In occasione del centenario della morte, la mostra rende omaggio al deputato e segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, figura centrale per la storia del ‘900, ripercorrendone la vita, il cammino politico e la drammatica fine.
L’esposizione ripercorre la vita del leader socialista, deputato e segretario del Partito Socialista Unitario (Psu), dagli esordi giovanili all’affermazione nazionale, dalle battaglie per la democrazia all’opposizione al fascismo, di cui aveva compreso fra i primi la natura totalitaria, fino al brutale omicidio perpetrato dal regime mussoliniano.
Con la profonda dignità e l’alto senso civico dimostrati in un tragico momento della nostra storia, Matteotti è diventato l’archetipo dell’avversario tenace e incorruttibile del fascismo. Un esempio il suo, animato da un solido imperativo morale e da un forte slancio civile, che ancora interroga la vita politica e culturale del nostro Paese.
Forte dell’autorevolezza delle istituzioni coinvolte e ricca di materiali inediti, la rassegna annovera documenti originali – con particolare riferimento agli atti istruttori e giudiziari, mai mostrati in precedenza, che sostanziano il percorso interpretativo – tra fotografie, manoscritti, oggetti, libri d’epoca, articoli di giornali e riviste, filmati e documentari, opere d’arte, sculture, ceramiche, quadri, nonché brani musicali dedicati al leader politico.
L’esposizione è suddivisa in quattro sezioni, che ripercorrono la vita di Matteotti e il drammatico passaggio dallo Stato liberale alla dittatura fascista.
La sezione Il giovane Matteotti registra l’impegno in Polesine a favore di braccianti e mezzadri, la carriera accademica, l’attività pubblicistica per “La Lotta”, l’adesione al Partito Socialista.
Quella sull’Impegno politico nazionale 1919-1924, ne distingue l’attività parlamentare, l’azione politica contro il fascismo, considerato da subito un pericolo mortale per le istituzioni democratiche, e gli squadristi, intesi quale “guardia bianca” degli interessi agrari e dei “collaborazionisti”, in seno al neonato Psu di cui è segretario.
La sezione Sequestro e morte 1924-1926, partendo dall’affermazione alle elezioni del 1924 del Psu quale partito più forte della sinistra, include il celebre discorso del 30 maggio 1924 in Parlamento contro i brogli e le violenze dei fascisti, fino al sequestro di cui fu vittima il 10 giugno 1924 a Roma, all’assassinio, al ritrovamento del cadavere il successivo 16 agosto e al processo-farsa di Chieti.
Infine la sezione Il mito di Matteotti, focalizza il lascito fattuale e ideale del politico, dalle commemorazioni alle Brigate Matteotti fino alla perdurante residenza nell’immaginario collettivo perché, come lui stesso ebbe a dire: “Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… La mia idea non muore”.
L’intento della mostra è quello di restituire al grande pubblico il valore di uno dei padri della nostra democrazia e di far conoscere alle nuove generazioni, con approfondimenti multimediali, iniziative formative e linguaggio immediato, un politico e intellettuale di notevole valore.
“Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia” è corredata dal catalogo edito da Treccani che, recependo contributi iconografici inediti e preziose testimonianze, contempla origini, attivi Informazioni
Luogo
Museo di Roma
Orario
dal 1° marzo al 16 giugno 2024
dal martedì alla domenica ore 10.00-19.00
Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura Giorni di chiusura
Lunedì, 1 maggio
Biglietto d’ingresso
Biglietto di ingresso secondo la tariffazione vigente
Biglietto ridotto SOLO mostra per i possessori di MIC card
Sotto il patrocinio del Ministero della Cultura, con la presenza di Banca Ifis in qualità di main partner, con il contributo di Camera di Commercio di Roma e la partecipazione di Archivio Storico Luce, Rai Teche, Fondazione Pietro Nenni e AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.
La mostra si pregia, inoltre, degli importanti prestiti di Fondazione Pietro Nenni, Archivio di Stato di Roma, Archivio Centrale dello Stato, Archivio Storico della Camera dei Deputati, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Accademia dei Concordi, Archivio Marco Steiner.
Tipo
Mostra
Curatore
Mauro Canali
Breve Biografia di GIACOMO MATTEOTTI
Uomo politico italiano (Fratta Polesine 1885 – Roma 1924). Più volte deputato, fu segretario del Partito socialista unitario (1922). Convinto antifascista, fu ucciso in seguito alla denuncia che aveva fatto dei brogli commessi dai fascisti durante le elezioni del 1924. Il suo assassinio costituì il prodromo della soppressione del regime parlamentare.
Vita e attività
Di formazione giuridica, si dedicò dal 1910 quasi esclusivamente all’attività politica nella corrente riformista del Partito socialista. Nel Polesine operò per la costituzione di camere del lavoro e cooperative e per l’incremento dell’attività socialista negli enti locali. Contrario all’intervento, nel dopoguerra consigliere provinciale a Rovigo e dirigente della Lega dei comuni socialisti, fu tra gli organizzatori delle lotte bracciantili per il collocamento e l’imponibile della manodopera. Venne eletto alla Camera nel 1919, 1921 e 1924; come parlamentare sostenne la riforma agraria e la polemica antiprotezionistica, mentre, testimone degli esordî dello squadrismo padano, maturava un antifascismo senza cedimenti. Dopo l’espulsione dei riformisti dal PSI e la nascita del Partito socialista unitario, nel 1922, fu eletto all’unanimità segretario della nuova formazione. Il 30 maggio 1924, alla riapertura della Camera, tenne il famoso discorso che denunciava le violenze e i brogli commessi dai fascisti nella recente campagna elettorale; aggredito e rapito il 10 giugno successivo da sicarî fascisti, il suo cadavere fu ritrovato due mesi più tardi. La sua morte, la cui responsabilità, quanto meno politica, era palesemente attribuibile al PNF e allo stesso Mussolini, provocò la grave crisi politico-parlamentare culminata nella secessione dell’Aventino e conclusasi con il discorso di Mussolini del 3 genn. 1925. I sicarî furono processati nel 1926, condannati a pene nominali e presto rilasciati; nuovamente processati nel 1947, furono condannati a pene più severe.
Con un articolo e un discorso di Claudio Treves,a cura di Giovanni Scirocco
BIBLION EDIZIONI
Dalla Presentazione di Paolo Bagnoli: «È passato un secolo dal discorso che Filippo Turati tenne alla Camera il 26 giugno 1920, comunemente conosciuto con il titolo Rifare l’Italia!. Di esso, nel corso degli anni, sono state riproposte diverse edizioni. Si tratta di un intervento rilevante, praticamente un vero e proprio saggio sulla situazione dell’Italia a meno di due anni dalla fine della guerra; un testo che Turati aveva a lungo meditato e che espose alla Camera confermando di essere un grande oratore […]. Spicca il richiamo che Turati fa alla funzione nazionale del socialismo. Esso, ora, viene concepito non solo quale forza di difesa e di organizzazione del proletariato, della sua lotta per l’emancipazione dei ceti più deboli e per il loro riscatto civile e sociale, ma quale forza di governo».
«Filippo Turati», come scrive un suo biografo, «è stato l’uomo politico che ha maggiormente inciso sulla storia del Partito socialista italiano. Il ruolo di maggior leader del socialismo nel nostro Paese è infatti indiscutibile sino al 1911; controverso ma comunque notevolissimo, sino al 1918; sempre molto importante sino al 1922; rilevante, soprattutto da un punto di vista intellettuale morale, prima ancora che politico, dal 1922 al 1932» (Franco Livorsi).
Dal moderatismo al radicalismo
Nato in un piccolo paese della Brianza dalla gentildonna Adele di Giovanni e da Pietro Turati, commissario distrettuale legato alla Destra storica, Filippo deve seguire il padre nei vari trasferimenti ai quali è costretto dalla carriera burocratica, da Mantova a San Remo, Forlì, Napoli, Pavia, Siracusa e Cremona dove diventa prefetto a partire dal 1873, senza che questo vagabondaggio gli impedisca di frequentare con profitto un regolare corso di studi. Dall’educazione familiare deriva un profondo legame con la tradizione risorgimentale e una certa impronta moderata da lui stesso sottolineata: «Io sono figlio di un prefetto, e probabilmente un certo lievito burocratico mi è rimasto nel sangue».
Determinanti, nell’orientarlo verso posizioni democratiche, sono le amicizie scolastiche, prima con Leonida Bissolati (1857-1920), compagno di liceo insieme al quale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia e si trasferisce dopo il biennio a Bologna; poi con Achille Loria (1857 – 1943) e con Enrico Ferri (18561929), incontrati all’ateneo bolognese. Qui si laurea a pieni voti nel 1877 con una tesi di economia politica; agli studi affianca la passione per la poesia; comporrà opere (Disordine, Il Mago, Credo) che saranno pubblicate nel 1878 su varie riviste.
Nello stesso periodo matura il graduale trapasso da un vago teismo spiritualista al positivismo, anche per l’influenza di Arcangelo Ghisieri (1855- 1938), cui si avvicina nel 1878 diventando presto redattore dei due fogli radicali da lui diretti («Preludio» e «Rivista repubblicana») mentre collabora con la rivista scapigliata milanese «La farfalla» e approfondisce lo studio del positivismo aderendo alla tesi del filosofo Roberto Ardigò (1828-1920) e del criminologo determinista Cesare Lombroso (1835-1909). A un crescente interesse per l’impegno sociale si alternano in questa fase una costante attrazione per la produzione poetica e la traduzione di canti popolari (Fiori del Nord, Fiori del Sud), e una preponderante attenzione al proprio privato, aggravata anche da una forma di nevrosi che lo porta alla depressione e lo spinge talora a coltivare idee di suicidio.
Solo nel 1882-83, Turati, che in questi anni gira l’Europa per cercare psichiatri in grado di curarlo, supera la propria crisi personale intensificando l’impegno politico, preannunciato alla fine del 1882 sul settimanale socialista «La Plebe» dal saggio Il delittoe la questione sociale, nel quale Turati difende le tesi lombrosiane contro i sostenitori del libero arbitrio, definito «una fola da donnicciole», e mette l’accento sui condizionamenti sociali (e non solo biologici) del comportamento criminale. Ciò segna anche il congedo ufficiale dalla poesia, sancito dalla raccolta in volume delle poesie giovanili e da un ultimo volume di traduzioni (Canti popolari slavi, greci e napoletani 1883), benché Turati continui a scrivere versi ancora per diversi anni, componendo fra l’altro, nel 1886, il Canto dei lavoratori, Inno delPartito Operaio Italiano.
L’adesione al socialismo
In questi anni, tuttavia, Turati non si discosta dalle posizioni radicali e democratiche, pur manifestandosi aperto alle idee del nascente movimento socialista italiano. Solo il deludente comportamento della Sinistra e l’immobilismo dell’Associazione democratica cui aderisce, lo spingono nel 1886 a caldeggiare un’alleanza elettorale col Partito operaio italiano di cui assume la difesa legale dopo lo scioglimento deciso da Depretis (1886) e favoriscono una sua graduale evoluzione verso posizioni socialiste e marxiste. A questa maturazione concorre in larga misura la socialista russa Anna Kuliscioff, da tempo attiva in Italia che diventa nel 1885 fedele compagna di Turati e lo mette in relazione con la socialdemocrazia europea.
Il socialismo e il marxismo di Turati hanno d’altra parte una forte impronta riformista, che resterà una costante della sua politica portandolo ad avversare l’anarchismo e il socialismo rivoluzionario e a ricercare invece sempre l’alleanza con le forze democratico-borghesi. Lo confermano nel 1889, la sua elezione a consigliere comunale di Milano con l’appoggio dei radicali e il programma della Lega socialista, da lui costituita nello stesso anno e rappresentata tramite Andrea Costa al congresso di fondazione della II Internazionale.
Si deve anzi a Turati, al suo infaticabile impegno organizzativo e alla sua notevole influenza culturale, l’instaurarsi in Italia di una tradizione socialista che, pur riferendosi al marxismo, deriva dal positivismo* una visione evolutiva e gradualista dei processi politiche e sociali. Al diffondersi di questa ideologia Turati contribuisce soprattutto con la sua rivista «Cuore e critica», rilevata da Arcangelo Ghisleri nel 1890, trasformata nel 1891 in «Critica sociale» e che presto diventerà, «per opera sua e della Kuliscioff, il centro di raccolta e di organizzazione della nuova cultura socialista e rimarrà il più autorevole organo teorico e politico del movimento socialista italiano» (Gaetano Arfé).
La scelta riformista
Nel 1892 Turati, che ha già una posizione politica di rilievo, collabora alla stesura del programma su cui nasce a Genova il Partito socialista italiano* ed è fra i più decisi sostenitori della rottura con gli anarchici in polemica con quanti coltivano «l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti». In questa fase, segnata da una profonda crisi politica e sociale, dall’inasprirsi dei conflitti di classe e dalla repressione del movimento operaio, egli sembra assumere un atteggiamento più intransigente verso la borghesia, giudicata nel suo insieme «massa reazionaria», attacca aspramente Crispi e insiste sulla necessaria autonomia politica del nuovo partito facendo prevalere nel Congresso di Reggio Emilia (1893) il rifiuto di ogni alleanza elettorale coi radicali.
Ma dopo la sconfitta dei Fasci siciliani e lo scioglimento del Partito socialista torna in evidenza e riceve anzi più precisa formulazione il sostanziale riformismo di Turati che, nel 1894, aderisce coi socialisti milanesi alla «Lega per la difesa della libertà» creata dal radicale Felice Cavallotti (1842-98) e scrive il saggio I sobillatori, teorizzando il passaggio al socialismo come processo realizzabile solo grazie all’azione di una élite intellettuale. Alla sfiducia nell’azione di massa si associa la persuasione che i socialisti debbano stabilire una intesa organica con le forze borghesi disponibili a una politica di riforme democratiche.
Questa tesi, minoritaria al congresso clandestino di Parma del 1895, è all’origine della rottura con lo stesso Engels e porta all’isolamento politico di Turati, nuovamente battuto al congresso di Firenze del 1896, quando il P.S.I. torna alla legalità. Ma le elezioni dello stesso anno lo vedono per la prima volta deputato e il suo nome appare spesso sull’«Avanti!» diretto da Leonida Bissolati, che è su posizioni ancora più decisamente riformiste. Al congresso di Bologna del 1897, Turati è messo in minoranza per soli sei voti e la sua linea ispira di fatto il comportamento del partito come testimoniano i tumulti del 1898 a Milano contro il carovita.
Il P.S.I. vi reagisce esortando alla calma, cercando di dissuadere i manifestanti dalle dimostrazioni di protesta e adottando la turatiana «propaganda contro l’insurrezione» anche dopo il sanguinoso intervento dell’esercito, l’arresto dei dirigenti socialisti e lo scioglimento del partito e della C.G.L., tornati alla legalità solo nel 1900. Turati, pur essendosi adoperato per sedare i tumulti, viene arrestato, condannato a dodici anni e liberato dopo un anno solo grazie all’indulto; egli attribuisce la strage «più alle autorità di Milano che al governo di Rudinì, forse nel tentativo di trovare un compromesso con lo stesso di Rudinì nell’ora della massima repressione antisocialista» (Livorsi). Dai fatti di Milano trae anzi motivo per ribadire la necessità di «rivoluzioni lente e pacifiche» e di un’intesa con i liberali democratici facenti capo a Giolitti.
Tale intesa si realizza già nel 1899 quando Turati, rieletto nel collegio di Milano, e gli altri deputati socialisti, conducono insieme ai giolittiani una dura battaglia ostruzionistica contro il nuovo regolamento parlamentare autoritario imposto dal governo Pelloux e contribuiscono poi alla sua caduta (giugno 1900), che apre la strada ai ministeri di Saracco (1901) Zanardelli (1901-03), e Giolitti (1903-14). Poco dopo Turati conferma «il contrasto ormai insanabile tra socialismo evolutivo e linea della violenza rivoluzionaria, oltre che tra socialismo e anarchismo» (Livorsi), deplorando nel discorso alla camera l’uccisione di Umberto I* a opera dell’anarchico Gaetano Bresci e rifiutando di assumere perfino la sua difesa legale per non ingenerare equivoci.
Al prevalere delle posizioni di Turati contribuisce intanto il diffondersi in seno al socialismo europeo del revisionismo del tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), che ritiene una utopia sprovvista di ogni fondamento l’idea marxista di una trasformazione integrale della società e riduce la battaglia socialista a una lotta per le riforme, da condurre per via democratica e parlamentare. È questa anche l’opinione di Turati benché egli si prefigga come obiettivo finale, contrariamente a Bernstein o a Bissolati il socialismo. «Noi siamo sicuri colla via legale di acquistare i pubblici poteri», egli aveva detto già nel 1898 condannando le rivolte come «rovina del partito e della causa del proletariato».
Dalla vittoria alla crisi del riformismo
Il congresso di Roma del settembre 1900 sancisce la vittoria di Turati e della Kuliscioff; essi conquistano alle tesi riformiste la grande maggioranza del P.S.I. con l’appoggio di Claudio Treves (1869-1933), Giuseppe Modigliani (1872 – 1947) e molti altri dirigenti socialisti, sconfiggendo la sinistra, da tempo rappresentata dall’amico di gioventù di Turati, Enrico Ferri, e da Costantino Lazzari (18571927). Anche il settimanale «Lotta di classe», diretto da quest’ultimo, passa sotto il controllo dei turatiani col nome di «Azione socialista». Diventa così possibile trasformare il P.S.I. in un interlocutore privilegiato di Giolitti, che da parte sua mira a rafforzare lo stato liberale integrando nel sistema di governo i socialisti riformisti e i cattolici liberali, in cambio del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori o di un’attenuazione del vecchio anticlericalismo.
Secondo Turati «il liberalismo giolittiano, espressione di una moderna borghesia al passo con l’evoluzione dei tempi, poteva favorire, in dialettico civile antagonismo con il movimento operaio» (Arfé) una trasformazione democratica della società, dando sempre maggiori spazi al movimento di classe e conducendo gradualmente al socialismo. Questa visione e questa pratica collaborativa, impostesi nel P.S.I. non senza forti resistenze della sinistra, entrano però in crisi di fronte alla politica coloniale di Giolitti e alla guerra contro la Libia, intrapresa nel 1912. L’impresa, palesemente contrastante con la linea pacifista e antimperialista del P.S.I, è condannata dallo stesso Turati ma trova il consenso della frazione di destra guidata da Bissolati, che viene espulsa. Ciò indebolisce i riformisti anche perché la vicenda sembra confermare la tesi della sinistra, secondo cui non è possibile una collaborazione con i partiti borghesi.
Nel congresso di Reggio Emilia del 1912 Turati è nuovamente posto in minoranza e la sua posizione si indebolisce ancor più durante la Prima Guerra mondiale, benché tale avvenimento laceri profondamente anche la sinistra del partito, dalle cui file provengono il direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini e altri esponenti del più acceso interventismo nazionalista. Essi vengono espulsi e l’unità del partito si ricompone sulla parola d’ordine «né aderire né sabotare» condivisa anche da Turati. Ma coi procedere della guerra egli inclina sempre più verso la solidarietà con la nazione in guerra («anche la nostra patria è sul Grappa») in contrasto con quanti condividono la tesi di Lenin secondo cui occorre sfruttare la guerra imperialista per innescare il processo rivoluzionario. Anche la recisa condanna del «terrore rivoluzionario» e del leninismo espressa da Turati e dalla Kuliscioff contribuisce a far declinare l’influenza del riformismo, posto seccamente in minoranza dai massimalisti nel congresso di Roma del 1918. Turati evita a stento una condanna e l’espulsione per i suoi discorsi «patriottici».
La nascita del P.C.I. e del P.S.U.
Nell’immediato dopoguerra l’acuirsi dei conflitti di classe, la tendenza della borghesia a rispondere con la repressione alle richieste operaie senza più tentare la strada del riformismo giolittiano, e l’esito della rivoluzione bolscevica, che offre l’esempio di un’insurrezione vittoriosa, rafforzano le tendenze di sinistra del P.S.I. Nel congresso di Bologna del 1919 Turati si trova ormai a capeggiare una minoranza piuttosto esigua benché influente in parlamento, nel campo dell’opinione e nel movimento sindacale. Proprio questa influenza dei riformisti, che si oppongono nel 1920 al movimento di occupazione delle fabbriche e restano legati alla II Internazionale di indirizzo antileninista, fa sì che sembri necessaria a molti la loro espulsione dal partito, richiesta da Lenin come condizione per accogliere il P.S.I. nella III Internazionale. Da principio tuttavia questa domanda non viene accolta e provoca anzi una scissione da sinistra nel congresso di Livorno del 1921, con la nascita del Partito comunista d’Italia d’obbedienza leninista.
Ciò peraltro non attenua i contrasti interni che paralizzano il partito, proprio mentre va dilagando lo squadrismo fascista e appare più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizza il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto con la direzione del P.S.I. che punta su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. Si arriva così al congresso di Bologna del 1922, che rende definitiva la rottura espellendo Turati e la sua corrente. Essi danno vita al Partito socialista unitario (P.S.U.), di cui è eletto segretario Giacomo Matteotti* e che si ispira al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari.
L’esilio
Negli anni successivi, coerente con la sua fede democratica e nei limiti di un’azione solo parlamentare, Turati conduce una energica battaglia contro gli aspetti illegali e illiberali del fascismo, pur nutrendo al pari di Giolitti e di altri esponenti borghesi l’illusione di una sua evoluzione. Egli oscilla «tra l’estrema opposizione e la speranza di democratizzazione del fascismo» (Livorsi), del quale fa un’analisi molto riduttiva ritenendolo causa di precapitalismo, arretratezza, reazione. Solo dopo il delitto Matteotti (1924), Turati accentua la sua opposizione al regime, sforzandosi di consolidare l’unità fra i partiti raccoltisi nell’Aventino e soprattutto tra riformisti e popolari.
Ma anche in questa circostanza rifiuta la proposta di uno sciopero generale contro il «governo degli assassini», avanzata dal P.C.I. e ribadisce il proposito di mantenere la lotta entro i binari della legalità, anche per non compromettere l’unità con gli antifascisti più moderati. Questo legalitarismo si risolve però in uno sterile attendismo e favorisce il definitivo affermarsi della dittatura che, con le leggi speciali (1925-26), liquida le opposizioni incarcerando o costringendo all’esilio i dirigenti antifascisti. Nel dicembre 1926 anche Turati, ormai quasi settantenne e senza l’appoggio di Anna Kuliscioff, scomparsa l’anno precedente, espatria clandestinamente grazie all’aiuto di alcuni giovani antifascisti fra cui Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini raggiungendo Parigi.
Qui ricostituisce il P. S. U . col nome di Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (P.S.U.L.I.) e continua la sua infaticabile attività politica. I suoi obiettivi di fondo restano l’unità dei partiti democratici, realizzata nel 1927 dando vita alla Concentrazione antifascista e assumendo la direzione del periodico «La libertà» e la riunificazione dei socialisti, raggiunta nel 1930 mediante la fusione del P.S.U.L.I. con il P.S.I. diretto da Pietro Nenni, due anni prima della morte. Nell’esilio Turati rivede inoltre la sua precedente analisi del fascismo, che vede adesso non come tipica manifestazione di situazioni arretrate ma come degenerazione sempre possibile del capitalismo, funzionale al suo dominio di classe.
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