
***
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda, senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia –
e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni… Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Cristina Campo, Poetessa itliana
Estate indiana
Ottobre, fiore del mio pericolo –
primavera capovolta nei fiumi.
Un’ora m’è indifferente fino alla morte
– l’acero ha il volo rotto, i fuochi annebbiano –
un’ora il terrore di esistere mi affronta
raggiante, come l’astero rosso.
Tutto è già noto, la marea prevista,
pure tutto si ottenebra e rischiara
con fresca disperazione, con stupenda
fermezza…
La luce tra due piogge, sulla punta
di fiume che mi trafigge tra corpo
e anima, è una luce di notte
– la notte che non vedrò –
chiara nelle selve.
Elegia di Portland Road
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio…
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori)
Testi selezionati da La Tigre Assenza (Adelphi, 1991)
Biografia di Cristina Campo-Bologna 1923 – Roma 1977-
Fonte Enciclopedia delle donne- scheda di Delia Demarco
Cristina Campo, Poetessa itliana
“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle, esse penetrano in me per sempre attraverso la penna e la mano come per osmosi”
Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce il 29 aprile del 1923 a Bologna. Figlia del maestro di musica Guido Guerrini e di Emilia Putti.
Durante il suo percorso letterario usa numerosi altri pseudonimi: La Pisana, Bernardo Trevisano (personaggio realmente esistito e alchimista del 1400), Puccio Quaratesi, Giusto Cabianca, nascondendosi anche dietro la firma di Rodolfo Wilcock o di Elémire Zolla, suo compagno dalla fine degli anni ‘50 con cui collabora in traduzioni e progetti.
Per lei la scelta dello pseudonimo è un ritorno al gioco d’infanzia:
“Da bambini si giocava a darsi dei nomi, avevo 15 anni e giocavo con una mia dolcissima amica che morì sotto la prima bomba che cadde su Firenze. Da allora questo nome dato per gioco mi diventò più caro del mio, e questo è tutto”.
Una malformazione cardiaca, presente fin dalla nascita, le impedisce di frequentare le scuole con costanza, ripiegando su una formazione privata e sotto la guida paterna. Ben presto i libri diventano per lei compagni costanti e “pane sacramentale”. È impossibile, quindi, dividere la storia della vita di Cristina Campo dalla storia delle sue letture. Dalle prime letture profane, fiabe e poesia, a quelle più sacre dell’ultimo periodo della sua esistenza.
I suoi riferimenti culturali saranno per tutta la vita principalmente due: Simone Weil e Hugo Von Hofmannsthal, la “sua mano destra e la sua mano sinistra”, ama dire di loro agli amici.
Già da giovanissima conosce le opere di Shakespeare, Omero, Dante, Leopardi e la Bibbia. Le fiabe, in particolare, le svelano il potere del mondo dei simboli e la possibilità di dare senso all’esistenza:
“Insegnano a spiccarsi il cuore dalla carne…Poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile”
In casa Guerrini vige da sempre una regola alla quale Vittoria non si sottrae mai: i classici devono essere letti esclusivamente in lingua originale. Per Cristina Campo, quindi, non sarà difficile imparare la sottile arte della traduzione. Tradurre per lei significa non tradire né lo spirito e né l’intento dell’autore. Ciò le permette di diventare presto stimata traduttrice di autori della sfera anglosassone (John Donne, Emily Dickinson, Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, Thomas E. Lawrence, Christina Rossetti), ma non solo. Traduce anche dallo spagnolo, dal tedesco, dal francese e dal latino.
Durante gli anni della guerra, l’intera famiglia Guerrini si trasferisce a Firenze per seguire il padre impegnato a dirigere il Conservatorio Cherubini. Ben presto il capoluogo toscano diventa la città complice della crescita letteraria di Cristina. Qui inizia a frequentare un ambiente culturale molto fertile: il poeta Mario Luzi, i germanisti Leone Traverso – con il quale avrà una relazione – e Gabriella Bemporad e le amiche Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell.
Risalgono a questo periodo le sue traduzioni dei racconti di Katherine Mansfield, ma non dimentica mai l’amatissima Simone Weil, impegno di vita e centro del suo vocabolario interiore. Su di lei scrive un breve saggio Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio e, con la determinazione di un’esperta consulente editoriale, si spende nel promuovere la diffusione dell’opera dell’autrice francese presso varie case editrici italiane.
Nel 1953 l’editore Casini di Roma la coinvolge nella preparazione di un’ antologia di poetesse ai vertici della poesia al femminile. Per l’occasione Campo seleziona alcune delle poetesse più geniali: Saffo, Vittoria Colonna<, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Emily Dickinson, Christina Rossetti, ma Il libro delle 80 poetesse non vedrà mai pubblicazione e il manoscritto sarà purtroppo perduto.
Nel 1955 si trasferisce a Roma, seguendo gli impegni lavorativi del padre assegnato a dirigere il Conservatorio di Santa Cecilia. L’anno successivo al trasferimento romano, viene pubblicato Passo d’addio, raccolta di poesie scritte tra il 1954 e il 1955.
Alla fine degli anni ‘50 collabora per la RAI come recensore di libri, specialmente di poesia. È di questi anni l’incontro con Elémire Zolla, noto orientalista e marito della poetessa Maria Luisa Spaziani. Il sodalizio lavorativo tra i due si trasforma presto in relazione sentimentale.
Nel 1959 torna a occuparsi della sua amata Simone Weil curando una sezione a lei dedicata su Letteratura e ne traduce due testi: Venezia salva e L’Iliade o il poema della forza. Mentre è del 1958 la poesia Elegia di Portland Road, ultimo indirizzo di residenza di Simone Weil prima di morire a Londra per tubercolosi.
Tramite Zolla scrive per la rivista Conoscenza religiosa da lui diretta e vengono pubblicate due sue poesie (Missa Romana e La Tigre Assenza). Dagli anni ‘60 in poi, scrive poco ma traduce molto. Sono del 1961 le traduzioni per Einaudi delle poesie di William Carlos Williams, incontrato nell’estate del 1957 a Manziana e nel 1971 l’Italia scopre John Donne grazie a Poesie amorose e teologiche, da lei tradotte per Einaudi. Nel 1963 traduce alcuni testi per I mistici dell’Occidente di Zolla con lo pseudonimo di Giusto Cabianca. La vicinanza a Zolla la spinge a interessarsi sempre di più a tematiche religiose e al mondo dei miti e dei simboli. È, infatti, del 1962 la pubblicazione del volume Fiaba e mistero.
Pur frequentando ambienti intellettuali vivissimi e raffinati – dalla Firenze di Mario Luzi alla Roma di Maria Zambrano, Elsa Morante e Maria Bellonci – preferisce riunire nella sua casa romana un piccolo gruppo di amici fidati. Dal salotto di Cristina Campo prenderà corpo il progetto di quella che sarà la casa editrice Adelphi: Bobi Bazlen e Luciano Foà, infatti, frequentano da sempre le serate a casa di Cristina. Nel 1963 nasce l’Adelphi, Bazlen e Foà decidono di portarsi con sé un altro amico e frequentatore del salotto di Cristina Campo: l’allora ventunenne Roberto Calasso. Tra le numerose e preziose pubblicazioni, L’Adelphi avrà anche il merito di diffondere l’opera di Cristina Campo in Italia.
Donna fragile come il vetro ma dura come il cristallo e dallo spirito guerriero, Campo legge e fa leggere, traduce, scrive. I suoi amori sono letterari: il germanista Traverso, il poeta Luzi, l’intellettuale Zolla, che la ricorda così:
“Aveva un carattere molto curioso. Da un lato c’era una volontà di comunicare i suoi entusiasmi, che era la sua grande carta, perché con questa si conquistava la simpatia di tutti coloro che fossero minimamente in vita. E ne aveva parecchi di entusiasmi. Per un paesaggio, per un quadro, per una persona, per un libro. Fissava su ciascuno questi fari potentissimi e suggestionava, faceva spiccare un volo. Era il suo lato seducente. Ma subito dopo poteva accendersi una fiammata di stizza(…) Accadeva era quasi fatale. Ed erano attacchi furibondi. Quando vuole, Cristina sa essere tagliente come un diamante. Può rompere un’amicizia per una piccola caduta di stile, disconoscere un poeta amato per un verso appena al di sotto dell’eccellenza”
Antimoderna e antiprogressista con simpatie politiche apertamente di destra, è, come tutte le personalità complesse, contraddittoria: ama uomini sposati (Luzi, Zolla), è apertamente di destra ma frequenta amici di sinistra, anche ex partigiani. È aristocratica, odia il consumismo e la mediocrità della società di massa, ma aiuta concretamente le persone ai margini, mostrandosi sensibile verso i perdenti e gli esclusi. Detesta l’avanguardia letteraria e l’impegno sociale e politico da parte dello scrittore. Per lei essere scrittore significa scrivere per sottrazione, tacere, dare la penna ad altri, “scrivere per nessuno”, da qui la complessità delle contraddizioni dell’essere Cristina Campo, da qui la sua inafferrabilità.
Da un parte c’è la poesia, la pratica della scrittura, dall’altra l’adesione alla chiesa bizantino-ortodossa. L’amore per la liturgia bizantina, in comune con la Weil, la spinge a prendere casa vicino all’Abbazia di Sant’Anselmo sull’Aventino di cui diventa assidua frequentatrice. Durante il decennio di proteste tra il 1960-1970, non è mai attivista per nessuna causa politica o sociale, ma manifesta aspre critiche verso l’introduzione della messa in italiano; per lei, da sempre amante della bellezza della liturgia latina, è un cambiamento talmente sconvolgente da rasentare l’oltraggio. Decide, così, di esporsi e di stendere un manifesto-appello in difesa della liturgia tradizionale. Il manifesto, reso pubblico il 5 febbraio del 1966, è firmato da trentasette artisti e intellettuali, tra i quali Auden, Borges, Bresson, De Chirico, Dreyer, Montale, Quasimodo, Zolla. Inizia a scrivere lettere di protesta e petizioni fondando l’associazione “Una Voce” che vede Eugenio Montale come presidente.
Nonostante il desiderio di scrivere poco e pubblicare meno, è invece molto generosa nella corrispondenza epistolare con amici, conoscenti, colleghi, come, ad esempio, la poetessa argentina Alejandra Pizarnik, conosciuta a Parigi negli anni ‘60 e alla quale scriverà fino al 1970.
Lascia così numerose lettere che vengono raccolte in libri postumi: da Lettera a Mita a Se tu fossi qui – Lettere a Maria Zambrano, da Lettere a un amico lontano a Il mio pensiero non vi lascia – Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino.
Su tutti, Lettere a Mita rimane il carteggio fondamentale per comprendere l’universo interiore di Cristina Campo: lettere paragonabili, secondo Cesare Galimberti, a quelle del Tasso e del Leopardi e destinate all’amica Margherita Pieracci Harwell, a testimonianza di un’amicizia – nata nel 1952 – tra due donne che si incontrano grazie alla passione comune per la sempre presente Simone Weil.
Leggere Cristina Campo non è quasi mai impresa facile: è come scalare “una montagna su cui si può cercare tutta la vita”, come sostiene giustamente Cristina De Stefano, autrice della biografia Belinda e il mostro. I suoi testi sono profondi e con continui rimandi ad altri scritti, ma l’originalità delle sue riflessioni, l’uso musicale della parola e il ritmo della lettura, ripagano di ogni sforzo compiuto per avvicinarla e in continua scoperta del valore sacrale della parola:
“La parola per me è una cosa terribile, è un filo scoperto, elettrico… con il verbo non si scherza… Possiamo fare un male terribile, dire immense sciocchezze di cui ci pentiremo dieci anni dopo. Possiamo educare, formare anime ancora tenere con una sicurezza bersagliera che dopo alcuni anni rimpiangeremo. Ho sempre avuto una gran paura della parola: ho scritto molte cose che non ho pubblicato e non me ne importa nulla. Domani, se stessi per morire, ne butterei nel fuoco molte. ‘Di ogni parola inutile sarà chiesto conto’, dice la Scrittura”.
Oggi critica e pubblico l’hanno finalmente riscoperta grazie a pubblicazioni postume, spesso curate dall’amica Margherita Pieracci Harwell, come la raccolta dell’intera opera saggistica in Gli imperdonabili (1987) e La Tigre assenza (1991), raccolta delle sue poesie e delle sue traduzioni poetiche.
Il volume Sotto falso nome (1998) raccoglie, invece, articoli, prefazioni e altri scritti sparsi e pubblicati con diversi pseudonimi.
È l’inizio di una seconda vita editoriale.
Scompare a Roma, a 53 anni, il 10 gennaio del 1977 nel silenzio di un ambiente letterario che non l’aveva ancora compresa.
Sarà Roberto Calasso a ricordarla in quell’inverno del 1977 su Il Corriere della Sera:
“Una scrittrice che ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori, e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Cristina Campo
Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, 2002
Camillo Langone, Cristina Campo, in Italiane, a cura di E. Roccella – L. Scaraffia, III, Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Roma, 2004
La Rivista «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Rivista Avamposto-
-Contatti
Corso Siracusa 67, 10137 Torino (c/o Sergio Bertolino)
Roma al Teatro San Raffaele va in scena :”TERESA, un donna che ha scelto la povertà”- Regia di Francesco Sala-
Il 9, 10 e 11 Maggio 2025, al Teatro San Raffaele, a Roma, L’Amàca Onlus metterà in scena “Teresa, una donna che ha scelto la povertà”, liberamente tratto dal Musical di Michele Paulicelli, sapientemente rivisto e riadattato in chiave attuale dal bravissimo regista Francesco Sala, con le spettacolari coreografie di Rossana Longo.
L’Amàca Onlus, associazione che promuove in Italia (Roma) e in Africa (Sénégal, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo) progetti di assistenza sociale e socio-sanitaria con l’obiettivo di favorire forme di solidarietà, l’inclusione sociale e l’aiuto a famiglie in difficoltà, ha ripreso un suo progetto di successo di circa 20 anni fa ed ha rimesso in scena il Musical sulla storia di Madre Teresa, con il quale – tra il 2005 e il 2007 – aveva girato l’Italia. La regia di questa edizione è stata affidata al bravissimo Francesco Sala, le coreografie invece ora come allora sono opera di Rossana Longo. Nuovo il cast: cantanti, attori e ballerini, immutata la passione e l’entusiasmo con cui si è allestito lo spettacolo.
Un racconto in musica, dunque, che mette al centro dello spettacolo, del tutto in primo piano, le parole di Madre Teresa di Calcutta, che ha dedicato la sua esistenza ai poveri e agli emarginati. Concretezza assoluta nel quotidiano, piglio assai deciso e pratico, preghiera e azione all’unisono, ma anche l’esperienza dello sconforto, della sofferenza, di paure e timori: questi gli ingredienti che vengono portati sapientemente sul palco da un ricco cast di attori, cantanti e ballerini.
Tutti insieme danno vita e ripercorrono alcuni momenti – decisivi momenti – dell’opera missionaria di Madre Teresa. In uno spazio epico da bassofondo dove regna la povertà, la fame e la malattia, i suoi gesti, le sue preghiere diventano canto e danza, le sue parole si “incarnano” nella voce e nei corpi degli attori-danzatori. E tutto assume un’altra luce.
Il regista Sala sottolinea come: il Teatro abbia la capacità di portarci “al risveglio della coscienza”, facendoci riflettere, magari anche con leggerezza, su temi gravi come il dramma della povertà e della malattia. E prosegue: “Ci auguriamo che la vita della Santa di Calcutta possa essere di ispirazione e di esempio per le nuove generazioni, per consentire loro di aprirsi ad una vita più vera, che non può essere quella mediata dai social o da uno smartphone, e possa davvero aiutarle a scoprire il miracolo delle piccole cose vissute con gioia, semplicità e condivisione”.
Regia Francesco Sala – Coreografie Rossana Longo
Cast:
Madre Teresa: Aurora Ghidini
Suor Bettina: Laura De Angelis
Mister Adams: Francesco Sala
Capo Brahmini/malato: Fabio Fois
Volontario: Andrea De Bruyn
Donna indiana povera/Peccatrice: Erica Tuzzi
Donna indiana ricca/Suorina: Gea Catania
Giornalista pazzo: Fabrizio Damiani
Malato/presentatore: Pietro Mosso
Suorina: Flavia Fiorini
Corpo di ballo formato dagli allievi del Centro studi danza Classica di Roma:
Giuliana Bruno-Rovine con vista Napoli e il cinema di Elvira Notari-
Quodlibet Studio-Editore-Macerata-Roma
Descrizione del libro di Giuliana Bruno-Una grande città, Napoli – con le sue strade, le sue vedute, il suo universo iconografico, la sua vocazione filmica – guardata a distanza di anni attraverso gli occhi di due donne.
Elvira Coda Notari (1875-1946), la prima e più prolifica cineasta italiana, tra il 1906 e il 1930 realizza più di sessanta lungometraggi, un centinaio di corti di «attualità» e numerosi brevi documentari commissionati da emigrati napoletani trasferiti in America, finché la censura fascista e la transizione al sonoro costringono la sua casa di produzione, la Dora Film, a cessare le attività.
Giuliana Bruno, napoletana, si trasferisce a New York negli anni Ottanta e lì inizia a ricostruire un momento particolare della storia della sua città di origine; quello in cui, insieme al cinema, nasceva la modernità, con i suoi innovativi linguaggi di movimento, i nuovi mezzi di trasporto, le gallerie o passages e le altre trasformazioni tecnologiche e urbanistiche che rivoluzionarono le modalità della percezione tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
A partire da frammenti filmici, fotogrammi, copioni e scritti emersi da una lunga ricerca d’archivio condotta in Italia e negli Stati Uniti tra quanto è rimasto a documentare la pionieristica opera di Elvira Notari e della Dora Film, Rovine con vista fa propria la visione del mondo di una regista dimenticata, che con la sua cinepresa ha cercato di catturare la città e le sue forme di vita «dal vero». Ne deriva una ricognizione trasversale che coinvolge il cinema e la fotografia, la letteratura e la storia dell’arte, la cultura popolare, i palcoscenici, le riviste, l’architettura e la storia della medicina.
«Un bellissimo libro… Rovine con vista può essere letto come racconto di un viaggio. Ci si mette in movimento e si seguono due piste: una, rigorosa e preziosissima, è la accurata ricostruzione analitica del cinema di Elvira Notari. L’altra, appena dissimulata da un filtro critico “alto” ma non impervio, è la tensione personale della donna che ha scritto il libro. Parlando da regista, è come se adesso esistesse un testo che potrebbe persino invitarmi alla trasposizione cinematografica, cioè a un impossibile remake, di un film che di fatto nessuno può più vedere. Oltre che per il suo impegno critico, è di questa tensione creativa e vitale che sono grato a Giuliana».
— Mario Martone
Indice
Premessa all’edizione italiana
Ringraziamenti
Introduzione. Coordinate di una ricerca
Parte prima. Elvira Coda Notari e il cinema napoletano: panorama storico
1. Problemi di storia e di cinema nella cultura italiana
2. Riviste di cinema e storiografia filmica
Parte seconda. Cinema su sfondo urbano: topoanalisi della spettatorialità
3. Passeggiando attorno alla caverna di Platone, ovvero l’inconscio ha trovato casa
4. Incorporamenti spettatoriali: anatomie del visibile e corpo-paesaggio femminile
Parte terza. La fabbrica della cultura cinematografica
5. Dora Film: una casa di produzione cittadina
6. Donne al lavoro: la manifattura filmica
7. La Dora Film d’America: donne ed emigranti nel sogno americano
8. Censura: tagliare le ali al desiderio
Parte quarta. Il tessuto metropolitano
9. Frammenti di un discorso analitico: lacune
10. L’architettura del melodramma pubblico: la corporeità della strada
11. Tra festa e legge: la carnevalizzazione del racconto
12. Vedute urbane: città-paesaggio cinematografica, prospettiva artistica e viaggio turistico
Parte quinta. Geografie femminili
13. Anatomia di un’analisi. Il noir d’autore
14. Cinema popolare e letteratura delle donne: il transito del discorso femminile
15. Figure della medicina: isteria e lezione d’anatomia
16. Topografie di oscuri piaceri femminili
17. Scritto sul corpo: erotismo, morte e agiografia
Postfazione. La mappa in rovina, riconnessa
Filmografia
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
Giuliana Bruno-Rovine con vista-
L’autore-Giuliana Bruno
Giuliana Bruno, nata a Napoli, vive a New York. È titolare della cattedra di Visual and Environmental Studies alla Harvard University ed è nota a livello internazionale per la sua ricerca che esplora le intersezioni tra arti visive, architettura e media. Con Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Bruno Mondadori, 2006; Johan & Levi, 2015) ha introdotto la categoria interpretativa della «geografia emozionale» e ha vinto il Premio Kraszna-Krausz per il miglior libro sulle immagini in movimento. Tra i suoi volumi si ricordano Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (Bruno Mondadori, 2009) e Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (Johan & Levi, 2016). Il suo ultimo libro è Atmospheres of Projection. Environmentality in Art and Screen Media (University of Chicago Press, 2022). Nel 2020 è stata insignita di un dottorato honoris causa dall’Institute for Doctoral Studies in the Visual Arts.
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