Torri piezometriche-Serbatori Idrici della Campagna Romana-Franco Leggeri Fotoreportage-Le prime torri piezometriche si fanno risalire all’Impero Romano, poiché la loro funzione, oltre ad avere un serbatoio come riserva per l’accumulo di acqua, è quella di, naturalmente, compensare la rete idrica in particolar modo lavorando per vasi comunicanti, proprio per ottenere una maggiore pressione nelle condutture rispetto alla pressione nella rete urbana dell’acquedotto.Negli schemi acquedottistici, spesso sono necessarie le torri piezometriche: in pratica sono delle vere e proprie “torri” composte da un serbatoio sollevato da terra grazie a tralicci, i quali possono essere in metallo o, molto più spesso, in muratura.Dal libro:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana di Franco Leggeri.Foto Gallery dei Serbatori Idrici della Campagna Romana- Nord-Ovest–Castel di Guido-Residenza Aurelia di Castel di Guido- Borgo di Testa di Lepre- Serbatorio di Cecanibbio-
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
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