-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta-
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
DESCRIZIONE-Torino operaia e fascismo- Una storia orale –Questo libro, pubblicato per la prima volta quarant’anni fa e tradotto in inglese pochi anni dopo, è basato sulla memoria di circa settanta donne e uomini nate-i tra il 1884 e il 1922, intervistate-i nella seconda metà degli anni settanta, comparata con una serie di fonti d’archivio (rapporti di polizia, cinegiornali dell’Istituto Luce, documenti giudiziari). I protagonisti, appartenenti alla classe operaia torinese, raccontano la loro visione della vita, della storia, di se stessi, evocando il periodo fascista e il rapporto ambivalente tra Mussolini e le masse. Si delinea così un quadro multiforme della Torino operaia degli anni venti e trenta nel secolo scorso: i divertimenti e le canzoni popolari, la condizione delle donne, l’atteggiamento verso i meridionali, la religione, il fascismo nella vita di tutti i giorni.
Ne emerge un quadro di piccoli episodi di «resistenza» quotidiana come graffiti e scherzi, una cravatta rossa o una vecchia canzone socialista, ma anche da eventi traumatici come l’aborto, unico mezzo di controllo della fertilità largamente disponibile ancorché clandestino. È quindi documentata una negoziazione quotidiana col potere che va al di là del semplice dilemma consenso/dissenso. Un capitolo finale è dedicato a un evento «mitico» della Torino operaia e antifascista: il silenzio degli operai della Fiat in risposta al discorso del duce, nel corso dell’inaugurazione della Fiat Mirafiori nel 1939. Il testo combina approcci mutuati dalla storiografia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla microsociologia, offrendo un ampio spettro di forme narrative e metodologiche e una riflessione sui meccanismi della memoria e sul suo rapporto con il presente in cui è elaborata. La sua riproposta invita ad attualizzare il ruolo centrale di una categoria politica e sociale come la vita quotidiana in quanto luogo privilegiato della soggettività, e a prendere in considerazione quanto i «grandi mutamenti» devono a «decisioni individuali».
Luisa Passerini
Autore-Luisa Passerini-Emerita di Storia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha usato fonti orali, scritte e visuali per lo studio dei soggetti del cambiamento sociale e culturale, dai movimenti di liberazione africani ai movimenti operai, delle donne e degli studenti. Ha indagato il rapporto tra il concetto di identità europea e quello di amore romantico. Tra i suoi libri: La quarta parte (Manifestolibri, 2023); Storie d’amore e d’Europa (L’ancora del Mediterraneo, 2008); Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività (Bollati Boringhieri, 2003); L’Europa e l’amore (Il Saggiatore, 1999); Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991); Mussolini immaginario (Laterza, 1991); Autoritratto di gruppo (Giunti, 1988).
Editore-Officina Libraria
Officina Libraria • LO edition • Ab Ovo
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Officina Libraria, “casa editrice” in latino umanistico, ha vocazione internazionale ed è specializzata in pubblicazioni d’arte e illustrati.
Fondata nell’ottobre 2006 a Milano e oggi a Roma, l’Officina Libraria di Marco Jellinek e Paola Gallerani ha pubblicato da allora oltre 450 titoli, che spaziano dalla saggistica storico artistica alla fotografia, dal design di gioielli alla ceroplastica, aprendo di recente alla storia e alla letteratura.
Molti dei volumi più ricercati sono produzioni o coedizioni con prestigiose istituzioni italiane e straniere: dalla I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (l’imponente catalogo della collezione di dipinti, la collana I Tatti Research Series), al Kunsthistoriches Institut di Firenze e al Centro Internazionale Studi di Architettura Andrea Palladio; dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano (la guida di tutti i dipinti esposti e il catalogo della mostra 100 anni di scultura) alla Galleria Borghese (le mostre su Bernini, Picasso e Valadier e i prossimi cataloghi ragionati delle Sculture e degli Arredi), le Gallerie Nazionali Barberini Corsini (diversi cataloghi e i 100 capolavori), dal Museo del Bargello (il catalogo ragionato degli avori) all’Accademia Carrara di Bergamo (100 capolavori, il catalogo ragionato dei dipinti del XIV-XV secolo) per citarne alcuni. Senza dimenticare il musée du Louvre, di cui Officina è il solo coeditore italiano: con la preziosa collana di facsimili del Cabinet des dessins, la serie dei cataloghi ragionati dei disegni italiani e i volumi per mostre come Giotto, Messerschmidt, Valentin de Boulogne, Rembrandt fino a Le corps et l’ame, sulla scultura italiana del ’500, insignito del Prix du catalogue d’exposition 2021, e che nell’edizione italiana accompagna la mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco di Milano.
Che si tratti di cataloghi di mostre, opere di fondo, guide o saggistica applichiamo all’editoria contemporanea, che ha tempi di produzione sempre più serrati, l’attenzione e la cura editoriale d’altre epoche, sia nella redazione che nei progetti grafici e nella riproduzione delle immagini. Alla base del nostro lavoro c’è il progetto culturale di fare libri di qualità, nei contenuti e nella forma, restituendo all’editore quel ruolo di mediazione culturale e non semplice marchio di produzione che gli è proprio, nella scelta dei progetti, nell’interazione con autori, istituzioni e committenti, nella realizzazione dei volumi, e nella loro promozione e diffusione a pubblicazione avvenuta, sia attraverso le librerie (in Italia siamo distribuiti da Messaggerie Libri; in Francia da Daudin (DOD & Cie), in US-UK e resto del mondo da ACC Art Books) che nei principali bookshop di mostre e musei, e con campagne mailing specifiche presso le biblioteche italiane e straniere.
Gli editori
Marco Jellinek
Marco Jellinek • Laureato in chimica e filosofia alla University of Kansas, ha cominciato ad occuparsi di editoria nel 1987 come redattore e responsabile commerciale extra-librario alla Jaca Book di Milano, per passare alla Disney Libri come senior editor e poi come direttore marketing da Skira. Nel 2002 ha fondato la 5 Continents Editions e nel 2005 la consociata Equatore che ha diretto fino all’ottobre 2006, pubblicando prestigiosi volumi d’arte e fotografia, come Parate Trionfali e New Guinea, rispettivamente vincitori dei premi Justus Lipsius e 2006 AAM Museum Publications Design Competition.
È la mente economica e strategica di Officina Libraria e le scelte editoriali poggiano sulla sua cultura storico artistica, seconda soltanto alla sua passione per la montagna.
Paola Gallerani • Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano, è stata caporedattore della 5 Continents Editions dalla sua fondazione al maggio 2006, occupandosi del coordinamento editoriale dei volumi d’arte e saggistica e di tutte le coedizioni con il musée du Louvre. Ha collaborato con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, catalogando l’archivio Giovanni Testori, di cui è la principale esperta, e ha insegnato Organizzazione delle attività editoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nell’ottobre 2006 fonda con Marco Jellinek l’Officina Libraria, occupandosi oltre che della direzione editoriale anche della grafica della maggior parte dei volumi. Dal 2011 si occupa anche di LO, l’etichetta per bambini, scegliendone i titoli con Marco, spesso traducendoli e a volte inventandoli (anche con lo pseudonimo di Amélie Galé). Nel 2016 crea Ab Ovo edizioni, il marchio di Officina dedicato a salute e benessere.
Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo
un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973)
Editore- Red Star Press -Roma
Descrizione del libro di Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo-Non esiste avventura più grande, né romanzo in grado di eguagliare la forza di una vita vissuta dalla parte della classe operaia. Una vita come quella di Enrico Russo, metalmeccanico. Già protagonista del «biennio rosso» e ultimo segretario della Camera del Lavoro di Napoli, fu costretto dal fascismo alla clandestinità, non certo all’inazione. Non è certo un caso, dunque, se troveremo Russo in seno ai gruppi comunisti di lingua italiana in Francia e, in Spagna, al comando della Columna Internacional Lenin, in prima linea sul fronte di Aragona. Internato in un campo di concentramento in Francia, quindi destinato al confino in Italia, riguadagnerà la libertà nel 1943, quando svolgerà un ruolo determinante nella rifondazione della Confederazione Generale del Lavoro, la celebre «CGL rossa»: una pagina di storia fondamentale per il sindacalismo italiano che, grazie al lavoro di Francesco Giliani, si fa materia viva, carne e sangue del proletariato italiano nel cuore di una stagione di riscatto a cui, senza sconti per gli opportunisti e i rinnegati, si diede il nome di «rivoluzione».
«Probabilmente, le sconfitte dei movimenti rivoluzionari nei quali si era battuto in prima fila nella Spagna del 1936-1937 e nella Napoli del 19431945 esaurirono la sua forza. Ma non del tutto. Non gli mancò, infatti, la forza per non integrarsi in nessuna burocrazia politica, stalinista o socialdemocratica, contro le quali aveva combattuto negli anni più tempestosi e ardenti della sua vita. Avvisati dai dipendenti del cronicario del decesso del proprio parente, il figlio Alberto e il nipote Enrico curarono il funerale di Enrico Russo. Il nipote, mosso da affetto, cercò nelle bancherelle del quartiere una copia de Il Capitale di Karl Marx da porre nella bara del nonno come omaggio. Questo lavoro, al di là dei suoi aspetti scientifici, vorrebbe essere anche una ripresa di quel gesto»
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
La Mädchenorchester von Auschwitz fu formata per la prima volta nell’aprile del 1943, come progetto della SS Maria Mandel, per i tedeschi che desideravano uno strumento di propaganda per i cinegiornali e come strumento per il morale del campo.
Fu diretta da un’insegnante di musica polacca, Zofia Czajkowska, e non ebbe molti elementi fino al maggio del 1943, quando furono ammesse le donne ebree.
Le musiciste avevano provenienze diverse, come del resto gli internati nel campo.
A partire dal giugno del 1943 il ruolo principale dell’orchestra fu quello di suonare al cancello quando le squadre di lavoro uscivano o rientravano.
L’orchestra teneva concerti nel fine settimana sia per i prigionieri sia per le SS; era anche incaricata di suonare in infermeria, per i prigionieri ricoverati, oppure in occasione dei nuovi arrivi o delle selezioni.
All’inizio era formata principalmente di musiciste dilettanti, con una sezione di archi, di fisarmoniche e un mandolino. Gli strumenti e gli spartiti erano stati recuperati dall’orchestra maschile del campo principale di Auschwitz.
Il repertorio dell’orchestra era abbastanza limitato, e questo a causa dei pochi spartiti disponibili, della limitata preparazione della direttrice d’orchestra e delle richieste delle SS. Eseguiva per lo più marce tedesche e musica di canzoni popolari militari polacche che la Czajkowska conosceva a memoria. Anche due musicisti professionisti ne fecero parte: la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch e la cantante/pianista Fania Fénelon, ed entrambe scrissero di quella loro esperienza nell’orchestra.
La Czajkowska fu sostituita nella veste di direttore d’orchestra nell’agosto del 1943 da Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, che era stata la direttrice di un’orchestra di donne nella sua città natale, Vienna. La Rosé era molto più esperta della maggior parte delle adolescenti dell’orchestra, ma continuò a fare affidamento sulla Czajkowska per la traduzione dal polacco. La Rosé diresse, orchestrò e talvolta suonò assoli di violino durante i suoi concerti. Oltre all’attività ufficiale, faceva provare l’orchestra e suonava musica proibita di compositori polacchi ed ebrei per aumentare lo spirito dei membri dell’orchestra e dei compagni che si fidavano di lei.
La Rosé morì improvvisamente all’età di 37 anni, nell’aprile del 1944. Secondo alcune fonti la donna morì per avvelenamento da cibo.
Da allora in poi l’orchestra fu condotta da Sonia Vinogradova, una prigioniera russa.
Il 1º novembre 1944 i membri ebrei dell’orchestra femminile furono evacuati da un camion per il bestiame a Bergen-Belsen, dove non c’era né orchestra né privilegi speciali. Il 18 gennaio 1945 le ragazze non ebree nell’orchestra, tra cui diverse polacche, furono evacuate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Quello stesso mese Auschwitz fu dismesso e l’orchestra fu mandata a Bergen-Belsen, luogo nel quale alcune di loro persero la vita.
Fabio Casalini
La fotografia è tratta dal film “Ballata per un condannato” del 1980, diretto da Daniel Mann, con Vanessa Redgrave e Jane Alexander.
Antiqua Vox
Fondazione Antiqua Vox promuove la musica barocca e l’organo a canne tra gli appassionati e le nuove
e il suo soggiorno obbligato dal regime fascista a RIVODUTRI di Rieti
LINA CAVALIERI
RIVODUTRI (Rieti)-2 luglio 1940 –Il soggiorno obbligato perLINA CAVALIERI, LA DONNA PIU’ BELLA DEL MONDO.
LINA CAVALIERI
LINA CAVALIERI Il 2 luglio 1940 fu internata, con obbligo di firma tre volte al giorno , insieme alla sorella, a Rivodutri in provincia di Rieti, in quanto suddita francese.A Rivodutri vi restò fino al 27.07.1940 per poi essere trasferita a Rieti. Gabriele D’Annunzio la definì la “massima testimonianza di Venere in terra” e nella dedica di una copia del romanzo “Il Piacere” scrisse: “a Lina Cavalieri, che ha saputo comporre con arte, una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto. Un poeta riconoscente. Firmato Gabriele D’Annunzio.”
Lina Cavalieri risiedette, durante il soggiorno a Rivodutri, in via Micheli Giuseppe 1, nei pressi della Piazza del Municipio.
N° O07I4 P/llo Rieti, 5 luglio 1940 XVIII
Oggetto; Cavalieri Natalia fu Florindo e fu Peconi Teonilla nata a Roma,25/12/1876 – suddita francese.
Al PODESTÀ’ di Rivodutri
AL COMANDO STAZIONE CC.RR. Rivodutri
p.c .ALLA R. PREFETTURA DI – RIETI
ALLA R. PREFETTURA DIV. RAGIONERIA di RIETI
AL COMANDO GRUPPO CC,RR. di RIETI
AL COMANDO COMPAGNIA CC.RR. Rieti
Con foglio di via obbligatorio ho avviato costà, in data odierna, l’individuo in oggetto il quale, con provvedimento I* corr» N°484I2/443
del Ministero dell’interno, viene internato in cotesto Comune.
Il Podestà di Rivodutri è pregato attenersi scrupolosamente
alle seguenti disposizioni Ministeriali;
.
I°) – All’arrivo dell’ internato provvedere a far impiantare il fascicolo personale ed un registro, nel caso vi siano più internati
2°)- Stabilire il perimetro entro il quale l’internato può circolare.
3°) – Imporgli, senza però rilasciargli speciali carte di permanenza, la prescrizione di non allontanarsi da detto perìmetro. Per gìustificati motivi sì pòtra consentire all’internato di recarsi in determinate località dell’abitato. II permesso dì allontanarsi dall’abitato potrà, invece, essere concesso soltanto dietro autorizzazione del Mini¬stero, da richiedersi pel tramite di quest’Ufficio.
4°) – Imporre all’internato un orario con divieto, salvo giustifi¬cati motivi o speciali autorizzazioni, di uscire prima dell’alba e rin¬casare dopo l’Ave Maria.
5e) – L’internato dovrà presentarsi tre volte.al giorno: al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, al Podestà o ad un Funzionario Comunale che ne prenderà nota nel fascicolo personale. In caso di constatata as¬senza il Podestà dovrà darne immediato avviso a cotesta Stazione CC.CC,; per le ricerche, telegrafando altresì a quest’Ufficio.
6°) – L’internato potrà consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del posto, dietro autorizzazione del Podestà.
7′) L’internato ha l’obbligo di serbare buona condotta e non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato,
8°) – Non è consentito all’internato dì tenere presso di se passa porti o documenti equipollenti e documenti militari.
9°) – L’internato non deve possedere danaro a meno che non sì tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretto nominativo che sarà conservato dal podestà. Qualora l’internato abbia necessità di effettuare prelevamenti, dovrà chiedere di volta in volta l’autorizzazione al podestà il quale, se ritiene gìustificata la richiesta provvedere a fare eseguire l’operazione tenendo presenti che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori dovranno essere autorizzati dal Ministero,pel tramite di questo Ufficio.
IO°)- L’internato non può tenere gioielli di valore rilevante né t:itoli; tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati a spese dell’interessato,, in cassette di sicurezze presso la banca più vicina dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto dì riconoscimento sarà conservato dal Podestà,
…………………..Omissis
Firmato: il Questore di Rieti
Di seguito viene riportato uno stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri. Le firme dovevano essere apposte alle ore: 9,00, alle 12,30 ed alle 18,30
stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri
Biografia di Lina Cavalieri-Autore Marta Questa
Era il 1936 quando fu pubblicato a Roma il libro Le mie verità scritto da Lina Cavalieri, canzonettista, soprano lirico, mito della belle époque europea ed attrice cinematografica. L’ autobiografia, curata da Paolo d’ Arvanni, nome d’ arte dell’ avvocato Arnaldo Pavoni, suo impresario e compagno di vita, era dedicata al poeta Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri, “grande amico e grande romano” e noto per le sue composizioni in dialetto romanesco. Lina aveva da poco superato i sessant’ anni, età in cui, diceva, “si è maturi per vivere in campagna”. A quell’ epoca aveva scelto di abitare nella villa di Roma “tra alberi secolari e piante e fiori” e per altri sei mesi dell’ anno a 80 chilometri dalla capitale, presso Rieti, a Castel San Benedetto , in collina, zona che diceva, “valorizzata per volere di Mussolini” e dominata dalla “montagna di Roma, il Terminillo”.
L’ aspetto conventuale e serenamente monastico della casa di campagna sembrava giustificare il suo nome La Cappuccina, termine che, comunque, risultava avere molta assonanza con la villa La Capponcina, presso Settignano, a Firenze, abitata per un certo periodo dal poeta Gabriele d’ Annunzio che Lina aveva conosciuto, frequentato e forse, per breve tempo, anche amato e che ai suoi occhi “si era trasformato da poeta incomparabile in eroe leggendario nella guerra che ha reso l’ Italia degna delle più fulgide tradizioni”. Si trattava di una ammirazione reciproca perché già lo stesso poeta a Milano nel maggio del 1903 aveva scritto:” A Lina Cavalieri , che ha saputo comporre con arte una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto” ed ancora nel settembre dello stesso anno su un volume, appena pubblicato, dal titolo Il piacere apparve la seguente dedica: “A Lina Cavalieri, alla massima testimonianza di Venere in terra, questo libro ove si esalta il suo potere”.
“I suoi capelli corvini, la pelle d’ avorio, le sopracciglia più lunghe del mondo, le labbra carnosissime e lievemente rilevate, il naso gentile, e all’insù, gli occhi profondissimi e ombrati”, nonché le sue forme valorizzate da splendidi abiti e da un abbigliamento in genere molto scollato, fecero impazzire gli uomini dell’ epoca tanto da essere definita “La donna più bella del mondo”. Si diceva che fosse “ talmente perfetta da fare arrestare le persone per strada”
“Sono nata a Roma il 25 dicembre di un anno che non ricordo”, così esordiva nel libro “Le mie verità” , celando volutamente l’ anno della sua nascita, atteggiamento vezzoso tipico delle donne di spettacolo famose che vogliono nascondere la loro età . “Venni al mondo in una più che modesta viuzza del vecchio Trastevere dal quale lo spirito di Gioacchino Belli aveva saputo trarre ora la satira pungente, ora la poetica descrizione di uomini e di cose”. Era il 1 875 e Roma da pochi anni era capitale del Regno unito d’ Italia con a capo il re Vittorio Emanuele II. Nacque in Via del Mattonato 17 il giorno di Natale e per questo fu battezzata nella basilica di Santa Maria in Trastevere due giorni dopo con il nome, si dice, di Natalina. Sin da bambina si manifestò vivace e caparbia : “Mia madre aveva tentato tutti i mezzi per domare questa eccessiva mia indipendenza di carattere. Trovate assolutamente inutili le forme più comuni di persuasione, ricorreva assai spesso alle busse, che non sortivano effetto migliore degli amorevoli ammonimenti”. Le piaceva giocare a picca a campana e cercava sempre con gli amici di entrare nei baracconi da fiera senza pagare. Lasciata bruscamente “l’età dei giochi”, a causa della situazione familiare economica molto precaria, svolse diversi mestieri per sostenere la famiglia: sarta apprendista, quindi, fioraia ambulante ed anche piegatrice di giornali presso il quotidiano La Tribuna. “Lavoravo, rigovernavo, facevo le compere, custodivo i miei fratelli Nino e Oreste e mia sorella Giulia. Nella nuova stamberga che ci alloggiava, in Via Napoleone III (una camera e una cucina) tutto intorno a me era squallore. Io lo sentivo , mi si stringeva il cuore , ma per uno strano contrasto sempre presente in ogni i istante della mia vita, cantavo […]. Il caso volle che mi dedicassi al teatro”. L’ abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinse la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, maestro di musica, non certo passato alla storia, che si offrì gratuitamente di insegnare a Lina qualche canzonetta per diventare una chanteuse di caffè – concerti . Nel 1887 fu scovata nei Capannoni di Porta Salaria dall’ impresario Nino Cruciani che la scritturò per il caffè-concerto Esedra. Il suo primo repertorio era costituito di tre canzoni : Core innamorato, Chiara Stella, Il cavallo del colonnello, una di quelle composizioni a doppio senso allora di moda, ed un teatrino di piazza Navona fu luogo del suo esordio. “Avevo quattordici anni – scrive nel memoriale Le mie verità – la mia buona mamma mi accompagnava a piedi dalla nostra casa di via Napoleone III a piazza Navona […] perché eravamo tanto povere da non poterci permettere il lusso di un tram. Del mio ingresso nella vita artistica conservo un confuso ricordo di paura […], le mie mani trepide, tormentavano il mio vestitino, la bocca non riusciva ad aprirsi, la gola serrata dallo spavento non emetteva alcun suono. In quest’ attimo terribile intravidi la mia casetta, la necessità e inconsciamente aprii le labbra, articolai qualche nota. Cessò la musica del piano scordato, un frastuono di mani plaudenti mi scosse e quasi automaticamente ricaddi tra le quinte. Quando molti anni dopo la critica dei grandi quotidiani americani rilevava[…] il caldo singulto arrotondante della mia voce, ho ripensato che il mio debutto fu dolente e che forse quella sera , nella fumosa sala di piazza Navona, la mia voce ricevette il crisma del singhiozzo, che si confuse per sempre alle mie note appassionate”. Da quel timoroso debutto nel sordido teatrino romano, dove cominciò ad esibirsi per una lira al giorno, indossando ogni sera un semplice abitino di tessuto a fiori celeste comprato a Campo dei Fiori e cucito dalla madre, la popolarità sarà in continua ascesa grazie anche alla sua bellezza, sensualità e temperamento focoso, divenendo in breve tempo una figura popolare della Roma umbertina. La scritturarono in locali sempre più importanti e famosi. Nel 1894 il nome di Natalina Cavalieri per la prima volta apparve sulla locandina del Concerto delle Varietà, in Via Due Macelli , poi sarà la volta del grande teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, e poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Il suo repertorio si arricchì di altre canzoni: La Ciociara, Funiculì – funiculà, A Frangesa di Mario Costa. Il suo successo romano fu siglato anche dalla elezione a reginetta di Trastevere, avvenuta una sera di Carnevale al teatro Costanzi, per merito soprattutto di un principe romano e dei suoi amici, e questo titolo le agevolò l’ingresso al grande Orfeo, dove i suoi meriti artistici ebbero l’opportunità di essere consacrati. Arrivò dopo anche per lei il momento di approdare nel regno italiano dei cafè chantant, caffè con spettacoli di varietà: il Salone Margherita di Napoli, il luogo, in quel periodo, più prestigioso per una canzonettista. Fu l’ impresario del salone Margherita che nel 1895 la presentò al pubblico per la prima volta con il nome abbreviato di Lina al posto del dichiarato Natalina. Dichiarato perché molti dubbi sorgeranno infatti sul suo nome proprio quando nel 1940, durante il breve periodo di internamento nel carcere di Rivodutri, vicino a Rieti, sarà registrata con il nome di Natalia e non Natalina e questo può far pensare che a Napoli, al momento dell’ abbreviazione, lei o chi altro per lei, avesse preferito al diminutivo Lia, forse troppo breve, quello di Lina con il quale poi sarà conosciuta in tutto il mondo. Nei tre locali partenopei più famosi, quali il Salone Margherita l’Eldorado e l’Eden si esibì con il suo repertorio delle più celebri canzoni napoletane di Maria Marì, O sole mio, Marechiare, e con l’inedita Ninuccia, canzone che fu composta per lei dal poeta e musicista napoletano Giambattista De Curtis su testo di Vincenzo Valente e di cui fu la prima interprete. Era alta, aggraziata con un contegno angelico e trasognato e molto sensuale ed a Napoli, anche quando entrava in scena cantando” O sole mio”, accompagnata da un gruppo di mandoliniste vestite da pescatore, faceva impazzire tutti gli uomini. Napoli rappresenterà per lei in trampolino di lancio per l’ Europa. Aveva appena vent’ anni quando da lì andò a Parigi, alle Folies Bergère, riproponendo il suo programma di canzoni napoletane, con un’ orchestra completamente femminile con chitarre e mandolini. Lina Cavalieri sconcertò Parigi: si fece scoprire dai suoi ammiratori mentre correva vezzosamente per il Bois de Boulogne su un velocipede color rosso fuoco,” polpacci e caviglie in bellavista, il volto graziosamente arrossato dallo sforzo.”. Fu un’abile strategia che le consentì, già allora, di ottenere un’ampia pubblicità gratuita. Nella primavera del 1893 Natalina aveva già saputo attirare attorno a sé l’attenzione degli sportivi e l’ammirazione delle donne recandosi a Milano per una gara ciclistica nella quale l’attrice aveva sfidato la fioraia Adelina Vigo. Quella delle due ruote fu per la Cavalieri un sincero diletto sportivo che l’accompagnò anche negli anni successivi e che la portò a correre e a vincere la corsa a tappe Roma – Torino e ancora, nel 1899, a sfidare la campionessa belga, mademoiselle Hélene Dutrierux.
Dimostrava di comprendere lo spirito del tempo: diffusione dello sport tra le donne significava emancipazione. Il pedalare un velocipede liberava dall’opprimente corsetto, ne scopriva il corpo, e tutto questo dava alla donna la coscienza del proprio fisico e sessualità. La belle epoque” fu affascinata dalla sua intraprendenza, dalla sua grazia e dalla sua straordinaria bellezza. Cominciavano a circolavano in tutto il mondo cartoline postali che riproducevano il suo volto, i suoi favolosi boa di struzzo, i suoi splendidi gioielli che fecero sognare donne di tutti i paesi.
Salì poi sul palcoscenico dei più importanti teatri di Londra, Berlino e San Pietroburgo.
Aveva già un figlio, Alessandro, chiamato anche lui con un diminutivo: Sandro. Era nato a Roma nel febbraio del 1892, si dice, da una relazione con il maestro di musica Arrigo Molfetta, a cui, poi, Lina qualche anno dopo, sembra, avesse restituito tutto il denaro “prestato per gli alimenti”, perché non avesse alcuna ingerenza nell’ educazione di quello che reputava solo suo figlio . In quegli anni Lina non poteva immaginare ancora che Sandro avrebbe più tardi preso il cognome del suo terzo marito, il tenore francese Lucien Muratore.
Di lei si diceva che era una danzatrice aggraziata, in grado di compiere i movimenti ed i gesti più allusivi con tale innocenza e con tale fanciullesca semplicità e fascino che la loro natura pornografica veniva ignorata. Jules Massenet., autore di alcune fra le opere portate in scena da Lina semplificava così: “La bellezza ti dà il diritto di sbagliare qualche volta”.
Fu a Mosca che omaggiò il pubblico di una versione un po’ pasticciata di Oci ciorni e, nonostante la pronuncia approssimativa, ne ricavò tanti applausi ed il dono di un facoltoso ammiratore: una cesta di fiori unita ad una collana di smeraldi appartenuta all’ inglese Lady Hamilton. Il donatore era il principe russo Aleksander Bariatinsky che Linotchka, come lui la chiamerà, sposerà in segreto a Pietroburgo nel 1899.
Fu alla fine del secolo che, spinta da molteplici pareri favorevoli, Lina decise di passare al canto lirico. Darà definitivamente l’ addio al varietà per realizzare un sogno più ambito: diventare una cantante lirica, professione considerata all’epoca più nobile. Fu il tenore Francesco Marconi, il popolare Checco, interprete dei Puritani e del Rigoletto, a perfezionare il suo canto. Prenderà lezioni dall’ affermata cantante del Teatro della Scala, Maddalena Mariani Masi, che di Lina riconoscerà sempre l’ intelligenza, l’ intuito musicale non comuni ed una forza di carattere da permetterle di sottoporla ad uno studio indefesso. “Il teatro lirico metteva in me la febbre del desiderio” .
Il debutto a soprano avvenne nel 1900 a Lisbona ne “I Pagliacci”. Fu un fiasco totale che Lina nel suo libro attribuì al nervosismo destato dalla presenza della famiglia reale portoghese ed all’ intervento malevolo del manager Petrini, talmente ossessionato da lei da essere disposto a rovinare lo spettacolo per farla cedere alle sue avances.
Il 4 marzo dello stesso anno si cimenterà nella Bohème di Giacomo Puccini nel ruolo di Mimì al San Carlo di Napoli: “Vestii l’ abito di Mimì e cantai. Non potevo non vincere Stravinsi. Sentii Napoli. Napoli mi comprese”.
Il passo era fatto e Lina era diventata soprano lirico.
Sergi Levik, baritono e critico d’ opera di origine russa, così commentava: “L’ enorme lavoro che la Cavalieri ha fatto su se stessa con la supervisione di buoni insegnanti ha trasformato una voce debole e miserella in uno strumento professionale del tutto tollerabile” Si diceva che avesse una voce limpida e fresca, ma piuttosto limitata nel volume, nelle vibrazioni ed anche nell’ estensione e c’ è chi la consigliava di sostare al confine tra il genere lirico e quello leggero.
Il momento di svolta artistica coincise con la fine del suo primo matrimonio a cui seguirà l’ annullamento dell’ unione da parte dello zar Nicola.
Da Napoli si aprirà per lei una carriera che la porterà nei più importanti teatri lirici d’ Europa e d’ America al fianco di nomi celebri della lirica. Fu al S. Carlos di Lisbona, all’ Imperiale di Varsavia, all’ Aquarium di Pietroburgo, al Teatro Massimo di Palermo, al Dal Verme ed al Lirico di Milano nel 1902 e nel 1903, al Carlo Felice di Genova, al Casino di Montecarlo tra il 1904 ed il 1906. Importantissimi sono gli ingaggi che ottenne oltreoceano, a New York, al Metropolitan e al Manhattan. Il suo successo derivava molto dal fatto che incarnava il prototipo di bellezza femminile dell’ epoca: una bellezza trasognata che, unita ad una presenza scenica ed ad una buona recitazione, rappresentava in campo operistico nell’ epoca del verismo una vera e propria carta vincente. Una sera d’ impulso, al termine del gran duetto d’ amore della Fedora, Lina Cavalieri al Metropolitan, durante la stagione del 1906-1907, in scena baciò realmente Enrico Caruso sulle labbra, ottenendo così il definitivo successo del suo personaggio. Per la prima volta in America un’ attrice aveva baciato davvero sulla scena. Fu un trionfo, si gridò allo scandalo e ciò aumentò il successo che la porterà alla vittoria sulla soprano Geraldine Farrar e ad ottenere l’ interpretazione della Manon Lescaut di Puccini. L’ indomani , l’ Evening World intitolava così la cronaca della serata:
”Cavalieri and Caruso, in a fervent embrace arouse a Metropolitan Opera House audience”. La Cavalieri fu allora conosciuta negli Stati Uniti come la primadonna che bacia,“the kissing primadonna”.
L’ influente critico musicale Algernon ST Brenon sul Daily Telegrapphy così scriveva: “Possiede fuoco e varietà di movimento, impulso ed emozione[….].un colpo d’ originalità nel gestire la scena […]. A proposito del canto non ci si può esprimere altrettanto entusiasticamente. A volte le sue note acute sono imprecise, a volte le medie, a volte le gravi; almeno in questo sembra essere imparziale […]. Ma sul palco riesce davvero a dare qualcosa di raro. Nessuno è come lei con quella faccia da madonna e la sua figura sinuosa e serpentina”. Dopo un periodo iniziale di rappresentazioni della Bohème, del Faust, de “I Pagliacci”, s’ indirizzò verso le parti di cortigiana d’ alto rango e di donna fatale. Era attratta da opere come la Fedora, la Tosca, l’ Adriana perché le offrivano l’ occasione di sfoggiare abiti sontuosi che mettevano in risalto il suo fisico e gioielli veri e preziosissimi. Aveva “un portamento da gran dama” e, secondo il giudizio di molti, nessuna primadonna seppe raccogliere e drappeggiare al pari di Lina lo strascico della principessa Fedora.
Ma la Lina Cavalieri “dell’ Opera di Parigi, del Metropolitan di New York, del Coven Garden di Londra, del teatro italiano di Pietroburgo…. ecc.” non cantò mai a Roma come soprano. ”Non ho mai voluto presentarmi al pubblico dei miei concittadini – scriveva nella sua autobiografia- perché ho sempre risentita una autentica paura degli spettatori romani. Il pubblico a Roma è critico, sagace, intenditore perfetto di musica, abituato agli spettacoli lirici più vari e più complessi, assuefatto a dare un giudizio su tutte le celebrità. Sebbene non mi sia mai sentita come artista, inferiore a tanti altri, ho sempre pensato, da buona romana, quale sono, Nemo propheta in patria”.
La bellezza le valse, si dice, ottocentoquaranta proposte di matrimonio e numerosi flirt. La desiderarono gli uomini di mezzo mondo e per lei spasimarono principi, baroni, finanzieri,poitici ed artisti di ogni continente, per lei Wassili d’Angiò, duca di Durazzo, conte di Gravina e di Alba, ex capitano dell’esercito zarista, ultimo discendente del re di Napoli, di Sicilia e d’Albania Carlo D’Angiò a Parigi, fece ricoprire di petali di rose rosse l’intero tragitto tra la stazione ferroviaria e l’albergo in cui l’aspettava. Ma lei stessa in “Le mie verità” scrive: “Tre volte ho sposato e tre volte ho rotto i miei vincoli legali: un russo, un americano ed un francese”. Dopo il principe russo Alessandro Bariatinsky sarà la volta del ricchissimo, “cittadino della stellata repubblica”, l’ americano Robert Winthrop Chanler, conosciuto a New York durante la stagione lirica al Manhattan Opera House, durante un ricevimento dato in onore di Lina in casa della signora Benjamin Guiness, “la migliore e la più cara amica”. “Non avevo per lui che un sentimento di buona amicizia” ed infatti il matrimonio durò appena una settimana e nella sua opera autobiografica scrive: “Le mie valige erano fatte. Partii […]. Ed io rinunziai ai palazzi, alla grande tenuta, alla rendita annua […]. Non ho mai più rivisto il mio secondo marito del quale solo qualche anno fa ho appreso la morte. Amici comuni mi dissero [ ..] che la sua camera era letteralmente tappezzata di mie fotografie”. In realtà c’ è chi disse che una immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò dalla proprietà dell’ americano nelle mani di Lina prima addirittura della separazione. Anche questa volta la separazione fu dovuta al fatto che Lina amava assumere il ruolo di vera e propria donna di spettacolo. Amava calcare le scene, farsi ritrarre nelle pose più conturbanti, vestire abiti sfarzosi arricchiti anche da pietre preziose spesso regalate dai suoi ammiratori, mariti ed amanti, indossare capi della famosa della sartoria francese di Jeanne Paquin, più conosciuta come Madame Paquin, capi che Lina pubblicizzava in tutto il mondo. “In certe sere il palcoscenico dei teatri veniva trasformato in giardino ed i diamanti, gli smeraldi, i rubini sfolgoravano indosso alla bella artista”. Molto spesso in scena fu vista portare in petto una croce di diamanti, non per la grande devozione per il simbolo, quanto, sosteneva il critico Giulio Piccini, meglio conosciuto con lo pseudonimo Jarro, per il valore delle pietre che la costellavano. Divenne il simbolo della donna più elegante ed affascinante d’ Europa, un sogno per gli uomini di tutti i paesi ed un mito per le donne dell’ epoca. “E’ così bella, si diceva, che troverebbe mille spettatori anche se andasse in un’ isola deserta”.
Il marito francese sarà il tenore Lucien Muratore, che sposerà nel 1913 a Parigi e che diventerà padre adottivo del figlio Sandro. La guerra del 1914 “sconvolse tutto [….] Allontanò da me in poco tempo mio marito nell’ esercito della Repubblica transalpina, due miei fratelli e mio figlio nell’ armata italiana”. Il matrimonio con il terzo marito coincise con l’ abbandono della carriera lirica e l’ approccio con quella cinematografica.
Come tanti ironizzarono, divenne la prima cantante lirica protagonista di films muti. Dopo i primi passi compiuti alle Cines di Roma, società allora diretta dal barone Alberto Fassini, debuttò a Parigi sotto l’ insegna dei Fratelli Pathè. Tra il 1914 ed il 1921 girerà film in Italia, poi a Berlino, in Inghilterra e, prima fra le europee, in America, scritturata dalla Players films company a New York, dove recitò per la prima volta nel film muto “Gismonda “diretto da Edward José e tratto dall’ opera teatrale di Victorien Sardou, L’ eterna tentatrice su scenario di Fred de Gressac, che poi divenne produttore della Metro Goldwin Mayer a Hollywood. ”Il lavoro cinematografico mi piaceva moltissimo – scriveva – ma male sopportavo le luci dei proiettori che mi cagionarono gravi forme di congiuntivite […]. Come al teatro di Montecarlo nella Fedora cantai l’ opera per l’ ultima volta, così a New York l’interpretazione di Gismonda chiuse la mia attività cinematografica”. In Italia, per gli effetti della Grande Guerra, i film americani della Cavalieri furono distribuiti solo al termine del conflitto, non ottenendo peraltro pari successo delle proiezione oltralpe. Da cantante di cabaret a soprano lirico, da sportiva ad attrice cinematografica, scrittrice ed anche produttrice di creme e profumi Il periodo del matrimonio con Muratore coincise anche con l’apertura dell’Istituto di bellezza “Chez Lina”, a Parigi, vicino agli Champs Elysèes, in Avenue Victoir Emmanuel,, oggi avenue du Président Roosevelt, che sarà frequentato da nobili e ricche signore affascinate dal mito della bellezza “costi quel che costi”.
“Mi dedicai a questa nuova forma d’ arte che ritenni anche manifestazione pratica di altruismo”. Fu così che le macchine di massaggio e di ondulazione, le ciprie, le creme, i rossetti e le lozioni, sostituirono per circa dieci anni le orchestre, le scene, le partiture. Le parrucche ed i costumi. I miei compagni di successo non si chiamarono più: musicisti, tenori, baritoni, bassi ma parrucchieri, massaggiatori, manicure e pedicure” ”In questa nuova attività ho avuto gioie e soddisfazioni, se non materiali almeno morali”. La maison fu frequentata dalle signore della nobiltà europea affascinate dal mito della bellezza di Lina che produsse anche cosmetici che recavano sulla confezione il suo nome: ricercatissimi i profumi Monna Lina ed Eau de Jouvence. Nel 1909 la Cavalieri aveva aperto un laboratorio di prodotti di bellezza anche negli Stati Uniti, gestito dal fratello Oreste, nel quale venivano realizzati cosmetici secondo i segreti acquisiti da un antico ricettario di Caterina de Medici che, diceva, “di aver rinvenuto”. Accetterà anche di pubblicizzare vari prodotti dell’ epoca, come quelli della casa di produzione Palmolive e l’ aperitivo Bitter Campari, allora in voga. Nel 1914, aveva dato alla stampa un libro “My secrets of beauty” il cui sottotitolo recava uno slogan che sembra scritto oggi: “Contiene più di mille preziose ricette di preparazione usate e raccomandate da Madame Cavalieri in persona”. Offriva raccomandazioni sulla conservazione della bellezza, consigli che la Cavalieri aveva già dispensato alle lettrici di una rivista francese di attualità e moda femminile.
Le sue varie attività ed i suoi ingaggi la porteranno continuamente a viaggiare da un paese all’ altro, correndo spesso anche dei rischi, in un’epoca, non dimentichiamo, in cui i mezzi di locomozione erano assolutamente primordiali, la distanza tra una località e l’altra praticamente insormontabile così come le frontiere delle varie nazioni.. Durante un suo viaggio da Bordeaux per Nuova York sul piroscafo Patria della Favre Line, che ospitava anche la famosa attrice Sarah Bernhardt, Lina racconta che temette per la sua vita in quanto un sottomarino nemico seguì minaccioso la rotta del piroscafo, dopo averne già fatto affondare ben undici.
Anche il matrimonio con il tenore francese ebbe termine e si separarono a Parigi nel 1927. Ammetterà di aver “amato sempre con riserva, col beneficio dell’ inventario come direbbero gli avvocati specializzati in successione”. “Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere”.
Nel frattempo, una nuova unione ufficiale, c’ è chi sostiene coronata anche da un matrimonio, di cui, però, non ci sono tracce e di cui Lina nelle sua opera autobiografica non fa alcuna menzione, la vedrà impegnata con il campione automobilistico Giovanni Campari, che morirà tragicamente di lì a poco il 10 settembre 1933, uscendo di pista nell’autodromo di Monza durante una gara. Sarà il fratello Davide Campari, l’imprenditore italiano legato anche lui, sembra, sentimentalmente alla Cavalieri, a sfruttare la fama di lei per promuovere in tutto il mondo i propri elisir, le bevande Cordial e Bitter. Nello stesso periodo, ancora molto affascinante, anche se non più giovane, Lina sarà ambasciatrice del made in Italy ma anche la testimonial per prodotti di bellezza, per l’ alta moda sartoriale e per apparecchi musicali Columbia.
Anche il legame sentimentale con Davide Campari non durerà a lungo e nel 1934 la Cavalieri si legò all’avvocato romano Arnaldo Pavoni, di venti anni più giovane di lei, già sposato e che, con lo pseudonimo di Paolo D’Arvanni, curerà due anni dopo la pubblicazione del libro autobiografico di Lina “Le mie verità”, memorie che sembravano un romanzo, tanto da indurre una grande casa cinematografica americana a proporle di girare un film sulla propria vita, che sicuramente sarebbe stato realizzato se non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale.
Nel frattempo già all’ età di 55 anni, tre anni dopo essersi separata da Lucien Muratore, si era ritirata dal lavoro. Aveva affidato al figlio l’ amministrazione di tutte le attività di Parigi e Montecarlo , aveva abbandonato il cinema. “Abbandono che non mi rattristò – diceva – perché lo ritenevo solo un riposo”. “Mi ritiro dall’ arte senza chiasso dopo una carriera forse troppo clamorosa”.
Tornò in Italia, comprò una casa vicino a Rieti, a Castel San Benedetto, dove riunì tutti i suoi cimeli e lì visse accanto al suo impresario Arnaldo Pavoni ed al suo cane tanto amato che chiamò Pastorella in sintonia con il nome monastico della villa La Cappuccina. Si racconta che in quegli anni di ritiro in campagna Lina Cavalieri aprisse la sua dimora a tanti ospiti italiani e stranieri, organizzando giornate di festa con spettacoli anche di fuochi d’artificio e con particolari luci ad intermittenza con una cadenza che poteva dar luogo ad una sorta di alfabeto Morse luminoso, destinato come messaggio a qualcuno che si trovava a distanza e nel buio. Queste luci, che potevano, in effetti, servire per lanciare messaggi a chi “si intendeva informare”, e, quindi, il sospetto di spionaggio o di tentato sabotaggio ed il fatto di essere suddita francese furono probabili causa del suo arresto e successivo internamento a Rivodutri, voluto esplicitamente dal Ministero dell’ Interno italiano.
In passato, a partire dalla prima guerra mondiale aveva sempre mostrato una aperta simpatia per le forze alleate. Durante il periodo parigino insieme al terzo marito Lucien Muratore ed all’ amica Rachel Boyer della Comedie francaise aveva fatto parte del Comités pour l’ assistence aux poilus, aveva partecipato alle numerose tournée di propaganda per gli alleati europei insieme al marito anche in occasione del viaggio del maresciallo Ferdinand Foch, che aveva occupato il ruolo di comandante in capo di tutti gli eserciti alleati sul fronte occidentale sino alla resa della Germania imperiale. Negli anni Trenta aveva, si diceva, dato ospitalità nella sua abitazione parigina a Dolores Donati, sorella del più noto Oreste che in quegli anni, come antifascista, era esule in Francia. Nel suo libro Le mie verità, pubblicato nel 1936, facendo riferimento al suo viaggio in Africa settentrionale ed in Asia Minore, parlerà della Palestina come della “culla di tre religioni, la patria del più grande spirito che il mondo abbia conosciuto : Gesù Cristo”, e rimarrà impressionata dalla “visione dei pochi ebrei rimasti in Gerusalemme, non più padroni di casa loro, non più liberi di esercitare liberamente la loro missione di moderne vestali, custodi del fuoco sacro d’ Israele”. Inoltre sempre nella sua opera autobiografica descriverà con acume e benevolenza le caratteristiche dell’ uomo russo, americano, francese, italiano, ma non farà alcun riferimento all’ uomo tedesco, citandolo soltanto in un iniziale e semplice elenco. Non si soffermerà a descrivere le sue particolarità, come se volutamente volesse sorvolare sull’ argomento o per paura, o per dichiarato distacco, o per poca attrazione nei confronti di quel tipo di uomo.
Era il 2 luglio del 1940 quando Lina fu arrestata. La Germania a partire dal maggio aveva dato avvio alle operazioni militari contro la Francia ed il 10 giugno l’ Italia aveva dichiarato guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna a fianco della Germania. Fu arrestata insieme alla sorella, ma, forse per il suo passato molto celebre, l’ arresto qualche giorno dopo fu tramutato in domicilio coatto a Rivodutri, in via Giuseppe Micheli 1, nei pressi della piazza del Municipio dove rimase sotto stretto controllo per un certo periodo, con l’ obbligo di non allontanarsi dall’ abitato e di presentarsi tre volte al giorno, vale a dire al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, di fronte al podestà o ad un funzionario comunale, che ne doveva prendere nota nel fascicolo personale insieme alla sua regolare firma. Non le era concesso, come a tutti gli internati, di possedere denaro, né gioielli, né titoli. A Lina, che sempre ricordava la difficile infanzia, che mai aveva nascosto di temere la precarietà economica, la povertà e si era continuamente impegnata per divenire ricca, famosa e potente, non fu facile sicuramente accettare queste regole e soprattutto la mancanza di libertà. Questa esperienza rappresentò per lei sicuramente una svolta e segnò un cambiamento nelle sue scelte di vita. Durante l’ internamento può essere entrata in contatto o avvicinata da quelle forze politiche italiane e tedesche per le quali Lina aveva tutti i requisiti per divenire una loro collaboratrice: parlava bene il russo, il francese e l’ inglese, proprio le tre lingue dei belligeranti nemici dell’ Italia e della Germania ed inoltre aveva numerose conoscenze all’ estero anche fra civili e militari con incarichi importanti. Sta di fatto che dopo il domicilio coatto a Rivodutri e la sua permanenza ancora per poco tempo a Castel San Benedetto , lascerà la casa “La Cappuccina” per trasferirsi insieme al suo compagno di vita Arnaldo Pavoni, in arte Paolo D’ Arvanni, a Firenze, la “città dei fiori”, “la città di Dante”, come l’ aveva definita nella sua opera autobiografica, quella città che l’ aveva vista più volte far “moda automobilistica” sfrecciando lungo le Cascine o in aperta campagna su una splendida Ford Model T, conosciuta anche col nome di Tin Lizzie (lucertolina di latta). Aveva sempre associato Firenze ad una esperienza alquanto singolare, vissuta nel periodo in cui si trovava nella città per le varie rappresentazioni della Traviata al teatro Pagliano, ai primordi della sua attività di soprano lirico. All’ epoca alloggiava, all’ hotel Baglioni insieme alla compagna delle “sue fatiche”, la maestra Maddalena Mariani Masi ed in quella occasione era venuta a conoscenza che l’ autista, che ogni mattina la scorrazzava alle Cascine per un passeggiata, altro non era che il duca Raimondo T, primogenito di una delle più antiche e nobili famiglie siciliane, ben conosciuto da alcuni amici palermitani e che, pur di dividere il suo tempo con lei, aveva accettato questo incarico. Ma i tempi erano cambiati: Italia e Germania erano in guerra, Firenze aveva accolto in visita Hitler già ben due volte, nel 1938 e poi nel 1940 ed il clima mondano era solo un lontano ricordo.
Lina prenderà alloggio, o meglio, forse le sarà assegnato come alloggio, la villa Torre al Pino, ammobiliata, con villino attiguo, in via Suor Maria Celeste nella zona di Poggio Imperiale, di proprietà della tedesca Olga Tall, vedova del russo Muravieff , e che era stata sottoposta a sequestro dall’ Ente gestione e liquidazione immobiliare di Roma in quanto dichiarata di proprietà di un suddito “nemico della patria”. Vivere a Firenze le permetteva anche di avere più contatti con il figlio dal carattere, dicevano, molto schivo e poco socievole, che sin dalla tenera età era stato lasciato alle cure dei nonni materni e che aveva avuto pochi contatti con la madre sempre impegnata in attività che la portavano a viaggiare in tutta Europa ed in America. Alessandro risiedeva in città ormai dal 1933 insieme alla moglie, Elena Darra, che aveva sposato a Firenze nel 1932, quando ancora a Palmanova svolgeva attività in qualità di capitano dell’ esercito italiano. Viveva insieme ad Elena in uno stabile in via Jacopo Nardi, abitato anche dagli zii della moglie con i quali sicuramente aveva instaurato un legame affettivo molto stretto che lo porterà alla sua morte, avvenuta nel 1993, all’ età di 101, a scegliere di essere seppellito nella tomba che aveva già accolto le spoglie degli zii acquisiti e successivamente della consorte. Si trattava di una zona abitata dalla borghesia fiorentina, al di là di quei viali di circonvallazione, realizzati su progetto dell’ architetto Giuseppe Poggi dopo l’ abbattimento delle mura città nella seconda metà dell’ Ottocento, nei pressi della stazione di Campo di Marte, non certamente vicina a via Suor Maria Celeste, nella zona di Arcetri , in campagna, fuori dalla città, vicina a villa Il Gioiello, che aveva ospitato un tempo Galileo Galilei, all’ Istituto di Poggio Imperiale, all’ Osservatorio astronomico di Arcetri ed all’ Istituto di fisica, voluto in quella zona dallo scienziato e poi anche sindaco e podestà di Firenze, Antonio Garbasso. La via stretta e lunga era poco frequentata e la villa Torre al Pino, che si trovava circa a metà della strada, era isolata, circondata da un ampio parco e chiusa da un alto muro e pertanto presentavano una conformazione adatta per essere facilmente controllabili in tutt o loro punti. All’ epoca i vicini vedevano talvolta Lina Cavalieri girare nei dintorni su una carrozza guidata da un cocchiere, ma nessuno sembra averla mai avvicinata. Sta di fatto che molti fiorentini e visitatori ebbero modo di vederla per l’ ultima volta alla XIII Mostra d’ arte toscana, tenuta a Palazzo Strozzi nell’ aprile – maggio del 1942, ritratta nel dipinto di Giovanni Boldini che la raffigurava vestita stranamente con un abito molto castigato che nascondeva “la rara perfezione del suo corpo, massima nelle braccia che erano rimaste esemplari con gli anni”.
Firenze la ospiterà per poco tempo. Alcuni amici raccontarono che a Parigi una cartomante le aveva predetto che un giorno sarebbe morta di morte violenta. Così accadde. L’ 8 febbraio del 1944 da un aereo delle forze alleate, alle tre del pomeriggio, furono sganciate tre bombe: la prima colpì la casa di Lina Cavalieri, la seconda il bordo della strada che rimase transennato per anni, la terza cadde nel terreno agricolo sottostante la strada, che gli abitanti di Pian dei Giullari chiamavano Regnaia, perché i contadini erano soliti collocarvi delle reti per catturare piccoli uccelli. Solo la prima bomba provocò vittime. Lina Cavalieri morì insieme al suo segretario , l’ avvocato Arnaldo Pavoni ed alla sua casiera Guglielma Raveggi. Lo spostamento d’ aria demolì anche parte del villino vicino dove rimase ferito Ennio Raveggi, il popolare massaggiatore della Fiorentina. Sembra che Lina non avesse raggiunto in tempo i sotterranei esterni di difesa antiaerea per poter recuperare i gioielli nascosti nella sua camera da letto.
All’ epoca ci fu chi sostenne che le bombe erano state sganciate perché l’ aereo stava perdendo quota a causa di una avaria, ma tre bombe sganciate erano poca cosa perché l’ aereo si alleggerisse ed inoltre i punti colpiti apparvero precisi e strategici perché l’ obiettivo venisse colpito ed eliminato. Molti, infatti, ritennero che le truppe alleate avessero voluto punire la cantante in quanto collaboratrice di ufficiali tedeschi.
Brevi e sintetici furono gli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al bombardamento ed alla morte di Lina Cavalieri, mentre si dice che dopo il tragico evento «lenta e dura la voce della radio” introdusse “ un brivido di orrore nelle tante case borghesi dove Lina Cavalieri era divenuta un mito [… ] milioni di persone hanno sospirato, riconoscendo nella fine di una leggenda un congedo della propria stessa giovinezza”. Sembra che dopo l’ accaduto in Firenze non fu reso alcun omaggio alla “donna più bella del mondo”, a colei che nella sua vita era sempre stata un personaggio pubblico ed aveva in tutti i modi cercato di attirare a sé l’ attenzione di tutti. La paura,forse, di nuovi attacchi aerei, il clima di forte tensione in quei giorni tra forze fasciste e gruppi di antifascisti e la presenza frequente nella zona di militari tedeschi, ormai prossimi alla ritirata, faranno sì che “dietro al suo carro, in quei giorni tristi e dolorosi” ci fossero solo “ un prete, sei persone ed una folla di ricordi che nessuno vide”.
La salma, pare intatta, di Lina Cavalieri, estratta dalle macerie, fu trasferita all’ asilo mortuario del Romito dove si svolse,come comunicarono molti giornali dell’ epoca, il non ben definito “rito del’ associazione”. Il suo corpo fu poi trasportato al cimitero delle Porte Sante, dove rimarrà sino al 1947 ed alla fine della guerra verrà tumulata nel cimitero del Verano, a Roma, nella tomba di famiglia insieme al padre Florindo, già morto nel 1909, ed alla madre Teonilla, deceduta nel 1931 e dove più tardi la raggiungeranno anche i fratelli. La salma del suo compagno di vita, il romano Arnaldo Pavoni rimase nel cimitero dello Porte Sante sino al 1951, quando sarà tumulato in un altro cimitero fiorentino senza, ironia della sorte, poter mai raggiungere l’ ultima compagna della sua vita e della morte.
A Padova la mostra ‘Vivian Maier. The exhibition’ aperta dal 24 aprile-
Aprirà al pubblico il 24 aprile Vivian Maier. The exhibition, “la più grande mostra mai dedicata alla celebre fotografa americana” ospitata a Padova, presso il Centro Culturale Altinate – San Gaetano fino al 28 settembre 2025. Sono più di 200 le stampe a colori e in bianco e nero, oltre a contact sheet, le opere esposte. La mostra propone anche registrazioni audio originali con la voce della fotografa e filmati Super 8, “visibili soltanto in questa retrospettiva” precisano gli organizzatori.
Curata da Anne Morin – la più grande esperta e studiosa della vita dell’artista – l’esposizione è suddivisa in sezioni tematiche che esplorano i soggetti e gli aspetti distintivi del suo stile: dagli intensi autoritratti alle scene di vita urbana, dai ritratti di bambini alle immagini di persone ai margini della società. La selezione include fotografie in bianco e nero e a colori, molte delle quali rare ed esposte solo recentemente al pubblico. La mostra si arricchisce inoltre di filmati in formato Super 8, provini a contatto, audio con la voce di Vivian Maier e vari oggetti personali, tra cui le sue macchine fotografiche Rolleiflex e Leica.
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
La mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia Promossa dal Comune di Padova, da un progetto di Vertigo Syndrome in collaborazione con Chroma photography.
INFORMAZIONI
Orario apertura
Dal martedì alla domenica 10.00-19.30
Chiuso il lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima)
Orari estivi dal 28 luglio al 31 agosto
Dal martedì alla domenica 10.00-13.00, 15.30-19.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Chiuso il lunedì
Dall’11 al 17 agosto chiuso
Aperture straordinarie
Venerdì 25 aprile 10.00-19.30
Giovedì 1 maggio 10.00-19.30
Lunedì 2 giugno 10.00-19.30
Venerdì 13 giugno 10.00-19.30
Biglietti
Open € 18,00
Intero € 16,00
Ridotto € 14,00
Luciano Bianciardi, il Jamaica, la musica popolare ed altro.
Luciano Bianciardi, il Jamaica, è stato il corrispettivo di Pasolini, quello che il poeta vedeva nelle borgate romane, negli stessi anni Bianciardi lo scopriva nella Milano “livida e sprofondata” .
È l’autore della “Vita agra”, quasi un manifesto anarcoide sul disumano divenire della metropoli votata al consumo. È sempre sembrato un autore in qualche modo esemplare, meritevole di fregiarsi del titolo di “maestro” all’interno del panorama letterario italiano per gli scrittori della nuova generazione. In particolare, la sua opera ha espresso la reazione del giovane intellettuale di provincia di fronte al difficile momento di trapasso dalla letteratura ufficiale ed altisonante del fascismo propagandistico al neorealismo e poi al Boom economico degli Anni Sessanta. Questo perché con la sua stessa vita ha esemplificato la figura di ciò che può essere definito “l’intellettuale disintegrato”.
Luciano Bianciardi anticipa l’ importanza della musica “a 33 giri”, scopre Jannacci e Celentano. Enzo Jannacci fa il suo esordio col suo primo album in studio: La Milano, nel 1964. Dodici tracce, per lo più in milanese, tra cui la ballata El portava i scarp del tennis, due brani con testo di Dario Fo e una reinterpretazione di Mami, l’unica canzone mai scritta da Giorgio Strehler. Sul retro della copertina, una nota di Bianciardi, che aveva avuto modo di apprezzare il cantante in una sua esibizione al Teatro Gerolamo. Riguardo al loro rapporto Jannacci raccontava che, nonostante fosse poco più che un ragazzino, Bianciardi lo interpellava spesso per conoscere le sue opinioni sui cosiddetti massimi sistemi: “Mi chiedeva: Jannaccione, cosa ne pensi del mondo? E io rispondevo che ne pensavo malissimo. Fingono tutti, abbiamo perso la guerra, siamo poveri e nessuno lo dice. Tutta la mia produzione pseudopoetica parla di un Paese che fa finta di essere ricco e colto ma non pensa, non legge, non capisce”. Già nel ’64 però Jannacci aveva prestato volto e voce per la trasposizione cinematografica de La vita agra, interpretando L’ombrello di suo fratello dentro il bar Jamaica, nella Brera degli artisti e dei cospiratori.
Dopo la vittoria di Celentano al Cantagiro del 1962, Bianciardi intuisce la valenza ideologica del “sorriso celentanoide, espressione emblematica del neoqualunquismo neocapitalista”. Per Bianciardi il giovane Celentano era “saldo e avveduto” e avrebbe un giorno lanciato “una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato”. Adriano Celentano oggi scrive lettere a quotidiani. Interventi che diventano editoriali, ripresi anche dalla televisione e da internet. Considerato a tutti gli effetti un opinion leader dalla “filosofia totale”.
A Milano Bianciardi incontra solo ragionieri e “segretariette”: gli operai sono a Sesto San Giovanni, nelle periferie. Del capoluogo lombardo non gli piace niente, come spiega in alcune interviste dell’epoca , e l’improvvisa popolarità paradossalmente lo getta ancora più nella depressione: “Ormai mi chiamano ovunque, posso sparare qualsiasi cavolata”. Rifiuta una collaborazione offertagli da Indro Montanelli con il Corriere della Sera, in qualità di articolista di spalla, preferendo rubriche su giornali molto popolari quali ABC, Il Guerin Sportivo, L’Automobile o riviste prettamente maschili come Le Ore e Playmen, dove si sente molto più libero.
Cercò di lasciare Milano, trasferendosi con la sua compagna a Sant’Anna di Rapallo; il professor Nuccio Lodato, suo amico di quel periodo, ci ha raccontato che la domenica Bianciardi chiamava a raccolta un buon numero di persone a casa sua per vedere in compagnia “Quelli della domenica”. Andava pazzo per Paolo Villaggio nei panni del professor Kranz e del ragionier Fracchia, l’antesignano di Fantozzi, forse perché vedeva, in quel piccolo borghese vittima del consumismo, la rappresentazione in chiave comica del miracolo economico dal quale lui aveva tentato di fuggire, e che lo aveva portato all’alcolismo. Dopo la rottura con Maria Jatosti, la sua compagna (legame fuori dal matrimonio, da cui nacque il figlio Marcello), e un maldestro tentativo di riallacciare i rapporti con la famiglia e i figli, Bianciardi tornò a Milano, l’unico posto dove poteva bere senza essere controllato. E dove morì poco dopo, nel 1971, consumato dall’alcol.
Luciano Bianciardi
Luciano Bianciardi, l’”ultimo bohémien” che vide i primi mali della società dei consumi- Articolo di Marco Marasà-
Fonte Articolo STRISCIAROSSA
Nel periodo tra le due guerre mondiali, il 14 dicembre del 1922, nasce Luciano Bianciardi. Giovanni Arpino – tra i due vi era una profonda amicizia – lo definì “l’ultimo Bohémien possibile, seduto sulle macerie di un romanticismo perduto”.
Il campo in cui Bianciardi imbastisce il suo percorso di scrittore è nella maremma degli anni’50. In una piccola cittadina in divenire, nella quale il progresso stava mettendo i propri germogli, concepisce il Lavoro Culturale, primo di quella che sarà una sorta di “trilogia della rabbia” composta appunto dal Lavoro Culturale, L’integrazione e La vita Agra.
Luciano Bianciardi
Le contraddizioni della provincia grossetana
Della provincia Bianciardi carpisce la vivacità culturale che in quegli anni stava venendo fuori. Ne indovina però anche le contraddizioni e, con sardonica ironia, racconta il mondo letterario ed erudito della sua città natale, Grosseto. I cineforum che danno solo film sovietici o ungheresi, seguiti da animati dibattiti, sono la cartina di tornasole della provincia di allora. Un mondo ancora spaccato in due, tra il proletariato che sovente si rifaceva al Partito comunista italiano – che Bianciardi esortava di andare a votare ma al quale invitava di non iscriversi – e la classe borghese perlopiù democristiana. Eccetto alcuni intellettuali che, come viene raccontato da Bianciardi, si barcamenano per creare un ponte con gli operai. I risultati a volte sono grotteschi: operai assiepati nella sala cinematografica di Grosseto a sentire la recensione di un dato film ungherese di un critico venuto apposta da Roma.
Dal proprio cilindro Bianciardi pescava idee generose tanto quanto geniali; come il bibliobus, un pullman stipato di libri da elargire alla gente di campagna. Se le persone non possono raggiungere la biblioteca, sarà la biblioteca ad andare dalle persone. Un’autovettura che si faceva largo tra i paesaggi campestri, a bordo della quale vi erano Bianciardi e Carlo Cassola. L’inventiva di Bianciardi si manifestava anche e soprattutto nel linguaggio: per esempio Kansas City per denominare Grosseto. Appellativo affibbiato da Bianciardi dopo che i tenenti venuti dall’America trovarono una somiglianza tra Kansas City e la città maremmana. Streetrock che stava per Roccastrada. Il vezzo di traslare le parole nella lingua inglese è eredità adolescenziale. Degli anni trascorsi a trangugiare libri e romanzi dei narratori americani.-
Luciano Bianciardi,l’esplosione
L’esplosione a Ribolla che lo scuote
Poi nel maggio del 1954, all’improvviso, nel paese di Ribolla, un’esplosione di grisou in una miniera di lignite miete le vite di quarantatré minatori. Un evento nefasto che percuote l’animo dello scrittore grossetano. Con Carlo Cassola scrive I minatori della maremma, libro-inchiesta sulle condizioni dei minatori e delle miniere maremmane. Allo stesso tempo il saggio è una denuncia contro le inadempienze e le negligenze della compagnia mineraria Montecatini, che causarono l’esplosione della miniera di Ribolla. Al pari di The road in Wigan Pier (del 1937) – libro sulle condizioni dei minatori inglesi – di George Orwell, l’inchiesta è oggi un classico della letteratura operaia.
Per Bianciardi però la faccenda di Ribolla resta una ferita aperta. Per lenire le proprie pene parte per la moderna Milano. Dai giorni trascorsi a Milano, Bianciardi tira fuori La Vita Agra (1962), il suo capolavoro. Una commistione di tutto quello che aveva vissuto fino ad allora: la propria vita sentimentale, quella lavorativa e soprattutto l’esplosione di grisou.
Bianciardi mette sulla carta ciò che egli vorrebbe ma non può compiere: fare esplodere con la dinamite il torracchione, emblema dell’edonismo. Milano ha le fattezze delle città post- industriali d’oggi. I primi grandi e orribili grattacieli sovrastano lo sguardo attonito dello scrittore maremmano. Vi sono supermercati dove accanto alla pasta si vendono libri. Cose eterogenee confluiscono nello stesso spazio e formano un agglomerato di beni a portata di mano. Racconta delle impiegate rinseccolite che battono a macchina con sguardi tristi ed assenti.
Dai minatori passa agli operai, che però non vuole raccontare perché non li conosce e non ha avuto modo di osservarli, come invece è accaduto per i minatori maremmani. Alla fine, è Milano ad averla vinta e Bianciardi col tempo finisce per consumarsi. Beve tanto e fuma di più. Tuttavia, ha in serbo ancora un altro coniglio da far uscire dal proprio cilindro. In Israele, per dileggiare il generale Moshe Dayan, si fa fotografare con una benda sull’occhio. Si tratta della sua foto più celebre. Tra le vie di Grosseto ci si può imbattere nel suo faccione appiccicato su un muro, in uno dei graffiti che lo ritrae con espressione serafica e benda sull’occhio.
Luciano Bianciardi,la benda
-Quando si rifugia nel passato
Nel periodo di eclissi milanese, si rifugia nel passato. Precisamente nel Risorgimento, scrive cinque libri: Da Quarto a Torino. Breve spedizione dei mille (1960), La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969), Aprire il fuoco (1969) e Garibaldi (1972). Esalta Garibaldi e i mille. Si sente anch’esso una camicia rossa disillusa, “l’ultima camicia rossa della storia” .
Perché ricordare Luciano Bianciardi? Egli, anticipando persino Pier Paolo Pasolini, fu il primo a capire e a criticare, se pure in maniera confusionaria, la società dei consumi. Essa era ancora agli albori, ma Bianciardi riuscì a predire che tutto il mondo un giorno sarebbe diventato come Milano. Osservando quella città dove “se caschi nessuno ti raccatta” intuì l’omologazione, nonché la progressiva dissoluzione dei rapporti umani. Il mondo d’oggi a Bianciardi di certo non sarebbe piaciuto. Chissà quali parole avrebbe usato per apostrofare i vari colossi della rete – soverchianti supermercati virtuali – le multinazionali e così via. No, una società in cui l’edonismo permea ogni lembo sociale, non sarebbe andata giù all’”ultimo bohémien”.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate nel n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Biblioteca DEA SABINA-Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Rivista Collettivo R-La casa editrice venne fondata nel dicembre 1970 su inizativa di Luca Rosi, Ubaldo Bardi e Franco Manescalchi all’interno del movimento dell’underground culturale ed editoriale fiorentino in stretto collegamento con l’associazionismo politico culturale e ricreativo (Arci, Circoli culturali, Case del popolo, partiti della sinistra storica, sindacati e movimento studentesco). Lo scopo era di collegare la contestazione politica con orizzonti culturali più ampi attraverso la proposta della riflessione di scrittori e poeti, in particolare italiani e latinoamericani, poco noti al grande pubblico. L’iniziativa si concretizzò nella pubblicazione della rivista «Collettivo R», un nome derivato dalle unioni spontanee di quegli anni e una lettera simbolica R ad indicare un triplice richiamo: Resistenza, Ricerca, Rivoluzione.
La rivista mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
La Rivista Collettivo R mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio
IN RICORDO DI LUCA ROSI direttore della rivista di poesia “COLLETTIVO R- ATAHUALPA”
Sabato 21 settembre u.s. è morto Luca Rosi. Quanti l’abbiamo conosciuto abbiamo perso non solo il poeta, ma l’amico leale e sensibile, sempre vicino nei problemi di vita quotidiana; tutti noi dopo la sua morte siamo orfani di qualcosa,sentiamo la sua assenza come un vuoto e siamo affranti, questo vuoto era la sua dolcezza nei rapporti con tutti e il suo impegno tenace, di una persona forte e resistente moralmente, con la sua orientazione a portare a termine impegni di traduzione dei testi della rivista, di redazione dei “quaderni” di poesia o della preparazione dei diversi numeri della rivista. In questo impegno in cui si riconosceva pienamente e attraverso esso comunicava con tutti noi ed era felice quando inviava la rivista e spesso aggiungeva in un foglio allegato un caro saluto. Luca, con me, che abito a Roma, spesso era presente con una telefonata o con una lettera. Qualche volta veniva a Roma per i suoi impegni nel sindacato dell’editoria,ed era un’occasione di incontro e di riflessione, ugualmente avveniva nei miei ritorni a Firenze, anche dopo la conclusione del periodo universitario.
Luca era nato settanta quattro anni fa. L’ho incontrato la prima volta a Firenze, nella sua abitazione, per una riunione della redazione della rivista “Collettivo R”, fondata da Franco Manescalchi insieme allo stesso Luca. Quella sera, ricordo ci fossero Silvano Guarducci, Ubaldo Bardi e Paolo Tassi. Ero stato invitato, dopo aver scritto una lettera alla redazione in seguito alla presa visione di uno dei primi numeri che era arrivato alla redazione dei “Quaderni Calabresi” di Vibo Valentia. Siamo nei primi anni ’70, molto ricchi di fermenti culturali, e io ero alla ricerca di un percorso personale, che coniugasse politica e poesia. Allora mi sembrò – e fu poi così – di averlo trovato nella rivista fiorentina e nel gruppo di persone che l’animava.
Quando i rapporti redazionali divennero più frequenti con Luca, si andava formando anche una sincera amicizia, che col tempo si è consolidata, diventando molto preziosa. Io lo apprezzavo molto e gli volevo bene, e lui non mancava di farmi sentire il suo affetto e la sua stima, giudicando positivamente non solo i miei primi testi poetici per la rivista, ma spesso mi incoraggiava tantissimo a continuare a scrivere durante i miei periodi di dubbi e di insicurezza nel trovare un mio percorso. Io intanto scorgevo in lui (anche in Franco e Silvano e Paolo) l’unione tra intelligenza e sforzo morale: cioè l’attenzione che riversava verso la storia coniugata con la poesia. Lui , figlio di emigranti italiani in Venezuela, ritornato in Italia per studiare all’Università, aveva cominciato con l’interesse per i problemi degli studenti stranieri in Italia, con la redazione di un giornale degli studenti immigrati. Nel frattempo aveva avviato con la scrittura di testi poetici una comprensione del mondo e della sua storia. Penso alle prime due raccolte: “TERRA CALCINATA” E “AMORE SENZA TEMPO”. Per la prima volta ho cominciato a sentire da lui ( e da Franco) l’espressione caratterizzante: la poesia comepoesia della tensione. Essa era il risultato di riflessioni sul giusto rapporto morale con il mondo di quella storia che allora era divisa tra oppressione e movimenti di rivolta e rivoluzione. In quella concezione della poesia mi sembrava abitasse qualcosa di spirituale unito al politico. Luca era così, racchiudeva l’uno e l’altro. Lo spirituale mi sembrava basato su ciò che chiamiamo scelta, responsabilità, disponibilità all’apertura al mondo della storia. Così era fatto il suo mondo di poeta e di intellettuale, di poeta-intellettuale. Lui proponeva una poesia fatta con la passione della politica e con una tensione spirituale verso le singole persone oltre che per i fatti storico-collettivi. In Luca era molto presente anche l’orizzonte esistenziale, credo per dare un senso maggiore alla storia e alla vita stessa. Luca, già nei primi numeri della rivista “Collettivo R” individuava il ruolo del poeta come politico, con una sensibilità e una “tensione” verso le classi sfruttate e oppresse. Lui pensava possibile una <<lunga marcia>> in cui i poeti avrebbero lasciato da parte le ambizioni piccolo-borghesi, ogni prestigio personale per identificarsi con i problemi storici dell’oppressione. Luca è stato un innovatore : attraverso i testi classici del marxismo, denunciava nei primi scritti l’alienazione del lavoro intellettuale nell’industria, tra cui quello del poeta, che avrebbe perso l’aureola, eproponeva l’uscita dall’editoria tradizionale, con l’esoeditoria e il ciclostile e la diffusione a braccio della poesia tra gli strati popolari (case del popolo, scuole, ecc), collegandosi con le forze sociali che agivano a livello di massa. Così individuava il ruolo del poeta come ruolo politico in senso lato, con una tensione verso le classi oppresse. La Sua presenza alle feste dell’Unità, in alcune scuole, presso le Case del Popolo, e altri luoghi pubblici era determinante e necessaria: lui non riservava le sue energie che a questa attività di pedagogo, di amante della poesia, per far altresì innamorare gli altri. Una sua grande gioia era quella di poter invitare in questi incontri il poeta Cardenal o Rafael Alberti, o di tradurre dallo spagnolo moltissimi poeti latino-americani, per poterli far conoscere ai lettori italiani, cominciando dall’ antologia collettivamente tradotta: “Poeti a Cuba”. Il suo amore intenso per la poesia lo portava spesso a organizzare cene di sottoscrizione per continuare la pubblicazione della rivista, o a passare giorni interi a correggere le bozze di più di 50 libri di poesia di altrettanti autori, o a interessarsi alla redazione dell’antologia “L’Utopia Consumata” (o Anti-Antologia),o a curare periodicamente e con assiduità la corrispondenza con i poeti della rivista , o a tener testa ai diversi progetti culturali, relativi alla fondazione del Centro Eielson per la conoscenza della poesia latino-americana, o alla fondazione dell’Associazione culturale “ATAHUALPA, o alla edizione della nuova serie della rivista a cominciare dal 2006, o a preparare presso la biblioteca Marucelliana di Firenze la mostra di tutti i materiali di “COLLETTIVO R” e i diversi incontri di presentazione di libri per il quarantesimo anniversario della rivista.In questo suo impegno tenace era sempre sostenuto da una famiglia molto generose e a lui vicina: dalla moglie Felis, dalle figlie e dai nipoti, a cui ha saputo trasmettere con molto affetto il valore della poesia. Ecco, quando prendiamo in mano o pensiamo un numero della rivista o uno dei libri editati da Colletttivo R, pensiamo a Luca, al suo grande amore perché la poesia giungesse a tantissimi, perciò pensiamo a Lui come poeta, intellettuale e pedagogo. Oraquesto suo mondo apparentemente trascorso vivrà nel futuro, nella misura in cui noi lo ricordiamo riproponendolo. (Luca un grazie infinito da parte mia e a nome anche di coloro che ti hanno conosciuto attraverso la Rivista).
Il fascino della fotografa Vivian Maier è dovuto al mistero che circonda la sua vita e il suo lavoro. La vicenda di Vivian Maier, la misteriosa bambinaia fotografa diventata un caso mediatico poco dopo la sua morte, è nota solo a grandi linee, così come nota è solo una piccola selezione delle sue immagini e una manciata di informazioni sulla sua vita“Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è la raccolta più completa delle sue fotografie, in bianco e nero e a colori. Grazie al testo introduttivo di Marvin Heiferman, scrittore e curatore, il volume esplora e celebra la vita e l’opera di Vivian Maier in una prospettiva precisa e attuale, analizzando il suo lavoro nel contesto della Street photography americana contemporanea. Basato anche su una serie di interviste a persone che la conobbero, il testo getta una nuova luce sulla vita e sulla sorprendente opera di Vivian Maier. Con 240 fotografie in gran parte inedite, questa raccolta include anche le immagini degli effetti personali della fotografa, così come gli oggetti collezionati nella sua vita e mai prima d’ora visti.
La vita di Vivian Maier è stata ricostruita in particolare da John Maloof che ha cercato testimonianze della sua vita negli Stati Uniti, specialmente tra le famiglie presso le quali ha vissuto. La parte francese della sua biografia è stata ricostruita grazie al lavoro dell’associazione Vivian Maier et le Champsaur[1] che ha cercato testimoni nel Champsaur, la valle d’origine della sua famiglia materna nelle Alte Alpi.
Vivian Maier nacque a New York, il 1º febbraio 1926. Suo padre, Charles Maier, era statunitense, nato da una famiglia di emigranti austriaca, mentre sua madre, Maria Jaussaud, era nata in Francia, nel maggio 1897, a Saint-Julien-en-Champsaur in cui visse fino alla sua partenza in America, dove un ramo della famiglia Jaussaud era già emigrata. A New York, Maria conobbe Charles Maier, impiegato in una drogheria, che sposò nel maggio 1919 ottenendo, attraverso il matrimonio, la cittadinanza degli Stati Uniti. Da questa unione nacquero due figli: prima un maschio, William Charles, nel 1920, e poi, nel 1926, una figlia, Vivian.
Vivian Maier
Separatisi i genitori nel 1929, il ragazzo fu affidato ai nonni paterni e Vivian rimase con la madre, che trovò poi rifugio presso un’amica francese che viveva nel Bronx, di nome Jeanne Bertrand, nata nel 1880 non lontano dalla valle di Champsaur. Jeanne Bertrand era già una fotografa professionista, tanto che ebbe gli onori della prima pagina del 23 agosto 1902 del Boston Globe, il principale giornale di Boston, che pubblicò una sua foto e due ritratti fatti da lei, insieme ad un articolo elogiativo sul suo giovane talento fotografico. Fu lei che trasmise a Maria e a sua figlia la passione per la fotografia.
Vivian Maier
Grazie alle testimonianze raccolte dai residenti in Champsaur, il sito dell’associazione locale riporta che tra il 1932 e il 1933, le due donne e Vivian tornarono in Francia e si stabilirono prima a Saint-Julien, poi a Saint-Bonnet-en-Champsaur. Parte dell’infanzia di Vivian si svolse quindi in Francia, dai sei-sette anni fino ai dodici. In quel periodo, Vivian parla francese e gioca con i bambini della sua età mentre Maria, sua madre, scatta alcune fotografie che testimoniano del loro soggiorno.
Vivian Maier
Il 1º agosto 1938 Maria Maier e sua figlia ripartirono per gli Stati Uniti a bordo del transatlantico Normandie, che collegava Le Havre a New York, dove di nuovo si stabilirono. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian Maier, all’età di 24-25 anni, tornò a Champsaur per mettere all’asta una proprietà che le era stata lasciata in eredità. In attesa della vendita, Vivian, con due apparecchi fotografici a tracolla, percorse la regione, facendo visita ai membri della sua famiglia e riprendendo molte immagini.
Vivian Maier
La giovane donna ripartì nell’aprile del 1951 per New York. Con il ricavato della vendita della casa, comprò una fotocamera eccellente, una Rolleiflex professionale, e viaggiò nel Nordamerica. In seguito lavorò come bambinaia al servizio di una famiglia di Southampton, prima di stabilirsi definitivamente nel 1956 a Chicago, dove continuò a fare la governante per bambini.
Vivian Maier
Vivian Maier aveva 30 anni al suo arrivo a Chicago, dove fu assunta dai coniugi Nancy e Avron Gensburg per prendersi cura dei loro tre ragazzi: John, Lane e Matthew. Secondo Nancy Gensburg, Vivian non prediligeva fare la bambinaia, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini, peraltro, l’adoravano: per Lane Gensburg, Vivian “era come Mary Poppins“.
Vivian Maier
Presso i Gensburg Maier aveva un bagno privato, che le servì anche come camera oscura, avendola lei attrezzata per sviluppare i negativi e i suoi film. La fotografa diede libero sfogo alla sua passione per la fotografia allorché, ad ogni occasione, poté immortalare la vita quotidiana nelle strade con i suoi abitanti, bambini, lavoratori, persone di buona società e personaggi famosi come pure miserabili, mendicanti ed emarginati. Mentre era ancora al servizio dei Gensburg, che ricorsero ad una temporanea sostituita, Vivian intraprese, da sola, per 6 mesi, tra il 1959 e il 1960, un viaggio intorno al mondo, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia dove sostò a Genova e a Torino e infine la Francia con un ultimo soggiorno a Champsaur girando in bicicletta per tutto il circondario e scattando molte foto. Non disse mai ai Gensburg dove fosse stata, benché fosse molto legata a questa famiglia che conobbe fin dal suo arrivo a Chicago e con cui visse per 17 anni. Diventati grandi John, Lane e Matthew, i Gensburg non ebbero più bisogno di una tata e Vivian Maier li lasciò per continuare la sua attività presso altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e decise di passare alla fotografia a colori con diverse fotocamere, tra cui una Kodak e una Leica.
Vivian Maier
Nel 1975 morì la madre Maria, con la quale non aveva più rapporti da anni. Vivian, sempre animata dalla sua grande passione per la fotografia, continuò a guadagnarsi da vivere come bambinaia. Non si conoscono tutte le famiglie presso le quali prese servizio, ma si sa che nel 1987 si presentò ai coniugi Usiskin, suoi nuovi datori di lavoro, portando con sé 200 casse di cartone contenenti il suo archivio personale, che furono immagazzinate in un box.
Vivian Maier
Dal 1989 al 1993 Vivian si prese cura con grande umanità di Chiara Bayleander, un’adolescente con disabilità mentale. In questo periodo le sue casse furono sistemate in un mezzanino del suo datore di lavoro.
Vivian Maier
Mentre l’età avanzava, Vivian si trovò ad attraversare gravi difficoltà finanziarie. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire nel box di un magazzino preso in affitto. Alla fine degli anni novanta i fratelli Gensburg, con i quali Vivian aveva per molto tempo mantenuto un legame andando a visitarli in occasione di matrimoni, lauree e nascite, la rintracciarono in un piccolo alloggio economico di Cicero e la trasferirono in un grazioso appartamento a Rogers Park vegliando su di lei.[2]
Vivian Maier
Sul finire del 2008, Vivian ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio e battendo la testa, per cui fu ricoverata in ospedale. I Gensburg per garantirsi che avesse le migliori cure la fecero trasferire in una casa di cura a Highland Park. Nonostante queste affettuose attenzioni, Vivian Maier morì dopo poco tempo, il 21 aprile 2009, senza che né lei né i Gensburg sapessero che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta, e prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.
Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi[3] è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui statunitense, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare.
Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr, ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna che aveva scattato quelle fotografie: venne a sapere che Vivian non aveva famiglia e aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago; durante le giornate libere e i periodi di vacanza era solita scattare foto della vita quotidiana di città come New York, Chicago e Los Angeles. La maggior parte delle sue foto sono street photosante litteram e dunque Maier può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico. Inoltre, Maier scattò molti autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l’obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
La sua vita può essere paragonata a quella della poetessa statunitense Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle e, anzi, a volte, nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate solamente dopo la sua morte. Dal momento della sua scoperta, Maloof ha svolto una grande attività di divulgazione della sua opera fotografica, organizzando mostre itineranti in tutto il mondo.[4] Vivian Maier utilizzava per scattare le sue immagini una macchina fotografica Rolleiflex e un apparecchio Leica IIIc. La sua vita e il suo lavoro sono stati oggetto di libri e documentari.
Affermazione di Joan Fontcuberta
Nel 2017 il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta affermò, durante una conferenza tenutasi a Bologna, di aver inventato lui il personaggio di Vivian Maier insieme a John Maloof e che per quanto la donna delle foto sia realmente esistita e le foto sono autentiche, tutta la storia che ruota attorno a lei è stata inventata[5]. In seguito non si hanno notizie di prove fornite da Fontcuberta, noto per le sue provocazioni, né che abbia reiterato l’affermazione; nessun organo di stampa l’ha avallata.[6]
Mostre
Vivian Maier Anthology, settembre 2023-gennaio 2024, Palazzo Pallavicini (Bologna) organizzata da Deborah Petroni, Chiara Campagnoli e Rubens Fogacci, a cura di Anne Morin
Summer in the City, giugno–agosto 2013, Chicago; Russell Bowman Art Advisory.[23]
Vivian Maier, giugno–agosto 2013, Shanghai, Cina; Kunst.Licht Photo Art Gallery.[24]
Vivian Maier: Out of the Shadows, luglio–settembre 2013, Toronto, Ontario; Stephen Bulger Gallery.[25]
Vivian Maier: Out of the Shadows – The Unknown Nanny Photographer, agosto–ottobre 2013, Durango, Colorado; Open Shutter Gallery.[26]
Загадка Вивьен Майер (The Riddle of Vivian Maier), settembre–ottobre 2013, Mosca, Russia; Центр фотографии имени братьев Люмьер (The Lumiere Brothers Center for Photography).[8]
Vivian Maier: Picturing Chicago, ottobre 2013, Chicago; Union League Club.[27]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–febbraio 2014, Cleveland, Ohio; Cleveland Print Room.[30]
Certificates of Presence: Vivian Maier, Livija Patikne, J. Lindemann, 17 gennaio – 8 marzo 2014, Milwaukee; Portrait Society Gallery.[31]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–marzo 2014, Minneapolis; MPLS Photo Center.[32]
Vivian Maier: Out of the Shadows, febbraio–giugno 2014, San Francisco; Scott Nichols Gallery.[33]
See All About It: Vivian Maier’s Newspaper Portraits, marzo–maggio 2014, Berkeley; The Reva and David Logan Gallery at UC Berkeley’s Graduate School of Journalism.[34]
Vivian Maier, Photographer, marzo–maggio 2014, Fribourg, Svizzera; Cantonal and University Library.[35]
Vivian Maier: Out of The Shadows, marzo–settembre 2014, Chicago, Illinois; Harold Washington Library.[36]
Vivian Maier – A Photographic Journey, maggio–luglio 2014, Highland Park; The Art Center Highland Park.[37]
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