La poesia matura di Kiki Dimoulà (1931-2020) ha aggiunto una dimensione completamente nuova alla poesia greca moderna.
Avendo sperimentato il dramma della dissoluzione esistenziale dell’umanità del dopoguerra e, allo stesso tempo, il vicolo cieco di un mondo che ha perso il dono della fede, la sua poesia ha mappato un mondo che è allo stesso tempo “senza casa” e insicuro; un mondo in cui la poeta, per sopravvivere, ha dovuto immergersi nelle dinamiche fondamentali del processo creativo e interferire in modo decisivo con la loro logica. La sua scrittura rivoltava la grammatica della lingua greca contro il significato delle parole, tentando così di rafforzare la forza emotiva del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi suggeriscono la stabilità di un mondo che gli occhi non possono vedere, ma che diventa intero attraverso la sua ricostruzione immaginaria all’interno della poesia come un tutto organico. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventata un fattore emotivo attivo nella poesia greca contemporanea.
Kiki Dimoulà
La poesia di Dimoulà tratta i temi dell’assenza e dell’oblio come in un caleidoscopio, dove colori e forme si dissolvono e si mescolano per essere ricostruiti in un’armonia e un ordine nascosti. Questa poesia trasforma la fluidità in un processo transustanziante: l’universo ridiventa mondo, l’agonia diventa nostalgia, l’assenza appare come redenzione del tempo. Il linguaggio della poeta rompe le consuetudini e nega le certezze di una tradizione romantica che non vede il tempo perduto come una presenza continua e attiva. Attraverso le sue linee il tempo personale rinasce e si compie per sempre come esperienza collettiva e immagine prismatica. La sua poesia, attraverso le analisi e gli studi di Eraclito, presenta il mondo migliore di un’ontologia personale e lo stabilisce come materiale sensoriale e fenomeno estetico.
Per Dimoulà il silenzio, la migrazione e la minimizzazione entrano nel linguaggio per dissolvere la coerenza di una logica incapace di decifrarne il messaggio. In essi la poeta scopre dimensioni esistenziali che errano nell’esperienza ma che il cervello, ottenebrato com’è dalla vertigine razionalistica, rifiuta di accettarle. È proprio questo lo scopo della poesia di Dimoulà: creare lo spazio per la realizzazione del mondo migliore. Ognuna delle sue poesie individua e registra le dimensioni di questo mondo multidimensionale e ordinato previsto.
La “o” disgiuntiva
Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce.
Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni: questa è pioggia e queste sono lacrime.
Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve.
Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un’altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore.
È per questo che ogni sua poesia mina il dominio del silenzio, ogni parola abolisce il potere dell’oscurità e dell’oscurità. La poeta vuole far luce su quelle forze mobilitanti della psiche – non il subconscio freudiano dei desideri repressi, ma l’area dell’Es, l’oscura Persefone che appartiene a ciascuno dei mortali e regna nel nostro Ade personale: una sorgente personale, una via verso la molteplicità. Ciascuna poesia di Dimoula è quindi un rito funebre omerico, una rievocazione dei morti attraverso la sottomissione del senso assente che hanno lasciato; e ciascuna sottomissione dona essenza alle sue linee, plasma essenza ed energia, corpo, linguaggio e calore umano.
Per Dimoula tutto vive di una simultaneità a più livelli, nel tempo della memoria dove non c’è distinzione tra istanti e tutto è identificato in modo assoluto e viene liberato alla salvezza attraverso lo stupore della memoria. Perché questa emozione iniziale domina nel suo lavoro: stupore per la perdita e la dissoluzione, per il tempo e la distanza, stupore per il potere del linguaggio che resuscita e sostituisce integralmente tutte quelle cose che sono scomparse e sono state dimenticate. Il poetare di Dimoulà illustra il ristabilimento di analogie simmetriche tra memoria e realtà, tra l’uomo e il suo spazio; infine, vede la possibilità della transustanziazione dalla decadenza, la resistenza concessa al caos e alla confusione della storia dalla potenza del linguaggio.
Cravatta nera
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto.
Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell’ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro.
Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto – indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurante delle ore ancora acerbe e non giocano.
Scrivi che piango per le madri. Le più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vedetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami.
Piango perché hanno acceso le luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. Scrivi che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. Piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l’effimero.
Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi.
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché…
Fotografia 1948
Ho un fiore in mano forse. Strano. Nella mia vita deve esserci stato un giardino un tempo.
Nell’altra mano stringo una pietra. Con fiera grazia. Nessun sospetto per preavvisi di mutamenti, sentore di difese piuttosto. Nella mia vita deve esserci stata ignoranza un tempo.
Sorrido. La curva del sorriso, il cavo del mio umore, somiglia a un arco ben teso, pronto. Nella mia vita deve esserci stato un bersaglio un tempo. E predisposizione a vincere.
Lo sguardo affondato nel peccato originale: assapora il frutto proibito dell’attesa. Nella mia vita deve esserci stata fede un tempo.
La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole. Addosso un’uniforme d’incertezza. Non ha ancora fatto in tempo a essermi compagna o delatrice. Nella mia vita deve esserci stata abbondanza un tempo.
Tu non ci sei. Ma se c’è un precipizio nel paesaggio se io sto sull’orlo con un fiore in mano e sorrido, vuol dire che da un momento all’altro arriverai. Nella mia vita deve esserci stata vita un tempo.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, CrocettiEditore.
Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Kiki Dimoulà
25/02/2020 /Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Ci ha lasciato, ad ottantanove anni, la poetessa greca Kiki Dimoula.
Kiki nacque ad Atene il 6 giugno 1931, nella vita fu impiegata nella Banca Nazionale Grecia, ma ebbe un grande successo con la sua poesia.
Esordì nel 1952 con la raccolta Poesie e successivamente pubblicò una decina di raccolte in versi. Le sue poesie vennero tradotte in molte lingue, in Italia fu la Crocetti Editore a pubblicarla. Con L’adolescenza nell’oblio, del 1994, vinse il prestigioso Premio dell’Accademia di Atene.
La ricordiamo con una sua poesia:
La pietra perifrastica
Parla. Dì qualcosa, qualsiasi cosa. Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio. Scegli una parola almeno, che possa legarti più forte con l’indefinito. Dì: “ingiustamente” “albero” “nudo” Dì: “vedremo” “imponderabile”, “peso”. Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voce. Parla. Abbiamo così tanto mare davanti a noi. Lì dove noi finiamo inizia il mare Dì qualcosa. Dì “onda”, che non arretra Dì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodi. Dì “attimo”, che urla aiuto affogo, non lo salvare, Dì “non ho sentito”. Parla Le parole hanno inimicizie, hanno antagonismi se una ti imprigiona, l’altra ti libera. Tira a sorte una parola dalla notte. La notte intera a sorte. Non dire “intera”, Dì “minima”, che ti permette di fuggire. Minima sensazione, tristezza intera di mia proprietà Notte intera. Parla. Dì “astro”, che si spegne. Non diminuisce il silenzio con una parola. Dì “pietra”, che è parola irriducibile. Così, almeno, che io possa mettere un titolo a questa passeggiata lungomare.
Da Il poco del mondo
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-
Eeva Kilpi -poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
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LA PRIMAVERA, IL FALCO
(Eeva Karin Salo, coniugata in Kilpi)
La primavera, il falco
e questo posto dove vivevamo,
tutto questo mi emoziona, disse mia sorella
mentre mangiavamo lamponi
sulle fondamenta della nostra vecchia casa.
Eravamo su una collinetta soleggiata, circondati dalla foresta.
Una lepre aveva visitato il soggiorno.
Dalla parte della camera da letto era entrato un alce.
Era una sera calda.
Era passato mezzo secolo.
Quanto amiamo tutto ciò che è simile a noi.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
DIMMI SE DISTURBO
Dimmi se disturbo,
ha detto entrando,
perché me ne vado immediatamente.
Non solo disturbi,
ho replicato,
tu scuoti tutto il mio essere.
Benvenuto!
QUANDO HAI VISTO UNA NUVOLA
Quando hai visto una nuvola
nel grembo di un lago
e la luna
tra le ninfee,
sei inevitabilmente in balia
della tua stessa anima.
Gli innamorati si offrono regni,
nuove patrie, continenti e lingue rare.
Quando si separano, i doni restano con loro,
sono irreversibili
e l’amore rimane in loro,
come la letteratura, le competenze linguistiche,
le poesie e i racconti
che hanno composto insieme
nella lingua di ognuno.
Allora l’amore allarga il mondo
e, anche quando scompare,
suscita pace e comprensione.
Nuovi cuori si stanno aprendo,
c’è ancora qualcosa da condividere
con i prossimi amori.
Eeva Kilpi
da Canto d’amore e altre poesie, 1972
Eeva Kilpi -Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Karin Kilpi (née Salo; 18 February 1928, Hiitola) is a Finnish writer and feminist.[1] Better known abroad than in Finland, her poetry, characterized as feminist humor, was discovered in the 1980s in Europe.[2]
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
Biography
Eeva Karin Salo was born on February 18, 1928, to Solmu Aulis Aimo and Helmi Anna Maria (née Saharinen) Salo within the former Karelian municipality of Hiitola, Finnish Karelia, where she lived until the coming of the Winter War of 1939-1940.[3][4]
During the Winter War, Kilpi and her family survived bombings by hiding in an underground cellar. Her father was later called away to the front lines and the family was forced to evacuate from the region. Kilpi ended up attaining an education in Helsinki, the capital and largest city in Finland.[3][4]
Roma-La Fotografa Barbara Dall’Angelo espone le sue fotoal ristorante capitolino Il Margutta Veggy Food & Art –
Roma- Da giovedì 3 aprile a lunedì 16 giugno, la fotografa Barbara Dall’Angelo espone le sue fotoin via Margutta al ristorante capitolino Il Margutta Veggy Food & Art .La nuova mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, curata e organizzata da Tina Vannini. Un’esposizione di venticinque scatti che celebra il risveglio della natura con immagini capaci di trasmettere poesia e armonia attraverso la fotografia. Le opere in esposizione rappresentano un viaggio emozionale che attraversa paesaggi incontaminati e dettagli minuziosi della natura, cogliendo il mutare delle stagioni e la danza della luce sugli elementi.
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
LA RICERCA ARTISTICA DELLA FOTOGRAFA
Dai “Fiori di campo”, con le loro delicate trasformazioni cromatiche, agli “Alberi danzanti”, iconiche mangrovie indonesiane che le hanno valso il primo premio assoluto ad Asferico 2024 e il coinvolgimento in un prestigioso progetto internazionale in onore di Jane Goodall. La ricerca artistica di Barbara Dall’Angelo si distingue per la sua capacità di trasformare la fotografia in una vera e propria pittura luminosa, rendendo ogni scatto un’opera intrisa di significato estetico ed etico. In mostra troviamo scenari che spaziano dall’Italia (con le sue foreste dolomitiche e la costa tirrenica) fino alle terre della Camargue e dell’Andalusia. Non mancano suggestive ambientazioni naturali dal resto del mondo, come le acque impetuose delle cascate di Iguaçu in Brasile, la foresta di allori, Patrimonio dell’Umanità, a Madera in Portogallo e la magia selvaggia della Louisiana. L’uso attento delle simmetrie e delle ripetizioni di forme crea un ritmo visivo che dona alle immagini un fascino quasi musicale. L’acqua, il vento, la luce diventano elementi narrativi che plasmano ogni scena, restituendo all’osservatore la sensazione di trovarsi immerso nella natura stessa.
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
ODE ALLA NATURA E FRAMMENTI DI TEMPO
«Questa mostra rappresenta un dialogo profondo tra arte e natura, tra sensibilità estetica e rispetto per l’ambiente – commenta Tina Vannini, curatrice della mostra -, infatti, Barbara Dall’Angelo possiede la straordinaria capacità di restituire il senso del sublime attraverso la fotografia, trasformando paesaggi e dettagli naturali in visioni evocative che parlano all’anima. Ogni suo scatto è un invito a rallentare, a osservare con attenzione e a riscoprire la bellezza autentica che ci circonda, troppo spesso ignorata nella frenesia quotidiana. Con “Zefiro, vento di primavera” vogliamo offrire ai visitatori non solo un percorso visivo, ma un’esperienza di connessione profonda con la natura, un momento di contemplazione e riflessione che può ispirare un nuovo modo di guardare il mondo. A esprimersi è dunque l’artista stessa: «La natura è un racconto senza fine, fatto di luce, vento e silenzi che parlano a chi sa ascoltare Con questa mostra desidero offrire non solo una visione, ma un’esperienza: un invito a immergersi nella bellezza selvaggia del mondo e a riscoprirne l’armonia. La fotografia, per me, è il linguaggio con cui traduco l’emozione di uno sguardo, il battito di un attimo irripetibile».
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
ODE VISIVA ALLA TERRA
«Il viaggio di Barbara non è solo quello di un’artista che affina il proprio sguardo: è il cammino di una donna che si lancia oltre i confini, senza esitazioni. Con la mente, con il cuore, con il corpo. E ogni volta che parte per un viaggio, con l’incoscienza di chi è guidato dalla necessità interiore, la vedo sfidare il pericolo, la fatica, inseguendo un’immagine che forse esiste già dentro di lei, ancora prima che l’otturatore la fissi nella memoria del mondo». Afferma Tinny Andreatta, vicepresidente Contenuti Italia di Netflix: «Barbara Dall’Angelo celebra la Natura e la sua Meraviglia attraverso una poesia di immagini che arrivano direttamente al cuore», aggiunge la conduttrice Licia Colò. Inoltre, come si legge nel testo critico di Alessandra Clementi, giornalista del “National Geographic”, «L’arte fotografica di Barbara Dall’Angelo si è affinata nel tempo, mantenendo sempre salda la sua filosofia di base. Il suo lavoro si configura come un’ode visiva alla Terra, invito alla contemplazione della Natura attraverso immagini che ne catturano la bellezza in tutte le sue forme. Attimi di incanto e suggestioni visive si trasformano in stimoli positivi, ispirando una maggiore attenzione verso l’ambiente e una riflessione sul rapporto tra l’uomo e il pianeta».
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
BARBARA DALL’ANGELO
Barbara Dall’Angelo è una fotografa naturalistica di fama internazionale. Dopo una formazione in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha intrapreso un percorso che l’ha portata a collaborare con testate prestigiose come National Geographic Italia. Le sue immagini sono state esposte in gallerie e musei di tutta Europa e hanno ricevuto importanti riconoscimenti nei più prestigiosi concorsi fotografici. Con il volume The Poetry of Earth (Electa, 2016) ha reso omaggio alla bellezza della natura, mentre con la mostra Zefiro, vento di primavera continua a offrire al pubblico uno sguardo profondo e autentico sul mondo che ci circonda.
INFO
Dove: Il Margutta, Roma;
quando: dal 3 aprile al 16 giugno 2024;
opere esposte: 25 fotografie;
ingresso: gratuito durante gli orari di apertura del ristorante.
A711 – ARTE, FOTOGRAFIA: BARBARA DALL’ANGELO IN VIA MARGUTTA A ROMA. La personale della fotografa ha luogo presso Il Margutta Veggy Food & Art: venticinque scatti che celebrano il risveglio della natura attraverso la fotografia poetica di Zefiro, vento di primavera.
Dal 3 aprile al 16 giugno una esposizione unica che esplora la bellezza del mondo naturale con immagini evocative e suggestive. Di seguito gli interventi al vernissage di inaugurazione del 3 aprile 2025, nel corso del quale hanno preso la parola TINA VANNINI (curatrice della mostra), BARBARA DALL’ANGELO (fotografa) e FEDERICO MOLLICONE (parlamentare della Repubblica, presidente VII Commissione Cultura della Camera dei Deputati).
BIO- Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Communication through imagery has always attracted me: I was born in close contact with photography, film and television. By way of family legacy and personal passion, I’ve made this world my life.
I did my university studies in Literature and Performing Arts and graduated from the director’s program of the Centro Sperimentale di Cinematografia in Rome.
I founded a film and television distribution company, Dall’Angelo Pictures, of which I am still chief executive.
Photography has been a passion of mine since I was an adolescent, but only after I turned 40 it became something much more important.
It is the way I see the world, and whichendlessly makes me exploring new aspects of it, and refreshing my gaze. By the way of photographing I discover whatever entices my eye the most: the simplicity as the most complex of sophistications. I look for the synergy of lines within the spatial dimension, the light that designs the nuances of a landscape, the perception of time arising from the movement as much as the stillness.
In my photographs, I try to crystallize extremely delicate moments of Nature’s harmony and balance which unveil the fragility and mutability of our world.
In a gentle way I try to awaken the moral responsibility we all have in the protection of our planet, our greatest gift.
La comunicazione attraverso le immagini mi attrae da sempre: sono nata a contatto con la fotografia, il cinema e la televisione. Per eredità familiare e per passione personale, ho fatto di questo mondo la mia vita.
Ho studiato spettacolo all’università e mi sono diplomata in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ho fondato una società di distribuzione televisiva e cinematografica, la Dall’Angelo Pictures, della quale sono a tutt’oggi l’amministratore.
La fotografia è stata una mia passione fin dall’adolescenza, ma solo dai miei 40 anni è diventata qualcosa di molto più importante.
È il mio modo di vedere il mondo, è quello che mi spinge senza sosta ad esplorarne nuovi aspetti, a vedere con nuovi occhi.
Attraverso la fotografia scopro quello che cattura la mia anima: la semplicità, la più complessa delle sofisticazioni. Cerco la sinergia fra le linee nella dimensione dello spazio, la luce che descrive le sfumature del paesaggio, la percezione dello scorrere del tempo sia attraverso il movimento che la staticità.
Marian Drăghici-“Illimitato – De necuprins” Giuliano Ladolfi editore
Nota di Sonia Elvirenau, traduzione di Giuliano Ladolfi-
Rivista Atelier
Descrizione del libro di Marian Drăghici si distingue nella lirica contemporanea per l’audace tentativo di scrivere il “Libro della sua vita”, sempre rivisto, levigato, per cogliere nel poema l’illuminazione, come Brâncuși, il volo dell’uccello nelle sue sculture, seguendo così l’esortazione di Stéphane Mallarmé: «Vincere significherebbe comporre, finalmente, l’Opera, il Libro – l’unico –, trionfare, quindi, sulle fatalità e le leggi del mondo, su tutto ciò che il pensiero non può sottomettere al suo impero, sul Destino». [Lettera a Verlaine (1885), citata da J. Royère nel suo libro Mallarmé]
Nel 2022 è apparsa in Italia la sua raccolta bilingue italo-romena illimitato/ de necuprins, tradotta dal poeta, critico e traduttore Giuliano Ladolfi in un’armoniosa composizione poetica che comprende la maggior parte delle poesie della raccolta leggero, lentamente (2013), un minimo di versi del volume păhăruțul (2019), poesie nuove, pubblicate su riviste e inedite. Eccellente critico letterario, Giuliano Ladolfi intuisce nella creazione di Marian Drăghici una radicale trasformazione della sua coscienza attraverso l’arte e il suo dramma esistenziale, accogliendo il libro come «testimonianza di una graduale “metanoia”».
La struttura del libro rivela il percorso seguito dal poeta, dal sacro estetico al religioso, dall’amore per la poesia all’amore per Dio, dall’intuizione della presenza divina nell’uomo all’attivazione dell’archetipo della divinità nella mente e nel cuore, dalla poesia che salverà il mondo alla fede che salverà l’uomo attraverso la sua rinascita nello spirito, nella divinità, nel cammino ascetico da uomo a santo.
La poesia e l’amore sono per Marian Drăghici forme per sperimentare l’illuminazione, passi verso la “metanoia” annunciata dal titolo stesso della precedente raccolta, luce, lentamente. L’esperienza esicasta, per mezzo della grazia acquisita con la preghiera, sulle orme dei Santi Padri, della tranquillità interiore attraverso la comunione con Cristo, è testimoniata nella poesia Il gatto faustiano, un racconto invernale incompiuto.
La raccolta illimitato/ de necuprins si apre con la poesia, che richiama le parole del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Il poeta cerca la parola illuminata attraverso la quale si rivela la divinità, la traccia del “seme degli angeli” nell’uomo, il legame con Dio.
Tutta la sua esistenza poetica è giustificata dalla ricerca incessante dello «sfolgorio di Dio» nell’uomo. Poiché la grazia poetica è di essenza divina, il poeta assume questo dono come una sorta di apostolato, rivelando fin dall’inizio il suo percorso spirituale verso la scoperta della divinità e il legame con il sacro religioso:
Ora, questo libro è il luogo illimitato/indefinito
dove l’angelo entra nell’uomo, per suonare l’armonica rossa,
quando ancora lo stava visitando.
Più precisamente, una fotografia sfocata, una mappa imperfetta di questo luogo.
«Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro…».
Logicamente, la traccia rimasta in quel luogo battuto dall’uomo,
dopo la partenza intempestiva dell’angelo,
è la poesia.
Il mio lavoro di una vita: fare la fotografia, la grande fotografia –
In realtà, preservare un bagliore di angelità
prima che si cancelli completamente dalla memoria di questo luogo
la traccia del guizzo di Dio nell’uomo.
(All’inizio)
Su questo filo si costruisce la sua nuova raccolta tra l’amore per la poesia e l’amore per Dio, fondendo in essa il dramma di se stesso, dell’essere umano. Il poeta confessa infine la sua conversione, rinunciando alla vanità mondana:
ormai, il solo premio che riceverò con gioia
(ma che possa darlo proprio a me!)
è di essere in vecchiaia pazzo per Cristo
come ero in gioventù pazzo per la poesia».
(prezzo)
Marian Drăghici trasforma la sua poesia in una forma di conoscenza ontica e metafisica, giustificando così la sua esistenza di poeta. Dal rifiuto della parola di posarsi sulla pagina bianca alla vertigine delle sue visioni, le parole scorrono in poesia sulla poesia, l’amore, la sofferenza, la morte, la divinità, la rinascita, nel gioco raffinato dell’immaginario poetico passato attraverso sottili stratificazioni esistenziali e libresche. Si aprono così finestre successive sulle profondità non illuminate della conoscenza, sulle molteplici iniziazioni acquisite dal poeta attraverso la sperimentazione e la lettura.
La lucida confessione conserva l’essenza delle sue esperienze drammatiche: il male terrificante proiettato dal subconscio nell’onirico, la morte della giovane moglie dopo atroci sofferenze, la solitudine, la desolazione dell’anima, l’alcolismo, la messa in discussione della divinità, la scoperta del senso della sofferenza, l’invocazione della divinità, l’aspirazione ad accedere alla Gerusalemme celeste, la conversione.
Il poeta sopravvive alle molteplici forme di morte credendo nell’arte e nella divinità. La memoria affettiva si intreccia con la memoria culturale, substrato leggero della lirica di Marian Drăghici, formata spiritualmente alla fonte della grande letteratura universale e romena. Le sue letture si irradiano nel palinsesto del testo poetico. I riferimenti letterari, mitologici, religiosi, pittorici, psicanalitici sono precisi, diluiti o fusi nel testo. L’autenticità della vita, dell’esperienza personale, prevale nelle sue poesie, la cui espressione si diversifica metaforicamente e visionariamente.
Il lettore è contemporaneamente invitato a scoprire la complessità di una poesia in cui l’orizzonte si estende dall’interiorità del poeta all’esteriorità sociale, dalla realtà fisica a quella metafisica, dall’esperienza individuale a quella collettiva, dal conscio all’inconscio. Un poema elegiaco, mistico, salmico, ermetico, di strana bellezza, con un evidente taglio sarcastico quando si parla di sociale.
Il poeta scrive una vita all’interno delle stesse ossessioni, racchiudendosi nel suo mito personale. La sua poesia gravita a spirale intorno a un nucleo orfico, in variazioni di motivi ricorrenti. Apparentemente, la lirica di Marian Drăghici si chiude sulla sua esperienza, in una ripresa dei nuclei tematici, con un doppio ruolo. Da un lato, crea un modo specifico di lavorare in poesia, assunto con lucidità; dall’altro, permette di sfumare, aprendosi a una sfera più ampia di conoscenza e autoconsapevolezza: dal sé all’altro, dal profano al sacro, dal reale al metafisico.
Le metafore ricorrenti, che rivelano le sue ossessioni, operano all’interno delle poesie come un segno poetico riconoscibile, come la firma di un pittore su un quadro. Si riconosce così il poeta nelle varianti delle sue opere e contemporaneamente si ha la strana sensazione di conoscere la sua poesia ma di non averla decifrata, di essere ancora un enigma, di trovarsi di nuovo, come al primo contatto con la sua poesia, nello stesso stadio iniziatico. I versi non hanno perso la loro freschezza, come se il vecchio si rigenerasse incessantemente assorbito in una nuova forma. È come trovarsi di fronte a una casa con due ingressi, uno ti porta in uno spazio familiare, l’altro ti porta fuori da esso, in una zona crepuscolare in cui non riconosci più le cose.
Il nucleo della creazione di Marian Drăghici è orfico, generato dalla morte della giovane e amata moglie dopo una lunga sofferenza. Sono le poesie d’amore più belle e autentiche, che sublimano il sentimento e possono sempre stare accanto a quelle della lirica universale:
forse esiste
qualcosa di più reale del nulla, signor Beckett,
l’amore di una donna che non esiste più
(la morte non ci ha separati né l’oblio)
e che improvvisamente ti viene voglia di rivedere a tal punto che
vorresti lasciare la terra
vorresti lasciare la terra
ma non è ancora il momento.
basta dire che presto forse rivedrò il tuo volto, mia amata,
come tante volte ho guardato la morte in faccia
o probabilmente di profilo
nei giorni tumultuosi della rivolta vagando per le strade
nella speranza di ritrovarti,
sì, ti troverò
da qualche parte lontano la sera dopo la morte
vicino a un piccolo fuoco di ramoscelli presso la sorgente,
assolutamente al sicuro dagli uomini,
assolutamente al sicuro dalle belve
al solo luccichio delle stelle del cielo e nei tuoi movimenti
con la grazia della nudità originaria
(qualcosa di più reale del nulla).
Il poeta reprime il suo dolore, rivelando il vuoto dell’anima causato dall’assenza dell’amata, rappresentata figurativamente da un albero che continua a crescere dal suo cuore verso il cielo, una scala verso l’Aldilà:
senza amore sono veramente capace
di far crescere in me l’assenza
un lussureggiante albero, soffice, fino al cielo.
– come dal cuore dei morti?
– come dal cuore dei morti! Lassù,
sul ramo dell’apice ti culli nuda
tra le tue braccia l’uovo primordiale appena deposto
dall’uccello di Char, spirituale.
(ramo inclinato sul mare)
Lo shock della morte è così intenso che la voce del poeta tace per un po’, sostituita dalla voce stellare e dalla luminosa evanescenza dell’amata. Quando poi la ritrova, l’ispirazione, il tono lirico, la struttura, il linguaggio e l’atteggiamento cambiano. Da elegiaco, il poeta diventa parodia, ironia, sarcasmo, anche nelle poesie incentrate sull’atto della creazione poetica, sui metapoemi, sulla vera arte poetica.
La poesia autentica, infatti, è di natura sacra, la scrittura non è che una trascrizione imperfetta della poesia nascosta, invisibile, rivelata in sogno, un’arte povera nella concezione del poeta. Da qui lo stato di veglia per cogliere il momento di grazia e l’incapacità di creare la poesia sognata in uno spasmo letale. Ogni poesia scritta è percepita come una morte simbolica per la sopravvivenza della parola che dovrebbe essere illuminazione e salvezza.
L’esperienza della morte nelle sue molteplici forme (malattia, sofferenza, morte, guerra, alcool) è il filone su cui si costruisce la poesia di Marian Drăghici e giustifica la sua solitudine e la sensazione di esilio permanente, il suo vivere “con gli esiliati e i morti”. Ma il brivido tanatologico è superato dalla rinascita in una nuova luce, dalla graduale rivelazione di Dio non solo come ispirazione poetica, amore per l’altro (la moglie), ma soprattutto come esperienza religiosa: ” è tempo di avere un cristallo nel pensiero – / è così che io vedo Cristo – / un’assenza piena di lacrime / che non cadono a terra. // è tempo di avere un cristallo nel cuore – / è così che io sento Gesù – / un’assenza piena di lacrime / che salgono in alto” (luce, dolcemente, ultima variante).
Per Jung, la scoperta di Dio equivale alla riattivazione della funzione religiosa che esiste come archetipo nell’uomo, quindi alla connessione con il divino, alla riscoperta dell’angelo nell’essere umano. Il percorso di sopravvivenza del poeta è quello spirituale invocato nella poesia Gerusalemme, un percorso drammatico, perché passa attraverso la morte, la rivolta, l’incomprensione, l’interrogazione, la decadenza, la ricerca, l’esperienza mistica per la resurrezione nello spirito santo, l’esperienza esicasta, la comunione con la Divinità. Dal bambino affascinato dal cielo riflesso nell’acqua dello stagno, all’adolescente terrorizzato da uno spirito maligno, al fumatore malinconico e solitario, dall’ Harrum solitario e alienato al poeta oltraggiato dal declino della società, dallo scriba mortificato dall’impotenza al mistico illuminato, c’è il cammino dell’ascesa spirituale, del graduale avvicinamento a Dio, della rinascita attraverso la fede autentica. La tragedia dell’esistenza umana viene superata dalla rinascita nello spirito, grazie alla grazia acquisita con la preghiera costante, realizzando così la “metanoia” del poeta. L’edizione bilingue illimitato/ denecumpris rappresenta il risultato più elevato della lirica di Marian Drăghici, la traduzione nella lingua di Dante la impone nel circuito universale. Il testo in lingua rumena è pubblicato sul sito della rivista letteraria «Apostrof» https://www.revista-apostrof.ro/arhiva/an2023/n3/a13/
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Rita Levi-Montalcini, non si vergognava di mostrare al mondo le sue debolezze, tanto da chiamare la sua autobiografia “Elogio dell’imperfezione”.
Vedeva l’imperfezione come parte integrante della natura umana e come un elemento necessario per la crescita personale.
La sua esperienza di vita, che la vide costretta a fuggire dall’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e ad affrontare difficoltà d’ogni sorta nella sua carriera, la portò a sviluppare una profonda consapevolezza dei propri limiti: la filosofia di vita di una persona molto umile e modesta.
Dietro questa modestia nascondeva una volontà d’acciaio, che l’ha portata ai risultati che conosciamo tutti.
Ha lasciato scritto:
«La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, lati del carattere che ritengo di aver ereditato da mio padre, mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.>>
Figlia di genitori, molto colti, di origini sefardite, si formò nella sua Torino, studiando medicina.
Ebbe come compagni universitari due futuri Nobel, Salvador Luria e Renato Dulbecco. tutti e tre alla scuola dell’istologo Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg.
Sin da subito si dedicò agli studi sul sistema nervoso, studi che avrebbe proseguito per tutta la vita.
Laureatasi nel 1936 si specializzò in neurologia e psichiatria, fu incerta se dedicarsi alla professione medica o portare avanti le ricerche in neurologia.
In seguito alle leggi razziali del 1938 la Levi-Montalcini, fu costretta a emigrare.
Nel marzo del 1939, insieme alla famiglia, andò Belgio, per un po’, fu ospite dell’istituto di neurologia dell’Università di Bruxelles
Il giorno prima di Natale, sempre con la famiglia tornò in auto a Torino, dove, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto.
Poco dopo la raggiunse Giuseppe Levi, scappato dal Belgio, invaso dai nazisti. Rita fu orgogliosa si avere il suo Professore come suo primo assistente. Il loro obiettivo era quello di comprendere il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nella differenziazione dei centri nervosi.
Ma, il pesante bombardamento di Torino da parte delle forze aeree angloamericane nel 1941, rese indispensabile abbandonare la città. Si rifugiò in una villa delle colline astigiane, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti.
Nel 1943 l’invasione dei tedeschi costrinse la famiglia ad abbandonare il loro rifugio ormai insicuro.
Iniziò un pericoloso viaggio che si concluse a Firenze dove sopravvissero rimanendo nascosti e separati, cambiando spesso abitazione.
Nell’agosto 1944 i tedeschi lasciarono Firenze e Rita prestò servizio come medico presso il Quartier Generale anglo-americano, occupandosi di malati di malattie infettive.
E’ qui che si accorse di un suo grande difetto come medico, quel lavoro non era adatto a lei. Non riusciva ad avere il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti.
Terminata la guerra, nel 1945 tornò a Torino dove riprese gli studi accademici sempre grazie all’aiuto di Giuseppe Levi.
Nel 1946 il biologo Viktor Hamburger, i cui studi erano stati oggetto di verifica negli esperimenti condotti con Levi durante il periodo della guerra, la invitò a Saint Louis, presso il Dipartimento di zoologia della Washington University.
Innestando in embrioni di pollo frammenti di speciali tumori, poté osservare il prodursi di un “gomitolo” di fibre nervose.
Nel dicembre 1951 presso la New York Academy of Sciences, presentò l’ipotesi di un agente promotore della crescita nervosa. La sua tesi che cercava di spiegare la differenziazione dei neuroni e la crescita di quelle fibre nervose, ipotizzava l’esistenza di fattori di crescita capaci di controllare questa differenziazione.
La tesi venne approfondita con nuovi esperimenti, condotti nel 1952 con la coltura in vitro all’Università di Rio de Janeiro. Infine giunse la scoperta del fattore di crescita nervoso: una proteina che gioca un ruolo essenziale nella crescita, che fu chiamata Nerve Growth Factor (NGF).
Nel 1956 venne nominata professoressa associata e nel 1958 professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis. Nonostante inizialmente volesse rimanere in quella città solo un anno, vi lavorò e vi insegnò fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1977.
Nel 1986 ricevette il Nobel per la medicina insieme al biochimico Stanley Cohen. Nella motivazione del premio si legge: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».
La scienziata ha devoluto una parte dell’ammontare del premio alla comunità ebraica, per la costruzione di una nuova sinagoga a Roma. Nel 1987 ricevette dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta nel mondo scientifico statunitense.
Lavorò assiduamente anche in Italia: fondò un gruppo di ricerche e diresse il Centro di Ricerche di neurobiologia creato dal CNR a Roma. Si ritirò da questo incarico solo “per raggiunti limiti d’età”.
Nominata senatrice, è stata la più anziana della storia repubblicana italiana. In occasione del compimento dei cento anni ebbe modo di dichiarare:
“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.
Rita Levi-Montalcini è morta il 30 dicembre 2012, alla veneranda età di 103 anni.
Le sue ceneri sono state tumulate nella tomba di famiglia nel settore ebraico del cimitero monumentale di Torino.
Pierre Antonetti-La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante-
Editore Rizzoli-Articolo di Giovanni Teresi
Descrizione del libro– di Pierre Antonetti –La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante -Articolo di Giovanni Teresi:Innanzitutto, non era la Firenze della Cupola del Brunelleschi, di Palazzo Pitti, del Campanile diGiotto o di Palazzo Strozzi. Era una delle città più popolose d’Italia (nel 1280 contava già tra i quarantamila e i cinquantamila abitanti),ma non aveva ancora dei monumenti architettonici imponenti; il centro cittadino era un complesso intrico di viuzze, case addossate le une sulle altre, botteghe, fondaci e botteghe, dominate dall’alto dalle case torri delle famiglie più importanti della città, costruite soprattutto per difendersi dai frequenti attacchi delle famiglie rivali.
La città ovviamente era piena di chiese,che tuttavia non avevano le dimensioni delle successive costruzioni. Tra le tante, ce ne sono tre molto legate a Dante: la prima è ovviamente il Battistero di San Giovanni, la chiesa cittadina per antonomasia, dove Dante era stato battezzato e dove, come racconta lui stesso nella Divina Commedia, aveva salvato un bambino rompendo una fonte battesimale (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XIX,vv. 16-21: “Non mi parean men ampi né maggiori/ che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori; / l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.” ).
Dante Alighieri
La seconda è la Badia fiorentina, una delle chiese più vecchie di Firenze, dove Dante andava spesso a messa, la quale viene citata nel XV Canto del Paradiso da Cacciaguida, l’avo di Dante, come la chiesa vicina alle vecchie mura della città, dal cu campanile si odono ancora i battiti delle ore canoniche ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, C. XV,vv. 97-99: “Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica.”).
La terza e ultima chiesa è la chiesa di Santa Margherita,una piccola chiesetta vicino la (presunta) casa di Dante, dove la leggenda vuole che sia la chiesa in cui il Poeta abbia incontrato per la prima volta Beatrice, che andava di solito lì a pregare.
“Se mai continga che ‘l poema sacro/
al quale ha posto mano e cielo e terra,/
sì che m’ha fatto per molti anni macro,/
vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/
nimico ai lupi che li danno guerra;/
con altra voce omai, con altro vello/
ritornerò poeta, e in sul fonte/
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Con questi versi, nei quali il poeta spera un giorno di poter tornare nella sua Firenze e ricevere la corona d’alloro nel suo “bel San Giovanni”, ha inizio il XXV Canto del Paradiso, una delle tre Cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo capolavoro della letteratura mondiale, tra i tanti argomenti di cui si tratta, si parla molto spesso di Firenze, la patria ingrata del Poeta, da cui nel 1301, con la falsa accusa di baratteria, venne esiliato a vita.
Nonostante la rabbia di Dante verso quel popolo ingrato che l’aveva ingiustamente cacciato, Dante rammenta spesso la sua città natale, sia rimpiangendola, sia più spesso criticandola, per le sue continue lotte intestine e per la corruzione del governo e del popolo fiorentino, avido, invidioso e lussurioso; basti pensare, per esempio, a tutte le discussioni che Dante ha con i vari fiorentini incontrati durante il viaggio ultraterreno (Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Forese Donati,Ciacco), dove tutte le imperfezioni dei fiorentini vengono chiaramente fuori, e alla celebre invettiva del XXVI Canto dell’Inferno, nel quale il poeta inveisce contro Firenze, diventata famosa anche all’Inferno per la presenza di cinque suoi cittadini nella VII Bolgia del VIII Cerchio,dove sono puniti i ladri (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XXVI,vv. 1-3: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,/ che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!”).
Oltre ai guelfi e ai ghibellini, nelle strade di Firenze c’erano donne che calzavano zoccoli in legno altissimi su strade trafficate e fangose, banchi di cambiatori, sarti, rigattieri, medici, barbieri e ciarlatani che vendevano droghe miracolose. L’autore Pierre Antonetti, nel suo testo, ci racconta diffusamente la tipica giornata del contadino. Si entra nei meccanismi delle magistrature, nei segreti delle corporazioni di artigiani, e si scopre come venivano combinati fidanzamenti e matrimoni. Proprio in questo periodo ha inizio il grande sviluppo artistico di Firenze, che oltre alle rime di Dante si concretizza con gli affreschi di Giotto e i primi disegni per il progetto del Duomo.
Poesie di Titos Patrikios- “Tempo assediato – Πoλιορκημένος χρόνος” -Fallone Editore – anteprima dalla rivista «Atelier»-
Titos Patrikios (Atene, 1928) ha coltivato da sempre la poesia, esercitando nel contempo l’attività politica: esperienze intense, anche drammatiche, affrontate con onestà intellettuale e vigile spirito critico. Costantemente impegnato nel sostegno dei diritti civili, ha al suo attivo, oltre a numerosi racconti e traduzioni, diversi saggi letterari, sociologici e giuridici. La sua produzione poetica è raccolta nei volumi Ποιήματα Α’, 1943-1959 (2017), Ποιήματα Β’, 1959-2017 (2018) e Ο δρόμος και πάλι (2020). Fra le traduzioni italiane più recenti della sua opera si ricordano: Poesie scelte, a cura di V. Rotolo; La strada di nuovo, a cura di D. Puliga.
Titos-Patrikios-
Raccolta di 12 poesie curata e tradotta da Maria Caracausi
Non sono nato uomo compiuto,
giorno per giorno cresceva la mia vita
germogliando come un albero.
Non sono nato eroe,
giorno per giorno cresceva la mia vita
dentro paure stravinte.
Sono giunto vicino a voi con timore e speranza
ho cercato di diventare come volevate
per combattere insieme l’ingiustizia.
Tuttavia non mi curo più del vostro parere
fin quando cercheremo responsabili
fin quando metteremo a nudo la menzogna.
Non mi curo più del perdono di nessuno.
VIII
Πολιορκημένος χρόνος
Νομίζαμε πὼς γνωριζόμαστε καλά.
Μὰ ὅταν τὰ κουρασμένα ροῦχα μας ἀρχίσανε νὰ πέφτουν
χωρὶς προσχήματα οὔτε ἀνταλλάξιμη παραφορὰ
καὶ μεῖναν τὰ κορμιά μας ἀπροσποίητα
φάνηκε καθαρὰ πόσο μακρὺς ἦταν ὁ δρόμος
πόσο ἦταν ὁ χρόνος μας πολιορκημένος, κι ἐμεῖς
δυὸ ἄνθρωποι συνηθισμένοι, περίπου ἀπροσπέλαστοι.
Παρίσι, Μάρτης 1962
Tempo assediato
Pensavamo di conoscerci bene.
Ma quando i nostri indumenti stanchi cominciarono a cadere
senza pretesti né scambievole irruenza
e rimasero i nostri corpi senza finzione
apparve chiaramente quanto fosse lunga la strada
quanto il nostro tempo fosse assediato, e noi
due persone comuni, quasi inaccessibili.
Parigi, Marzo 1962
XII
Τὰ παιδικά μας χρόνια
Ἄν, ὅπως λένε, πατρίδα μας
εἶναι τὰ παιδικά μας χρόνια
τότε εἶναι μιὰ πατρίδα
ποὺ συνεχῶς ἀπομακρύνεται
ποὺ μόνο σὰν ἀνάμνηση
ὅλο καὶ πιὸ θαμπὴ μᾶς μένει.
Ἴσως καλύτερα νὰ ψάξουμε
γιὰ μιὰ πιὸ σταθερὴ πατρίδα.
Gli anni della nostra infanzia
Se, come si dice, la nostra patria
sono gli anni della nostra infanzia
allora è una patria
che continuamente si allontana
che solo come ricordo
resta per noi sempre più opaca.
Forse meglio cercare
una patria più stabile.
Nei versi di Patrikios la memoria assorbe in sé il ricordo per farne cosa ulteriore. Il passo ben fermo sulla terra pianeggiante, la Grecia e l’eco della guerra, la giustizia quale punto cardinale di una ricerca lunga quanto la vita, ma anche l’amore declinato al plurale, un’affezione che è duplice nella sfumatura semantica, e l’infanzia, legata alla patria e ai nomi, che determinano e stabiliscono le forme, persino i modi. Qui c’è la storia dell’individuo che non si incastra perfettamente con la storia della collettività, poiché l’uomo col suo vissuto e la sua integrità ha valore superiore a quello delle folle, che per loro natura non hanno volto né identità. Qui c’è l’uomo che attraversa la Storia e ci sono le storie dell’uomo che sovrasignificano il tempo.
Fallone Editore
La Fallone Editore è una casa editrice indipendente fondata nella primavera del 2017, pugliese per tassonomie geografiche, e radicata nella storia e nella cultura millenarie di questa terra, ma proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori che pubblica.
Tra i segmenti di suo interesse, non solo prosa e poesia, pilastri della Letteratura, ma anche saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e pubblicazioni a carattere vario, che spaziano dalla cinotecnica alla musicologia, passando per le arti figurative, la culinaria, la fumettistica e la botanica (per maggiori dettagli si rimanda al progetto editoriale).
Se è vero, come forse è vero, che ‘il talento fa quello che vuole e il genio quello che può’ [C.B.], una casa editrice non può che essere una fucina, luogo in cui si forgia e si è forgiati al fuoco sacro del talento – che è dono di nascita e perciò divino – aristocraticamente elitario e perciò antidemocratico – indimostrabile, se non nell’evidenza di sé, e perciò innegabile.
Se è vero, come certamente è vero, che un libro non è soltanto un oggetto, per quanto bello possa essere, ma ‘è anche un luogo oscuro di sfoghi e di rimozioni, dove si combatte un duello senza pietà, con la sola scelta di guarire o morire’ [G. Bufalino], la scrittura è un attraversamento di sé, un disvelamento delle ombre che richiede coraggio: chiede passi fermi e sguardo alto.
In questi passi, i primi, in questo sguardo alto come il cuore, nasce la Fallone Editore.
di Enrica Fallone
Piazza Marconi n.3 – 74121 Taranto
Per contattare la Fallone Editore è possibile utilizzare l’apposito modulo di contatto ovvero inviare un’email a uno dei seguenti indirizzi, a seconda della richiesta che si desidera inoltrare:
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Articolo diVenceslav Soroczynski– Libro di Franz Kafka “Il Processo”·Sognando un tribunale internazionale contro i crimini di guerra che agisca prima che sulle strade di mezzo mondo si asciughi il sangue degli innocenti, mi rigiro fra le mani questo imponente libretto di 170 pagine. Thomas Bernhard, in Estinzione, dice che uno dei pochi autori di lingua tedesca che non scrive come un impiegato è Kafka (che, guarda un po’, faceva proprio l’impiegato). E che il suo libro migliore è questo. Bernhard aveva ragione o no? Non posso rispondere, perché autori tedeschi non ne ho letti molti – però La morte a Venezia non sembra proprio scritto da un impiegato – ma una cosa la posso affermare: se è tanto che non avete un incubo e volete procurarvene uno bello definito, articolato, insistente, di quelli che la mattina dopo non si dimenticano, leggete “Il processo”.
Franz Kafka, “Il processo”, 1925-
Il processo è una metafora di quella frustrazione e di quell’angoscia connaturate agli uomini che devono vivere in una civiltà nella quale il singolo non conosce il suo nemico, non conosce il suo destino né chi l’ha ordito e non ha strumenti per esercitare i propri diritti e per difendersi. E, forse, non conosce nemmeno la propria psiche, dunque è vittima di tutto ciò che va oltre la propria coscienza. Nello sfondo – che si pure si fa protagonista – del romanzo, ogni elemento è ostile al protagonista: ogni relazione, ogni evento, ogni istituzione, ogni collega, ogni sottoscala.
La metafora è costruita raccontando tutto ciò che non funziona nella giustizia, nelle sue procedure ufficiali, nelle prassi, nei locali in cui si celebra, negli uomini che la subiscono e in quelli che la esercitano. Naturalmente, tutto è un po’ esagerato – e, infatti, pare che l’Autore e i suoi amici ridessero mentre il primo leggeva ad alta voce ai secondi il testo – ma non troppo, se siete stati ascoltatori di Radio Radicale negli anni Ottanta e, ahinoi, anche dopo. Io non riesco proprio a ridere in nessuna pagina: ho anzi i brividi mentre il signor K. è costretto a vivere esperienze assurde, frustranti e schiaccianti, che facilmente possiamo figurarci nel nostro mondo contemporaneo, di cui le fantasie di Kafka paiono soltanto un’approssimazione per eccesso.
Il protagonista, che peraltro non è uno spacciatore dei giardinetti, ma il procuratore di una banca, viene arrestato a casa sua da due persone che non sono nemmeno poliziotti. Le quali, mentre aspettano che lui si vesta, gli mangiano la colazione e non gli dicono neppure perché sono andati a prenderlo. L’accusa, inoltre, non viene mai dichiarata, quindi il sospettato si dibatte come un pesce in fin di vita, che non ha neanche capito se il pescatore aveva veramente fame o lo sta suppliziando per mero sadismo. Ogni tanto, qualcuno gli chiede se è innocente e lui risponde sì, ma naturalmente anche questa risposta può essere sbagliata, visto che non si sa di cosa è accusato e… chi può dire di essere innocente di qualsivoglia reato?
E non è tutto, visto che non è individuato neanche il pubblico ministero e tantomeno il giudice, e che il tribunale è insediato in un luogo indegno e plurimo, che assume in ogni sede un aspetto diverso e sempre meno solenne. I brani in cui il povero K. visita i palazzi di giustizia sono davvero un brutto sogno e non è neanche il peggiore, ché le ultime pagine sono ancora più oscure e penose. Tanto per darvi un’idea, io le ho lette con 31 gradi centigradi eppure sentivo addosso quel freddo brutto che si sente solo quando si ha davvero paura – ché ne ho letti di libri horror da ragazzo, ma pochi erano spaventosi come questo. Dracula, L’esorcista e Shining, al confronto, sono storielle per spaventare i bambini, poiché se pochi di noi hanno visto vampiri demoni e morti viventi, tutti hanno visto tribunali in centro città, pubblici ministeri in televisione e raccomandate di colore verde nelle mani del postino.
Citiamo solo di passaggio l’avvocato di K., che non si capisce bene riceva i clienti dal suo letto, perché maltratti i suoi assistiti, perché non riferisca esattamente lo stato del processo e perché pare non avere alcuna strategia difensiva. In più pare che tenga a servizio una ragazza che si innamora così facilmente dei clienti. Il sospetto è che lo stesso avvocato non capisca molto di quello che sta facendo, né di ciò che sta facendo il tribunale. Merita invece d’essere studiato attentamente il complesso delle reazioni e relazioni del povero K., spaventato dalla propria vicenda, incapace di reagire freddamente, tardo nelle contromisure di contenuto logico. Sembra che egli, da un lato, prenda di petto la sua disgrazia per sciogliere subito i dubbi che causano la sua incriminazione e, dall’altro, si muova troppo di lato, faccia giri troppo larghi, sbagliando completamente strategia.
Sembra che tutti ne sappiano più di lui sul mondo, sugli uomini, sulle regole che governano ogni meccanismo, sul suo stesso processo. E che egli vaghi sempre nel corridoio sbagliato, che varchi sempre il cancello proibito, che si affidi solo a personaggi di dubbio peso. Le emozioni che questa lettura suscita si situano in un punto equidistante fra l’inquietudine e l’oppressione psicologica. Quindi, questa volta, non so se consigliarvi la lettura, non vi conosco abbastanza e non me la sento. Fate voi. Ma, se avete deciso di cominciare, vi consiglio di attendere la prossima stagione calda: se non sarà ancora finita la guerra permanente che pare mossa dalla necessità del caos e della distruzione, invece di scegliere fra la pace e il condizionatore, avrete Il processo come terza opzione.
Andrea Appiani primo pittore di Napoleone in Italia: un maestro da riscoprire-Articolo di Andrea Ciavattone-
Paris-3 avril 2025 Una mostra da vedere dedicata al pittore lombardo Andrea Appiani (1754-1817), aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025, al Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau, avenue du château de Malmaison, 92500 Rueil Malmaison.
Quante volte abbiamo ammirato le opere di Jacques-Louis David, maestro del neoclassicismo, che celebrano Napoleone Bonaparte come condottiero e imperatore di Francia. Passeggiando tra le sale del Museo del Louvre, possiamo osservare capolavori che esaltano la figura del celebre generale francese, il cui dominio ha ridisegnato la cultura, la politica e la società europea.
Fu proprio con la vittoria nella battaglia di Ponte Lodi, il 10 maggio 1796, che Bonaparte entrò trionfante a Milano, dove conobbe il pittore Andrea Appiani che fu sia affrescatore che pittore di cavalletto. Soprannominato “le peintre des grâces”, Appiani era apprezzato dai suoi contemporanei per i dipinti commemorativi e allegorici, e i ritratti.
Formatosi sotto la guida del maestro Antonio de Giorgi, Appiani si specializzò nella decorazione di teatri, chiese e palazzi, come nel caso della decorazione presso Palazzo Reale di Milano, il cui intervento fu purtroppo distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Nel 1805 Appiani fu nominato primo pittore del Regno d’Italia, dando inizio a una prolifica produzione di opere dedicate a Napoleone. Tra queste un meraviglioso ritratto, datato 1805, in cui sono presenti tutti gli elementi iconografici che esaltano la figura di Napoleone, non più come primo console o condottiero militare, ma come Re d’Italia, essendo stato incoronato a Milano il 26 maggio 1805.
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Leggendo questo passaggio si nota la grande abilità di Appiani nel dipingere Napoleone nella sua nuove veste politica e sociale :
“Napoléon, de trois-quarts vers la droite, porte le «petit habillement», semblable à celui porté au sacre à Notre-Dame, mais brodé sur velours vert au lieu du velours pourpre […]. Si le regard est ailleurs et la bouche un peu trop sévère, l’attention portée au traitement des mains est intéressante: la droite serrant le manteau pour lui donner ce pli qui équilibre la composition, la gauche posée ouverte sur la couronne de roi d’Italie livrée par le joaillier Marguerite”.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Per valorizzare la sua abilità artistica, il Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau ha organizzato la prima grande retrospettiva dedicata a lui. La mostra, intitolata Andrea Appiani (1754-1817). Primo pittore di Napoleone in Italia, è aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025 e ripercorre la sua evoluzione stilistica attraverso cinque sezioni espositive tematiche e cronologiche: dalla carriera prenapoleonica agli splendori di Napoleone, dai ritratti pubblici e privati, fino alle decorazioni ad affresco e alla sua eredità artistica.
L’obiettivo è riscoprire il ruolo che questo artista ha avuto per la cultura italiana e per i legami con la Francia, restituendogli il posto che merita tra i grandi maestri del neoclassicismo. Passeggiando all’interno della mostra, lo spettatore potrà riscoprire un artista dalla grande abilità tecnica, utilizzata per la celebrazione del potere sociale, politico e militare di Napoleone.
Sono Andrea Ciavattone, un neolaureato italiano in Storia e critica dell’arte di 24 anni che ha deciso di intraprendere una nuova avventura in Danimarca. Qui, immerso in una realtà vivace e stimolante, ho trovato un’accoglienza calda e un ambiente che mi ha spinto a esplorare nuove prospettive. Con una formazione accademica in ambito artistico, ho scelto di raccontare la mia cultura e le mie radici, concentrandomi in particolare sull’arte italiana del XX secolo. Il mio obiettivo è condividere con voi la bellezza e la ricchezza di un patrimonio artistico che continua a influenzare il panorama culturale globale. Nei miei articoli, cercherò di coinvolgervi in un viaggio attraverso le opere e i protagonisti che hanno segnato la storia dell’arte, stimolando la vostra curiosità e approfondimento.
Andrea Appiani un maestro da riscoprire-Biblioteca DEA SABINA
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Andrea Appiani
Andrea Appiani Nato a Milano il 31 maggio 1754 da Maria Liverta Jugali e Antonio medico, era destinato a seguire la carriera del padre. Ma verso i quindici anni, nel 1769-70, per manifesta vocazione venne messo alla scuola privata di Carlo Maria Giudici, pittore e scultore di vaglia, che, alla fine del suo insegnamento, lo affidò al famoso frescante Antonio De Giorgi all’Accademia ambrosiana. Frequentò poi lo studio di M. Knoller, approfondendo la tecnica ad olio e studiò anatomia all’Ospedale maggiore con Gaetano Monti, scultore e suo intimo per tutta la vita. Con la morte del padre affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria buona a toutfaire, dai fiori su seta alle decorazioni per carrozze, ai figurini per spettacoli. Pure, nata nel 1776 l’Accademia di Brera, seguì liberamente i corsi di G. Traballesi, col quale rimase in amicizia. In questo periodo strinse amicizia anche con G. Piermarini, con l’Aspari e, soprattutto, coi Parini (ci restano un ritratto a matita del poeta, eseguito dall’A., ora nel Museo Poldi Pezzoli, e un frammento di un’ode del Parini all’amico pittore: frammento 207 in Parini, Tutte le opere, I, Firenze 1925, p. 513), con Giocondo Albertolli; più tardi con Vincenzo Monti e col Foscolo.
La prima opera certa, l’affresco coi Santi Gervasio e Protasio per la chiesa di Caglio, fu iniziato nel settembre 1776 e finito nel gennaio del 1777. Lavori di bozzettista e scenografo alla Scala sotto la direzione del Galliari – ne rimane solo il ricordo – gli permisero di uscire lentamente dalle strette del bisogno e dall’oscurità. Del 1778-79 sono le quattro tempere con il Ratto di Europa per il conte Ercole Silva. Tra il ’78 e l’83 dipinse una Natività per la Collegiata di S. Maria ad Arona (1782) e affrescò nel palazzo Diotti, ora prefettura di Milano, e nella chiesa parrocchiale di Rancate, mentre la sua attività stagionale come scenografo lo portò a Firenze su invito di Domenico Chelli.
Il quinquennio tra l’86 e il ’90 comincia con il progetto architettonico dell’altar maggiore del duomo di Monza (costruito nel 1798) e prosegue con affreschi a Milano in palazzo Busca alle Grazie, in palazzo Litta Arese, in casa Orsini Falcò (via Borgonuovo 11) in collaborazione col Traballesi, in palazzo Greppi (via S. Antonio 12), intervallati da ritratti e quadri sacri tra i quali una Cena in Emmaus, finita solo nel ’96 per la congregazione degli osti (Milano, Galleria Civica di Arte Modema), per culminare con il fondamentale ciclo delle Storie di Psiche nella Rotonda della Villa reale di Monza (1789).
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Nel 1790 l’A. sposò Costanza Bernabei, già sua allieva. Il lustro successivo è sostanzialmente assorbito dalla grossa impresa degli affreschi in Santa Maria presso San Celso a Milano, che il pittore, ormai eminente su tutti, aveva fatto precedere, nel 1791, da un viaggio di nove mesi per studio a Parma, Bologna, Firenze e Roma.
Un periodo di riposo in casa Moriggia a Balsamo – ove dipinse affreschi, le cui parti superstiti sono oggi conservate nella villa Ghirlanda di Balsamo Cinisello – e gli affreschi a Milano in casa Stanga, oggi Radice Fossati (via Cappuccio 12), precedono di pochi mesi l’intensa attività del periodo cisalpino. Entrato di colpo con un ritratto a matita, capolavoro tuttora esistente (AUano, Accademia di Belle Arti), nelle grazie del ventisettenne Bonaparte, venne incaricato di presiedere la commissione delle requisizioni artistiche (eviterà poi l’incarico per sopraggiunta malattia) e di disegnare medaghe, testate, allegorie repubblicane per proclami, brevetti, carte ufficiali; questo non gli impedirà di dipingere numerosi ritratti agli illustri del momento, né di affrescare in casa Castiglioni, Wilcrek, Castelbarco, Silvestri (qui ancora col Traballesi) e nell’attuale collegio di S. Carlo col Chelli.
Massone già da prima della Rivoluzione, durante il periodo napoleonico fece parte della loggia milanese Amalia Augusta, e fu anche guardasigilli del Grande Capitolo generale della massoneria ital
Con l’intero corpo insegnante dell’Accademia di Brera fu chiamato dal Piermarini a collaborare alle decorazioni per la “festa della Federazione” del 21 messidoro dell’anno VI (9 luglio 1797), che con eccezionale magnificenza inaugurò la Repubblica cisalpina. Nello stesso anno Napoleone gli regalò una casa sul Naviglio di S. Marco, già di quei frati, valutata quarantamila lire milanesi. Del 1799 è il capolavoro di questo periodo: gli afrreschi con le Storie di Apollo in casa Sannazzaro poi Prina (conservati in parte a Brera e nella Gall. Civica d’Arte moderna). Fu nominato ai comizi di Lione e nel 1801 si recò a Parigi ad assistere in qualità di membro dell’Istituto all’incoronazione di Napoleone, ricevendo accoglienze trionfali; a Parigi e Versaffles dipinse numerosi ritratti della famiglia dell’imperatore e di personalità della corte. Nel 1802 venne nominato commissario generale delle Belle Arti con 1.500 lire annue, di cui nel 1809 chiederà l’aumento (in qualità di commissario, nel luglio 1802, richiamò l’attenzione delle autorità sulla necessità di restaurare il Cenacolo di Leonardo). Per la festa nazionale della Repubblica italiana, del 26 giugno 1803, l’A. progettò un circo romano, che fu eseguito in legno nel Foro Bonaparte. Sempre nel 1803 eseguì i ritratti per casa Melzi e forse iniziò la vasta creazione dei trentacinque monocromi coi Fasti napoleonici già in Palazzo reale (ora distrutti). Del 1804 è il cartone dell’Apoteosi di Napoleone, che fu molto lodato dalla commissione (Traballesi, Monti e Bossi) che gliene aveva affidato l’incarico; la vasta attività e la grande fama raggiunta lo fecero nominare primo pittore del re d’Italia con 15.000 lire annue, cavaliere della Legion d’Onore e della Corona ferrea e membro dell’Accademia di Brera, preposto alla creazione di quella Pinacoteca.
Andrea Appiani
Nonostante le molte cariche e l’intensa attività nel Palazzo reale di Milano (affreschi nelle sale del Trono, dei Principi, delle Cariatidi e nella sala rotonda, oggi in gran parte perenti), l’A. dipinse in quegli anni quadri per i Litta, per G. B. Sommariva, per casa Galetti, per la chiesa di Oggiono, e ritratti aulici e di privati. Il Parnaso, nella volta di una sala della Villa reale di Milano, del 1812, è la sua ultima opera di grande respiro. Colpito da insulto apoplettico nell’aprile del 1813, vegetò sino all’8 nov. 1817.
Riconoscendone la grandezza, la critica ha concluso per un A. giovanile ancora legato alle grazie del Settecento e successivamente vivo solo quando riesce a mantenerle operanti sotto i castigati ritmi neoclassici con la sincerità dell’impegno decorativo e la dolcezza dei trapassi di colore, per aggiungere subito che, fuori da quell’influsso, egli irrimediabilmente decade. Tale giudizio, profondamente errato e frutto dei paradigmi dellaJeazione romantica, va radicalmente rivisto. L’A. dipende dagli schemi pittorici settecenteschi soltanto perché li rinnova e li trascende profondamente, senza per questo indulgere a quelle forme che teorie e dottrine, dal Mengs al Winckehnann, suggerivano agli artisti del suo tempo. Egli rimane sempre fuori della polemica neoclassica; il suo neoclassicismo non si forma su teorie oltremontane, del resto non ancora giunte a Milano agli inizi della sua attività, o su bianchi calchi di antica statuaria, ma sui meditati esempi del primo Rinascimento padano, risolvendo con essi i propri modemi problemi. Già nelle quattro tempere del Ratto di Europa (Milano, raccolta Biandrà di Reaglie), sobrie e pur cantanti negli sfondi, con le figure di una maniera un poco secca ma viva, dai netti profili, dal colore campito, tenero ma sicuro, è in nuce l’A. migliore e si fanno palesi nel ritmo, nell’atmosfera, nel soggetto stesso quei suggerimenti, specie da Bemardino Luini, accolti e rinnovati da uno spirito originale e moderno. Su questa via nasceranno gli affreschi con le Storie di Psiche e di Giove (Monza, Villa reale), le Storie di Apollo (Milano, già in casa Sannazzaro), il Parnaso (Milano, Villa reale), e le tele dell’Olimpo (Milano, Pinacoteca di Brera) e della Toeletta di Giunone (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo): le molte mitologie in cui egli persegue un sogno di bellezza che sia insieme nella natura e nella tradizione artistica. Mitologie che non esprimono, né lo vogliono, sentúnento, pensiero, passione alcuna né moto, ma semplicemente manifestano un classico stato di grazia. Su questa linea di depurata armonia e di nitore compositivo, appaiono meno decantate, meno neoclassiche starei per dire, le mitologie ove il vibrare dei sentimenti preme sulla serenità del núto, come l’Ercole e Deianira (Milano, raccolta Albasini Scrosati), e più aperte, più piacevoli e in un certo senso più vive, ma anche più illustrative e meno sublimate altre come il Carro di Apollo (Milano, Brera).
Andrea Appiani
Quest’ultimo ha un’affinità ritmica più che strettamente compositiva con l’Apoteosi di Napoleone già nella volta della sala del trono nel Palazzo reale di Milano. Pittura encomiastica e perciò regolarmente bistrattata, nella quale, viceversa, l’A. fuse in lirica e sincera creazione la sua lunga esperienza e i suggerimenti che la sua arte aveva via via appreso, dopo che dal Luini, da Leonardo e Correggio e Raffaello. Come, del resto, egli sapesse trascendere l’incarico ufficiale era anche palese nelle trentacinque tele a tempera monocroma che tomo tomo il salone delle Cariatidi rievocavano i Fasti napoleonici da Montenotte a Friedland in una specie di fascia continua, ove il ritmo compositivo del finto bassorilievo, l’armonica fusione di antico e modemo, il compenetrarsi della cronaca vissuta, del costume e della vita attuali con la dignità epica, col senso eroico e con le reminiscenze classiche avevano una modulazione alta come in David, ma più armonicamente italiana. Di queste tempere, distrutte come la volta della sala del trono, dalle incursioni aeree del 1943, restano precise e vive incisioni, eseguite intorno al 1810 da Giuseppe Longhi, Francesco e Giuseppe Rosaspina, Michele Bisi e Giuseppe Benaglia.
La celebre tela con l’Incontro di Giacobbe e Rachele (Alzano Maggiore, basilica di S. Martino 1795-1805 ca.) rivela equilibrio trala biblica e solenne monumentalità della storia sacra e la tenerezza rattenuta dell’idillio; gli Evangelisti e i Dottori nei pennacchi e nelle lunette della cupola di Santa Maria presso San Celso, un centinaio di figure solide e grandiose in cui i ricordi del Rinascimento e del manierismo primo sembrano giungere sino alle soglie di una severa eloquenza barocca, costituiscono la più alta pittura sacra del neoclassico italiano.
Sull’eccellenza dei ritratti dell’A. concordarono antichi e moderni per la perfetta aderenza, il disegno preciso e pur morbido e i rari trapassi di colore. Ritrattistica della quale, però, sfuggì il merito maggiore, quello di averci dato per prima e senza enfasi lo specchio di quella società, un modulo di vita nuovo che si traduce in pittura, come appare evidente confrontandola coi notevoli, ma ancora irrimediabilmente settecenteschi ritratti di un Knoller o di un Mengs. P, la luce del nobile volto di G. B. Bodoni sorgente dall’uliva e nero del busto (Parma, Pinacoteca nazionale), è la testa arruffata e viva di P. Landriani (Milano, Museo teatrale alla Scala); sono i ritratti di Napoleone Primo Console, del Melzi, della Belgioioso d’Este (Bellagio, villa Melzi), del Vallardi, (Milano Accademia di Brera) e del Monti (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Modema), che ci danno la misura della potenza espressiva dell’A., della sua capacità di fare di un volto un tipo, di riflettere in un viso un’epoca.
Andrea Appiani
Se, concludendo, l’A. non fu un genio, egli non fu comunque mai un accademico. Per lui il canone è termine vivo di un linguaggio e non pura dottrina, e la mitologia sostanza intima dell’arte, ed egli la porta nella sua opera con straordinaria forza di convinzione e assoluta sincerità. Per questo la conquista del suo linguaggio neoclassico fu personale e autonoma, frutto di una sua visione della bellezza, di un suo concetto delle necessità dì uno stile. Unico pittore italiano dell’epoca di fama europea, dominatore indiscusso della pittura neoclassica, non lasciò né allievi né seguaci, ma solo un’altissima fama, che l’ondata romantica volle sommergere. Innovatore vero dell’arte, ma non per le apparenze che i contemporanei elogiarono, egli ci dà la misura della pittura neoclassica non secondo la dottrina, ma secondo la sua vitale essenza, come solo oggi si può capire. I contemporanei lo dissero riccamente umano, di vasta cultura e musicista finissimo.
Altre opere: Corteo di Bacco fanciullo (bozzetto di sipario), Milano, Museo teatrale alla Scala; Venere e Imeneo, Pavia, Civica Pinacoteca Malaspina; Autoritratto, Firenze, Uffizi; Autoritratto, Wano, Brera; Ritratto della contessa Maria di Castelbarco Visconti Litta (l’inclita Nice), Milano, raccolta Castelbarco Albani; Ritratto di Ugo Foscolo, Milano, Pinacoteca di Brera; Ritratto del generale Desaix, Ritratto della signora Regnault, Versailles, Musée National; Ritratto di Anna Maria Porro Lambertenghi, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna; Ritratto della cantante Catalani, Firenze, raccolta Galletti di S. Ippolito; Ritratto della contessa Margherita Grimaldi Prati, Treviso, Museo Civico; Ritratto della signora Angiolini, Ritratto di una signora Rua, Milano, Ambrosiana; Ritratto di Marianna di Santa Cruz, Roma, Accademia di S. Luca; Ritratto di Sigismondo Ruga e di Paola Ruga detta la Rugabella, Crema, raccolta Vimercati Sanseverino.
Era suo nipote l’omonimo pittore nato nel 1817 dal figlio Costanzo. Allievo dal 1833 al 1837 in Roma del purista Tommaso Minardi e successivamente, a Milano, dello Hayez all’Accademia di Brera, fu mediocre artista e, per di più, schiacciato dall’ombra del grande avo. Stilisticamente oscillò tra un purismo di maniera e un manierato romanticismo. Il suo nome sopravvive in opere povere e in fuggevoli cenni dei contemporanei. Dipinse gli immancabili quadri storici (Corradino di Svevia sul patibolo, il Ritrovamento di Mosè alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma), freddi ritratti e decorò a fresco palazzi e la chiesa di Bolbeno. Morì a Milano il 18 dic. 1865.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Cartella Pittori: Appiani; Descrizione dell’opera a fresco eseguita nel 1795 nel tempio di S. Maria presso S. Celso in Milano dal pittore A. A., Milano 1803; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala del trono del Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; A. Brucellini, Carme per gli egregi dipinti a buon fresco nel Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala dei Principi…, Milano 1810; Descrizione del dipinto a buon fresco eseguito nella Villa Reale di Milano dal sig. Cavalier A. A., Parma 1811; G. Berchet, Allocuzione ai funerali di A. A., Milano 1817; G. P. [Giulio Perticari?], Sulla morte del Cavalier A. A., Milano 1818; A. Lissoni, Dialogo di Parini e A. agli Elisi, Milano 1818; D. Anesi, Le glorie pittoresche: Dialogo dei celebri pittori Bossi e A., Milano 1818; I. Fumagalli, Elogio di A. A., Milano 1818; Catalogo delle pitture, dei cartoni e dei disegni più ragguardevoli del defunto cavalier A. A. e di varie altre Pitture, stampe e libri figurati esistenti presso gli eredi, Milano 1818; F. Martini-R. Bonfadini, I fasti del primo Regno Italiano. Dipinti di A. A. incisi da vari, Milano s. d.; G. Longhi, Elogio storico di A.A., Milano 1818; M. Bisi, Incisioni delle opere del Pittore A. A., Milano 1820; B. Parea, Epitome delle vite dei dieci sommi italiani illustri nelle arti e nelle scienze tolti ai viventi nel corrente secolo, Milano 1827; G. Berretta, Le opere di A. A. Commentario, Milano 1848; Id., Battaglie e Fasti di Napoleone, composti e dipinti a chiaroscuro dal celebre cav. A. A., Milano 1848; G. De Castro, Il mondo segreto, VI, Milano 1864, p. 105; F. Martini-R. Bonfadini, Battaglie e fasti di Napoleone dipinti a bassorilievo in tela dal cav. A. A., Milano 1896; L. Auvray, Inventaire de la collection Custodi conservée à la Bibliothèque Nationale, in Bulletin Italien, III(1903), pp. 308 ss.; IV (1904), pp. 152 ss.; C. Ricci, La Pinacoteca di Brera, Bergamo 1907, pp. 13, 14, 30, 34, 36, 55, 75, 92, 162 (per l’opera dell’A. come commissario delle Belle Arti); G. Nicodemi, La pittura milanese dell’età neoclassica, Milano 1915, pp. 88-126; A. Zappa, A. A. e l’arte neoclassica, Milano 1921; G. Nicodemi, Ritratti di Napoleone, in Rass. d’arte, VIII (1921), pp. 145-151; A. Neppi, A. A., Bergamo 1932; R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica, i primi moti per l’indipendenza, Modena 1942, pp. 30, 48 s.; G. Nicodemi, A.: trentaquattro disegni, Milano 1944; M. Borghi, I disegni di A. A. nell’Accademia di Brera, Milano 1948; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, p. 89; E. Lavagnino, L’arte moderna, Torino 1956, I, pp. 229-237; A. Ottino Della Chiesa, L’età neoclassica in Lombardia (catalogo della mostra), Como 1959, pp. 33-39, 94-113; G. Allegri Tassoni, Una fraterna amicizia: A. A. e G. Bodoni, in Aurea Parma, XLIII (1959), pp. 22-28; A. Rameri, Una lettera dell’A. e la datazione di un celebre ritratto, in La Martinella di Milano, XIII (1959) (in estratto pp. 3-7); S. Samek Ludovici, La pittura neoclassica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 548 ss. e Passim; U.Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, pp.40 s.; Encicl. Ital., III, pp. 757-759. Per A. A. iunior v.: A. Caimi, Arti del disegno in Lombardia, Milano, 1862, p. 60; L. Malvezzi, Le glorie dell’arte lombarda, Milano 1882, p. 284; G. De Sanctis, T. Minardi e il suo tempo, Roma 1900, p. 155; E. Ovidi, Tommaso Minardi e la sua scuola, Roma 1902, pp. 107, 265-67; G. Nicodemi-M. Bezzola, La Galleria d’Arta Moderna di Milano, Milano 1935, I, pp. 16-17; P. Pecchiai, I ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1927, nn. 227, 250; U. Thieme-F.,Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, p. 42.
Gabriele Guercio -Arte o decadenza.Dilettanti professionisti maestri-Editore Quodlibet-
Descrizione del libro di Gabriele Guercio– Immaginare l’arte come evento che sfida la decadenza significa pensare a una potenza che non è mai confinata al presente, che non si limita alla sua contemporaneità. L’arte, radicata nel momento storico in cui nasce, possiede tuttavia una forza che la trascende, rinnovandosi continuamente. Non è solo testimonianza del tempo, ma resistenza alla sua caducità. In essa, il presente si dissolve per fare spazio a un essere sottratto al divenire.
A cominciare dagli anni Ottanta, il mondo dell’arte sembra vivere all’insegna del business e ammettere tra le proprie fila prevalentemente gli artisti favoriti dal mercato, definiti qui come “professionisti”. La carenza di criteri accertabili dei fenomeni artistici, un tempo ritenuti riconducibili al mistero della creatività, appare ora colmata nelle aleatorie negoziazioni tra gli artisti e i loro comprimari nel sistema, tra l’opera e il campo della sua fruizione, tra il mondo dell’arte e gli altri ambiti. L’arte come creazione umana capace di dare forma e vita a quel che prima non c’era ha perso di credibilità. Eppure, una tale perdita è addirittura propizia al tipo di prestazione richiesta all’artista in un contesto dominato dall’affarismo turbocompresso. Si potrebbe ipotizzare, quindi, una vera e propria decadenza? Questa è una delle domande che guidano il saggio di Gabriele Guercio. Per rispondere, vengono riesaminate le figure di dilettante, professionista e maestro, analizzando la loro evoluzione storica nella pratica artistica moderna. Ripercorrendo le traiettorie dell’arte otto-novecentesca da cui ha preso avvio la caduta, l’autore suggerisce modelli per tentare di riparare il danno. Il testo si estende dal Romanticismo ai giorni nostri, trattando una vasta gamma di artisti, critici e storici dell’arte. In particolare, sono presenti affondi rivolti alle opere di alcuni contemporanei come Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Charles Ray, Sophie Calle, Francis Alÿs e Anselm Kiefer, contrapponendo casi che suggeriscono un processo di dipendenza e declino, a casi che sembrano indicare persistenti forme di autonomia.
Gabriele Guercio-Arte o decadenza.Dilettanti professionisti maestri
Indice
Introduzione. Una decadenza in atto?
1. L’arte come business dell’arte
1. Torpore e assenza di sorpresa
2. Il cattivo infinito del business
3. Un transnazionalismo spurio
4. Cinque caratteristiche del declino?
4.1. Strategie di infiltrazione; 4.2. Né originale né replica; 4.3. La finzione dell’impostura; 4.4. Il contenuto come passe-partout; 4.5. Lo charme dell’interminabile;
5. Horror vacui e (ri)mediazioni
6. Di là da venire
2. Le verticalità perdute
1. Verità e impasse, apici e derive
2. L’instabilità del professionista
3. C’era una volta
4. Virtù e miserie della creatività generica
5. Il canto del cigno
6. Avvistamenti e perdita
7. Evitare i rimpianti, estendere il ricordo
3. Identità in fuga
1. Dilettanti e maestri
1.1. Perché i dilettanti; 1.2. Perché i maestri
2. La triade come sintomo
4. La lunga durata
1. Troncare il nodo gordiano
2. Cinque contrapposti
2.1. L’ignoto che appare; 2.2. Un’affluenza di colori; 2.3. Attraverso lo specchio; 2.4. La fecondità del contenimento; 2.5. Il memorabile e il detrito
3. Un valore irrinunciabile
5. Un quadro di probabilità
1. Tre virtù da riconsiderare
1.1. Coesistenze in atto; 1.2. La soglia dell’adimensionale; 1.3. Rudimenti per una critica della natalità delle opere
2. Al pari di una realtà
3. Una mente e un cuore ospitali
Ringraziamenti
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
L’autore Gabriele Guercio
Gabriele Guercio è uno storico dell’arte e saggista. Tra i suoi libri ricordiamo Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project (2006), The Great Subtraction (2012) e L’arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis (2015), Antidestino. Quattro esempi dell’arte italiana 1965-1983 (2022). Per Quodlibet ha pubblicato Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (2017), Opere d’arte e nuovi inizi (2021) e Arte o decadenza (2025).
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