ORVINIO SABINO -Carlo Magno e La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
Si pensa che l’origine della struttura di Santa Maria del Piano possa risalire al IX secolo, collegata ad una vittoria dell’esercito di Carlo Magno sui Saraceni nella pianura adiacente. Dopo un periodo di notevole dinamismo e operosità, quando i monaci benedettini, legati alla potente abbazia di Farfa, estendevano i loro possedimenti su diversi paesi dei dintorni, a partire dal ‘500 iniziò una lunga fase di declino e abbandono in cui il sito veniva frequentato solo per alcune celebrazioni e le consuetudini rurali.
Un uso temporaneo come cimitero durante l’800, sommato a ripetuti crolli e saccheggi che i vari restauri non sono riusciti ad arginare, hanno condotto all’aspetto attuale. Il monumento, per quanto affascinante e armonicamente inserito nel paesaggio, risulta ormai privo di molti elementi architettonici impiegati per la sua costruzione e provenienti da resti di edifici romani e medievali della zona (capitelli, stipiti, fregi, bassorilievi). E’ interessante notare come per questi materiali, che in gergo tecnico vengono definiti “di spoglio” perché derivano dallo smantellamento di qualcosa di preesistente, il destino tenda a ripetersi.
Oggi di proprietà dello Stato, fino agli anni ’70 la struttura era del Comune di Orvinio , anche se dal punto di vista amministrativo l’area ricade nel comune di Pozzaglia Sabino . In tempi remoti, fra gli abitanti di questi due paesi si sono accese diverse contese per il possesso dell’abbazia e delle sue terre.
ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
Pillole di storia
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Autore dell’Articolo-Avv. Paolo Amoroso.
Pozzaglia in Sabina -2 novembre 2015-Santa Maria in Valle è stato un monastero rurale benedettino oggi in rovina che si trova nel comune di Pozzaglia in Sabina sul limitare dell’esteso altopiano che costituisce il fondovalle del torrente Muzia, un insignificante ma perenne corso d’acqua tributario del Fosso Corese. Fondato probabilmente nel corso del X secolo, rimaneggiato ed ingrandito prima nel XIII secolo ed ancora nel trecento, quindi abbandonato all’inizio dell’ottocento ed infine utilizzato come cimitero fino al parziale restauro risalente alla metà del novecento, conserva i ruderi della chiesa conventuale dalla facciata a capanna risalente al secolo XI, torre campanaria ed abside duecenteschi.
La valle del torrente Muzia ben si prestava all’insediamento umano malgrado la sua altitudine – circa 700 metri sul livello del mare – sia già montana. Il fondovalle del torrente infatti è composto da un esteso altopiano solcato da ruscelli e punteggiato da collinette dai fianchi poco acclivi lungo i quali era semplice praticare l’agricoltura. Il terreno era ovunque morbido ed ubertoso, le vicine montagne offrivano abbondanti pascoli estivi nonché molto legname, l’altitudine proteggeva dalla malaria ed anche l’acqua era abbondante per tutto l’anno.
Anche se né l’ulivo né la vite riescono a crescere ad un’altitudine così elevata, i terreni pianeggianti del fondovalle potevano comunque essere utilizzati indifferentemente come pascoli invernali, impiego per il quale erano molto versati, oppure per la coltivazione di legumi, cereali minori e forse anche del grano mentre i poderi adiacenti al greto del torrente potevano essere adibiti ad orti senza particolari difficoltà e con buone rese. Tutte queste risorse garantivano con poco sforzo una produzione alimentare largamente superiore alle necessità di una piccola comunità monastica, ragione della prosperità dell’abbazia.
Altro vantaggio della Valle del Muzia era l’isolamento, che proteggeva chi ci viveva dai pericoli esterni, conseguenza dell’orografia molto accidentata della porzione orientale dei Monti Lucretili che la rende ancora oggi la loro parte meno popolata. Quando i monaci giunsero in quella contrada, in un momento per noi insondabile nel corso del X secolo, si stabilirono sulla cima di una collinetta bassa ma dai fianchi abbastanza ripidi, prossima al corso d’acqua, in un posto protetto dal vento e dai ladri, vicino all’acqua e non distante dai campi. Non sembra che temessero granché per la loro incolumità perché non risulta che abbiano fortificato, neppure debolmente, il luogo dove pure vivevano, circostanza che lascia supporre che i dintorni fossero al tempo completamente spopolati.
Appena qualche decennio dopo la sua fondazione e comunque non molto dopo l’anno mille, il cenobio raggiunse un livello di prosperità tale da potersi permettere il lusso di una grande chiesa conventuale in pietra ad una sola navata e con la facciata decorata in stile a capanna, che era quello in voga al tempo. Per tutto il XI secolo costruire edifici in pietra nelle campagne era un’impresa non banale: bisognava trovare personale capace di edificarli in un’epoca in cui i lavori edilizi erano infrequenti, convincerlo ad andare a lavorare in un posto comunque sperduto e disagevole, dargli da mangiare ed un riparo per i diversi anni necessari al completamento dell’opera quindi occorreva in qualche modo remunerare chi la costruiva.
La lavorazione della pietra coinvolgeva tante professionalità diverse: c’era il cavatore che estraeva il blocco dalla cava, lo scalpellino che rendeva i blocchi di dimensioni regolari, il facchino che li trasportava fino al cantiere, l’addetto alla fabbricazione della calce, che comunque doveva avvenire nei dintorni, ed il mastro che costruiva il muro pietra dopo pietra. Gli interni dovevano poi essere abbelliti e ciò richiedeva l’impiego di altri artigiani che dovevano essere anche loro trovati, convinti ad occuparsene quindi retribuiti.
Della chiesa edificata nel XI secolo altro non si è conservato che la facciata e non è chiaro se il suo perimetro ricalcasse quello dell’edificio duecentesco oggi visibile. Le dimensioni di ciò che ne resta, però, lasciano intendere che fosse una chiesa molto grande per gli standard del tempo, sicuramente molto più delle necessità della relativamente piccola comunità monastica che gli viveva intorno. Come sempre nel medioevo, la chiesa conventuale serviva ad ostentare la ricchezza del monastero molto più che come luogo di preghiera anche perché, così grande e non riscaldata, doveva essere anche molto fredda specie in inverno. In ogni caso, già nel XI secolo l’abbazia – che era indipendente da quella di Farfa con cui confinava – possedeva la quasi totalità dei terreni intorno e parecchi castelli nei dintorni, sintomo del suo non modesto benessere.
Il XIII secolo sembra sia stato il periodo d’oro del monastero anche se le fonti scritte sono scarse e lacunose. Nel 1219 un certo abate Lanfranco commissionò estesi lavori di restauro della chiesa conventuale che la portarono ad assomigliare a ciò che ne resta al giorno d’oggi. A questo periodo risale il campanile a pianta quadrata, il reperto di maggior pregio e meglio conservato del complesso. La torre, alta circa venti metri, si presenta divisa in due zone separate da una sottile cornice: quella inferiore priva di aperture ed una superiore con quattro ordini di finestre secondo la successione di monofore, bifore e di due piani di trifore.
Malgrado sia stata più volte danneggiata dai fulmini si presenta in discreto stato di conservazione e quasi intatta ad eccezione del tetto, mal ricostruito negli anni ’50. Sempre al duecento sembra risalga l’abside sopraelevato della chiesa che pure si è ben conservato. Costruito in pietra del luogo e rivestito di lastre regolari di buona fattura su cui era probabilmente steso l’intonaco poi affrescato, venne in seguito chiuso da un muro ben conservatosi, fornito di una porta e di una finestra dipinta probabilmente per puntellarne la struttura vistosamente pericolante.
Nulla resta del sottostante altare. L’unica navata era separata dall’abside da un largo transetto, quasi certamente duecentesco, che collegava la chiesa al retrostante convento, il cui tetto era sorretto da quattro grandi archi a sesto leggermente ribassato con ghiera a conci squadrati poggiati su tozze semicolonne dai capitelli di forme diverse, probabilmente materiale di spoglio. Sotto l’altare doveva essere presente una cripta, costruita in epoca ignota ed adibita fino alla metà dell’ottocento ad ossario, di cui resta un buco nel pavimento del transetto in corrispondenza del luogo in cui doveva trovarsi l’altare maggiore.
La chiesa subì ulteriori rimaneggiamenti nel corso del XIV secolo come testimoniano gli archi a sesto acuto che costituiscono gli architravi delle porte oggi murate ma ancora visibili lungo il suo perimetro. Il trecento, del resto, sembra sia stato un periodo ancora di prosperità per il monastero che è citato in due missive risalenti all’epoca del pontificato di Papa Giovanni XXII, inviate rispettivamente nel 1330 e nel 1333, tramite le quali all’abate di Santa Maria vengono affidati incarichi nel territorio della Sabina. Nel 1343 una visita apostolica elenca beni e proprietà dell’Abbazia e ne evidenzia la prospera situazione amministrativa.
Trenta anni dopo, nel 1373,
incarica da Avignone l’abate di San Lorenzo fuori le mura, di riportare all’ordine una serie di monasteri tra i quali spicca proprio l’Abbazia di Santa Maria del Piano. A partire dalla metà del quattrocento, la prosperità dell’abbazia si ridusse fortemente anche se non sono ben chiare le ragioni economiche di questo declino. Comunque, seppur lontano dai fasti del passato, il convento continuò ad essere abitato fino al tardo settecento, quando ancora vi viveva ancora un singolo eremita, e venne infine soppresso nel 1809 quando gli edifici che lo componevano erano ancora in buono stato di conservazione.
Nel 1855 Orvinio venne colpito da un’epidemia di colera ed in mancanza di un cimitero in cui inumare i morti si pensò di utilizzare a questo scopo il monastero ormai in abbandono. Per trasformarlo in un camposanto la struttura venne stravolta: furono infatti scardinate le porte, scoperchiato il tetto, divelto il mattonato e murato l’ingresso principale. Inoltre si procedette ad uno scavo continuato al di sotto del pavimento ed in tutta l’area del Monastero al fine di ricavare i loculi entro cui inumare i cadaveri.
Un secolo dopo, nel 1952, quando ormai l’abbazia era completamente in rovina, la chiesa di Santa Maria, unico edificio di cui si fosse conservato qualcosa, venne restaurata dalla sovrintendenza ai ben culturali con grandi spese per riportarla allo stato originario. In questa occasione furono anche disseppelliti i morti collocati dentro il monastero un secolo prima a cui venne data migliore sepoltura nel cimitero di Orvinio. Tuttavia, alla fine dei lavori il complesso venne di nuovo abbandonato senza nessuna sorveglianza né alcun tentativo di valorizzazione turistica peraltro difficile perché il luogo in cui si trova Santa Maria del Piano è indubbiamente molto sperduto.
Così, nel corso degli anni ’70, i ruderi dell’abbazia furono depredati di qualunque oggetto artistico potesse essere rimosso senza pregiudicare la stabilità dei muri superstiti fra cui il rosone duecentesco rubato nel 1979. Del monastero al giorno d’oggi resta poco o nulla, tranne forse alcuni muri di difficile lettura sul lato della chiesa sul quale si affaccia il campanile. Della chiesa si sono ben conservati i muri perimetrali, la facciata e l’abside mentre del transetto resta abbastanza poco. Peraltro, sono in corso lavori di restauro volti ad arrestare il degrado della struttura che vengono compiuti però con poca attenzione alla conservazione delle murature originali e con gusto artistico a volte molto discutibile.
L’autore dell’articolo è Paolo Amoroso, soprannominato Aioe fin da ragazzo, di professione Avvocato penalista, con la passione per l’aria aperta, la storia medievale e l’informatica.
La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
-Pillole di storia a cura di Franco Leggeri-
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia Sabina–Santa Maria del Piano-Bolla papale del XIII sec. Biblioteca DEA SABINA
Archivio di Stato di Rieti
UNA BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO NEL PATRIMONIO DEL NOSTRO ARCHIVIO
Il patrimonio dell’Archivio di Stato di Rieti
si arricchisce di un importante e antico documento. Si tratta di una bolla papale, una “lettera graziosa”, di Onorio III indirizzata all’abate di Santa Maria del Piano a Pozzaglia Sabina e risalente al 1218.
L’acquisizione al patrimonio dell’Archivio reatino è stata possibile grazie all’impegno congiunto della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e della Direzione generale archivi del Ministero della Cultura.
Tra alcuni giorni, dopo le necessarie fasi di catalogazione, il documento sarà disponibile per la consultazione al pubblico.
Da sottolineare, inoltre, la particolare importanza di questa bolla poiché coeva al periodo di massimo splendore dell’abbazia e che ci fornisce nuovi e utili dati sul medioevo nel territorio reatino.
ABBAZIA di FARFA- articolo del Prof.Fabrizio Sciaretta-
Lo confesso senza reticenze: scrivere di Farfa mi intimidisce, una sensazione che quando ho la penna in mano non mi capita mai. La paura è quella di non riuscire a spiegare il grande fascino che questo luogo esercita su di me. Nel cercare dentro al mio sentire il motivo ultimo di questa difficoltà, credo che la risposta sia in un fatto incontrovertibile: l’ Abbazia di Farfa è stata per secoli, nello stesso momento, luogo di santità e di potere, di preghiera e di comando.
Di Farfa mi affascina il VI secolo d.C. in cui sorge: l’impero romano era ormai crollato, disperso, e la civiltà che esso incarnava a rischio di sopravvivenza. Tra queste rovine fumanti, Farfa sorge e – come altre grandi Abbazie in Europa – diventa guida per una società che con le unghie ed i denti si oppone all’annientamento. Se non fosse stato per l’opera delle comunità monastiche ciò che abbiamo salvato delle civiltà greca e romana – che è tanto ma nel contempo solo una parte di quanto esse avevano prodotto – sarebbe probabilmente nulla o quasi e noi saremmo tutti infinitamente più poveri. Rapidamente l’ Abbazia di Farfa diviene potente anzi potentissima. E così coniuga la santità dei suoi fondatori (San Lorenzo Siro prima e San Tommaso da Moriana poi) con la mondanità del governo di un sistema economico ampio, complesso e territorialmente vastissimo. Ma è proprio quel potere economico che, nei secoli “bui”, le consente di difendere e diffondere la Parola di Dio, cioè la nostra stessa civiltà. Diviene addirittura Abbazia Imperiale, cioè sottoposta all’Imperatore e non al Papa (sebbene disti qualche ora di cavallo da Roma) e Carlo Magno – il grande “laico” a cui dobbiamo la rinascita dell’idea stessa di Europa – vi si reca sulla via per Roma in quel Natale dell’800 che lo vedrà incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero da Papa Leone III. Un titolo, quello di imperatore, che nessuno aveva mai più portato in Occidente da quel 476 che vide la fine di Romolo Augustolo e dell’Impero Romano.
L’ Abbazia di Farfa è capace di resistere ad ogni genere di “offesa”: i saraceni che nel IX secolo devastarono la Sabina e poi le lotte con le famiglie di una nascente aristocrazia romana che tra il X e l’XI secolo dominavano la scena della Città Eterna. Ma l’Abbazia rimane grande fino a tutto il XII secolo: seicento anni di storia tra Fede e potere.
Abbiamo detto dei due Santi a cui si deve la fondazione e rifondazione di Farfa, ma tutti coloro che si occupano della Sabina e della sua storia venerano – mi si passi il termine – anche un altro grande monaco farfense: quel Gregorio da Catino il quale, a cavallo tra l’XI ed il XII secolo, analizza, classifica, sintetizza e dona alla storia la testimonianza di migliaia di documenti relativi alle proprietà, alle donazioni, ai privilegi dell’Abbazia di Farfa ed alla sua storia.
Le sue opere si chiamano Regestum Farfense, Liber largitorius, Chronicon farfense, Liber floriger e non sono solo una testimonianza incredibile ed inestimabile di grandi fatti e rapporti storici (si pensi solo che il documento più antico è la lettera del 705 del Duca di Spoleto Faroaldo II al Pontefice Giovanni VII) ma anche una “puntigliosa” raccolta di atti relativi alle rocche, ai casali, alle terre della Sabina che ci permette di datare e ricostruire le origini, e spesso anche l’evoluzione, delle comunità sabine di oggi su cui altrimenti si distenderebbe il buio più totale. Come faremmo senza il nostro grande amico Gregorio ?
Oggi – tramontati i secoli in cui Farfa possedeva il potere di un vero e proprio stato – l’Abbazia è un luogo di immensa spiritualità: vi regna il silenzio ed una assoluta e totalizzante sacralità. Se la vostra sarà una visita domenicale, la Santa Messa nella basilica – in cui le testimonianze dell’arte medievale si fondono con quelle del rinascimento – è un’esperienza di forte emotività e la chiave che consentirà di aprire un rapporto di consonanza con questo luogo affascinante. Abbazia di Farfa: Appunti di Storia
Ripercorrere compiutamente il commino attraverso i secoli richiederebbe ben altri spazi. Qui di seguito, solo alcune date salienti per avere un’idea delle “pietre miliari” nella vita dell’Abbazia.
la tradizione vuole che San Lorenzo Siro, monaco orientale venuto in Italia all’epoca delle persecuzioni dell’imperatore d’oriente Anastasio (491-518), abbia fondato l’Abbazia su quanto restava di una precedente villa romana
distrutta intorno al 592 dal duca di spoleto longobardo Ariulfo, viene ricostruita alla fine del VII secolo da monaci della Savoia guidati da San Lorenzo di Morienne nel VIII secolo, sotto la protezione dei Longobardi, prospera e cresce. Nel 774 l’abate Probato, nel momento dello scontro tra Longobardi e Franchi si schiera con questi ultimi mettendosi sotto la protezione di Carlo Magno il quale concede all’Abbazia il privilegio di essere autonoma da ogni altro potere civile e religioso ed assoggettata al solo imperatore
continua l’ascesa dell’Abbazia che, addirittura, opera una sua nave da trasporto la quale gode dell’esenzione dai dazi in tutti i porti dell’Impero. L’abate Sicardo (830-842) erige la Basilica Carolingia, l’Oratorio del Salvatore e fortifica in modo possente il complesso dell’Abbazia stessa
l’impero franco entra in crisi e nell’890 i saraceni invadono la Sabina. L’Abbazia è assediata, resiste sette anni ma alla fine i monaci sono costretti ad abbandonare Farfa. I saraceni la saccheggiano ma Gregorio da Catino ci racconta che è per colpa di una banda di “latrunculi locali” se l’Abbazia, probabilmente in modo involontario, subisce un devastante incendio
i monaci tornano a Farfa con l’abate Ratfredo, dal 911 ma sono anni di instabilità sia interna che esterna caratterizzati da contrasti con alcune grandi famiglie romane, tra le quali i Crescenzi, che portano ad una fase di debolezza ed alla perdita di possedimenti
nel 966 viene eletto Abate Giovanni III che rimane in carica trent’anni consentendo a Farfa di tornare quella di un tempo. Nel 996 l’imperatore Ottone III la visita e successivamente (sotto l’Abate Ugo) le concede il privilegio di eleggere autonomamente il proprio abate. Farfa torna ad essere pienamente Abbazia Imperiale
l’XI secolo è caratterizzato dal conflitto tra impero e papato intorno alla cosiddetta “lotta per le investiture”. Quando Enrico V riconferma (come erano soliti fare gli imperatori quando salivano al trono) nel 1118 all’Abbazia le sue proprietà, questi si estendono in numerose aree dell’Italia Centrale
nel 1122 il Concordato di Worms segna una tregua nel conflitto tra papato ed impero ma anche dell’autonomia di Farfa ed il suo passaggio sotto il controllo di Roma-
il XII e XIII secolo sono un periodo non felice nella storia dell’Abbazia dovuto anche agli attacchi che il suo patrimonio subiva da parte delle famiglie aristocratiche romane in continua lotta tra di loro
nel 1400 Papa Bonifacio IX istituisce per Farfa la figura dell’Abate Commendatario, il quale aveva la gestione del patrimonio dell’Abbazia. In tale ruolo, si alternarono prelati provenienti da casate di prima importanza: nel 1496, il Cardinale Giovan Battista Orsini completa il restauro dell’Abbazia
nel 1567, Farfa entra a far parte della Congregazione Cassinese
nel 1798 Farfa è saccheggiata dalle truppe napoleoniche e, nel 1861, viene confiscata, in quanto bene ecclesiastico, dallo stato italiano. Superati anche questi momenti, dal 1921 l’Abbazia con appartiene alla comunità benedettina di S. Paolo fuori le Mura
nel 1928, a testimonianza del suo valore storico, artistico e spirituale, l’Abbazia di Farfa è dichiarata Monumento Nazionale
Abbazia di Farfa – La Visita
Il Borgo di Farfa è liberamente accessibile ai visitatori così come la Basilica che è solitamente aperta durante il giorno. La visita all’intero complesso dell’Abbazia è invece possibile solo se è possibile solo se accompagnati dal personale addetto ed è consigliata la prenotazione. Informazioni, prenotazioni, visite guidate per singoli e gruppi sono ottenibili ai seguenti recapiti:
0765.277065 (centralino) – Skype: farfaturismo –
E-mail: turismo@abbaziadifarfa.it
Due parole sull’autore-
Prof.Fabrizio Sciaretta-Laureato in Economia alla LUISS e Master in Business Administration della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Fabrizio Sciarretta ha dedicato i primi anni della sua attività professionale al giornalismo economico. Rientrato dagli Stati Uniti, ha operato per circa un ventennio nella consulenza di organizzazione e direzione aziendale, ricoprendo incarichi di top management in Italia per due multinazionali americane del settore. Ha poi scelto la strada dell’impresa e da alcuni anni è impegnato come imprenditore nel settore della sanità. E’ consigliere d’amministrazione di SanaRes, la prima rete d’imprese italiana nel comparto sanitario. Lion da sempre, è stato presidente fondatore del Lions Club Roma Quirinale. Nel 2008 ha abbandonato la Capitale in favore della Sabina, e non se ne è pentito affatto.
-trama di un film, forse, possibile -Trama -Cannavaccio-INDIANA JONES all’italiana.Autore Franco Leggeri
L’ Abbazia di Farfa è stata per secoli, nello stesso momento, luogo di santità e di potere, di preghiera e di comando e quindi era molto ricca , per avere un ordine di grandezza dell’oro che , presumo , avesse accumulato ed accumulava in continuazione bisogna partire dai primi documenti che si hanno a disposizione e cioè dalla fine del 700 d.C. nell’alto medioevo. L’Abbazia incassava qualcosa come 10 MANCOSO D’ORO (MANCOSO o Mancuso. – Il Monneret, dimostrata insussistente la derivazione di questa voce da signo manus cusus, identifica il soldo d’oro mancuso col dinar islamitico; in arabo la voce manqūsh significa “inciso, coniato”. Il soldo d’oro mancuso è ricordato nei documenti italiani dal sec. VII all’XI; era uguale al soldo bizantino e valeva 30 denari d’argento.)-
Comunque, stabilito in modo incontrovertibile che l’Abbazia era ricchissima, bisogna ora concentrarsi nel periodo dell’anno 916 d.C., prima del fatidico anno 1000. I Saraceni avevano invaso tutta la Sabina con un preciso obiettivo :”L’ORO DI FARFA”. Come nelle migliori storie di avventura per salvare il TESORO FARFENSE dai Saraceni fu caricato dai monaci farfensi su dei carri ed usci dall’Abbazia, sin qui le notizie certe, ma dopo il buio e la leggenda.
Mentre Archipando da Rieti combatteva sotto le mura di Trebula, odierna MONTELEONE SABINO, e , dopo aspra battaglia, sconfisse i Saraceni, bisogna anche ricordare le varie scaramucce avvenute in varie località della Sabina che ancor oggi hanno Topònomi risalenti all’epoca delle lotte contro i Saraceni come ad esempio nel Borgo di Santa Lucia di Fiamignano si trova il Muro Saraceno, oppure il Castello di Cane Morto, Orvinio, che deriva da KAM condottiero Saraceno che fu sconfitto da Carlo Magno ecc. esempio la località Comune di Saracinesco, oppure Forno Saraceno ecc. Ma ora cerchiamo di immaginare e ricostruire il tragitto possibile dei carri che trasportavano l’oro. Una delle ipotesi, molto affascinante , è quella che i carri, trainati dai muli, che trasportavano il tesoro abbiano percorso il fiume Riana diretti a Fossacesia Abbazia sita nelle Marche di proprietà di Farfa, ma per le enormi difficolta il Priore sembrerebbe che decise di nascondere il tesoro nei pressi delle Grotte Saracene di Poggio Nativo. Altra ipotesi interessante è che la carovana con il tesoro in realtà non trasportasse nulla, ma solo poche cose al fine di depistare i predatori saraceni. Una delle ipotesi più fantastiche è quella che vuole il tesoro, ricordiamolo molto consistente, nascosto sul monte Acuziano in una caverna il cui ingresso fu ostruito da massi e dalla vegetazione. Ancora oggi il Monte Acuziano viene descritto: come :” uno scrigno di tesori nascosti in bella vista”. Come nelle migliori storie di pirati voi crederete che qualcuno abbia disegnato una mappa e poi un frate lo abbia ucciso? No, ma una delle ipotesi più intriganti sembrerebbe quella che l’ingresso della caverna si possa stabilire con il punto di convergenza degli occhi dei leoni, statue, che sono installate sulla facciata dell’Abbazia. Bellissima come idea, ma a mio avviso è il classico scherzo da prete. Pero ci fu chi ha ritenuto valida questa ipotesi e quindi furono messi due fari sopra i leoni, la notte , i fasci di luce si incrocino sul Monte Acuziano “ scrigno di tesori nascosti “ma non fu trovatol ‘ingresso della caverna che custodisce il tesoro di Farfa. A Montelibretti i vecchi raccontavano che una parte di tale tesoro detto di Farfa , fosse stato nascosto e mai piu’ trovato presso un castrum locale detto Santa Maria Spiga , tra l’altro sembrerebbe che il tesoro composto da :”un gallo una gallina e tanti pulcini d’oro . . “ Alcuni raccontavano che il tesoro fu invece trovato dai briganti Geremia e Fontana .
Ma anche altre e affascinanti ipotesi sono parte della leggenda del Tesoro dell’Abbazia di Farfa. Per gli INDIANA JONES la Caccia al Tesoro dell’Abbazia è ufficialmente aperta.
Autore Franco Leggeri
P.S.- nota-I vecchi raccontavano che una parte di tale tesoro detto di Farfa , fosse stato nascosto e mai piu’ trovato presso un castrum locale detto Santa Maria Spiga , tra l’altro era composto da un gallo una gallina e tanti pulcini d’oro . . Alcuni raccontavano che il tesoro fu invece trovato dai briganti Geremia e Fontana .
Roma- Nell’Abbazia di San Paolo fuori le mura,dopo mille anni,fu esposta la Bibbia carolingia dal 19 aprile al 29 giugno 2009-
La Bibbia carolingia si compone di 337 fogli di pergamena di pecora e di vitello, la copertura è in legno foderata di marocchino rosso. Ha 24 miniature bellissime e ancora “fresche”. Fu commissionata dal re Carlo il Calvo intorno all’anno 866 al monaco Ingoberto per farne dono al Papa Giovanni VIII.
Su questa Bibbia, durante il medioevo, giurarono fedeltà al Papa tutti gli imperatori .
Papa Gregorio VII decise, per motivi di sicurezza, di affidarla ai monaci benedettini dell’Abbazia di San Paolo. In occasione dell’anno paolino, i monaci benedettini, che da 730 anni sono i custodi della Tomba di San Paolo, hanno deciso di mostrarla al pubblico.
Il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, dopo aver benedetto i locali dell’esposizione ha detto:” Questo evento è importante non solo dal punto di vista culturale ed artistico, ma anche per la riflessione sulla Parola di Dio, Parola viva, capace di vivificare le nostre esigenze: la Parola di Dio è infatti la vera , solida realtà. L’ammirazione di questa Bibbia sia l’occasione per vivere questa esperienza e costruire la nostra casa sulla roccia della Parola di Dio e non sulla sabbia, come è successo a L’Aquila, in Abruzzo. Chiedo inoltre a Dio il dono di saperlo ascoltare e, soprattutto per i visitatori e pellegrini in visita alla tomba di San Paolo, di riscoprirsi ascoltatori della Sua Parola”.
Articolo e Foto di Franco Leggeri.
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