
Borghi della Sabina

Abbazia di Farfa l’esercito badiale-
Abbazia di Farfa l’esercito badiale.Milizia di Campagna.
L’Abbazia di Farfa aveva un piccolo esercito comandato, ordine diretto, dall’Abbate. L’esercito doveva provvedere alla sicurezza del monastero , alle numerosissime dipendenze , alla giustizia e al buon governo dello Stato Abbaziale.
L’esercito fu impiegato,milizie rusticane , sotto il comando del grande Abbate Pietro, per sette lunghissimi anni al contrasto all’invasione dei Saraceni. Le truppe dell’Abbazia furono più volte messe ai diretti ordini di vari Imperatori come nell’assedio di Cere (Cerveteri) nell’anno 999, le truppe furono al servizio di Ottone III, mentre nel 1022 erano impegnate nell’assedio di Troia ed erano comandate dall’Imperatore Enrico II. Per esercito si chiarisce che non deve essere inteso nel senso moderno cioè di un gran numero di soldati , ma lo si deve intendere in senso antico, quando tutti i principali Signori avevano alle proprie dipendenze dei militi che molto spesso erano contadini e come si può leggere negli annali scritti dallo storico francese Prudence de Troyes quando descrive la vittoria del Duca Guido I di Spoleto contro i Saraceni nella famosa battaglia avvenuta nell’846 d.C. a Lorium, nella Valle dell’Arrone sulla via Aurelia alle porte di Roma:” ” Guy, magravede Spolète accurt l’appel du Pape avec le concurs des Romaines il reporte une grande victoire sur les mecreants, battus par les milicies de la campanie romaine”. Traduzione “ Guido, margrave di Spoleto, accorse all’appello del Papa Sergio II , e con il concorso dei Romani riporta una grande vittoria sui miscredenti, battuti con l’aiuto determinante delle Milizie della Campagna Romana-Milizie Rusticane”.
Nella cronaca, seconda giornata, della guerra tra Berengario e Guido da Spoleto si legge testualmente :” Dopo una tregua, nella quale Guido poté rifare più numeroso e potente il suo esercito. La seconda giornata fu combattuta sul fiume Trebbi: stavano per Guido cinquecento fanti francesi capitanati da Ascanio di lui fratello, seicento cavalli sotto gli ordini di un Guaisino e di un Uberto, una schiera di giovani toscani, mille fanti di Camerino, cento pedoni guidati da un Alberico: un Ranieri guidava un’altra banda , trecento corazze un Guglielmo, e altre trecento un Ubaldo: seguivano parecchie migliaia di uomini di campagna( MILIZIA DI CAMPAGNA) più usati ,avvezzi, all’aratro che alle armi.Anche Berengario aveva con se tremila Friulani capitanati da Gualfredo, a cui aveva ceduto o promesso il marchesato del Friuli, mille e cinquecento corazze guidate da Unroco, mille e duecento cavalli tedeschi, altri cinquecento cavalli sotto gli ordini di un Alberico e una forte schiera di fanti e milizie rusticane.
Franco Leggeri.
Fonti – L’abbazia di Farfa di I.Boccolini-Abbazia di Farfa Tip. Vaticana 1921 -Card. IldefonsoScuster- Prudence de Troyes -Lorium-Santa Maria di Galeria- Imperatore Carlo V Memorie principe Orsini-Condizione contadina del 1500 Autori vari-
Franco Leggeri -“gli speroni della Luna”-Brano da Murales Castelnuovesi
-Biblioteca DEA SABINA-
-Franco Leggeri Brano da Murales Castelnuovesi-
“gli speroni della Luna”
Foto 1950-
nei disegni di Francesca Vanoncini-
Porta Fonte Cisterna
Via Roma Est
nei disegni di Francesca Vanoncini-
Palazzo Eredi Salustri Galli
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Castello di ORVINIO (Rieti) Foto Reportage del 1935
Castello di ORVINIO Foto Reportage del 1935
Orvinio è un comune italiano di 387 abitanti della provincia di Rieti, in Lazio, che si erge su un colle attorno al suo imponente Castello appartenente al Casato dei Marchesi Malvezzi Campeggi.Orvinio fa parte del club dei borghi più belli d’Italia
foto del 1935
foto del 1935
ORVINIO (Rieti)- Il Castello-Lo Studio- foto del 1935..
foto del 1935
foto del 1935.
– foto del 1935
foto del 1935
ORVINIO (Rieti)- Il Castello-la Cappella – foto del 1935.
foto del 1935
ORVINIO (Rieti)- Il Castello-Interno del Parco –
foto del 1935
foto del 1935.
foto del 1935
Murales Castelnuovesi- una Poesia di Franco Leggeri “Davanti alla tomba di mio padre”
Murales Castelnuovesi
-una Poesia di Franco Leggeri-
“Davanti alla tomba di mio padre”
Davanti alla tomba di mio padre.
Ho seppellito il pianto
tra le mie mani rugose
irrigidite dal freddo.
Ora il futuro
è nei cristalli del tempo
e nell’orologio scabroso
delle confidenze sussurrate alle emozioni
per scrivere una lirica nuova
dove trasferire il mio pianto
per cantare la tua eterna assenza.
(Foto di Franco Leggeri-I Pini della Campagna Romana)
“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa” da Murales Castelnuovesi
MURALES CASTELNUOVESI -“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa”
Brano tratto dal libro di Franco Leggeri
“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa”
Castelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022
Castelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022
Progetto allegato al post per ricordare il 40simo anniversario della prima edizione del
Premio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022
Castelnuovo di Farfa -04 marzo 2022-Castelnuovo è al Bivio tra andar per Olio e per Cultura o solo Sagra delle Fregnacce ? Certamente Castelnuovo non ha una “casa di Goethe” come pietra angolare su cui costruire un futuro possibile nella Sabina turistica e culturale. Dobbiamo riconoscere che Castelnuovo è passato dall’oscurantismo culturale di un’Amministrazione Biancucci a quella che si sperava una ”Amministrazione illuminata ” con un alto tasso di laureati. Dall’Amministrazione Biancucci, per il bene di Castelnuovo, siamo usciti e riusciti, finalmente, a riveder le stelle. Oramai , però, Castelnuovo è entrato in una fase “totalitaria” dove un Consiglio comunale non sembrerebbe sia all’altezza di amministrare gli anni complicati e veloci che stiamo vivendo. Si potrebbe benissimo dire e paragonare Castelnuovo ad una Ferrari con al volante “dilettanti del triciclo”. Certamente, mia autocritica, posso dire che ho una visione romantica di Castelnuovo; lo vedo come una “Abitazione Metafisica”. Certamente il mio romanticismo mi porta a percepire la realtà culturale come se fosse un fenomeno “fantastico”. Ingabbio Castelnuovo in uno “schema” nel quale cerco , seleziono e catalogo materiale di eredità, radici e origini al fine di progettare e costruire una visione dinamica, cinematica, anche se romantica. Attualmente vedo Castelnuovo, l’ho scritto molte volte, come una nave prigioniera in una flotta di Borghi della Sabina, ma senza guida e, quindi, naviga a vista a rimorchio dell’avanguardia culturale Sabina .Vorrei ancora per questa pagina la guida di Goethe ma non senza approdare a nulla. Ora mi domando cosa noi castelnuovesi non rappresentati, esclusi da tutti i processi decisionali per il futuro di Castelnuovo, ci possiamo aspettare da un Consiglio comunale con un così alto tasso di laureati? Certamente non bisogna aspettarsi che i componenti del Consiglio comunale abbiano una visione da Lord Byron sul come descrive Venezia; si può aspettarsi un approccio moderno e quindi un “osare” , coraggio, l’attuazione di una “Democrazia partecipata”. Se il Consiglio comunale si chiude in se stesso avremo un ”brodo ristretto” in “cubetti di paura”. Un Consiglio comunale che non riesce ad aprirsi ad una “Democrazia partecipata” pur avendo la maggioranza senza Opposizione e per questa anomalia nella rappresentanza produca e attui soltanto una politica di “galleggiamento”. Questa politica del “galleggiamento “, a mio avviso, sta soffocando il Castelnuovo futuro e noi tutti ne pagheremo il salatissimo prezzo. Un risultato evidente è lo stato di abbandono in cui molte giovani menti castelnuovesi languono ai margini del “Futuro possibile”. Credo fermamente che una vera politica Democratica debba essere quella dell’osare, quella di non avere paura del confronto delle idee, quella del concedere spazio anche ai castelnuovesi non rappresentati, ma che sono solo relegati al ruolo di contribuenti. Credo che la politica della “complementarietà” possa dare i frutti della “buona politica”. Credo anche che il “potere” debba aprirsi, ma non aspettarsi “servi sottomessi”,perchè i castelnuovesi non rappresentati non sono un “endecasillabo tronco”, ma , sicuramente, sono idee e concretezza e di questo ne sono fortemente convinto.
Sono anche convinto che se voi Consiglieri comunali rimarrete fermi e chiusi avrete si la vostra “palma” e la vostra ombra nell’isola del Consiglio comunale, ma Castelnuovo sarà anche il vostro e, ahimè,anche il nostro Deserto dei Tartari.
Al fine di non rimanere nel “bla,bla….bla..” allego a questo post un piccolo progetto , non esaustivo,che potrebbe essere realizzato quasi a costo zero per l’Amministrazione comunale.
Franco Leggeri, castelnuovese.
PROGETTO di larga massima– Castelnuovo giovani :“Un seme insieme”-Per ricordare il 40simo anniversario della prima edizione del Premio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”- 1982-2022.
Bozza di Progetto di scrittura al fine di produrre un libro collettivo su facebook e poi, eventualmente , anche in edizione cartacea. Progetto dedicato solo ai giovani e bambini di Castelnuovo. Il perché del progetto si potrebbe sintetizzare , forse, così: ”Perché la Cultura ti libera dalla prigione dell’ignoranza”.
Vedere Castelnuovo con uno ”sguardo nuovo”.
Un progetto quello della scrittura collettiva che viene da lontanissimo, dall’antica Grecia, il primo Grande a realizzare un libro “Collettivo” fu Omero che raccolse nell’Odissea il frutto di tante leggende che si tramandavano sino allora oralmente , cantate e raccontate, da mille cantastorie.
Un progetto per dare voce, spessore alla creatività inespressa , alle potenzialità nascoste che, immancabilmente, hanno i Bambini. Strutturare la creatività , dare spessore e , perché no, possibilità di crescita .
Se vi sono le “Scuole di calcio”, perché non dare una opportunità a chi abbia voglia di vedere e, forse, scegliere vie alternative. Dare una possibilità di nuovi orizzonti e , possibilmente, far migliorare i bambini nelle attività scolastiche. Chiarire subito che questo progetto non è e non vuole essere assolutamente un dopo scuola, ma complementare forse si come ,ad esempio ,l’uso corretto dell’italiano. Esercitarsi nella scrittura “creativa” potrebbe essere propedeutica, forse, anche per svolgere un tema correttamente. L’uso corretto e creativo della scrittura sarà utilizzata nelle “didascalie” fotografie, e ancora , nell’analisi della fotografia stessa come ad esempio sottolieneare i dettagli . Sensibilizzare il partecipante al bello scoprendo , scrivendo e descrivendo,la Poesia , la Pittura , la Musica e le Arti in genere. Il mio piccolo progetto è quello, in sintesi, di seminare un Castelnuovo futuro, lasciare la storia di Castelnuovo ai loro legittimi Eredi . I ragazzi sapranno raccontare e scrive questa Storia per non seppellire nell’oblio i castelnuovesi che ci hanno permesso di vivere il Castelnuovo di oggi.
ORVINIO (Rieti)- OMAGGIA LO SCRITTORE VIRGILIO BROCCHI
ORVINIO (Rieti)- OMAGGIA LO SCRITTORE VIRGILIO BROCCHI A 145 ANNI DALLA NASCITA-Lo scrittore italiano più letto a fine anni Venti-
Virgilio Brocchi è stato uno scrittore italiano. Fu autore, nella prima metà del XX secolo, di una serie di romanzi destinati al grande pubblico che riscossero un discreto successo. I romanzi, scritti e pubblicati al ritmo di circa uno all’anno, furono la versione dell’epoca dell’attuale “best seller”. Di dichiarata fede socialista fu molto vicino ad esponenti di spicco di questa corrente politica fra i quali Filippo Turati ed Anna Kuliscioff. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in Liguria, sulle alture sopra Nervi.
Virgilio Brocchi, il narratore garbato-
Virgilio Brocchi, un narratore molto differente dai colleghi dell’epoca nutriti di dannunzianesimo e avanguardismo. Brocchi viene dall’“altra Italia”, più pacata, meno chiassosa e più incline al romanticismo e ai buoni sentimenti. Uno spaccato del paese che vive ancor’oggi.
Un nuovo scrittore
Se Da Verona, Pitigrilli e Mariani rappresentano l’ala più “trasgressiva” degli scrittori di successo negli anni Venti, con i loro romanzi venati di pornografia e talvolta di idealità lontane da quelle del regime, vedi a questo proposito Mario Mariani, non mancano scrittori politicamente più rassicuranti, sia nei contenuti che nell’aspetto ideologico. Rispondono ai nomi di Virgilio Brocchi, Salvator Gotta, Lucio D’Ambra, Guido Milanesi e altri ancora.
Quello che vediamo stavolta è Virgilio Brocchi, uno scrittore dai toni romantici, talvolta languidamente sentimentali, adatti ai lettori piccolo borghesi, anche se blandamente improntati a ideali socialisti-riformisti e cristiani.
Discende da una agiata famiglia di Bassano del Grappa, il padre è un avvocato, ma nasce in provincia di Rieti nel 1876. Compie gli studi classici fra Cremona e Padova, dove si laurea in lettere. Inizia subito la lunga e travagliata carriera di docente in giro per l’Italia, come è d’uso allora, e in parte anche oggi. Passa da Modica, in Sicilia, a Macerata, da Bologna a Milano, alternando ai doveri dell’insegnamento quelli di saggista e critico letterario e artistico, con scritti non disprezzabili. Già a 21 anni ha pubblicato un lavoro su un novelliere del Seicento; negli anni successivi escono saggi su Zola, su Hugo, sul Petrarca, sul Goldoni e altri ancora. Ma questo promettente avvio di critico e di saggista si interrompe ai primi del Novecento, allorché prevale in lui la passione per la narrativa.
L’esordio nella narrativa
Inizia così ai primi del Novecento, appena venticinquenne, l’attività di scrittore, mentre continua ad insegnare nelle scuole superiori, professione che eserciterà ancora sino agli anni venti.
Escono le prime opere, che, come capita spesso agli esordienti, sono da dimenticare e che lo scrittore, una volta arrivato al successo, ripudierà e ne impedirà la ristampa. Una di queste era uscita nel 1901presso l’editore Giannotta di Catania, dietro un contributo per la pubblicazione di 300 lire, mentre insegnava all’istituto tecnico di Modica.
L’esordio vero e proprio come narratore si ha nel 1906 con un romanzo, Le aquile, pubblicato da Treves, che è l’editore più importante del periodo. Il libro incontra un’accoglienza tiepida, roba da pochissime migliaia di copie nell’arco di oltre dieci anni. E su quei livelli, di scrittore noto solo a un ristretto ambito di lettori, Brocchi rimane anche con le opere successive.
Nel 1911 è la volta de L’isola sonante, che amplia un po’ la sua notorietà presso il pubblico. Tuttavia il romanzo, che si può considerare una significativa testimonianza sulle condizioni sociali, politiche e religiose nel Nord Italia, si avvale di una favorevole recensione di Ettore Janni. All’epoca egli è uno dei critici più promettenti del paese, e il suo intervento nel “Corriere della sera” nel 1911 gli conferisce una maggiore visibilità. Un altro critico, allora giovane ma molto promettente, G.A.Borgese, coglie nelle vicende e nei personaggi del romanzo apprezzabili spunti sulle tematiche al centro del dibattito politico, filosofico e religioso del paese: il socialismo, il positivismo e il modernismo. Sono gli ideali ai quali aderisce con piena convinzione il Brocchi stesso, e per i quali poi si impegna concretamente nell’ambito del partito socialista, quando entra come assessore all’istruzione superiore nella giunta socialista di Milano presieduta da Caldara, che governa la città dal 1914 al 1920.
Ma le tirature dei libri restano abbastanza limitate: Brocchi appare come uno scrittore dalle buone potenzialità, dotato di un tipo di scrittura piacevole e accattivante, con contenuti che risentono degli echi di Fogazzaro e soprattutto di Rovetta, scrittore quest’ultimo forse colpevolmente dimenticato ai nostri tempi. È animato da idealità sincere, ma è ancora ben lontano dalle masse dei lettori. Queste continuano a prediligere nei primi due decenni del secolo altri narratori, fra cui Luciano Zuccoli, Carolina Invernizio, Annie Vivanti, De Amicis, gli appena ricordati Fogazzaro e Rovetta, mentre sta esplodendo la popolarità di Guido Da Verona, che surclasserà tutti, in attesa che al suo nome si affianchi dal 1920 in poi quello di Pitigrilli.
Arriva il successo con Mitì
Nel 1917 arriva finalmente il grande successo di pubblico. E questo si deve a Mitì. Il titolo sembra riecheggiare quello di Mimì Bluette di Guido Da Verona, uscito l’anno prima, che sta spopolando in tutto il paese, persino fra i soldati al fronte, dove riesce a dare corpo ai sogni di evasione nei terribili momenti di Caporetto. Ma l’accostamento fra i due romanzi è solo nel nome della protagonista, perché poi essi non hanno nient’altro in comune. Così come i due autori. Mitì infatti è una tenera storia d’amore, fatta di romanticismo e di buoni sentimenti: una di quelle che nel segreto ogni lettore sogna e vorrebbe vivere.
Questo romanzo impone Brocchi all’attenzione del grande pubblico, e viene confermato subito dopo da altre opere che escono con regolarità negli anni successivi: Secondo il cuor mio nel 1919, Il posto nel mondo nel 1921, Il destino in pugno nel 1923, Netty del 1924 e altri ancora in seguito.
Il passaggio alla Mondadori
Il successo di Mitì e dei romanzi successivi determina, come avviene sempre, una ripresa di interesse sulle opere precedenti. E così Le aquile del lontano 1906, che sino ad allora avevano venducchiato qualche migliaio di copie in oltre dieci anni, vengono riscoperte e riproposte all’attenzione del pubblico. In tal modo raggiungono le 60.000 copie, che sarebbero potute essere 100.000 se fossero state ristampate in tempo quando si esaurivano, come ammetterà lo stesso Brocchi nelle sue memorie (Confidenze, 1946). Questa circostanza determina un raffreddamento dello scrittore nei confronti del suo editore tradizionale, Treves, e il convinto avvicinamento a quello che nel primo dopoguerra si sta rivelando l’astro nascente dell’editoria: Arnoldo Mondadori.
Nel 1922 fra i due si stringe uno stretto sodalizio, con vantaggio reciproco. Brocchi sarà il primo autore di successo ad entrare nella scuderia della Mondadori, e vi svolgerà un ruolo d’attrazione per una nutrita schiera di altri scrittori. E sarà ricambiato con una attenzione particolare da parte dell’editore, sia da un punto di vista umano, che professionale. Unisce i due anche una comune matrice ideologica: sono entrambi socialisti. Anche Mondadori, che ha iniziato la sua attività nel lontano 1907, è di idee e di formazione socialista, e l’intesa fra i due è davvero vincente.
Da questo momento Brocchi abbandona l’attività politica che lo ha molto impegnato, e abbandona anche l’insegnamento, per dedicarsi esclusivamente alla narrativa. Tutti i suoi libri d’ora in poi usciranno presso l’editore veronese-milanese, con il risalto che meritano, la promozione adeguata, la distribuzione inappuntabile e puntuale, la pubblicità efficace, la sinergia con le riviste della casa: tutte caratteristiche che stanno facendo di Arnoldo Mondadori il maggior editore italiano.
Lo scrittore italiano più letto a fine anni Venti
Da metà anni Venti in poi, quando la fortuna di Da Verona inizia a declinare e Pitigrilli si dedica più alle riviste che ai libri, ecco che Brocchi assurge ai vertici del mercato librario, come riconosce un altro principe dei critici del tempo, Antonio Baldini, che dalle colonne del “Corriere della sera” lo proclama lo scrittore italiano più letto del periodo. Un’affermazione che pesa, e parecchio, e che trova conferma nelle tirature dei vari libri: mediamente dalle 100 alle 160.000 copie a titolo per i libri più fortunati. Certo, è la metà di quelle dei maggiori best seller di Da Verona e di Pitigrilli, ma in quegli anni lo pongono sicuramente ai vertici del mercato librario, dove resterà ancora a lungo.
Brocchi, da parte sua, non si adagia sugli allori e continua imperterrito a sfornare puntualmente i libri, al ritmo di uno l’anno, a volte anche di più. In tutto saranno circa sessanta. Vengono riuniti in cicli, in genere trilogie e quadrilogie, in modo che i lettori sappiano già prima dell’acquisto in quale contesto si svolgeranno le vicende, con quale tipo di scrittura saranno narrate, quali personaggi vi troveranno, e quant’altro. Ne ricordiamo qualcuno: il ciclo dell’ “Isola sonante”, del “Figliuol d’uomo”, “Dei casti libri delle donne che mi hanno amato”, “Dell’ansia dell’eterno”, “De i romanzi del piacere di raccontare” e altri ancora.
Tale pratica, di includere cioè i romanzi in serie più o meno lunghe, verrà ripresa anche da altri scrittori, come per esempio Lucio D’Ambra e Salvator Gotta. A quest’ultimo spetterà incontrovertibilmente il primato, in quanto autore di una saga, la saga dei “Vela”, composta da oltre 20 titoli!
I romanzi di Virgilio Brocchi piacciono, i suoi personaggi si fanno amare, tanto che ogni nuova uscita diventa un appuntamento irrinunciabile per i lettori. La sua prosa elegante, piana, accattivante come poche altre, rassicura il pubblico sia borghese che popolare, lo asseconda nei gusti e nelle aspettative più profonde. E d’ora in poi i titoli che escono raggiungono sempre i vertici del mercato librario.
Così i libri che pubblica vengono ristampati più volte, sia pur con una progressiva riduzione delle tirature via via che passano i decenni. Però Brocchi non perde mai quello zoccolo duro di lettori che in lui ritrovano modelli narrativi di sicuro impatto. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta, nei quali molti autori del periodo sono oramai dimenticati, restano sempre abbastanza numerosi i lettori che continuano a leggerne i romanzi.
Brocchi compone anche dei libri per ragazzi, oggi del tutto dimenticati, ma che all’epoca ottengono un successo addirittura superiore a quello dei suoi maggiori best seller. Ricordiamo fra questi La storia di Allegretto e Serenella, uscita nel 1920 e venduta in centinaia di migliaia di copie, come avviene anche per gli altri titoli che compongono la serie dei libri per ragazzi.
Stabilitosi definitivamente nella costiera ligure, Brocchi trascorre i suoi ultimi anni anche impegnandosi in battaglie ambientaliste, come quella per la salvaguardia del territorio di Nervi, dove risiede.
Muore nel 1961 all’età di 85 anni, dopo una vita operosa e ricca di soddisfazioni, dedita in gran parte, ma non solo, alla scrittura.
LETTERATURA: Virgilio Brocchi: “Il posto nel mondo”, 1920
di Bartolomeo Di Monaco
Il romanzo appartiene al ciclo narrativo “Figliuol d’uomo”, uno dei molti cicli di cui Brocchi fu autore.
Leggendo l’incipit, la prima immagine che ci viene in mente è quella della bottega di Mastro Ciliegia, il quale, mentre taglia il famoso “pezzo di legno” per ricavarci un burattino, sente uscirne la voce di Pinocchio (“Le avventure di Pinocchio”, di Collodi, uscì in volume nel 1883). Qui invece siamo nella officina, nei pressi di Albano, del fabbro di carri Decio Battilasso, il quale mentre sta chiudendo bottega per fine giornata ode alle spalle la vocetta del tredicenne Pietruccio Barra che è in cerca di lavoro, fuggito da Roma giacché il padre lo picchiava, e trattava male anche la mamma. Nel lavoro il ragazzo, nonostante la giovane età, mostra di sapere il fatto suo. Tutti gli vogliono bene, operai e padrone. La mamma risponde a una sua lettera pregandolo di ritornare, ma lui, pur sollecitato da mastro Decio, decide di restare. Dormirà a casa di Scipione Manuzzi, uno degli operai, poco più grande di lui, che ne ammira il talento. In quattro e quattr’otto, con uno stile limpido e con poche smancerie, è disegnato l’ambiente di una bottega del tempo e la solidale amicizia che vi regna. Ce ne sentiamo attratti. Il romanzo – lo si avverte subito – può interessare anche un pubblico giovanile, catturato dalla sua piacevole scrittura. Un esempio: “Il giorno dopo s’arrestò dinanzi all’officina un carro tirato da due buoi, e tutta l’abbuiò, ché sul carro torreggiava un gran torchio meccanico da vinacce. Ne balzò giù un uomo di quarant’anni, tarchiato, coi calzoni nella tromba degli stivali, il panciotto solcato da una catena d’oro, i lunghi baffi con riflessi rossi, e in testa un cappello a cono con le falde larghe e distese.”. È il ritratto di Menico Tantarini, un agricoltore che ospiterà Pietruccio a casa sua, a Genzano, una località poco distante. Ma Pietruccio teme che il padre lo ritrovi e desidera allontanarsi di più. Così, di nascosto, lascia anche la casa di Menico e si mette in viaggio sulla via Appia per una nuova destinazione. Se non fosse per la tristezza e la paura che opprimono il cuore del ragazzo, si penserebbe alle peregrinazioni di Lazarillo di Tormes, il protagonista del romanzo omonimo, di autore ignoto, del XVI secolo, e anche a quelle di Tartarino di Tarascona, il personaggio del romanzo omonimo di Alphonse Daudet, pubblicato nel 1872. Il meccanismo narrativo è molto simile. E perché non pensare anche al racconto “Dagli Appennini alle Ande” di Edmondo De Amicis, contenuto nel libro “Cuore”, del 1889? Solo che qui il ragazzo va in cerca della madre mentre nel romanzo di Brocchi, Pietruccio fugge dal padre. La sua fuga è un percorso di formazione alla ricerca del proprio posto nel mondo, come suggerisce il titolo. Ha alti e bassi, questa ricerca. Rintracciato dal padre torna a Roma, ma il padre, Stefano Barra, non è cambiato e soprattutto continua a trascurare la madre, Giulia, avendo un’amante da cui ha avuto un figlio ancora in fasce. Troviamo una bella descrizione dell’officina in cui Pietruccio è costretto dal padre a lavorare, con bei dettagli sugli utensili adoperati, e si capisce che Pietruccio sarebbe anche disposto a fare quella vita, nonostante non ami il mestiere, se non avvertisse la necessità di fuggire da una situazione familiare di grande sofferenza. Forse è altrove che potrà sentirsi felice. Il padre fa di tutto per fargli amare il mestiere: “Non c’è arte più bella! Qui c’è tutto: la forza, la delicatezza, la difficoltà da vincere, il pericolo da superare. Col ferro tu fai tutto, l’architettura, la scultura, e anche la pittura. Guarda che colore ha il ferro! Guardalo bene adesso che ci batte il sole: c’è il viola, c’è il verde, c’è il rosso, c’è il brillare dell’argento, il caldo dell’oro, nel bruno c’è la traccia del fuoco, il riflesso della fiamma di carbone: lo morderesti per la felicità.”. Quando si leggono descrizioni come questa o come quella della modellazione con il fuoco di una serpe ornamentale, oppure come quella della fattoria di Santa Maria delle rondini, dove vivono il nonno Bastiano Maresi e lo zio di Pietruccio, Giovanni, verrebbe da pensare – se poi vi aggiungiamo i grandi scrittori del passato che ancora oggi sono ricordati e fanno parte dell’olimpo letterario – che resti poco o nulla da raccontare ai narratori di oggi. Un altro esempio: “C’era Francesco Cucchi detto Sbruscia, dalla faccia piatta, il naso schiacciato al mezzo, e la punta protesa come un becco d’anitra.”. E non si trovano già qui i ragazzi di vita che anni dopo saranno oggetto di attenzione da parte di Pier Paolo Pasolini? Si pensi a Giunio Dicòla, detto Rugantino di cui ci dice che “aveva perduto il padre a dieci anni, e a tredici picchiava la madre: dormiva allora tra i ruderi del Foro, viveva con una banda di piccoli malfattori saccheggiando i negozi o dando la scalata alle ville dei quartieri lontani: a quattordici anni era stato condannato, e da trenta mesi era chiuso nel riformatorio covando la smania della fuga.”.
Finalmente Pietruccio si libera del padre e apre un’officina per conto suo, “ma quel lavoro troppo umile di fabbro (…) lo scorava e gli metteva nel cuore il disgusto del suo mestiere e l’inquieta aspirazione a salire. Verso qual segno non sapeva.”. Dunque, è confermato che questo è il percorso formativo del ragazzo. Quel lavoro è transitorio e lo esercita solo per alleviare le fatiche e le sofferenze della mamma e delle amate sorelle Nella e Rina. L’occasione per cominciare un po’ a studiare, gliela dà l’amico Scipione Manuzzi, il ragazzone che lavorava con lui ad Albano, dal fabbro Decio Battilasso, il quale è venuto a Roma per prendere lezioni di canto, poiché ha una bella voce, ma gli occorre anche dell’istruzione. Per il tempo necessario, lavorerà alla bottega di Pietruccio e dormirà con lui dalla sua mamma. Studieranno insieme, e la sorella Nella, ormai prossima a prendere il diploma, le farà da maestra. Più si va avanti nella storia, più ci si accorge che vi è un filo deamicisiano che non l’abbandona mai. La scrittura si sa controllare e il sentimento non ridonda, ma affiora con misura.
Con il padre Stefano, gli altri della famiglia non riescono più a viverci insieme, così che si trasferiscono dal nonno materno Bastiano Maresi, che lavora le terre del padrone Filippaccio Frezzi, il quale li accoglie amorevolmente. Presso il nonno vive anche il fratello di Giulia, Giovanni Maresi, il pittore, con la moglie Teresa. Lì, l’atmosfera è del tutto diversa: affettuosa e calda. Vi troviamo brani di una prosa che sa pennellare ambiente e sentimenti. Questo è il bel ritratto di don Ambrogio Favotti, il curato di Santa Maria delle rondini: “aveva preferito per umiltà e indolenza invecchiare nella chiesola silenziosa tra le cascine sparse in mezzo alla campagna. Era alto e quasi esile nella veste nera abbottonata dalla gola ai piedi e serrata alla cintola da una larga fascia di seta. Non portava mai il cappello a falda; un nicchio leggero appena posava sui soffici capelli, fini e bianchi come il piumino del cigno, sotto cui si arrotondava un bel volto pacato di vegliardo.”. Si avvertono echi manzoniani. La stessa quiete stilistica, la stessa precisione nel dettaglio.
È don Ambrogio che, quando Giulia, la madre di Pietruccio, andrà a trovarlo, ci farà capire che la donna non è sposata con Stefano Barra, ma è convivente; perciò, se Stefano si sposasse con l’amante, quello sarebbe il matrimonio legittimo: “E se sposasse quella disgraziata? Davanti a Dio, essa sarebbe la moglie legittima: e tu poverina…”. Una tragedia, che promette di impedire.
Il peregrinare di Pietruccio trova un momento di approdo grazie a don Ambrogio, che si prende cura di farlo studiare. Come prima il ragazzo camminava con le proprie gambe girando di paese in paese, ora è la sua mente che naviga in mezzo ai marosi ogni volta che pensa allo sbocco dei suoi studi. Che farà? Il medico, il cantante, il musicista, il fabbro, il coltivatore, l’ingegnere, l’esploratore? Intanto ammira suo zio Giovanni che fa il pittore e ha dipinto un grosso quadro che spera di vendere per pagare i suoi debiti. Ma non ha successo e torna a casa sconsolato. Su Pietruccio, invece, cominciano ad indirizzarsi le attenzioni di don Ambrogio per persuaderlo ad entrare in seminario. Nasce tra lo zio Giovanni e Pietruccio una intensa affinità, proprio nel momento in cui le due vite paiono in antitesi. Il pittore deluso, divenuto anche vedovo per la morte di Teresa, e il ragazzo, a cui la vita si sta aprendo, si legano di una forza spirituale che li fa soffrire e sperare insieme: “Pietruccio s’era fatto lui il protettore del fanciullo desolato che era diventato Giovanni”. A proposito di Pietruccio: “Giovanni non lo sentiva estraneo alla propria desolazione, né fuori dell’insondabile abisso in cui egli viveva.”. Ma con il passare del tempo, questa affinità viene travolta, dura lo spazio di un mattino. Il dolore per la morte di Teresa è così forte che lo zio ne è piegato e si uccide. Tutto ciò si rivelerà come una specie di trapasso per Pietruccio, il quale, preso da un assalto di misticismo, entrerà così in seminario, dove subirà ogni sorta di dispetti da parte dei compagni, giacché, essendo pronipote del canonico e filosofo Agostino Maresi, in odore di apostasia, verrà considerato una specie di indiavolato. Qui incontriamo un’altra eccellente descrizione: quella della vita in seminario con le sue regole a volte eccessive e le conseguenti indiscipline degli allievi.
Il nostro protagonista, però, non ha ancora trovato la sua strada. Frequenta il seminario per imparare musica, e a chi gli domanda se si farà prete cerca di non dare una risposta diretta. Alla sorella Nella dice: “Non ho mai promesso a nessuno di farmi prete.”. È in seminario che per la prima volta, dalla voce di due sacerdoti, sente parlare di proletariato e di socialismo. Si stanno formando i primi circoli cattolici in antagonismo con quelli socialisti. Pietruccio vuole prendervi parte. È uno spaccato che poi non troverà uno sviluppo più approfondito e più articolato nella storia, come non troveranno sviluppo altri filoni tra cui quello dell’amore di Scipione per Nella.
Uno dei migliori seminaristi, Nino Beroldi, gli pone la questione dell’esistenza di Dio, poiché ne invoca un segno, che non viene. Pietruccio è assalito, così, da problematiche spirituali e sociali di grande spessore per la sua età. Questa parte del romanzo rappresenta con una nostalgica bellezza un mondo che non c’è più. I primi movimenti operai, le prime richieste di giustizia sociale, le ribellioni, i seminari pieni di novizi (a cui erano vietate amicizie troppo strette, come a Pietruccio con l’amico Lino Roccelli), i sacerdoti quali maestri di formazione di molti giovani, sono sezioni di un grande quadro che ebbe in quegli anni i suoi vividi colori. L’autore riesce mantenere un tono narrativo di costante robustezza, dimostrando di sapersi esprimere con proprietà e garbo in ogni situazione: “per riscaldarsi i seminaristi pestavano i piedi, saltavano, lottavano, si battevano forte il torso incrociando le braccia a manate.”. Difficile immaginare come sia stato possibile che questo romanzo, che può stare alla pari, ad esempio, con quelli di un De Amicis, sia scomparso del tutto dalla nostra nomenclatura letteraria.
Anche l’esperienza del seminario fallisce. Pietruccio viene cacciato giacché i suoi pensieri si discostano da quelli della Chiesa. Ne parlano per una settimana i giornali. In famiglia si è tristi. Tranne la sorella Nella che lo accoglie sorridendo e gli dice che è meglio tornare a fare il fabbro piuttosto che farsi prete. Legge le opere dell’ex canonico in odore di eresia Agostino Marresi, il quale, lo ricordiamo, è suo parente per parte di madre. Ne è invaghito. La sua fede è ormai vacillante e per lui comincia un cammino tutto speciale, che non è più quello alla ricerca del mestiere da esercitare nel suo futuro, che pure resta, ma il cammino della sua fede la quale a poco a poco, con strappi dolorosi, si sta sradicando dalla sua mente e dal suo cuore.
Avrà un incontro importante con lo zio Agostino Marresi (cugino del nonno Bastiano), un vecchio di ottantacinque anni, che si mostra affettuoso e intenzionato a consigliarlo, e da questo incontro trarrà la forza per tornare dalla madre e dirle che è cambiato e non andrà più alla messa domenicale (ma più avanti troveremo: “alle undici usciva di casa per correre in Duomo ad ascoltare la messa cantata.”).
Tanto questo incontro quanto altre scene che si aprono all’improvviso a siparietto rivelano una straordinaria capacità narrativa dell’autore, il quale sa tenere e variare con leggerezza i fili della sua storia. Si pensi, ad esempio, alla cena in una povera trattoria di Milano, dove Pietruccio si reca con il padrone di suo nonno, Filippaccio Frezzi, simpatica e vivida: lo spilorcio Filippaccio dirà all’ostessa: “Al ragazzo il formaggio non piace: datene una porzione a me; ma tenero, perché ho tre denti soli, lunghi ma non troppo sicuri.”. O alla parentesi di vita trascorsa con il giovane povero e malaticcio Andrea Vietti.
Non dobbiamo dimenticare che il percorso formativo di Pietruccio, che è in cerca del proprio destino, resta sempre legato all’amore verso la sua famiglia, in specie il nonno, la madre e le due sorelle, così che esso non è mai dipendente da una ambizione personale, bensì da un sentimento nobile di attaccamento alle proprie radici: “quel buon preside che vedeva già in lui un grande uomo, mentre egli si accontentava di diventare un uomo, ma al più presto possibile, per sollevare il nonno, per aiutare la mamma ed allietare la vita delle sorelle.”; “Nonno, ti giuro che non ti dovrai mai vergognare di me.”.
Entrato in una manifattura tessile, viene notato per la sua bravura e vi fa presto carriera. Ciò che seguirà è un intreccio di sventure e di avventure, ma ciò che conta è che finalmente, con il lavoro assicuratogli dall’amministratore della fabbrica Franco Varzi, Pietruccio ritroverà la sua serenità e il piacere del vivere.
ROMA-Fotoreportage di Franco Leggeri-Street art e murales alla Magliana
ROMA-Street art e murales alla Magliana . Fotoreportage di Franco Leggeri
Anche a Roma, come nelle più grandi capitali europee, abbiamo visto la nascita e l’espansione di questa forma d’arte, che fonda le sue radice tra le zone più popolari come Magliana, Trullo e Corviale. Il Trullo è un luogo della “mente”, scrive Inumi, “e tutta la periferia esistente può essere seme e frutto di poesia”.
Esempio importantissimo della Street Art è l’opera dell’artista romano Riccardo Martinelli, in arte Groove, situata in Via di Santa Passera vicino alla Chiesa di Santa Passera dove è possibile ammirare un lupo, un orso polare e alcuni gorilla, uno dei quali si sta scattando un selfie. Tutto ciò fa parte di un movimento volto a rigenerare dal punto di vista urbanistico, sociale e culturale i quartieri più periferici delle metropoli più importanti al mondo. Vogliamo chiudere con un bellissimo pezzo tratto dalla
poesia di Er Bestia:
ecco la Street Art, ar popolo appartiene /
Potenza nelle vene che spezza le catene /
Ner monno che se spegne è foco nella strada /
Che ‘n giorno apre l’occhi e se trova tatuata /
Non conosce serrature e orari de chiusura /
MURALES SANTA PASSERA Fotoreportage di Franco Leggeri
GIANNI CRISTOFANI-Poeta della Sabina
Poesie di GIANNI CRISTOFANI, poeta della Sabina
da (Malepassu) da A PIEDI NUDI
TRAVAGLIO
Il ricordo che partorisce dolore
fa sempre parte del nostro cuore
intelligenza è saperlo accettare
perché si deve comunque amare.
E’ la vita che ci da sofferenza
in ogni giorno voluto da Dio,
l’accettazione fa la differenza
salendo la scala che porta all’oblio.
La mente accetta il macerare dell’io,
e come le doglie della partoriente
accetti il travaglio che buca la mente
sai ch’è un dolore senza vie d’uscita
sai che esso è parte della tua vita.
Ogni giorno che vivi si ripresenta
come tocco argentino della campana
che ogni vespro dal poggio risuona
in quel tuo essere anima in pena
pronto alla notte che si avvicina.
Saranno i sogni a ridarci la pace
che svaniranno di nuovo al mattino.
Ci ritroveremo pigiati nel tino
a macerare come grappoli d’uva.
da “I FIORI DELL’ERICA” (Malepassu) 2004
UN EMBRIONE D’AMORE
Fu in una notte di stelle cadenti,
sul prato steso afferrai le tue mani
nel cielo erano i tuoi occhi ridenti
noi pensavamo già al nostro domani.
Come era dolce quel mese di agosto,
quel firmamento trapuntato di stelle
ma non arrivò al profumo del mosto
la tremula luce delle nostre fiammelle.
Sul fieno bagnato dalla notturna brina
si fecero riccioli i tuoi capelli ramati
e i nostri corpi sino alla prima mattina
restarono uniti, spossati e stremati.
Fu soltanto un lampo, embrione di amore
quel rotolarci in mezzo al fieno bagnato
era l’età novella del disincantato ardore
due anime che prima mai avevano amato.
Dio! Quanti anni ormai sono passati
da quella notte piena di stelle cadenti
gioie di momenti belli mai dimenticati
fiammelle d’amore nei nostri tormenti.
Anche del fieno è oggi cambiato l’odore
quando calpesto quel giovanile giaciglio
forse è lì dove non volle sbocciare l’amore
che si è dissolto l’embrione di un figlio.
FINALMENTE
Finalmente è arrivata la fine
del mio lungo percorso di vita
iniziato ormai son quarant’anni
nella casa di Giobbe, a Boccea.
Nella mente prepotenti i ricordi
si rincorrono come lampi di vita
chiaro scuri creati dal tempo
dalle azioni degli esseri umani.
E’ finita in un giorno d’aprile
stesso mese in cui era iniziata
l’avventura, un progetto di vita
che nessuno mai avrebbe sognata.
Anni belli, anni fatti di amore
ed il mio amore hanno fatto fiorire
come fiore di pesco a primavera,
come acqua che scorga in sorgente.
Mi hanno preso per mani i fratelli
per gran parte di quel mio lavoro,
ho rubato ai maestri il mestiere
sulla via delle leggi e dei conti.
Ma non tutti sono rimasti fratelli
nella casa di Giobbe, a Boccea,
sul cammino dei padri si è perso,
pecorella dal gregge fuggita.
Meglio è stato il mio basta improvviso,
tale da essere quasi una fuga,
ma difficile era fare il buon viso
al palese mutare della storia.
All’amaro di quell’ultimo giorno
resta il dolce dell’amore di ieri,
del mio essere stato con loro
e per loro avere bene operato.
Maggio 2006
(Malepassu) da PENSIERI SCALZI
EMOZIONI
La sera tardi a ridosso del monte
della verde macchia sento la voce
il paese mio caro proprio di fronte
svetta il campanile e la sua croce.
Nei vicoli stretti vi corre la storia
di gente vissuta zappando la terra
spesso mangiando pane e cicoria
quando gli uomini erano in guerra.
Al tramonto il cielo si fa rosso brace
illumina il marmo che ricorda i caduti
hanno regalato settanta anni di pace
emozioni di un uomo per averli vissuti.
Ancora una volta sotto i lecci del monte
ammiro la sera che si spande sui tetti
è una visione che come acqua di fonte
fa dei miei affanni pensieri benedetti.
Un saluto alla vita che il paese m’ha dato
un abbraccio forte a chi ho stretto la mano
un grazie a quanti amore mi han donato
anche se da loro spesso ero ben lontano.
SABINA AUTUNNALE
Lente in autunno
cadono le foglie
lungo il viale che porta
alla macchia,
un tappeto colore
amaranto nasconde
la terra che silente
lacrima al mattino.
Superbo dalla vite
il pampino s’invola
scoprendo il tralcio
del grappolo dimora
e verso il leccio
ed il pino s’abbandona
sposando la vitalba
e l’edera dormienti.
Il frutto dell’ulivo
si colora di nero verde
pronto al traumatico
distacco della mano
del saggio, esperto
agricoltore che lo cura
così come avverrà
nel giorno della molitura.
Nel sottobosco il fungo
è già maturo
ed il cinghiale grufola
all’intorno
mentre l’aspide
al letargo si dispone
e il tordo arriva insieme
ai calombacci
dal cacciatore attesi
nel capanno
posto fra i rami
della grande quercia
o del cerro gigante
che sovrasta le foglie
dei lecci ,
dei corbezzoli
e delle vitalbe.
Le ginestre orfane
del giallo fiore
piegano al vento
gli spogli aculei.
Il profumo del mosto
è ormai svanito
quando il frantoio
macina le olive
e nel capace camino
abbrustolisce
la fetta di pane
su cui colare l’olio
per poi farne di qualità
sentenza.
Tutto è colore,
tutto è aroma
e sapore
nella Sabina
dell’autunnale stagione
terra dei padri che è
viva in ogni cuore.
A ROBALDO
C’era un gran freddo al San Sebastiano,
la tramontava scuoteva gli ulivi mentre
dalla macchia svolazzavano merli e tordi
e tu risalivi soddisfatto la china col fido
cane che avevi con sapienza addestrato.
E’ questa l’immagine che porto nel cuore
di te amico mio anzitempo volato lassù
nel regno dei veri uomini sapienti e giusti
lasciando un vuoto in che tanto t’ha amato
insieme ai tanti amici cui hai stretto la mano.
Di Montebuono ad honorem sei figlio,
tra i lecci e i corbezzoli di San Sebastiano
resta la traccia della tua amicale presenza
insieme ai tuoi figli di cui eri orgoglioso
cresciuti con Gisa in letizia e sapienza.
Per me resti il ragazzo di ieri
il più simpatico fra i tanti dazieri.
ONIRICAMENTE
E’ solo quando della notte
si fanno più pesanti le ore
che la mente, nel travaglio,
partorisce l’ultimo pensiero.
Si fa rumore nel silenzio
come la colonna di un film
e nel debole abbandono
si fa carne il bene e il male.
E’ un sonno tutto agitato
quello partorito dalla mente
e la realtà distorta è da
quel primo pensiero nato.
Nitida la visione che inganna
tanto da sembrare vera vita,
tanto da impaurire l’anima
davanti l’incarnato pensiero.
GIANNI CRISTOFANI (Malepassu) dalla raccolta IL CANTO DEGLI ULIVI Prefazione di CARLA CUCCHIARELLI.
DA “SAPORE DI TERRA”
SORELLA MALINCONIA
Sorella muta del volare dei giorni
nell’impazzito mondo quotidiano
dove naufragano i sentimenti
e la terra si macchia di nefandezze.
E’ una sorta di deliquio silente,
di abbandono all’imponderabile
anche se il cuore ha l’intenzione
piena di aprirsi alla speranza
a quell’anelito profondo che fu
dei padri figli della campagna.
Non è tristezza quel languore
che ti prende all’improvviso
che cambia i colori del mondo
che la ragione non spiega
che la scienza non cura il male
che naviga verso la disperazione.
Silenziosa compagna dei miei giorni,
stimolatrice del mio pensare
pittrice dei quadri della vita
che pendono dai muri della mia
casa che pur palpita d’amore.
Ed io malinconicamente amo,
malinconicamente credo
e nella fede ritrovo la speranza
per nuove aurore e nuovi giorni.
Malepassu giugno2003
SILENZI
Quando i silenzi premono alle tempie
è come avere un picco di pressione,
quel vuoto dentro non accende, spegne
ogni ragionamento, qualsiasi decisione.
L’inerzia ti coinvolge dentro e fuori
ed il mutismo ne è la conseguenza,
così come il fuggire da ogni cosa è
l’estraniarsi completo dalla gente.
Poi arriva il silenzio della riflessione,
il silenzio dei saldi di bilancio il cui
pareggio è quasi sempre un’illusione,
zoppa è la partita del dare e dell’avere.
Tante sono le parole che vorresti dire,
tante invettive pronte a fuoriuscire
come vomito acre dopo l’abbuffata
ma ti accorgi come meglio sia il tacere.
E’ nei silenzi che affoghi i tuoi pensieri,
che ogni giorno la fanno da padroni
dentro la mente e l’anima squassate
dal tanto bestemmiar che ti circonda.
Settembre 2006
DA “LE FINESTRE DELL’ANIMA” (pensieri e parole dal profondo) GIANNI CRISTOFANI (Malepassu) 2009 Prefazione di MARINA COMO
da PENSIERI SCALZI 2019
Poesia dedicata a Fausto
Ci hai lasciato in un autunno di pioggia
poco dopo aver festeggiato i settanta
grande amico ora la tua anima alloggia
nella casa dove un coro di angeli canta.
Troppo in fretta l’esistenza hai concluso
tu che amavi colloquiar con la gente
con garbo, in silenzio la porta hai chiuso
per far della fine un tuo pensiero silente.
Solitario stavi quando il male ha colpito
anche se amici avevi per chiedere aiuto
amarezza di un animo vistosi tradito
aspettativa d’amore che fu solo rifiuto.
Generoso compagno di bella vita paesana
trascorsa all’ombra di discorsi importanti
davanti al bar ai bordi della strada romana
consumando ogni tanto gelati croccanti.
Fu la banca nostrana a cementar l’amicizia
per Dante e Ilia fu la vera manna dal cielo
mi solleva il ricordo dalla mia tanta mestizia
averti visto raggiante come il fiore d’un melo.
LA ROSA
Rosa d’ottobre
che ti schiudi al mattino
quando il sole solletica
i tuoi petali stanchi
di fronte la casa
dove vive l’amore.
Ogni petalo un bacio
sul tuo labbro vermiglio
il tuo sorriso consola
il mio esistere ed è
per questo che vivo.
da PENSIERI SCALZI.
PENSIERI
In un mare di silenzi
affogano i pensieri
per poi galleggiare
come foglie ingiallite
nello stagno, d‘autunno.
Oniriche visioni che
agitano del sonno le
ore al primo risveglio
annebbiando la mente.
E’ il naufragio d’idee
in quel mare increspato
che trascina nel fondo
dei pensieri il groviglio
in quel paniere di sogni
che l’aurora colora
d
alla raccolta PENSIERI SCALZI 2019
BORGO ANTICO
Nei vicoli stretti del borgo sabino
alla luce sbiadita di vecchi lampioni
ritrovo profili di quand’ero bambino
delle case, all’interno, i soliti suoni.
Mi commuove dei ricordi il rosario
nelle mani mi scorre come preghiera
la macina gira nel frantoio oleario
In questo mio andare verso la sera.
Virtuale cammino fra gli odori di ieri
lungo le vie dalle mutate sembianze
che fanno nascere in me seri pensieri
tali da alterare le mie rimembranze.
Ricerco un tempo nella mente nascosto
che genera in me le più forti emozioni
aleggia nell’aria l’acre odore del mosto
m’accoglie dimora di trascorse stagioni.
dalla raccolta IL CANTO DEGLI ULIVI Prefazione di CARLA CUCCHIARELLI
ANCORA TU
In questo autunno di foglie disperse
sei ancora tu a parlare al mio cuore,
a far tremare il mio labbro che parla
quando affondi nei miei i tuoi occhi
ricamati come bianca risacca del mare.
Sei ancora tu a farmi da velo di fronte
il frastagliato crinale argentato di ulivi
a spezzare la linea del superbo orizzonte
ove lontano s’eleva il Soratte dormiente.
C’è il tuo profilo segnato nel tondo di
quel cirro di latte che tocca la punta crociata
del campanile della chiesa che svetta
al di sopra delle vecchie case del borgo.
Sei ancora tu, fanciulla di ieri e matura donna
dei giorni di questo presente che balbetta
al fiorire del giorno quando il merlo si stacca
dal ramo del mandorlo ormai pronto a fiorire.
dalla raccolta SAPORE DI TERRA 2005
I DUE VECCHI
Scende alla sera, sopra il camposanto
il venticello fresco della notte estiva,
dormono i vecchi con il cane accanto,
due corpi che lenti vanno alla deriva.
E pur l’età non ferma il loro ardore
che fu pane per le battaglie di una vita,
una vecchiaia la loro ove ancor l’amore
sa far giocare anche l’ultima partita.
Fan tenerezza in quella casa i vecchi
dove il comignolo fuma notte e giorno
nel camino fan fiamma i rami secchi
memoria del tempo che non ha ritorno.
Verso il tramonto uniti or se ne vanno
vivendo in pienezza l’ultima giornata
le coccole in segreto ancora si fanno,
lo stonato canto di lui è una serenata.
E’ bello starli a guardare quando è sera
quando la brezza scompone quei capelli
in quel grigiore palpitante l’uomo spera
lo scivolare di una mano coi suoi anelli
VISIONI VESPERTINE
E’ su la prima sera
quando muore il sole
che l’occhio sfonda
nei vicoli del borgo
per virtuali incontri
d’un passato fatto
di amicali sembianze,
di spezzoni di vita
che prepotenti emergono
dal fondo della memoria.
Fioca e ballerina luce
di lampioni in ferro battuto
che segna il lieve passaggio
della vecchia massaia
che si appresta al rosario
con lo zinale impolverato
dalla grigia cenere
spolverata dai pani caldi
appena tolti dal forno.
Visioni nel vespro
del paese del cuore
che fanno cornice
a voci amiche e rumori
che indietro fanno tornare
l’oggi del tuo essere uomo.
DA “I FIORI DELL’ERICA”
In una notte di stelle cadenti
ti ho pregato Signora dei venti
cento volte ho fatto il tuo nome
per sapere il perché e il per come
questo mondo s’allontana da Te.
Mia Signora Madre di tutti i viventi
c’è qualcuno che annebbia le menti,
che si ingegna a bruciare gli arbusti,
legna verde per un fumo abbondante
che nasconde il cammino dei giusti.
Madre nostra nel grembo hai ospitato
dell’Altissimo il diletto suo Figlio,
Lui a Te noi suoi fratelli ha affidato
per preservarci da qualsivoglia periglio.
A Te madre l’orazione rivolgo
quando cupa scende la sera,
quando si alza nel cielo la luna,
quando si ode un frastuono lontano,
quando avverto il mio essere solo,
quando esterno il mio amore per Te.
LA CASA
Nella campagna il casolare svetta
sopra un’altura d’erbe circondato
come del nonno fu l’antica casa
in pietra eretta a fianco dell’Imella.
Vecchia dimora di gente contadina
che viveva solo dei frutti della terra,
di pastorizia e allevamenti vari di
mucche maremmane, anatre e galline.
Sulla facciata che guardava il sole
spiccava il disegno d’una meridiana
che segnava il lento andare delle ore
in quello spicchio di mondo, la giornata
era segnata dalla luna ed il sole
dal vento forte della tramontana,
dal gelo dell’inverno e i temporali
con la grandine che i raccolti devastava.
Quanti ricordi nel vecchio casolare
incontrato quando già in abbandono,
forte della sua storia raccontatami
dal vecchio contadino poi fattore
che gioiva davanti al mio domandare
con gli occhi lucidi per quell’amore
portato a quella casa sul torrente
a quel lembo di terra arabescata
di pietre consumate giù, dalla corrente.
UN SETTEMBRE ANCORA
Ancora un settembre, qui,
a ridosso del monte
quando il sole annega
tra i il Soratte e i Cimini e
superba la rondine affetta
uno spicchio di cielo e
goffa la merla si tuffa nella
superba chioma di un pino.
Spazi in cui affiorano
antiche memorie di gente
del posto abituata a soffrire
di uomini curvi a dissodare
una terra malvagia
dal sudore impregnata.
Ed è allora che si fanno rugiada
i miei affanni di oggi,
le mie ansie e la mia ipocondria
per questi vespri, a settembre,
tempo che Dio mi ha concesso
di vivere ancora
col pensiero capace
di essere sana ragione
per altri settembre ancora.
DIETRO LE VECCHIE MURA
Dietro le vecchie mura,
nel fondo del cortile
anfore rotte e vetri tagliuzzati.
L’ombra del grande olmo
il grano e le galline
ed io li, in mezzo a quelle cose
a piedi nudi, pesto il vecchio,
il nuovo ed il pulcino scappa.
Rimuovo le cento teste rosse
di tanto rischiarate dalla luce
che tra le mille foglie
a stento passa.
V’erano tante cose nel pollaio:
lo sterco e l’uovo,
l’anima mia ed oggi ancora
resto a camminare
in mezzo a quell’odore di pollame
tra tante creste rosse ma
la luce che prima traspariva
tra il fogliame ora non c’è.
S’è spenta la sorgente del calore,
inaridito il tratto dalla fame,
dal dispiacere d’una vita magra
da quel letame che sempre rimane.
GIANNI CRISTOFANI (Malepassu) dalla raccolta ISPIRAZIONE editrice AQUILA BIANCA 1999 (poesie dell’adolescenza)
LE STELLE
E’ silenzio di vento e di gelo
nelle prime ore notturne
sulle Coste Adriane.
Sopra il pino di Tullio
d’Orione il trittico
al sonno conduce.
Sant’Oreste di fronte
sembra accendere Venere
che dai Cimini si affaccia
sbiancando il Soratte.
Il pensiero mio indugia
su quegli astri di latte
che dal buio infinito
danno luce al mio cuore
dormiente, ma pago
del mistero più grande.
Dicembre 2001
DALLA RACCOLTA “GOCCE DI VITA” EDIZIONI AQUILA BIANCA
PREFAZIONE SERGIO TRASATTI 1991
LE DONNE
Fin da piccolo ho creduto
che la donna fosse un Dio
quando mamma s’affannava
tutta intorno al letto mio.
Ma le donne nella vita
ben poco hanno di divino
se l’amore non le tocca
ti sconvolgono il destino.
Poi da grande ho ritrovato
nella donna che ho sposato
quella dea dimenticata
mentre uomo diventavo.
Le donne si amano
per quel che sono,
le donne aspettano
la fedeltà,
le donne vogliono la verità,
le donne si amano
perché sono madri
dell’umanità.
Ad una donna ho dedicato
il mio andar per questa vita
dal mondo insieme ho programmato
di fare un dì l’ultima uscita.
Le donne si amano
in allegria,
le donne danno
felicità,
le donne s’aspettano
l’infedeltà,
le donne credono
alla gelosia,
le donne fuggono
l’ipocrisia.
Ed io ti amo
donna sposata
madre che crede
nell’al di là.
Dalla tua forza
traggo la vita,
con te sono uomo
ad ogni età.
(Malepassu) Ott.2017
L’AURORA.
Il rosa dell’aurora
illumina i tuoi occhi,
poi il sole incendia
i tuoi capelli biondi
che cingono l’altero
collo come scialle
nelle fredde giornate.
Su di me prepotente
si riflette la tua luce
mentre incerto vago
lungo il sentiero ostile
del mio silente tramonto.
SAPORE DI TERRA
Vorrei ancora esser preso per mano
da te mamma sulla strade di ieri
con i nonni sull’aia polverosa
tra tacchini vocianti e papere impazzite.
I fichi secchi sul graticcio di canna
le nocciole a punta tolte alla pianta
prima che il sole ne mutasse il sapore
genuino di un frutto destinato a morire.
E poi il calore del bue nella stalla
la paglia gonfia di escrementi olezzanti
un secchio pieno di latte schiumoso
un belato di agnello sotto il melo fiorito.
Il profumo dei pani appena sfornati
il bianco e il rosso dei vini d’annata
la pasta di nonna fatta e tagliata
condita col sugo al garofano e persa.
Forte serrava la tua piccola mano
di donna cresciuta in quel pezzo di terra
di giovane figlia madre ancora inesperta
rimasta nel fondo come il primo vagire
come l’odore e il sapore forte di terra
respirato e gustato nella casa paterna.
Della mia terra oggi ancora avverto
il suo sapore mentre giro il mondo
specie quando mi sembra di affogare
nel tempestoso fiume del mio pianto.
COMPONIMENTO CHE DA IL TITOLO ALLA QUINTA RACCOLTA DI POESIE DI GIANNI CRISTOFANI
(Malepassu) 2006.In copertina natura morta di FRANCO MARZILLI.