Diciamo subito che il termine Polledrara di Cecanibbio, Fotoreportage di Franco Leggeri, non si riferisce ad allevamenti di polli o similari che dir si voglia, ma bensì ad un recinto per cavalli (puledri) e che la località di Cecanibbio,Museo Paleontologico Polledrara di Cecanibbio ,nonostante il nome che sembrerebbe di fantasia, esiste davvero e si trova fra la via Aurelia e la Boccea a circa sei chilometri dall’incrocio che dalla statale porta a Fregene, andando però dalla parte opposta verso l’interno e non verso il mare.
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
La Polledrara di Cecanibbio, la quale come luogo e nome alla maggior parte delle persone non dice assolutamente nulla essendo peraltro completamente sconosciuta ai più, gode invece di fama internazionale fra gli archeologi e i paleontologi di tutto il mondo per tutta una serie di motivi ed in particolare per alcuni che a seguire cercheremo di spiegare in maniera dignitosa. Nel Pleistocene medio- superiore (300.000 anni fa), la campagna romana si presentava come è oggi il cuore dell’Africa, ciò vuoi per motivi climatici, che per quelli ambientali con grande varietà e ricchezza di vegetazione ed una forte presenza di corsi d’acqua e di grandi zone paludose; un habitat questo che permise la sopravvivenza di una fauna estremamente varia ad iniziare dall’elefante antico (Palaeoloxodon antiquus), un gigante di circa 6 metri d’altezza con zanne di 4 metri e mezzo, per proseguire poi con rinoceronti, bufali (tanti stando ai ritrovamenti), lupi, cervi, cinghiali ed anche scimmie della specie macaco, per non dire poi di varie specie di rettili (tartarughe d’acqua e di terra incluse) e di uccelli particolarmente di specie acquatica.
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Ma la Polledrara di Cecanibbio è famosa fra gli esperti soprattutto perché in una estensione di circa un chilometro quadrato si trova un grande accumulo di resti fossili degli animali succitati mantenutisi in maniera eccezionale ed ivi accumulati in un alveo torrentizio (un torrente di circa 40 metri di larghezza con una profondità di un metro e mezzo che le portò con le sue piene, una sorta quasi di Arrone ante litteram; Arrone che, attualmente, per inciso, scorre non lontano da lì) furono inglobati perfettamente nei sedimenti vulcanici ivi “sparati” dal vulcano Sabatino (ora lago di Bracciano – tutti i laghi del Lazio sono il frutto del riempimento acqueo di ex coni vulcanici) tali da conservarsi, fino ai nostri giorni, in maniera ineccepibile per la “gioia” degli specialisti di cui sopra e per la curiosità ed il piacere visivo dei visitatori di oggi.
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
I primi indizi di questo ampio giacimento di fauna fossile si ebbero già nel 1984 quando in una ricognizione di superficie la Soprintendenza Archeologica individuò lungo i fianchi di una collinetta un gran numero di resti, con, a seguire, delle ricerche più approfondite, fatte in loco successivamente in vari periodi.
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Nel corso degli anni l’area ha restituito resti non completi di una cinquantina di elefanti antichi, tra cui – per la prima volta in Italia – sette crani di individui adulti appartenenti a questa specie. Ma anche, tramite la campagna di scavo iniziata nel 2011, un reperto assolutamente straordinario (sempre di elefante antico) di cui vale la pena di parlare visto e considerato che si tratta di una vera e propria “tragedia” animale nella quale incappò un rappresentante di tale specie.
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Ecco la stupefacente storia emersa dalle ricerche effettuate. Uno di questi elefanti giganti scivolò all’interno di una grande e profonda fossa completamente piena di vischioso fango e, purtroppo per lui, cadde dentro con le zampe messe in malo modo, in particolare quelle posteriori, tanto da non poter più spingersi in alto verso la liberazione, anzi, probabilmente quei pochi movimenti che riuscì a fare complicarono ulteriormente la sua situazione avviandolo verso una bruttissima fine ed anzi esponendolo ai brutali attacchi animali ed umani che mai si sarebbero verificati se fosse stato libero di muoversi disponendo a difesa, verso qualsiasi direzione, le sue tremende zanne e la sua potente proboscide. C’è da dire che l’esemplare fossile della Polledrara di Cecanibbio con il fatto che rimase bloccato in posizione anatomica verticale ha permesso degli studi particolarmente esaustivi su questa specie e delle precise comparazioni con gli elefanti dei nostri giorni.
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A proposito degli attacchi che l’elefante prigioniero subì vanno segnalati quelli che effettuò l’uomo preistorico nello specifico l’Homo Heidelbergensis (ritrovato, in prima battuta, presso Haidelberg in Germania ed antenato dell’Homo Sapiens) che stanziava anche lui nella zona, probabilmente proprio per le ampie opportunità di caccia che essa offriva. Anzi, come dimostrato dagli istrumenti rinvenuti intorno alla carcassa del grande animale, lo macellò letteralmente fratturandogli anche le ossa sia a scopo alimentare che per trarne strumenti appunto di quella natura. E di ciò vi è assoluta certezza in quanto le analisi effettuate al microscopio elettronico, pure tramite l’Università La Sapienza, hanno infatti evidenziato, su alcuni oggetti usati dall’Homo Heidelbergensis, delle sicure tracce lasciate dal taglio della pelle, della carne e dell’osso. Va anche detto che la capacità cerebrale dell’Homo Heidelbergensis è praticamente quasi uguale alla nostra per cui non si può escludere totalmente che il Palaeoloxodon antiquus fu spinto volutamente nella fangaia per poi poter infierire su di esso con il minor pericolo possibile considerando la mole la forza dell’animale che libero di muoversi sarebbe stato un avversario estremamente poderoso molto difficile da uccidere.
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
Fra l’altro non è da trascurare, sempre alla Polledrara di Cecanibbio, il fatto del ritrovamento dei resti fossili di bufali visto e considerato che, fino a questi rinvenimenti, mai nel Pleistocene medio – superiore tali animali erano stati, fino ad allora, documentati nell’Europa meridionale. Attualmente questo luogo, molto particolare e molto speciale, è visitabile dal pubblico sia in gruppi che singolarmente (guardare per informazioni orari e giorni su internet digitando “Polledrara di Cecanibbio”) in maniera estremamente intelligente attraverso delle funzionali passerelle aeree che evitano, in tal modo, il calpestio di questa interessantissima area preistorica. Dimenticavo di dire che dei grandi e bei pannelli illustrativi a colori fanno vedere come doveva presentarsi tutta la zona 300.000 anni fa sia in ambito botanico che animale.
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
Articolo scritto dal Prof.Arnaldo Gioacchini – Membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco
Foto di Franco Leggeri-
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AGRICOLTURA-L’aratro pesante invenzione che cambiò il mondo dell’agricoltura medievale-
AGRICOLTURA-L’aratro pesante-La grande invenzione che cambiò radicalmente il mondo dell’agricoltura medievale fu quella dell’aratro pesante. In epoca antica e durante l’alto medioevo era ben noto il cosiddetto aratro semplice, uno strumento a vomere (la parte che taglia la terra) simmetrico e in legno che riusciva a malapena a scalfire superficialmente le zolle del terreno e quindi non rimescolava granché la terra, garantendo raccolti di scarsa rilevanza.
Inoltre erano strumenti molto fragili, che poco si adattavano al duro terreno del nord Europa, che in effetti neppure i romani avevano mai coltivato in maniera seria e continuativa (per non parlare dei barbari, che spesso non ci provavano neppure).
Londra, British Library-L’ARATURA
Dal nord della Francia al resto d’Europa
Attorno all’undicesimo secolo, però, nel nord della Francia fece la sua comparsa un nuovo tipo di aratro, chiamato presto aratro pesante, in cui il vomere era asimmetrico, mentre lo strumento in generale era dotato di ruote e, dato che non doveva più essere per forza spinto da un uomo e poteva essere quindi appesantito per farlo entrare più in profondità, necessitava di essere attaccato a buoi o cavalli.
Fu una rivoluzione: l’aratro pesante, come il nome lascia intendere, penetrava più profondamente nel terreno, rimestando completamente le zolle e garantendo una produttività maggiore dei campi. Questo favorì, nel giro di pochi decenni, un poderoso aumento demografico che solo la venuta della peste avrebbe interrotto; inoltre, buoi e cavalli trovarono ampio impiego, anche grazie alle successive invenzioni del giogo frontale per i primi e del collare da spalla per i secondi, portando anche a una sempre più netta distinzione tra contadini ricchi – che potevano permettersi il nuovo aratro, già di per sé costoso, e gli animali che servivano a metterlo in funzione – e contadini poveri.
Le innovazioni agricole nel basso Medioevo
Nel basso Medioevo, a partire dall’anno Mille, l’aumento della produzione agricola porta ad una crescita demografica che favorisce la nascita di nuovi borghi. I maggiori raccolti non solo soltanto favoriti da un miglioramento del clima ma anche dall’introduzione di alcune innovazioni.
La produttività del suolo è in rapporto strettissimo con la quantità e la qualità delle arature. I progressi più significativi sono almeno quattro: l’aratro pesante, il collare da spalla, il ferro da cavallo e il mulino.
L’aratro pesante
L’invenzione dell’aratro pesante aumenta la qualità dell’aratura.
Nei secoli prima del Mille, i contadini utilizzano l’aratro semplice con il vomere in legno temperato che finisce a punta di freccia e si limita a scalfire superficialmente la terra, non rovescia le zolle e richiede un massiccio lavoro manuale con la vanga per completare l’opera. Per il contadino, quindi, la fatica è maggiore.
Tra il XI e il XII secolo, invece, fu inventato un aratro a vomere asimmetrico e versoio di ferro, dotato di avantreno mobile e di ruote. Questo aratro pesante penetrava in profondità e. per mezzo del versoio, ribaltava la zolla.
Nel XII secolo, si iniziò anche ad arare quattro volte all’anno consentendo alla terra di ossigenarsi maggiormente aumentando così la sua fertilità.
SORIANO nel CIMINO (Vt)-Archeologia Preventiva, teorie, metodi ed esperienze
Archeologia Preventiva per conciliare la tutela del patrimonio con le esigenze operative di interventi relativi a piccole e grandi opere infrastrutturali. È di questo che si occuperà il primo convegno sul tema, dal titolo: “Archeologia Preventiva, teorie, metodi ed esperienze”, che si terrà a Soriano nel Cimino (VT) il 18 ed il 19 ottobre 2024.
Convegno Archeologia Preventiva-
L’iniziativa, nata all’interno del Master di II livello in “Archeologia Preventiva e Gestione del Rischio Archeologico”, è promossa dall’Università degli Studi della Tuscia, il Ministero della Cultura (DG Musei, DG ABAP), ICA (Istituto Centrale per l’Archeologia), Italferr (Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane) e Archeoimprese (associazione delle imprese archeologiche), SABAP Viterbo e Etruria Meridionale, in collaborazione con il Comune di Soriano nel Cimino, il Museo Civico Archeologico dell’Agro Cimino e l’Ente Sagra delle Castagne.
Il convegno si propone di sottolineare quanto ormai l’archeologia preventiva occupi un ruolo centrale nel campo della professione dell’archeologo, rappresentando per molteplici aspetti il futuro della ricerca archeologica sia in ambito nazionale che internazionale.
Archeologia Preventiva-Foto Franco LeggeriBiblioteca DEA SABINA
Dai caratteri di episodicità e di straordinarietà delle prime esperienze, la procedura di archeologia preventiva negli ultimi anni si è ormai consolidata e fornisce metodologie di indagine consapevoli, funzionali ad arricchire la conoscenza, a favorire la valorizzazione dei contesti rinvenuti, garantendo il giusto equilibrio tra sviluppo infrastrutturale e tutela del patrimonio archeologico.
Il convegno si pone l’obiettivo di raccogliere e connettere riflessioni ed esperienze relative ai seguenti ambiti di interesse:
– Remote and proximal sensing applicati all’archeologia preventiva;
– Metodi di documentazione dell’archeologia preventiva;
– Archeologia preventiva come ambito di carriera professionale e occupazionale;
– Valorizzazione e ruolo sociale dell’archeologia preventiva;
– Esperienze e casi studio (sessione poster).
Archeologia Preventiva-Foto Franco Leggeri-Biblioteca DEA SABINA
L’evento, si mostra dunque come l’occasione giusta di raffronto e discussione di questi temi caldi mediante le varie esperienze presentate che potranno così essere argomento di confronto critico nei tavoli di discussione, insieme agli esperti dei diversi settori coinvolti.
Sarà possibile presentare gli abstract entro il 25 Agosto 2024, presentando la proposta.
Archeologia Preventiva-Foto Franco LeggeriBiblioteca DEA SABINA
Il Geoportale per l’archeologia preventiva
Le grandi trasformazioni del territorio italiano causate dalla realizzazione di infrastrutture, opere pubbliche di diversa entità e, da ultimo, dalla costruzione di innumerevoli impianti finalizzati alla produzione di energia da fonti rinnovabili e non, rischiano costantemente di intercettare e distruggere il patrimonio archeologico diffuso ancora conservato nel sottosuolo. Come conciliare dunque l’esigenza di proteggere e conservare un patrimonio tanto diffuso e rispettare la necessità di garantire servizi sempre più capillari alle persone, trasporti sempre più efficienti, città sempre più “connesse” al passo con le esigenze di una società in trasformazione e con tecnologie in costante evoluzione?
La risposta a questa domanda risiede nella procedura della verifica preventiva dell’interesse archeologico (che si abbrevia come “archeologia preventiva”): essa prevede la valutazione del rischio rappresentato per i contesti archeologici e paleontologici dalla realizzazione di un’opera pubblica. Tale valutazione è tanto più complessa e articolata quanto lo è l’opera in progetto: si pensi soprattutto a grandi infrastrutture estese per centinaia di chilometri come strade e ferrovie, o a opere che incidono profondamente il sottosuolo. Per effettuarla, è fondamentale la collaborazione fra tutte le parti coinvolte: progettisti, committenti, enti territoriali, archeologi, geologi, paleontologi.
La legge fornisce soluzioni percorribili per salvaguardare tutela del patrimonio e necessità di realizzazione delle opere: i contesti archeologici possono in alcuni casi essere indagati e documentati scientificamente, prima di essere rimossi per lasciare spazio alle attività in progetto. È possibile, in alcuni casi, al termine delle indagini archeologiche, delocalizzare i resti antichi, per garantire le migliori prospettive di fruizione e valorizzazione in un luogo diverso da quello del ritrovamento. Solo in caso di assoluta incompatibilità delle opere in progetto con i ritrovamenti archeologici diviene necessario richiedere una modifica del progetto iniziale. Infine, talvolta è possibile che l’antico giunga a coesistere con la città contemporanea, con forme di integrazione che riescono a valorizzare al massimo le testimonianze del passato nel contesto attuale.
La legislazione italiana, ben prima della ratifica della Convenzione di Malta del 1992, che a livello internazionale ha posto le basi per le norme in materia, aveva già previsto la facoltà di prescrivere indagini archeologiche per individuare in fase di progettazione le stratificazioni antiche che potrebbero essere danneggiate dalle opere.
Oggi, la materia è regolata dal Decreto Legislativo 36/2023 Codice dei contratti pubblici. Ai sensi del DPCM 14 febbraio 2022 la redazione della relazione di assoggettabilità alla procedura deve essere effettuata mediante lo standard e gli applicativi GNA. La Circolare della Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio n.9 del 28 marzo 2024 infine ha esteso il conferimento dei dati al GNA a tutte le fasi della procedura di archeologia preventiva, compresi quindi saggi, trincee e scavi in estensione, nonché l’eventuale assistenza in corso d’opera.
Principali documenti di riferimento:
Circolare 53/2022 su VPIA e parametri del potenziale archeologico
Circolare 32/2023 su VPIA nel nuovo codice Appalti e vigenza del DPCM 14 febbraio 2022
Circolare 9/2024 in materia di conferimento al GNA dei dati minimi di tutte le indagini di scavo
Circolare 22/2024 su estensione dello standard GNA alle aree di competenza dei parchi archeologici
Eventuali criticità riscontrate nel sito di cui l’amministrazione è titolare, in termini di conformità ai principi di accessibilità, o per avere un riscontro sulle informazioni inaccessibili e/o per richiedere un adeguamento dei sistemi informatici a disposizione può essere inoltrata apposita segnalazione direttamente a questa Amministrazione (come previsto dalla Legge 9 gennaio 2004, n. 4 aggiornata dal Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n. 106, articolo 3-quater comma 2 lettera b) all’indirizzo mail: ic-archeo@cultura.gov.it
Monteleone Sabino- Plinio Maior “TREBVLA MVTVESCA”
Arch. Carlo CUSIN:Monteleone Sabino ”Della terra dei Flavi,Plinio Maior scrisse : “Tra i Sabini vi sono i Tribulani che s’appellano Mutuesci.” Ieri ero proprio a “TREBVLA MVTVESCA”-Monteleone Sabino-La chiesa di S. Vittoria sorge su un bel terrazzamento panoramico ed è un didattico compendio di storie costruttive dal IV sec al basso Medioevo ed ho rivisto 2 sorprendenti siti legati alla storia del Console Manio Curio Dentato che.nel III sec aC,vinse e conquisto’ le terre di Sanniti,Galli Senoni e Sabini : l’anfiteatro e la chiesa di S. Vittoria. Il toponimo di Trebula Mutuesca deriva da “trabs”-trave,inteso come “casa” dei Mutuesci,in effetti,come Roma,Trebula M. sorse per sinecismo,riunendo i pagi rurali,sparsi sulle colline,con la romanizzazione del territorio,in un “Mvnicipivm” con terme,foro, anfiteatro e templi dedicati a divinità rurali arcaiche come Angitia e Feronia. L’anfiteatro è un grande ellisse di 94×66 mt,con vasti ambienti ipogei al servizio di munera e venationes,Traiano lo ricostrui’,come lo vediamo oggi,su un precedente edificio più piccolo,come scritto su 2 grandi epigrafi,in marmo lunense,visibili in sitv e nel locale museo archeologico. La chiesa di S. Vittoria sorge su un bel terrazzamento panoramico ed è un didattico compendio di storie costruttive dal IV sec al basso Medioevo,con una rara e composita planimetria asimmetrica,costruita con tanti elementi architettonici Romani di spoglio,come d’uso di un tempio pagano che qui sorgeva,una piccola catacomba,con riuso d’ambienti di cava,un pozzo con acqua “miracolosa”,già usata per i riti lustrali pagani,ed un alto campanile con un doppio ordine di bifore… “HISTORIA vero TESTIS temporvm, LVX veritas, VITA memoriae et MAGISTRA vitae !” La storia,in verità,è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria e maestra di vita ! Cicerone “De oratore”.
Le origini del nome sono incerte e sull’argomento sono state espresse varie ipotesi. La prima vede il leone come il simbolo dell’antica città romana sulle cui rovine è sorto: Trebula Mutuesca. Questo fornirebbe la spiegazione alla presenza di molte statue di pietra raffiguranti questo animale all’interno del paese, dalle quali avrebbe preso il nome[4].
Una seconda versione è quella che fa risalire il nome del paese alla famiglia Brancaleoni di Romania, che vi dominò dal 1344 fino alla metà del secolo successivo[5].
Un’altra ipotesi, attinta dalla tradizione popolare, vuole che il nome del paese si ricolleghi alla somiglianza che intercorre tra la fisionomia geografica che assume la collina (Monte) e il dorso longilineo del leone che aspetta argutamente la sua preda. Tale ipotesi, tuttavia, non dispone di fondamenta probative e testimonianze storiche documentate.
Storia
Il paese è di origine altomedievale[6], mentre sul suo territorio si trova l’antica città sabina di Trebula Mutuesca, luogo di importanti ritrovamenti di reperti.
MONTOPOLI DI SABINA (Rieti)-La Villa romana dei Casoni –
Architetto Carlo CUSIN:”La Villa romana dei Casoni “
MONTOPOLI di SABINA (Rieti)
Architetto Carlo CUSIN:”La Villa romana dei Casoni “è un altro tesoro Romano Repubblicano ,amato dal “Sol Invictvs”,a circa 500 mt slm,sul terrazzamento artificiale di una collina SABINA, ancor’oggi lontana dal mondo,non facile da raggiungere,immagino allora… “Dicitvr” si dice,senza certezze, purtroppo,come spesso accade,che sia una grande villa “per otivm”, sorta nel II sec aC su un antico “vicvs” sabino,appartenuta alla plebea “Gens Terentia” Romana,originaria di queste terre,con magistrati/letterati/militari noti fin dal V sec aC,cui appartenne Marco Terenzio Varrone (“Terentia” dal latino colui che trebbia/macina ). La grande villa è posta su almeno 3 terrazzamenti,con la classica planimetria composita con “atrivm”,peristilio,oecvs,triclini ecc con un sottostante criptoportico con bocche di lupo,collegato con un adiacente “horrevm” ipogeo,cui venne addossato,in epoca Imperiale un grandioso paramento,lungo oltre 50 mt,con 9 nicchie absidate/piane con un antistante giardino con una sorprendente piscina circolare ! A monte del complesso è ancora visibile una grande cisterna rifornita da una sorgente ora non più attiva… ! “Res magnae gestae svnt !” Grandi cose furono fatte ! “Gratias” agli amici del Gruppo FAI Sabina.
La Villa dei Casoni (o Villa romana dei Casoni o più comunemente detta Villa di Varrone) è ciò che resta di una villa romana d’epoca repubblicana situata nel comune di Montopoli di Sabina, nella frazione di Bocchignano. Descrizione
I ruderi della villa detta di Varrone sono raggiungibili sia da Poggio Mirteto che da Bocchignano. La villa è stata descritta da Guattani nel suo 3° volume dedicato ai monumenti sabini, fu poi descritta ampiamente anche da Ercole Nardi nel suo manoscritto “Ruderi delle ville romano sabine nei dintorni di Poggio Mirteto“.
La villa è stata edificata in epoca repubblicana presumibilmente su un preesistente villaggiosabino, come sembrerebbero testimoniare le tracce di opus poligonalis e quadratum. Essa è rialzata di circa sei metri rispetto al piazzale antistante al ninfeo, ove è presente una struttura circolare identificata con una piscina. Del piano abitativo restano solo le fondamenta delle stanze tra cui l’atrio con ai lati una coppia di cubicole (le camere da letto dei Romani), dall’atrio era possibile accedere a delle stanze identificabili con delle biblioteche una greca e una latina; inoltre era possibile accedere, attraverso un posticum, il Peristilio. Ad est è possibile osservare un altro gruppo di stanze, stavolta ad uso perlopiù rustico, infatti da un’esedra (una stanza di passaggio), era possibile accedere all’horreum (il magazzino delle granaglie), dove erano presenti degli scalini che conducevano al criptoportico sottostante e ad una stanza che secondo alcuni aveva la funzione di officina, luogo in cui si trasformavano i prodotti grezzi in prodotti destinati alla vendita. Il ninfeo con nove nicchie è in opus reticolatum, aggiunto successivamente nel I secolo per dare monumentalità alla struttura, appartenuta senza dubbio a un personaggio facoltoso per il rinvenimento di marmi, mosaici e intonaci policromi affrescati.
La Villa dei Casoni possiede uno dei criptoportici più conservati di tutta la Sabina, esso è a forma di “L” e lungo 50 m., prendeva luce da aperture a bocca di lupo e collegava, come già detto precedentemente, il magazzino delle granaglie (horreum) tramite delle scalette, al criptoportico e di conseguenza al piazzale sottostante, che probabilmente fungeva da giardino[senza fonte].
Inoltre, nei pressi della villa, in direzione nord, è presente un rudere identificato con una fontana romana (fons), probabilmente usata a scopo ornamentale. Non molto lontano dai resti di fondamenta delle stanze descritte precedentemente, sono presenti altri resti frammentari di altre stanze non identificate e lungo il perimetro del piazzale sottostante sono presenti dei resti di mura terminanti con un’esedra semicircolare di cui restano poche tracce.
Essa è conosciuta, non si sa bene a quale titolo documentabile come la “Villa di Terenzio Varrone” (116–27 a.C.), erudito che ebbe da Cesare il compito di organizzare la prima biblioteca della repubblica di Roma. Fu l’autore di circa 70 opere sui più vari campi del sapere tra le quali spiccano le “Antiquitates Rerum Umanarum et Divinarum Libri XLI”; e “Disciplinarum Libri Novem”, entrambe giunte in frammenti. L’opera sua più studiata e conosciuta è “De re rustica” in tre libri giuntici per intero, opera in cui sono presenti dei riferimenti indiretti alla Villa dei Casoni[senza fonte], il quale parla di una sua zia Terenzia che, al XXIV miglio della Salaria (quindi all’altezza di Cures) possedeva una villa con una tenuta non molto prospera. Cosicché ella vi installò un allevamento di tordi ( o forse colombacci o di una varietà allevabile di merli) con il quale riusciva a produrre redditi doppi rispetto a quelli ottenibili con un intero fondo. Tanto che in una sola occasione poté ricavarne 60.000 sesterzi per aver venduto in blocco 5000 uccelli nell’occasione del banchetto in onore del trionfo di Quinto Cecilio Metello Pio Scipione.
Dai recenti scavi effettuati in loc. Acquaviva, vicino Nerola, sono emersi i ruderi di una villa romana del II sec.a.C.-I secolo d.C. in cui sono presenti i resti di un doliarum (una zona dedicata alla conservazione dei doli e del suo contenuto), di un candelabro bronzeo e un’uccellaia per l’allevamento avicolo, rispettando di più la descrizione fornitaci da Varrone.
Bibliografia
Ercole Nardi, Ruderi delle ville romano sabine nei dintorni di Poggio Mirteto illustrati dal prof. Ercole Nardi 1885, edizione critica a cura di Dario Scarpati, Poggio Mirteto, 2010, pp. 61-66.
Carmelo Cristiano, I territori di Montopoli di Sabina e Bocchignano, 1996, pp. 22-24.
Il paese di Montopoli, situato a quota 331 metri s.l.m., vanta il privilegio di offrire la visione di una ininterrotta sequenza di magnifici panorami per la sua particolare collocazione sulla cresta di una verde collina che consente di spaziare l’intero orizzonte. Montopoli ha un territorio molto vasto che va dall’abitato di Passo Corese fino all’abitato di Poggio Mirteto, delimitato, ad est dal fiume Tevere ed a ovest dal torrente Farfa. L’origine del nome sembra derivare da Mons Poilionis che si modificò in Mons Operis per la operosità dei suoi abitanti e successivamente in Montis Opuli per la ricchezza della sua terra. La storia narra che intorno al mille passò sotto l’Abbazia di Farfa e da quell’epoca in poi risentì di tutti gli eventi che riguardarono la famosa Abbazia, fu coinvolta nelle lotte fra imperatori e papi dove gli abitanti si distinsero per il loro comportamento da fedeli guerrieri. Nel 1243 per ordine del Papa Gregorio IX, Montopoli fu saccheggiata e distrutta, fu prima borgo e poi elevato a comune. Dopo la ricostruzione cominciò il periodo della Signoria. Montopoli passò poi agli Orsini e ai Felici. Oggi Montopoli di Sabina è conosciuta soprattutto per l’eccellente qualità dell’olio di oliva e per la bontà del nettare che il suo territorio produce fin dai tempi del concittadino Numa Pompilio.
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ROMA. Antiquarium Comunale del Celio. La storia di un museo invisibile.
Articolo di Thomas Villa
Roma-Antiquarium Comunale del Celio- C’è un consenso piuttosto ampio sul fatto che i primi musei aperti al pubblico (nel senso moderno del termine) siano i Musei Capitolini, inaugurati nel 1734 da Clemente XII Corsini. Nonostante la loro straordinaria storia, non tutta la collezione archeologica di competenza comunale di Roma è però fruibile da parte dei visitatori. Ovviamente esporre tutto il patrimonio non avrebbe senso, e le scienze della museologia e della museografia, in quanto scienze prettamente sociali, devono selezionare attentamente il patrimonio in grado di suscitare interesse e curiosità nel pubblico contemporaneo, portandolo ad approfondire quel mondo non più esistente. Per usare il termine di Krzysztof Pomian, uno dei più rilevanti studiosi della storia dei musei della nostra epoca, gli oggetti esposti “rendono visibile l’invisibile”. Eppure la società cambia, e così i gusti e le sensibilità, e pertanto evolve in continuazione anche la museologia. Alcuni oggetti un tempo visti come secondari, appartenenti alla vita comune delle persone più umili, sono oggi utilizzabili dallo storytelling museale in maniera particolarmente efficace.
È questo il caso della collezione un tempo ospitata all’Antiquarium Comunale di Roma, chiuso ormai da ben ottantaquattro anni, da quel lontano 1939 in cui l’edificio del Celio serrò le porte per problemi strutturali dovuti ai lavori di apertura della linea metropolitana che passava nelle vicinanze. Nell’ottica dell’Esposizione Universale Romana del 1942, infatti, la linea metropolitana B avrebbe dovuto collegare la Stazione Termini con il quartiere EUR (tant’è vero che la linea avrebbe dovuto chiamarsi ferrovia dell’E42), passando proprio al di sotto della struttura dell’Antiquarium Comunale. I lavori sottostanti provocarono dei danni così gravi che l’edificio, da allora, non fu più stato riaperto. Ma qual è la storia dell’edificio del Celio?
Dopo la Breccia di Porta Pia e il trasferimento della Capitale da Firenze a Roma, iniziò un periodo di profonde trasformazioni urbanistiche per la Città Eterna. Innumerevoli ville e spazi verdi furono trasformati in zone edificabili, portando così alla scoperta di un enorme patrimonio rimasto addormentato per secoli, pochi metri sotto terra. All’epoca l’unico museo statale di Roma era il Museo Kircheriano, presso il Collegio Romano. In breve fu evidente a tutti che gli angusti spazi a disposizione dell’edificio, che ospitava anche il Liceo Ginnasio Ennio Quirino Visconti e la Biblioteca Nazionale Centrale, non erano più sufficienti a ospitare le straordinarie opere, spesso di grandi dimensioni, che si andavano recuperando in quegli anni. Il luogo prescelto per il nuovo edificio museale fu il colle del Celio, a ridosso del Foro Romano e con una vista straordinaria sul Colosseo e sull’Arco di Costantino. Il progetto vincitore, realizzato nel 1885 dall’architetto Costantino Sneider, rispecchiava l’architettura museale eclettica di sapore beaux-arts di fine Ottocento, e avrebbe visto Roma perfettamente allineata con i nuovi musei che proprio allora stavano nascendo negli Stati Uniti e nelle isole britanniche. L’edificio, che si sarebbe sviluppato su una lunghezza di quasi duecento metri, avrebbe permesso l’allestimento congiunto sia della collezione di antichità di proprietà del Comune di Roma (lasciando intatte le collezioni storiche ai Musei Capitolini) che di quella di pertinenza statale (opere rinvenute, ad esempio, nel lavoro di edificazione dei grandi edifici ministeriali su Via XX settembre). L’edificio avrebbe dovuto ospitare dunque il Museo Urbano e il Museo Latino, articolandosi su un brillante progetto espositivo ideato da Rodolfo Lanciani. Era un’idea ambiziosa, destinata però a naufragare in breve tempo per via dei contrasti tra le istituzioni comunali e quelle statali a proposito della distribuzione proporzionale dei costi e degli spazi espositivi disponibili. A seguito anche del mutato clima politico, nel 1889 venne pertanto preferita l’ipotesi di collocare la collezione statale presso le Terme di Diocleziano, ipotizzando persino una grandiosa facciata dal sapore neoclassico ideata dall’architetto Pietro Rosa sulla Piazza delle Terme (neppure questa portata a compimento).
Da allora l’edificio parzialmente costruito sul Celio restò di proprietà comunale e divenne un Magazzino Archeologico. Nel 1894, su proposta sempre di Lanciani, il Magazzino venne musealizzato e aperto alle visite, sia pure con una struttura ben più piccola rispetto al progetto originale. Nel frattempo, il patrimonio archeologico comunale non faceva altro che aumentare. Giungiamo dunque al 1925, quando venne aperto un nuovo museo sul Campidoglio, presso la Villa Caffarelli, un tempo sede dell’ambasciata prussiana. Scimmiottando evidentemente il Musée Napoleon della Parigi rivoluzionaria, il museo prese il nome di Museo Mussolini, utilizzando la pretestuosa ricorrenza del terzo anniversario della Marcia su Roma. Aperto il museo, occorreva trovare capolavori da esporre. Fu pertanto in questa occasione che la collezione di statue del Magazzino Archeologico del Celio venne privato delle sue opere, portate al nuovo museo sul Campidoglio e presso l’adiacente giardino.
Il nuovo allestimento dell’edificio del Celio dovette attendere il 1929, quando venne riaperto ritrovando una sua fisiologia precisa, concentrando il discorso museografico sulle arti decorative e quelle che allora venivano considerate come “arti minori”, ivi trasportate da Palazzo dei Conservatori. “Il criterio che ha guidato l’ordinamento delle raccolte è stato prevalentemente estetico: le opere d’arte sono riunite secondo la materia in cui sono eseguite: una sala raccoglie i vetri, un’altra i bronzi, una terza gli avorii e gli ossi, due le terrecotte”, scriveva Antonio Muñoz, responsabile del nuovo allestimento. L’edificio venne poi chiuso, come abbiamo visto, nel corso dei lavori per la realizzazione della linea B della metropolitana. Già nel 1943 l’edificio risulta parzialmente abbattuto e ridotto a uno stato di rovina.
Il Museo Mussolini, in seguito al termine della Seconda Guerra Mondiale e all’avvento della democrazia e della Repubblica in Italia, venne ribattezzato Museo Nuovo e riaprì in occasione del Giubileo del 1950. Anch’esso però mostrava dei problemi strutturali considerevoli, tant’è vero che fu chiuso alla fine degli Anni Cinquanta ed è ancora oggi in attesa di un suo completo recupero. Tra gli ambienti quello più iconico era la Sala VIII, che accoglieva la maggioranza delle opere. L’ambiente in questione ospitava la Cappella della comunità evangelica all’epoca in cui Palazzo Caffarelli era la sede dell’ambasciata prussiana. Come ricordano Claudio Parisi Presicce e Alberto Danti, “l’allestimento di questa sala era costituito da sculture romane, copie o rielaborazioni di originali di arte greca di V secolo a.C., che facevano da coronamento al saggio di scavo praticato al centro da Antonio Maria Colini, dove erano emersi alcuni blocchi di cappellaccio pertinenti alle fondazioni del Tempio di Giove Capitolino”. Dopo una chiusura di sei decenni, questi stessi ambienti al piano terra di Villa Caffarelli furono scelti per ospitare l’epocale mostra I Marmi Torlonia. Collezionare capolavori, che ebbe luogo tra il 2020 e l’inizio del 2022.
La situazione dell’Antiquarium Comunale del Celio, irrisolta ormai da oltre ottant’anni, è legata a doppio filo con la vicenda degli ambienti del Museo Nuovo a Villa Caffarelli: sarebbe relativamente poco costoso riqualificare entrambe le sedi ed esporre in maniera consona una selezione rappresentativa dell’enorme patrimonio dell’Antiquarium Comunale, attraverso esposizioni a rotazione oppure tematiche. In fin dei conti, per il Museo Nuovo in Campidoglio, non si tratterebbe che di un parziale ritorno a casa, e consentirebbe di aumentare il numero degli oggetti esposti.
Oggi il pubblico dei musei, come è noto, non è più attratto solamente dai grandi capolavori, ma è anche alla ricerca di una storia, di un racconto che passi attraverso gli oggetti, i quali possono essere la testimonianza della vitalità di un popolo a noi ancora sorprendentemente affine. La cosiddetta Nouvelle Museologie degli Anni Sessanta ha infatti stabilito linee guida sull’allestimento e sulla presentazione delle opere forse meno monumentali ma ugualmente evocative di un’epoca passata o di una cultura apparentemente remota.
Numerosi furono nel corso dei decenni i richiami al diritto alla fruizione dello straordinario patrimonio inaccessibile dell’Antiquarium Comunale. Un grande paladino fu l’instancabile Federico Zeri. Ecco come si esprimeva nel leggendario evento organizzato da Italia Nostra presso il ridotto del Teatro Eliseo il 18 maggio 1967: “Si potrebbe spostare da Palazzo Caffarelli sul Campidoglio quegli uffici che nulla hanno a che fare con la grande tradizione di studi germanici che in quel palazzo trovarono sede quando il centro di Roma aveva ancora una sua vita culturale, ed immettervi i materiali del vecchio Antiquarium. Un altro edificio che potrebbe essere utilizzato per ospitare questo museo è quello situato ai piedi del Campidoglio (angolo via della Consolazione e via del Foro Romano). Ora vi risiede un corpo di vigili (nel 1967, N.d.R.). Un assurdo che ricorda quello del Corpo dei Vigili sul Celio. Con la differenza che quelli guardano sul Palatino e questi sul Tempio di Saturno e la Basilica Giulia nel Foro Romano. I locali dell’antico Ospedale della Consolazione (dove curò gli appestati e morì San Luigi Gonzaga) ben si adatterebbero a museo”.
Lo stesso Zeri torna più volte sull’argomento, che divenne per lo studioso un vero e proprio cavallo di battaglia. In un programma del 1996 della serie Rai L’arte negata, Zeri dedica uno speciale all’Antiquarium del Celio dall’eloquente titolo L’arte in scatola. Le immagini del programma, che ritraevano in maniera impietosa le centinaia di casse in legno che contenevano i tesori dell’Antiquarium, fecero parecchio scalpore. “Quattrocentosessanta casse di legno nelle quali è imballato un museo che c’era una volta e non c’è più da oltre mezzo secolo: l’Antiquarium Comunale di Roma”, affermava la voce fuori campo, mostrando un ambiente stipato all’inverosimile all’interno del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale. Secondo il servizio il record sarebbe stato raggiunto nel 1986, in occasione della ristrutturazione del Palazzo delle Esposizioni, quando si giunse a contare addirittura 781 casse di proprietà dell’Antiquarium Comunale.
E oggi, a distanza di 27 anni? Le ultime stime riferiscono di un migliaio di casse che contengono circa ottantamila pezzi. Si tratta di una collezione che, come rilevava giustamente Zeri, “va dalle origini della Roma preistorica fino alla fine della città antica, quindi V-VI secolo”. Molti oggetti provenivano dall’abbattimento della Velia, una collina su cui erano presenti ville romane di grande pregio. Durante l’apertura di Via dei Fori Imperiali la modesta altura venne completamente spianata. La conclusione del servizio Rai del 1996 risulta dolorosamente attuale. “Resta invisibile una collezione pubblica di estrema importanza storica oltreché di grande suggestione”, affermava Zeri. “La speranza non è ancora spenta. Quello che temo si stiano spegnendo siano molti dei reperti. […]. A parte quelli che sono stati rubati nel giardino dell’Antiquarium […] tutto il resto, quando potremo rivederlo?”. Una domanda che solo oggi sta iniziando ad avere una qualche timida risposta attraverso una programmazione di esposizioni temporanee.
ROMA. Antiquarium Comunale del Celio
Va detto che nel corso degli Anni Sessanta si succedettero numerosi progetti per realizzare un edificio di grande dimensione su Via San Gregorio al Celio, come quello di Giulio Pediconi e Mario Paniconi del 1959-62. Un altro tentativo infruttuoso fu quello del 1997 di Ugo Colombari e Giuseppe de Boni. Eppure la priorità fu data sempre ad altri progetti, ignorando con colpevole sufficienza il sempre maggior interesse che le cosiddette “arti minori” iniziavano a suscitare all’interno di una società in fase di rapida modernizzazione. Le testimonianze quotidiane sono invece oggi un supporto fondamentale per i musei archeologici e per la divulgazione delle dinamiche sociali. Una narrazione di questo tipo è apprezzata in particolar modo da parte dei visitatori stranieri, abituati al fascino moderno della Nouvelle Museologie che rifugge dall’ampollosità dei vecchi musei basati esclusivamente su uno storytelling incentrato sulle élite, sull’opulenza dell’aristocrazia e sulla monumentalità privata, religiosa o pubblica.
Sono notizie recenti (risalgono all’aprile 2022) quelle relative all’inserimento del progetto del restauro dell’Antiquarium del Celio all’interno del programma di interventi finanziati dal PNRR. “Con i fondi del PNRR dovremmo innanzitutto recuperare l’edificio dell’ex Antiquarium al Celio per esporre molti dei materiali che vi erano custoditi, legati alla storia di Roma, e poi c’è sempre il progetto di realizzare il Museo della Città che manca alla Capitale. Ci sono infatti molti musei di scultura antica ma non uno che racconti la vita, il gusto e il contesto sociale dell’antica Roma”, affermava all’ANSA l’anno scorso Claudio Parisi Presicce. Nel frattempo, una serie di mostre allestite negli spazi espositivi temporanei al terzo piano di Palazzo Caffarelli ripercorre cronologicamente all’interno del ciclo di esposizioni Il racconto dell’Archeologia la ricchezza archeologica dell’Antiquarium. È questo il caso della mostra La Roma dei Re del 2018 e La Roma della Repubblica del 2023, che si concluderà il 24 settembre prossimo. Anche la mostra aperta fino al 24 maggio prossimo presso i Mercati di Traiano, dal titolo 1932, L’Elefante e il Colle Perduto, è un tentativo di portare alla luce grazie alle esposizioni temporanee parte dello sterminato patrimonio archeologico dell’Antiquarium Comunale. Continua infatti Parisi Presicce, co-curatore della mostra: “La mostra è nata attorno all’esposizione dei resti fossili dell’elephas antiquus, ma l’obiettivo è ricomporre il contesto paesaggistico e archeologico recuperando per quanto è possibile tutta la stratificazione legata all’asportazione della collina della Velia realizzata negli anni Trenta. Centinaia di manufatti sono stati recuperati tra i materiali depositati all’ex Antiquarium, un patrimonio complessivo di decine di migliaia di oggetti, resi invisibili dal 1939, quando dopo il dissesto statico dell’edificio per i lavori della metro B vennero stipati in 1000 casse e migrarono in vari depositi. Dal 2007 abbiamo riaperto le casse e iniziato a catalogare i reperti”.
Non resta dunque che tenere ben alta l’attenzione e augurarci di poter tornare ad apprezzare la collezione dell’Antiquarium Comunale del Celio, magari con un allestimento condiviso anche con i recuperati spazi inferiori di Palazzo Caffarelli, nell’ottica di un rinato Museo Nuovo.
Civita Castellana (Vt). Tesori sotto gli alberi e i prati. Recuperato il tempio di Giunone a Falerii
Il Comune di Civita Castellana, la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, la direzione regionale Musei Lazio e il dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma hanno, infatti, ancora una volta unito le proprie forze per affrontare un nuovo percorso di ricerca e disseminazione della città antica.Le ricerche archeologiche sull’antica città preromana di Falerii, che hanno conosciuto una forte ripresa nel corso degli ultimi anni, si sono intensificate nel corso di questo inizio 2023, grazie alla stretta collaborazione tra tutti gli enti operanti sul territorio. Sono loro, infatti, il vero motore di questa nuova stagione di indagini avviata ormai dal 2020. Civita Castellana è un comune di circa 15.000 abitanti della provincia di Viterbo, nel Lazio. È sorta sulle rovine di Falerii Veteres città dei falisci di epoca arcaica. I Falisci erano una popolazione che parlava una lingua simile al latino, ma in Etruria. L’influenza etrusca sulla civiltà falisca è dunque fondamentale. Chiaro esempio è la scrittura della lingua falisca, di origine proto-Latina con influenza etrusca.
Civita Castellana (Vt). Tesori sotto gli alberi e i prati. Recuperato il tempio di Giunone a Falerii
“L’attenzione in questa prima parte del 2023 è stata posta su un’altra area di grande rilevanza della città preromana: il santuario in località Celle, tradizionalmente riconosciuto come dedicato a Giunone Curite. – afferma il Comune di Civita Castellana – Indagato per la prima volta alla fine dell’‘800, il suo rinvenimento causò subito grande scalpore per la monumentalità e perché, di fatto, venne riconosciuto come il primo esempio di tempio etrusco-italico a essere riportato alla luce durante l’avventurosa stagione di ricerche che caratterizzò gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia”.
su un enorme basamento di 1400 mq, venne studiato a più riprese negli anni ’30 e poi negli anni ’70 del secolo scorso. I reperti rinvenuti, oggi in parte esposti presso il museo nazionale Etrusco di Villa Giulia e in parte presso il museo archeologico dell’Agro Falisco a Civita Castellana e pertinenti sia alla decorazione dell’edificio sia alla stipe votiva, attestano una frequentazione dell’area dal VI sec. a.C. alla prima età imperiale. Stando all’interpretazione generalmente accettata, nell’area si deve riconoscere il luogo di culto da cui prendeva le mosse la processione annuale in onore di Giunone, di cui ci dà conto il poeta latino Ovidio in una delle sue odi.
“Un monumento di tale rilevanza aveva necessità di essere nuovamente portato alla luce, di essere pienamente valorizzato e reso di nuovo fruibile dal pubblico. A tale scopo, attraverso la sinergia tra istituzioni, è stato possibile avviare dal mese di marzo scorso un’opera di ripulitura dell’area dalla vegetazione infestante. – affermano i vertici del Comune di Civita Castellana – Parte integrante del percorso di ricerca e divulgazione è anche il PCTO con l’istituto di istruzione superiore Ulderico Midossi di Civita Castellana, realizzato con l’équipe del progetto Falerii del dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma, al fine di realizzare un percorso espositivo che verrà inaugurato presso il museo dell’Agro Falisco al Forte Sangallo nella seconda metà del prossimo mese di maggio e in cui sarà possibile, per la prima volta, toccare con mano la monumentalità del tempio che si ergeva in località Celle. Queste sono però solo alcune delle attività condotte in questi primi mesi del 2023 per favorire la riscoperta dell’antica Falerii. Consci dell’importanza di rivolgersi al pubblico dei più piccoli, si è infatti ideato il progetto pilota “Venite con noi al museo?”, che ha visto l’adesione di quasi 350 bambini delle scuole primarie di Civita Castellana. I piccoli studenti hanno potuto trascorrere una mattinata in compagnia degli archeologi del progetto Falerii, scoprendo il museo archeologico dell’Agro Falisco e le modalità con cui vengono trattati i reperti rinvenuti in uno scavo archeologico. Tutto ciò in attesa ovviamente della ripresa degli scavi sul colle di Vignale, prevista per il prossimo mese di giugno”.
“Le Sabine”opera di Jacques-Louis David è un dipinto ad olio su tela di grandi dimensioni – misura infatti 385 x 522 – eseguito da Jacques-Louis David tra il 1796 e il 1799 ed esposto a Parigi al Museo del Louvre. Il soggetto non rappresenta il RattodelleSabine da parte dei Romani, tema già trattato da Giambologna e Poussin, per esempio, ma un episodio leggendario delle origini di Roma nell’VIII secolo, di cui parlano Plutarco e Livio (Ab Urbe condita, I, 9, 5-10).Si tratta di un dipinto di genere storico appartenente alla corrente neoclassica, che segna un’evoluzione nello stile di David dopo la Rivoluzione francese e qualificato da lui stesso come puramente greco. David iniziò il dipinto all’inizio del 1796 e la sua realizzazione durò quasi quattro anni. Il maestro fu assistito da Delafontaine, responsabile della documentazione, e da Jean-Pierre Franque, che in seguito fu sostituito da Jérôme-Martin Langlois e da Jean-Auguste-Dominique Ingres. David dipinse Le Sabine senza aver ricevuto da qualcuno la commissione del quadro e alla fine del 1799 espose il dipinto al Louvre nell’ex gabinetto di architettura.
Nonostante la sua mostra fosse a pagamento, LeSabine attirò un gran numero di visitatori fino al 1805.
Anche la scelta di esporre un quadro e di farlo vedere previo pagamento di un biglietto d’entrata, può sembrare a noi moderni un fatto normale ma, nella mentalità del tempo, costituì un importante passo avanti nella definizione della libertà creativa dell’artista, il quale, precedentemente alla Rivoluzione, era stato in qualche modo sottomesso alla volontà della committenza: per la Francia, in particolare, a quella del re. In questa occasione, David scrisse un testo che giustificava sia questa forma di esposizione sia la nudità dei guerrieri che avevano scatenato grandi polemiche.
Dopo l’espulsione degli artisti dal Louvre tra cui lo stesso David, il dipinto fu spostato nell’ex chiesa del Collegio Cluny in Place de la Sorbonne che fungeva ormai da personale laboratorio di David. Nel 1819 David vendette LeSabine e la sua tela gemella LeonidaalleTermopili” ai musei reali per 100.000 franchi. Prima esposto al PalaisduLuxembourg e, dopo la morte del pittore, il dipinto tornò al Louvre nel 1826.
Ersilia, moglie di Romolo, “Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David
Al centro del dipinto di David si riconosce Ersilia, moglie di Romolo, che spalancando le braccia cerca di impedire lo scontro tra il marito e Tazio, re dei Sabini. Attorno a lei, le altre donne mostrano i bambini nati dall’unione con i Romani. La difesa della famiglia prevaleva sulla vendetta dell’onore ferito. Queste donne non sono diventate mogli e madri per loro scelta, ma tali oramai sono: sentono pertanto l’imperativo morale di preservare quanto è stato costruito.
“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David-Tito Tazio Particolare“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David-Particolare Romolo“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David–Particolare Bambini
Franco Leggeri-Fotoreportage -Roma Municipio XIII- MUSEO PALEONTOLOGICO:” La Polledrara di Cecanibbio”-
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
Franco Leggeri-Fotoreportage -Roma Municipio XIII- MUSEO PALEONTOLOGICO:” La Polledrara di Cecanibbio”-Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma–Il giacimento pleistocenico de Museo Paleontologico “la Polledrara di Cecanibbio” è ubicato a circa 20 km a Nord-Ovest di Roma tra la via Boccea e la via Aurelia , ad una quota di circa 83 metri s.l.m., nell’ambito dei rilievi periferici del Vulcano Sabatino. Il sito, venuto alla luce a seguito dell’erosione naturale di un pendio di collina, è stato parzialmente disturbato dall’aratura moderna. In base ai dati forniti dallo scavo archeologico, iniziato nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica di Roma e tuttora in corso e che ha rimesso alla luce un’area di oltre 700 mq, il giacimento è stato associato al paleo alveo ed ai margini di un piccolo corso d’acqua, presente in un paesaggio a lieve gradiente ,caratterizzato da canali fluviali a percorso instabile e da acque stagnanti . Il tratto dell’alveo conservato, inciso in un banco di tufite granulare compatta, raggiunge la larghezza massima di 40-50 m. Sulla paleo superficie erano irregolarmente distribuiti oltre 9000 (novemila) reperti faunistici fossili associati a circa 400 strumenti litici e a pochi strumenti su osso, attribuibili culturalmente al Paleolitico inferiore. L’associazione faunistica è costituita prevalentemente da Elefante antico e Bue primigenio; scarsa invece la presenza di altre specie quali il cervo, il cavallo, il lupo , il rinoceronte. Pochi i resti di microfauna e di uccelli acquatici. Le ossa erano accumulate in più livelli nel canale centrale , mentre nelle aree periferiche pianeggianti erano sparse su di un unico livello, con alcune concentrazioni in piccoli avvallamenti . Lo stato di conservazione è ottimo; le ossa presentano un buon grado di fossilizzazione ed un aspetto delle superfici vario, da quello molto fresco nei reperti che hanno subito poco o meno trasporto, a quello fortemente fluitato per quelli di minori dimensioni trascinati dalla corrente . I reperti erano stati successivamente seppelliti, in un tempo relativamente breve, da uno strato di tufite , derivata da prodotti vulcanici rimaneggiati. La distribuzione caotica del materiale, causata dai processi di trasporto e di deposizione che avvengono in un percorso d’acqua, è stata in parte determinata , soprattutto nelle aree marginali, dall’attività di animali da preda quali il lupo , e dall’intervento dell’uomo. Questi doveva avere frequentato le sponde del corso d’acqua , intensamente popolate da animali di varie specie, sia per procacciarsi il cibo , come è testimoniato dalla presenza di strumenti e dalle numerosissime ossa metapodiali di Bue primigenio fratturate per estrarne il midollo . Le ossa di Elefante sono in assoluto le più abbondanti, con la presenza di tutti gli elementi dello scheletro ; alcuni crani quasi completi sono di particolare interesse in quanto offrono una più ampia conoscenza sulla morfologia degli esemplari di Elefante antico nella penisola italiana. Numerose le zanne , le mandibole, i denti isolati e le ossa dello scheletro postcraniale , attribuibili ad almeno 25 individui prevalentemente adulti. Nel corso delle ultime campagne di scavo è stato parzialmente rimesso in luce un microambiente, di poco successivo all’episodio fluviale, caratterizzato da acqua a lentissimo scorrimento. In quest’area sono stati identificati i resti ossei di almeno due elefanti, in parziale connessione anatomica e con le superfici in perfetto stato di conservazione. Finora sono stati rimessi in luce un cranio ed alcune ossa dello scheletro postcraniale : una zampa anteriore, le ossa di una mano, le tibie e peroni, alcune vertebre e costole. Accanto alle vertebre di una degli esemplari vi erano i resti di un lupo , anch’essi parzialmente in connessione. Evidentemente le carcasse degli animali erano rimaste intrappolate nella melma e le ossa non avevano quindi subito spostamenti di rilievo. Sparsi tra i reperti faunistici sono stai raccolti 400(quattrocento) strumenti litici culturalmente riferibili al Paleolitico inferiore. La materia prima, costituita da piccoli ciottoli silicei e calcareo-silicei di colore variabile dal grigio al grigio scuro, non appartiene all’ambiente fluvio-palustre ricostruito, ed è stata evidentemente trasportata dall’uomo. Questi si procurava il materiale nei livelli a ghiaie attribuibili alla Formazione Galeria, i cui affioramenti sono attualmente individuabili alla quota di 40-45 metri s.l.m. lungo la parte terminale dei fossi Arrone e Galeria, ad una distanza minima di km 3 (tre) dal giacimento de La Polledrara. L’industria è caratterizzata dalla presenza di strumenti su ciottolo, in particolare choppers e raschiatoi , molti dei quali con il margine ottenuto con ritocco erto. Numerosi i denticolati , i grattatoi e gli strumenti con caratteri tipologici non ben definiti. Comunemente i manufatti presentano più margini ritoccati; tale sfruttamento intensivo dei ciottoli era probabilmente dovuto proprio alla difficoltà di reperimento della materia prima. Non sono presenti fino ad oggi strumenti bifacciali , comuni negli altri siti dell’area Nord-Ovest di Roma (Castel di Guido, Malagrotta, Torre in Pietra). Vario è la stato fisico dei manufatti; molti dei quali presentano le superfici alterate dal trasporto in acqua. Alcuni strumenti litici , rinvenuti associati alle ossa di elefante in connessione anatomica nell’ambiente di tipo palustre, presentano invece un aspetto fisico freschissimo e margini taglienti. L’analisi delle tracce d’uso ha permesso di riscontrare la presenza di tracce prodotte dal contatto di tessuti animali (ossa, carne e pelle) nel corso della macellazione delle carcasse. Pochi sono gli strumenti su osso, ricavati tutti da frammenti di diafisi di ossa lunghe di elefante , con estremità o margini laterali resi taglienti mediante il distacco di grosse schegge . In occasione del Giubileo dell’anno 2000 è stata attuata una struttura museale , dell’estensione di 900 (novecento) mq, per la fruizione , da parte del pubblico, della paleo superficie rimessa in luce e restaurata.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma-
Dal Volume- CASTEL DI GUIDO dalla Preistoria all’Età moderna. Edizione PALOMBI- ed. 2001-
Foto originali di Franco Leggeri
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Il giacimento è attualmente aperto al pubblico e può essere visitato dietro prenotazione da effettuare telefonando al numero +06.39967700 (lunedì-sabato 9-13.30 e 14.30-17), o collegandosi al sito www.archeorm.arti.beniculturali.it
MUSEO PALEONTOLOGICO
Un affascinante viaggio alla scoperta della paleontologia, vi accompagna in un affascinante viaggio alla scoperta della paleontologia, illustrata da pannelli didattici , reperti e fossili.Imparerete così che cosa sono i fossili, dove si rinvengono e come si scavano. Scoprirete che cosa ci raccontano le orme. Vedrete:uno scavo paleontologico e un angolo di museo per la conservazione dei reperti.
Proverete a immaginare l’aspetto in vita di un animale vissuto nel passato e saprete come Arte e Scienza collaborino per restituire ricostruzioni attendibili.Infine, sarete proiettati nel passato remotissimo del pianeta Terra attraverso il tempo geologico e gli esseri viventi primordiali.
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ROMA- Ai Musei Capitolini, nel giardino di Villa Caffarelli,
L’imponente ricostruzione, in dimensioni reali, del Colosso di Costantino.
La statua, alta circa 13 metri, è stata realizzata attraverso tecniche di ricostruzione innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini.
Tra le opere più importanti dell’antichità, con i suoi 13 metri circa di altezza, la statua colossale di Costantino (IV secolo d.C.) è uno degli esempi più significativi della scultura romana tardo-antica. Dell’intera statua, riscoperta nel XV secolo presso la Basilica di Massenzio, oggi rimangono solo pochi monumentali frammenti marmorei, ospitati nel cortile di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini: testa, braccio destro, polso, mano destra, ginocchio destro, stinco destro, piede destro, piede sinistro.
Musei Capitolini il Colosso di Costantino
Nel giardino di Villa Caffarelli è possibile ammirare, in tutta la sua imponenza, la straordinaria ricostruzione del Colosso in scala 1:1, risultato della collaborazione tra la Sovrintendenza Capitolina, Fondazione Prada e Factum Foundation for Digital Technology in Preservation con la supervisione scientifica di Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni Culturali.
La replica del monumento è stata presentata al pubblico dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri, dall’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, dal sovrintendente Claudio Parisi Presicce, dal componente del Comitato di indirizzo di Fondazione Prada Salvatore Settis, e da Adam Lowe, della Factum Foundation for Digital Technology in Preservation.
Il progetto è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzato in collaborazione con Fondazione Prada che ha presentato per la prima volta l’opera a Milano, in occasione della mostra Recycling Beauty a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica.
Il Giardino di Villa Caffarelli, dove è stata collocata la riproduzione del Colosso di Costantino, insiste in parte sull’area occupata dal Tempio di Giove Ottimo Massimo, che un tempo ospitava la statua di Giove, la stessa forse da cui il Colosso fu ricavato o che comunque ne costituisce il modello di derivazione. I resti del tempio sono oggi visibili all’interno dell’Esedra di Marco Aurelio.
“A Roma stiamo cercando di recuperare le dimensioni dell’antichità e la nostra conoscenza e percezione dei capolavori del passato, di cui conserviamo tracce e frammenti. Lo abbiamo fatto poco tempo fa con il Museo della Forma Urbis, lo facciamo andando in profondità con gli scavi della Metropolitana, lo facciamo attraverso l’anastilosi della Basilica Ulpia e adesso rendendo fruibile da tutti questa statua colossale, sia per essere ammirata in se, sia per essere una porta di accesso a quello scrigno di tesori che è il Colle Capitolino e che sono i Musei Capitolini. Voglio davvero ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questa creazione e questa ricostruzione che contribuisce a farci comprendere meglio il passato e quindi a capire meglio chi siamo” ha spiegato il Sindaco Roberto Gualtieri.
Il progetto di ricostruzione della statua colossale di Costantino è partito da un importante lavoro di analisi archeologica, storica e funzionale dei frammenti, supportata dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche.
I nove frammenti in marmo pario, attualmente conservati presso i Musei Capitolini, sono stati rinvenuti nel 1486 all’interno dell’abside di un edificio che al tempo si riteneva il Tempio della Pace di Vespasiano, e che solo agli inizi dell’Ottocento sarà correttamente identificato con la Basilica di Massenzio lungo la Via Sacra. Si pensava che appartenessero a una statua dell’imperatore Commodo e, data la loro eccezionale importanza, furono allestiti nel Palazzo dei Conservatori durante i lavori di ristrutturazione dello stesso eseguiti su progetto di Michelangelo tra il 1567 e il 1569. I frammenti sono stati identificati come ritratto colossale dell’imperatore Costantino solo alla fine dell’Ottocento.
Un decimo frammento, parte del torace, rinvenuto nel 1951, è in procinto di essere trasferito dal Parco Archeologico del Colosseo nel cortile del Palazzo dei Conservatori, accanto agli altri frammenti.
Lo studio archeologico dei frammenti ha permesso di ipotizzare che il Colosso fosse seduto e che fosse realizzato come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in metallo o in stucco dorato. Secondo uno schema iconografico tipico del tempo, che assimilava l’imperatore alla divinità, Costantino è rappresentato come Giove con la parte superiore del corpo scoperta e il mantello adagiato sulla spalla; il braccio destro che impugna lo scettro ad asta lunga e la mano sinistra che sorregge il globo.
A fine marzo 2022 un team della Factum Foundation ha trascorso tre giorni nel cortile dei Musei Capitolini per scansionare i frammenti presenti con la tecnica della fotogrammetria.
Ogni frammento è stato modellato in 3D e posizionato sul corpo digitale della statua creata utilizzando come esempio iconografico altre statue di culto di età imperiale in pose simili, tra cui la colossale statua di Giove (I secolo d.C.) conservata al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo, probabilmente ispirata allo Zeus di Olimpia ad opera di Fidia e la grande copia in gesso della statua dell’imperatore Claudio, ritratto come Giove, allestita al Museo dell’Ara Pacis.
La complessa operazione di ricostruzione realizzata da Factum ha tenuto conto di molteplici fattori: il tipo di marmo delle parti originali, i restauri e le aggiunte; i dettagli del panneggio mancante e l’aspetto del bronzo dorato di cui era composto; il rapporto tra la ricostruzione e i frammenti superstiti, le condizioni di questi e la loro esatta posizione. Dopo aver ultimato il modello 3D ad altissima risoluzione, si è poi proceduto con la ricostruzione materiale del Colosso.
Resina e poliuretano, insieme a polvere di marmo, foglia d’oro e gesso, sono stati scelti come materiali per rendere le superfici materiche del marmo e del bronzo, mentre per la struttura interna (originariamente forse composta di mattoni, legno e barre di metallo) è stato impiegato un supporto in alluminio facilmente assemblabile e rimovibile.
Il risultato finale permette di ammirare, in una magnifica illusione, il Colosso nel suo complesso, in cui si distinguono visivamente le “ricuciture” tra le parti rimaterializzate e le copie dei frammenti originali presenti nel cortile di Palazzo dei Conservatori.
Info:
Ingresso Piazzale Caffarelli, 2
Orari: Tutti i giorni dalle 9.30 fino alle 18.30
ingresso gratuito
060608 (tutti i giorni ore 9.00-19.00) – www.museicapitolini.org
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