LIETTA TORNABUONI giornalista e critica cinematografica.
LIETTA TORNABUONI
Lietta Tornabuoni-Nata a Pisa da un’antica famiglia aristocratica, iniziò la carriera giornalistica nel 1949 al settimanale “Noi Donne”. Nel 1956 collaborò con Novella ed in seguito con L’espresso, L’Europeo, La Stampa e Il Corriere della Sera. Oltre che cronista e critica cinematografica, pubblicò libri sul cinema e la televisione. Si legò in particolare a Torino, come inviata del quotidiano torinese La Stampa, il Torino Film Festival e le numerose iniziative del Museo nazionale del Cinema e le principali attività cinematografiche della città. Era sorella del pittore Lorenzo Tornabuoni
LIETTA TORNABUONI
Aveva cominciato la professione nel 1949 a «Noi Donne», il settimanale dell’Udi, passando nel 1956 a «Novella», poi all’«Espresso»e all’«Europeo». Alla Stampa era arrivata nel 1970, dove ha continuato a lavorare fino a oggi, tranne un breve intervallo dal 1975 al 1978 al «Corriere della sera». Tra i suoi libri: «Sorelle d’Italia», «Album di famiglia della tv», «Era Cinecittà», dove raccontava la “grande famiglia” del cinema, e l’annuale appuntamento di «Al cinema», il volume che periodicamente raccoglieva le sue recensioni.
LIETTA TORNABUONI
Raffaella Silipo di lei disse “Era critico cinematografico del nostro giornale: le sue recensioni asciutte e puntuali coglievano sempre il senso profondo dei film. Non si faceva problemi ad alternare il mestiere del critico a quello del cronista, guardava la realtà con curiosità inesausta e affettuoso disincanto, senso dell’umorismo tutto toscano e severo rigore sabaudo, prima di tutto con se stessa. Una gran signora del giornalismo italiano.”
LIETTA TORNABUONI
Completa il suo ritratto Donata Righetti: “Lietta con il suo volto da madonna toscana, l’antica bellezza appesantita e l’instancabile presenza era una figura inconfondibile ai grandi eventi di cronaca e ai festival del cinema. Ammirata e anche temuta dai colleghi come concorrente imbattibile. Nei suoi articoli assente quel “colore” che capi e capetti delle redazioni esigevano per pigrizia dalle inviate, niente merletti di parole ma una prosa limpida, necessaria, elegante. Ogni fatto, ogni particolare, ogni nome controllati con implacabile precisione.” (Donata Righetti)
LIETTA TORNABUONI
Nel mese di dicembre del 2010 Lietta fu ricoverata al Policlinico Umberto I di Roma per una caduta, muore l’11 gennaio a 79 anni.
Arbasino è autore di difficile approccio, nessuno lo nega. Eppure occorre dare qualche “dritta” per introdurre al suo universo mentale letterario i lettori curiosi e volenterosi fino ad ora respinti dalla sua prosa fiammeggiante – spesso un cumulo di riferimenti eruditi, una fantasmagoria di citazioni, di allusioni, di rimandi alla “Enciclopedia” direbbe l’Umberto Eco di “Lector in fabula”.
Innanzi tutto c’è l’obiezione di fondo dell’Arbasino “romanziere”, e allo stesso tempo critico, che si legge in “Fratelli d’Italia” (edizione1993) ma che era già scritta in “Certi romanzi” nella mia edizione del 1976 acquistata qualche anno dopo dai bouquinistes pontremolesi di piazza Cavour a Milano: «Fare oggi un romanzo tradizionale “e” contemporaneo ha lo stesso senso che conquistare oggi l’Eritrea e fondare oggi la Fiat!». Il romanzo finito e rifinito è per lui un prodotto di un’epoca passata, come le colonne doriche ai tempi dei Dori o le strutture in acciaio ai tempi della Tour Eiffel, che si può fare o “rifare” solo in maniera parodica o facendogli il verso oppure mettendolo tra mille virgolette come il “camp” di Susan Sontang, ossia assumerlo come forma perenta e nello stesso tempo smontandolo avvertendone in qualche modo il lettore con tutta la consapevolezza critica. Oppure mettendo in onesta avvertenza il cartiglio immaginario: «Caro lettore lo so che tu vai in giro con “Waze”, ma io sono affezionato alle care, vetuste e pieghevoli “Falkplan” d’antan, eh sì, lo so, e ci faccio pure il verso. E lasciami divertire…».
Questa sua visione Arbasino l’aveva annunciata anche in un volume saggistico, che com’era sua abitudine, riscrisse diverse volte. Si tratta di “Certi romanzi” che è una ricostruzione delle trasformazioni interne del genere romanzesco nei decenni che vanno da Flaubert a Musil. (Il saggio contiene anche un godibilissimo scritto “La Belle Époque per le scuole” e “Genius loci”, su Gadda). Tesi centrale: da un lato
l’avversione profonda che Arbasino nutre per i romanzi tradizionali, con tutti i personaggi al loro posto, un capo, una coda, e alla fine i protagonisti che si sposano oppure muoiono, come nei film di Hollywood degli anni Trenta; e, dall’altro lato:
«una sfrenata predilezione per il romanzo che tenta di mimare in tutti i suoi piani i molteplici piani della realtà servendosi di strumenti espressivi molto eterogenei, narrativa e saggistica, tragedia e farsa, ideologia e scurrilità, frou-frou allucinante, divavagazioni dissennate, eruditi elenchi, bric-à-brac mondano. È la linea ironica, enciclopedica e apparentemente delirante
di Petronio, Rabelais, Cervantes, Proust, Musil, Joyce , Gadda. La vera follia è quella di chi, come Gide, pretendeva di sostenere che il romanzo “puro”, il romanzo-romanzo, alla
Benjamin Constant e alla Jane Austen sia più nobile delle intemperanze di Cervantes, di Sterne o di Musil; e in base a questo criterio giudica fallito il “Bouvard e Pécuchet” rispetto alla “Princesse de Clèves” o “L’Adalgisa” di Gadda rispetto al “Gattopardo” di Lampedusa». [Leggo questa chiarissima dichiarazione di poetica di Arbasino nel libro “Lo scrittore e il potere” di Nello Ajello, Laterza 1974, che riporta un colloquio di quel formidabile giornalista culturale che fu Ajello con lo stesso Arbasino in “L’Espresso” del 19 aprile 1964].
La visione stilistica di Arbasino è molto simile a quella del Fellini di “8 e 1/2”: una coscienza centrale più che un vero e proprio personaggio protagonista – il meraviglioso Marcello-, e tutt’intorno a lui un viavai di personaggi che gli tagliano il passo o attraversano la scena in un vortice di bon mot, sentenze solenni, parlottio in sottofondo, primi piani di suore e di monsignori, campi lunghi, rifrazioni, dissolvenze, un’opera insomma in cui secondo Arbasino «risuona la risata dei due ilari castori: Bouvard e Pécuchet».
Certo, oggi c’è chi narra in memoir e in autofiction, volendo usare i termini correnti, la morte del babbo o la propria formazione in realtà rionali e periferiche, con le modalità “tradizionali “- le vecchie “Falkplan” ovvero i plot basici tipo “Isso, Issa e ‘o Malamente – nella convinzione (beata inconsapevolezza!) che lo statuto narrativo sia rimasto invariato dai tempi di Omero e dei cantastorie, e perciò “ci dà dentro” con lo zumpampà della Marchesa che uscì alle cinque, e che fatalmente annuì, commentò, replicò, berciò, senza alcuna malizia stilistica, né sovrappensieri redazionali, né ardimenti espositivi del plot, ma con tutte le sue robine a posto, le “storie” finite e rifinite – buttate giù magari grazie a corsi di scrittura creativa e con l’aiutino di editor che mettono a tutti i manoscritti lo stesso pigiamino a righe – senza minimamente valutare l’opzione Arbasino, e rischiando di invadere nuovamente oggi l’Eritrea o rifondare oggi la Fiat.
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