Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana” -Rivista PAN 1935-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
-Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”-
Rivista PAN-n°12 del 1935
-Attilio BERTOLUCCI Poesie “FUOCHI in NOVEMBRE” –
-Minardi Editore Parma 1934-
-Articolo scritto da Eugenio Montale per la Rivista PAN n° 9 del settembre 1934-
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
Studente, Soldato a Caporetto e sul Grappa, Legionario a Fiume
Nel 1913 è studente al liceo classico “A. Canova”. In quell’anno Comisso conosce lo scultore Arturo Martini, di sei anni più vecchio. L’amicizia con il giovane artista proletario e bohémien è molto importante per la sua formazione. Per la prima volta ha esperienza di un mondo diverso da quello borghese nel quale era stato educato. «Egli allora mi parlava di infinito, della nostra vita umana nel limite del tempo, della necessità di arrivare alle grandi creazioni per sfidare le stelle e la nostra morte. Alle sue parole mi commuovevo fino al pianto e veramente per me egli era il Maestro, il fratello maggiore, il compagno più esperto che dissipava le grandi nebbie che ancora mi avvolgevano nella mia timida giovinezza». Nel 1914, bocciato agli esami di maturità, Comisso si arruola volontario per un anno al corso Genio telegrafisti di Firenze, con l’intenzione di riprendere gli studi al termine del servizio militare. Lo scoppio della Grande Guerra vanificherà i suoi progetti. Nel 1915, all’inizio della guerra, viene trasferito con il suo reparto prima a Cormons, poi a San Giovanni di Manzano. È impiegato come centralinista telefonico: il lavoro principale del reggimento, in quell’inizio di estate e di guerra, consiste principalmente nello stendere il filo telefonico, posandolo sui rami degli alberi lungo la strada. Nella primavera del 1916, esce a Treviso un esile libretto presso la Stamperia Zoppelli dal titolo ‘”Poesie”, curato da Arturo Martini che ha anche eseguito il ritratto di Comisso per la copertina. Secondo lo scultore, sono poesie di «spasimante sensibilità, nate sotto il segno di un’impeccabile purezza però vestite di ingenuità». I genitori di Comisso sono disorientati e imbarazzati, al punto da far ritirare l’edizione perché considerata “disdicevole” del buon nome della famiglia Nell’aprile del 1917 segue a Dolegnano prima, a Udine poi, un corso per diventare ufficiale del Genio telegrafisti. In settembre, nominato sottotenente, viene inviato nell’Alto Isonzo, presso Saga, vicino a Caporetto. In ottobre viene coinvolto nella ritirata. Riesce fortunosamente a fuggire insieme ai suoi soldati. Ripara con il suo reparto a Treviso, dove si era rifugiato il Comando di Divisione, e subito spedito sull’Asolone, zona Grappa. Nella primavera del 1918 è inviato sul Montello, e lì si troverà durante la Battaglia del Solstizio. A Paderno del Grappa, Comisso riceve il telegramma che annuncia l’armistizio, con i soldati impazziti per la gioia : «Da per tutto nella campagna si accendevano fuochi. Sull’alto dei monti, come la notizia si diffondeva, si vedevano razzi innalzarsi nel cielo e grandi fiammate come se gli artiglieri bruciassero la balestite e dalla pianura i riflettori tagliavano pazzamente la notte». Nel 1919 Comisso viene trasferito aFiume, con la compagnia del Genio telegrafisti. Nel febbraio, si iscrive alla facoltà di legge a Padova e frequenta a Roma (con poco profitto) un corso speciale per studenti ex combattenti. Conosce il poeta Arturo Onofri che aveva ammirato le sue poesie, e, suo tramite, entra negli ambienti intellettuali della capitale. Stringe amicizia con Filippo De Pisis, instaurando un sodalizio che durerà tutta la vita. «Dopo la mia amicizia con lo scultore Arturo Martini, questa era un’altra grande amicizia che veniva a deliziarmi e a legarmi alla mia passione per l’arte. Quel tempo era per me come per gli uccelli emigratori, quello che precede la grande trasvolata e in cui si cercano i compagni per vincere le difficoltà della rotta». In agosto ritorna a Fiume, presso il suo reparto, per disertare e unirsi alle truppe ribelli di d’Annunzio in settembre. Conosce Guido Keller, un aviatore, già della squadriglia di Francesco Baracca, ora “segretario d’azione” del “Comandante”: un bizzarro avventuriero, sempre alla ricerca di nuove emozioni con cui nascerà una profonda amicizia, destinata a segnare profondamente la vita di Comisso. «Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me». Durante l’estate del 1920, assieme a Guido Keller, naviga in barca a vela tra le isole del Quarnaro, provando emozioni che ispireranno le pagine più incantate de “Il porto dell’amore”. Assieme ad altri legionari, fonda il Movimento Yoga, anarcoide e con accenti antimodernisti, e l’omonima rivista. Sulla testata campeggia una croce uncinata (simbolo del sole) e la scritta: “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Settimanale, ne usciranno quattro numeri. Nel primo numero, si dichiara la necessità di introdurre «strane forme di vitalità in ogni movimento, in ogni ambiente, ecco il nostro programma. […] Amare i nostri vizi come le nostre virtù, come ci consiglia Nietzsche. Muoversi. Vivere. Distruggere. Creare. Come scopo. Non per un ideale, ma per esser ciò l’ideale».
Gli anni ’20 fra Chioggia e Parigi
Nel gennaio 1921, dopo il “Natale di sangue” Comisso abbandona Fiume e rientra a Treviso, incapace tuttavia di adattarsi alla vita piccolo-borghese. A febbraio si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Genova, senza alcun profitto. Frequenta il letterato Mario Maria Martini, amico di Guido Keller, contro il quale proverà una profonda antipatia. Questa esperienza gli ispira il romanzo Il delitto di Fausto Diamante (1933). A Treviso, siamo nel 1922, conosce Giulio Pacher, con cui stringerà un’amicizia – che presto diventa passione. Con lui, va a Chioggia in cerca dei marinai del Gioiello conosciuti a Fiume. Non li trova, ma passa insieme a Giulio una meravigliosa giornata. Tornerà in giugno, e verrà invitato a bordo del veliero dal capitano Gamba: iniziano i suoi viaggi “al vento dell’Adriatico”, da cui trarrà i racconti per il suo libro Gente di mare (1928). Comincia a fine anno a collaborare al quotidiano “Camicia Nera”, diretto dal suo amico, Pietro Pedrazza. Scrive articoli di letteratura, arte e politica. Nel 1923 si iscrive all’Università di Siena per portare finalmente a termine i suoi studi di giurisprudenza. Otterrà la laurea l’anno successivo 1924, con una tesi sui diritti d’autore. In estate percorre di nuovo l’alto Adriatico, le coste istriane e liburniche, le isole di Veglia, Arbe, Cherso, a bordo del bragozzo del capitano Gamba. Esce “Il porto dell’amore” (1924), in cui racconta la sua esperienza fiumana. Pubblicato da una tipografia trevigiana con i soldi ricavati dalla vendita di un impermeabile, ottiene i pareri favorevoli della critica. «Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora, è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata al corso delle stagioni e alle temperie», si legge in una recensione di Eugenio Montale che lo farà conoscere nel mondo letterario. Continua la sua collaborazione con il quotidiano trevigiano che ora si chiama “L’eco del Piave”. Naviga durante l’estate con il bragozzo dei suoi amici pescatori chioggiotti tra le coste e le isole della Dalmazia, pubblicando alcuni racconti. Oramai si veste come un marinaio, lavora con loro e li aiuta nel contrabbando di vestiti e berretti. Nel 1926, grazie all’interesse suscitato da “Il porto dell’amore”, Comisso viene invitato da Enrico Somarè a lavorare a Milano, presso la Galleria d’arte “L’Esame” e l’annessa libreria. Qui ha l’occasione di conoscere gran parte degli intellettuali della metropoli lombarda, tra i quali Eugenio Montale, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Emilio Gadda. L’anno successivo va a Parigi, attratto dalla promessa del critico letterario fr: Valéry Larbaud di far tradurre il suo “Porto dell’amore. Il progetto non si realizza, ma rimane affascinato dalla città. Vi ritrova Filippo De Pisis, vive un tempo «di ebbri istinti». Con Filippo De Pisis frequenta i locali più ambigui, la gente più balzana. «Niente ci tratteneva, Parigi conservava ancora tutto l’aspetto caotico impresso dal dopoguerra, accentrando gente folle di ogni parte del mondo, che si sovrapponeva alla sua plebe già di per sé stravagante e miserabile. Frequentavamo le bettole più luride e vi conoscemmo un’umanità pietosamente macerata»’. Nel 1928, muore suo padre. Con i soldi dell’eredità ritorna a Parigi dove conduce vita «disordinata e frenetica», assieme a Filippo De Pisis. In ottobre, viene invitato dal quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” a scrivere dei reportages sulla vita parigina. Pubblica una serie di articoli che verranno in seguito raccolti nel volume “Questa è Parigi” (1931). A fine anno esce “Gente di mare”, in cui sono raccolti i racconti ambientati a Chioggia, sul mare, sulle coste istriane e dalmate. Scrive Ugo Ojetti: «La freschezza primitiva, il silenzio del mare e delle coste deserte, gli odori e i sapori e i rari suoni che sotto l’altissimo cielo le porta il vento, la novità nella nostra letteratura di questi temi e di questi incanti: tutto mi piace e mi convince…»
I grandi viaggi in Nord Africa e in Estremo Oriente. La Casa di Campagna
E’ il 1929 quando ottiene il Premio Bagutta con “Gente di mare”. Sempre per “La Gazzetta del Popolo” compie viaggi in Nord Africa e nell’Europa del Nord. In dicembre come inviato speciale del “Corriere della Sera”, compie il Grand Tour in Estremo Oriente. Visita la Cina, il Giappone, la Siberia e la Russia, sino a Mosca. Il viaggio in Estremo Oriente dura sino a giugno del 1930. «Frequentavo loschi balli notturni e bische e postriboli e sempre col mio passo sicuro me ne uscivo a notte inoltrata senza neanche pensare di rasentare il minimo pericolo. Non credo fosse coraggio, ma un’incoscienza datami dall’accanita volontà di vedere». Nelle lettere che scrive alla madre esprime però anche la stanchezza per i lunghi viaggi e il desiderio di stabilirsi nella campagna veneta, per dedicarsi con tranquillità alla scrittura. In agosto pubblica “Giorni di Guerra”, che gli provoca qualche noia con la censura fascista. «Temperamento pieno, espansivo, disposto a godere di tutto e di tutti, comprensivo, avido e giocondo… libro di guerra così ricco, stipato di fatti visivi e trascritti, di impressioni, di sensazioni urgenti, improvvise, traboccanti», scrive Giuseppe Raimondi. In autunno, compera una casa e dei campi a Zero Branco, un paese nel trevigiano. Dopo tanto vagabondare vuole mettere radici nella campagna veneta. A Cortina ha anche conosciuto una giovane ragazza, Rachele, «la purezza e la semplicità, come se le nevi e l’aria di quel luogo si fossero trasfuse in lei», che vagheggia di sposare. Nel 1931 intensifica la sua collaborazione a “L’Italiano” di Leo Longanesi: i suoi articoli spaziano dal cinema sovietico alla “vitalità” e “sanità morale” dei contadini veneti. Esce “Questa è Parigi”. Negli anni successivi, usciranno altri libri: nel 1932 “Cina – Giappone” che raccoglie gli articoli del “Corriere della sera” e nel 1933 “Storia di un patrimonio”, romanzo ambientato a Onigo, tra i colli e il Piave. Nel 1934 ospita nella sua casa di campagna Bruno, un ragazzo figlio di pescatori chioggiotti, un’amicizia intensa e appassionata, che si concluderà non senza amarezze. Gli ispirerà il romanzo “Un inganno d’amore” (1942). L’anno successivo esce “Avventure terrene”, raccolta di racconti che in seguito confluirà nel Volume V delle opere col titolo “Il grande ozio”. Pubblica il romanzo “I due compagni”” (1936): dietro le vicende di uno dei due protagonisti, si nascondono le tragiche vicende del pittore Gino Rossi, ma nei personaggi del romanzo è possibile ravvisare i tratti di Arturo Martini, Nino Springolo e dello stesso Comisso. Nella primavera del 1937 viaggia lungo l’Italia, per più di ventimila chilometri per conto della “Gazzetta del Popolo”, in quella che definisce «una scoperta dell’Italia recondita». Viene inviato da “[èLa Gazzetta del Popolo]]” in Africa Orientale per documentare la nascita del nuovo Impero fascista. «Sono paesi disperati, scrive alla madre, dove gli italiani lavorano come cani. Asmara è una città squinternata, senza capo né coda, oscura come la mia campagna, con strade pessime, dove nessuno sa niente degli altri». Sempre su incarico de “La Gazzetta del Popolo”, nel 1939, si reca in Libia a visitare le colonie agricole fondate da contadini veneti, inviati dal fascismo per dissodare il deserto. Gli articoli, però, non soddisfano il governatore, perché ritenuti poco conformi al linguaggio giornalistico in voga.
Gli anni della seconda Guerra Mondiale e della crisi esistenziale
Nel 1940 comincia a collaborare a “Primato” la rivista culturale voluta da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale. Nei suoi articoli traspare l’angoscia per il tempo che scorre e l’avvicinarsi della vecchiaia, che lo portano alla “scoperta dei sentimenti”. Lo scoppio della guerra trova Comisso nella sua casa di Zero Branco, alle prese con un nuovo amore, il sedicenne Guido Bottegal, un irrequieto ragazzo trevigiano con velleità di poeta che verrà soprannominato “il fuggitivo” per le sue fughe improvvise. Pubblica i racconti di Felicità dopo la noia. La Mondadori pubblica Un inganno d’amore (1942), il romanzo sulla “scoperta dei sentimenti” al quale Comisso teneva particolarmente. La critica lo accoglie con molte perplessità. Ad aggravare la crisi psicologica dello scrittore contribuisce la sua passione per Guido, con esplosioni di gelosia, a causa di un personaggio inquietante come Sandro Pozzi, ex legionario fiumano, ora agente dei servizi segreti fascisti. Nel dicembre 1943, Comisso ritorna a collaborare con il “Corriere della Sera”, divenuto il più importante quotidiano della Repubblica Sociale. A dirigerlo viene chiamato Ermanno Amicucci, già direttore de “La Gazzetta del Popolo”. Nel 1944 Guido Bottegal, arruolato nella Marina Repubblicana, diserta dopo aver scritto una lettera in cui accusa il fascismo di aver tradito i giovani. Viene arrestato e portato nelle carceri di Venezia. Comisso cerca raccomandazioni per farlo scarcerare. Guido viene liberato, dopo aver fatto domanda, su consiglio di Pozzi, di entrare in un reparto combattente della R.S.I. e riprende i rapporti con Comisso. Nel bombardamento di Treviso del 7 aprile, la casa di famiglia in piazza Fiumicelli viene distrutta. La madre e la fedele governante Giovanna erano sfollate a Zero Branco e si salvano. Nel febbraio del 1945, Guido diserta e si rifugia sull’Altipiano di Asiago, a lavorare per i tedeschi nella Todt. Finirà fucilato dai partigiani dell’Altipiano che lo credono una spia. Comisso narrerà questi tragici avvenimenti in Gioventù che muore (1949). «E non cerco più amicizie dopo l’ultima per Guido che mi à così massacrato, illuso, deluso e stroncato». Comisso vive una crisi esistenziale, causata dalla tragica morte dell’amico e dalla sensazione, con l’affermarsi del neorealismo, di essere ormai superato come scrittore. Va spesso a Venezia, a trovare Filippo De Pisis. Collabora con Mario Pannunzio al “Risorgimento liberale” e con altri giornali. Scopre Giuseppe Berto, da poco rientrato dalla prigionia in Texas: è proprio Comisso a indirizzarlo a Longanesi con il manoscritto de Il cielo è rosso (1947), uno dei primi bestseller del dopoguerra. Nel 1947 pubblica con la Mondadori Capriccio e illusione: al centro del romanzo, il travagliato rapporto con Guido. Muore l’amico Arturo Martini e si propone di scriverne la biografia e raccogliere l’epistolario. Il romanzo Gioventù che muore, sulla tragica fine di Guido, viene pubblicato dalle edizioni del quotidiano “Milano-Sera” (1949) dopo essere stato rifiutato da ben tre editori.
Gli anni cinquanta e sessanta
Nel 1951 pubblica Le mie stagioni per le “Edizioni di Treviso”. L’anno successivo ottiene il premio Viareggio con il libro di racconti Capricci italiani. Nel 1953 Comincia la lunga collaborazione con “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dove pubblicherà, l’anno successivo, in tre puntate, Il mio sodalizio con De Pisis, racconto di un’amicizia intensa e rafforzata dall’arte. Filippo De Pisis è ormai ricoverato in una clinica psichiatrica dove morirà il 2 aprile 1956 1954. Muore la madre a maggio. In estate, Comisso decide di mettere in vendita la casa e la campagna di Zero Branco e torna a vivere in città, in un appartamento in affitto. Al Convegno di S. Pellegrino Terme, Romanzo e poesia di ieri e di oggi – Incontro di due generazioni, Comisso presenta il giovane Goffredo Parise. Sarà l’inizio di una nuova amicizia; l’ultima veramente importante per lo scrittore trevisano. Nel 1955, il libro di racconti Un gatto attraversa la strada vince il Premio Strega. Si trasferisce in una nuova casa di proprietà, a Santa Maria del Rovere, prima periferia di Treviso. Annota nel diario: «Finalmente sono venuto ad abitare nella mia nuova casa… Vi trovo ancora il senso della campagna, della mia vita di Zero, pure essendo vicino alla città… Ecco un nuovo punto di partenza per la mia vita». Nel 1958 pubblica La mia casa di campagna. Scrive Guido Piovene: Il venetismo in lui… è un fatto di natura, paesaggio esterno ed interiore rappresentazione. Comisso ha dentro di sé gli assilli del Veneto come li ha il Veneto, che tende a evaderne in belle forme, armonie di colore; li contiene visceralmente, non ne fa oggetto di discorso intellettuale». Esce la raccolta di racconti Satire italiane (1960): un’osservazione puntigliosa di malesseri, ha scritto Nico Naldini, delusioni, ansie e antipatie tra tante descrizioni ironiche che diventano amare sulla natura tradita dall’uomo. «La nostra vita oggi è ridotta a questi estremi dai quali sono escluse serenità, bellezza e armonia». Esce presso Longanesi La donna del lago (1962), che si sviluppa intorno ai “delitti di Alleghe”, una serie di omicidi avvenuti tra il 1933 e il 1946. «Bisogna accettare questo mio libro come una semplice autobiografia, una delle tante biografie lunghe e brevi che fanno il complesso della mia opera narrativa». Sarà uno dei suoi maggiori successi editoriali e Mario Soldati cercherà di farne un film. E’ il 1964 quando esce Cribol per Longanesi, una storia scabrosa ambientata ancora tra il Piave e Onigo, un atto d’amore per la natura e le sue “leggi supreme”. In questi ultimi anni è tormentato da fastidi alla vista, ma scrive ancora, mentre è in corso di pubblicazione presso Longanesi l’opera omnia. Nel 1968 esce Attraverso il tempo, ultimo libro di racconti, lui vivo. «Sono un poco stufo di scrivere, ma è il mio respiro». In maggio, viene organizzato a Treviso un convegno su Comisso, con la presenza, tra gli altri, di Montale, Piovene, Parise e Pasolini. Qualche giorno prima, il critico Gianfranco Contini è passato a casa sua per rendergli omaggio. Il 21 gennaio 1969 Giovanni Comisso muore nell’ospedale della sua città.
ISAAC BABEL-Biografia da Enciclopedia TRECCANI
Babel´ ⟨bàb’il’⟩, Isaak Emmanuilovič. – Scrittore russo (n. Odessa 1894 – m. 1940), autore di bozzetti e racconti – giustamente chiamati miniature – che ritraggono gli avvenimenti della lotta rivoluzionaria (Konnarmija “L’armata a cavallo”, 1926), a cui B. stesso partecipò nell’armata di Budënnyj e che ci descrive in prima persona, oppure la vita e la graduale scomparsa della piccola borghesia ebraica di Odessa (Odesskie rasskazy “Racconti di Odessa”, 1931; Istorija moej golubiatni “Storia della mia colombaia”). È autore inoltre di due drammi: Zakat (“Il tramonto”, 1928) e Marija (“Maria”, 1935). Vittima delle epurazioni staliniane, fu arrestato nel 1939 e non si ebbero più notizie di lui; nel 1956 la sua memoria fu ufficialnente riabilitata.
Leone Ginzburg- Nacque a Odessa dagli ebrei Fëdor Nikolaevič Ginzburg e Vera Griliches. Era l’ultimo di tre fratelli: lo precedevano Marussa (1896) e Nicola (1899). Era in realtà figlio naturale dell’italiano Renzo Segré, con cui la madre aveva avuto una fugace relazione mentre si trovava in villeggiatura a Viareggio; Fëdor lo aveva però riconosciuto come suo e Leone stesso lo considerò sempre come il proprio padre.
Figura importantissima nell’infanzia di Leone fu l’italiana Maria Segré (sorella del suo padre naturale) che sin dal 1902 viveva presso la famiglia in qualità di istruttrice. Insegnò ai tre fratelli il francese e l’italiano e fu lei a creare i rapporti tra i Ginzburg e l’Italia.
Leone fu per la prima volta in Italia nel 1910, quando trascorse le vacanze a Viareggio con la madre e i fratelli. Questa consuetudine si ripeté anche negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914: in quell’occasione la madre e i fratelli maggiori tornarono a Odessa mentre il figlio minore, per evitargli un pericoloso viaggio in mare, rimase nella Penisola con la Segré che divenne per lui quasi una seconda madre. Il giovane Ginzburg visse in Italia per tutta la durata del conflitto, dividendosi tra Roma e Viareggio.
Frattanto, passati attraverso la Rivoluzione di ottobre, i parenti rimasti in Russia si trovavano in difficoltà: nonostante avessero sostenuto la rivolta, i Ginzburg dovevano soffrire nuove pesanti limitazioni. Il primo a lasciare Odessa, nel 1919, fu Nicola il quale, temendo il richiamo alle armi, si trasferì a Torino dove si iscrisse al Politecnico. L’anno successivo tutta la famiglia si era stabilita a Torino e fu raggiunta da Leone che si iscrisse alla seconda classe del “Liceo Classico Vincenzo Gioberti”.
Nel 1921 i Ginzburg si spostarono ancora una volta: furono a Berlino dove il padre aveva avviato una nuova società commerciale assieme a un amico. Leone dovette quindi riprendere la lingua russa e fu iscritto alla scuola russa della città dove proseguì gli studi ginnasiali. Nell’autunno 1923, mentre il padre restava in Germania per lavoro, la famiglia si riportò a Torino e qui Leone preparò, nel 1924, l’esame ginnasiale.
Tra il 1924 e il 1927 concluse gli studi classici frequentando il liceo Massimo d’Azeglio. Fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi.
In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderì al movimento “Giustizia e Libertà”. Fu per questo arrestato il 13 marzo 1934 in seguito alle ammissioni dell’antifascista giellino Sion Segre, arrestato con Mario Levi l’11 marzo, e su segnalazione del chimico francese René Odin, informatore dell’OVRA. Condannato a quattro anni di carcere, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, beneficiò di due anni di condono condizionale. Rilasciato nel 1936, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista.
Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe due figli e una figlia: Carlo Ginzburg, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista. Nel giugno del 1940 fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, fino alla caduta del fascismo.
Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_Ginzburg
Biografia di PASTONCHI Francesco (Giuseppe, Flaminio). – Nacque a Riva Ligure il 31 dicembre 1874 da Davide, di origini toscane, e da Fanny Grossi da Riva, appartenente a una delle più vecchie famiglie di Sanremo.
Rimase presto orfano, prima della madre e successivamente del padre. Dopo aver frequentato il liceo Cassini di Sanremo, nel 1892 si stabilì a Torino per iscriversi alla facoltà di lettere, senza però mai conseguire la laurea. All’università fu allievo di Arturo Graf, professore di letteratura italiana, promotore delle cosiddette sabatine, incontri del sabato pomeriggio dove il ‘maestro’ discuteva con i suoi allievi di letteratura contemporanea. Pastonchi partecipò attivamente alla vita culturale torinese, frequentando la Società di cultura e stringendo amicizia con altri intellettuali quali Cosimo Giorgieri-Contri, Gustavo Balsamo-Crivelli, Enrico Thovez, Giovanni Cena, e il più giovane Guido Gozzano.
Già durante gli anni universitari iniziò a dar mostra delle sue notevoli doti di dicitore di versi propri e altrui, in primo luogo di Dante, ma anche di Petrarca, Graf, Leopardi, Carducci. Negli anni successivi intensificò tale attività facendone quasi una professione che gli portò guadagni e successo a livello nazionale e internazionale, in particolare quando le sue dizioni furono trasmesse alla radio.
Pastonchi cominciò presto a collaborare alle riviste torinesi, e non solo: dal 1893 scrisse per la Gazzetta letteraria, il Venerdì della contessa, la Gazzetta del popolo della domenica, mentre, dal gennaio 1900 al dicembre 1904, collaborò assiduamente alla Riviera ligure di Mario Novaro, pubblicandovi diciassette testi. Oltre che per La Stampa, dal 1902 iniziò a scrivere anche per il Corriere della sera, in particolare per il supplemento mensile La lettura: un sodalizio, quello con il quotidiano milanese, destinato a protrarsi per tutta la vita. Per iniziativa sua, di Domenico Chiattone e Leonardo Bistolfi nel 1903 nacque il settimanale Il Piemonte (pubblicato a Saluzzo a partire dal 27 giugno, cui collaborarono, tra gli altri, Bontempelli e Gozzano), al quale seguì Il Campo, un nuovo settimanale torinese che Pastonchi diresse dal primo numero (20 novembre 1904), fino al febbraio del 1905, quando passò a Balsamo-Crivelli (e ch’ebbe fra i collaboratori Gozzano e Roccatagliata Ceccardi).
Precoce fu anche l’esordio poetico di Pastonchi: alla raccolta Saffiche. 1891-92 (Savona 1892), seguirono Aurei distici (Sanremo 1895) e La Giostra d’amore e le canzoni. 1893-95 (Milano 1898). Nel 1900 dedicò alla madre, precocemente scomparsa, le tre canzoni A mia madre (Bologna). Nel 1903 videro la luce due opere: Italiche (Torino), con cui prese avvio la sua poesia politico-civile, e Belfonte. Sonetti (Torino), di poco anteriori a Sul limite dell’ombra (Torino-Genova 1905).
Pastonchi professò una poetica ormai in via di estinzione, rimanendo fedele agli schemi metrici tradizionali, seguendo il magistero di Carducci, cui rimase sempre legato, e dichiarando così la sua preferenza per i valori formali della poesia, come traspare esplicitamente in Ammonimento: «Che importano tempi e vicende? / Son tutte le forme una sola / Bellezza […]» (Sul limite dell’ombra, p. 167).
Dopo l’entrata in guerra, tra il 1917 e il 1918 prestò servizio al corpo d’armata di stanza a Milano con il ruolo di tenente, dedicandosi anche alla scrittura di poesie per l’infanzia: Rititì (Milano 1920), con illustrazioni di Primo Sinopico e Tre favole belle (Roma 1920), con illustrazioni di Bruno Angoletta. Proprio con la pubblicazione di questo volume, seguita dal poema Il randagio (Roma 1921), Pastonchi iniziò una lunga collaborazione con Arnoldo Mondadori e la sua casa editrice.
Nel quadro di un progetto mai portato a termine, che vedeva la scrittura di tre poemi (con chiaro riferimento alle tre cantiche dantesche: l’ultimo dal titolo Beatrice), Il randagio rappresenta la prima parte, formata da 365 sonetti divisi in 7 libri e 35 canti. Nel frontespizio viene riportato il verso pastonchiano «errai cercando me di verso in verso» e, subito dopo la dedica, il poeta spiega che si tratta della «storia di una liberazione, è il cantico del solo: il quale erra cercando se stesso, e […] starebbe quasi per naufragare oblioso in superficiali aspetti di leggerezza, quando non si sentisse attratto, per vaghe lontananze prima e poi risolutamente, a fronte dell’anima profonda: sino a riconoscere, irradiato dall’infanzia, il fondamento e il vertice della propria vita e dell’arte sua» (p. 9). Il randagio, che conferma la fedeltà di Pastonchi alla tradizione e la distanza dai contemporanei sviluppi della lirica novecentesca, ebbe grande successo di vendite grazie anche alle numerose dizioni pubbliche che il poeta ne fece.
Nel 1923 riannodò le fila civili delle Italiche in una nuova raccolta dallo stesso titolo: Italiche. Nuove poesie (Roma-Milano). Debitore della poesia carducciana e dannunziana, Pastonchi si fece interprete del nazionalismo, ambendo ad assumere un ruolo di poeta-vate nell’Italia fascista.
Sempre nel 1923 Mondadori istituì un premio ‘per la giovane letteratura’, e Pastonchi fu chiamato a far parte del collegio giudicante. Nel 1924 il collegio si trasformò in accademia: venne infatti istituito un Consiglio nazionale per i premi nazionali Mondadori (detto anche Accademia Mondadori), di cui Pastonchi divenne vicepresidente dal dicembre 1926. Inoltre gli venne affidata la direzione di una nuova collana che avrebbe dovuto avere il titolo di «Raccolta nuova dei classici italiani», per la quale egli cercò persino un nuovo carattere tipografico. Nel 1927 fu pubblicato un volume di presentazione della collana, ma il progetto fu accantonato da Mondadori per procedere alla pubblicazione dell’opera omnia di d’Annunzio. Solo il nuovo carattere tipografico, che prese il nome di Pastonchi, fu approntato e successivamente utilizzato per i volumi dei «Classici italiani», la cui direzione venne però affidata a Francesco Flora: del progetto di Pastonchi rimase il motto dantesco «In su la cima» che accompagna il marchio editoriale mondadoriano.
Con gli anni Trenta si registra, invece, un evidente cambiamento nella scrittura poetica pastonchiana, testimoniata dall’uscita de I versetti (Milano 1931), stampati con il ‘suo’ carattere tipografico e dedicati all’amico Balsamo-Crivelli, da poco scomparso.
Se in questa raccolta Pastonchi si scontra consapevolmente con la modernità, prendendo atto della desolazione e del vuoto che lo circonda («Notte di stelle, infinita, sul mare… / O mia inquïeta vita, posare!»: Sospiro, p. 136), anche sperimentando unità strofiche più brevi e persino il verso libero, nelle raccolte successive – le Rime dell’amicizia (Milano 1943) e gli Endecasillabi (Milano 1949) – l’autore non insiste su questa deriva di cauta sperimentazione: così, da una parte, abbandona il verso libero e recupera l’endecasillabo, sebbene più prosaico, mentre dall’altra riprende il tema della solitudine, non più però come quella sorta di beatitudine cui allude nelle sue prime raccolte, bensì come sentimento pieno d’angoscia in cui rispecchiarsi («Magra strada tra scarni ulivi: bimbo / mi sorprendo a rifarti con le donne / che salgon sotto il peso delle corbe. / Felicità de’ miei passetti a sghembo / dietro una farfalluccia. Ma tornare / negato è all’uomo ancora udendo il mare / frangere a l’orizzonte tra le canne / e risorbirsi un rotolio di ghiaie. / Ahi stolta gente che la città rode»: Mare, in Endecasillabi, cit., p. 67).
Nel marzo 1933, in qualità di direttore, Pastonchi invitò Paul Valéry a partecipare ai ‘Lunedì letterari’ del Casinò di Sanremo. Divenuto scrittore ‘di regime’, mosse alla ricerca di riconoscimenti ufficiali che culminarono nel 1935 con la nomina per ‘chiara fama’ (imposta da Roma) a professore di letteratura italiana presso l’Università di Torino, dove si attendeva la nomina di Carlo Calcaterra, succedendo così a Vittorio Cian.
Nei suoi insegnamenti universitari si dedicò soprattutto al commento della Commedia. Gli anni Trenta lo videro impegnato anche nel teatro, verso il quale aveva manifestato interesse fin dalla giovinezza. È del 1936 la tragedia Simma (Milano), una vera e propria celebrazione di Benito Mussolini, che ne seguì l’allestimento al Lirico di Milano, dove andò in scena il 27 gennaio 1936, senza successo. Di nuovo alla ricerca di riconoscimenti ufficiali, nel 1939 Pastonchi fu nominato accademico d’Italia per la classe di lettere e in tale veste, nel 1941, venne chiamato a celebrare in Campidoglio il sesto centenario dell’incoronazione capitolina di Petrarca.
Nel 1939, a testimonianza del suo amore per i classici, tradusse il primo libro delle Odi di Orazio (Milano).
Nel 1947 Pastonchi abbandonò l’insegnamento universitario per limiti d’età, ottenendo nel 1950 il titolo di professore onorario; nello stesso anno pubblicò un volume di ricordi, Ponti sul tempo (Milano), i cui tre nuclei principali riguardano altrettante figure fondamentali della sua vita: Carducci, Gozzano e Valéry.
Morì il 29 dicembre 1953 nell’appartamento torinese di via Sineo ed è sepolto a Riva Ligure.
Attivo per tutto il primo cinquantennio del Novecento, Pastonchi scelse di rimanere fedele a una poetica legata al culto della forma e al ruolo ufficiale del poeta: una posizione epigonica la sua, lontana dagli innovativi sviluppi della lirica novecentesca, ch’è alla base della sempre minor attenzione verso la sua opera. Ligure ma trapiantato a Torino, tuttavia Pastonchi partecipò a quell’asse ligure-torinese che caratterizzò parte della poesia primonovecentesca, mostrandosi una presenza attiva nella Torino universitaria di Graf e soprattutto di Gozzano, cui è dedicata la poesia Nostra Genova, in ricordo delle sue visite al poeta torinese a San Francesco d’Albaro. Spettò a lui definire Gozzano «Il terzo Guido» e sottolineare come non gli si addicesse l’etichetta di poeta crepuscolare. Da atmosfere gozzaniane come «le malinconie di vecchie cose smorte!» e le «Povere vecchie nonne rococò» di Festa in costume (v. Il randagio, pp. 97 s.) Pastonchi trascorse, con gli anni Trenta, alle suggestioni della poesia ligure: I versetti, la raccolta di maggiore interesse, uscirono sei anni dopo gli Ossi di seppia montaliani e una fra le poesie si intitola Pianissimo, con chiaro riferimento a Camillo Sbarbaro. La Liguria, sua terra d’origine, caratterizza molti suoi versi come avviene in Paese natale («Lungo l’unica strada strette case / saldate insieme, frustate dal vento / marino che sa d’alghe e di catrame. / E il mare è lì, frange alle soglie, arremba / in secco i gozzi all’orlo della piazza, / getta barbagli nei fondachi bui./ Di là campagna tra muretti d’orto»: cfr. Endecasillabi, cit., p. 85).
Fra le opere non citate nel testo: Oltre l’umana gioia. Favola in terza rima (Torino 1898); Il violinista [romanzo] (Torino 1908); Fiamma. Tragedia in quattro atti, (Torino 1911, in collaborazione con Giannino Antona-Traversi); Calendario italico per il 1912 [poesia] (Torino 1912); La sorte di Cherubino. Commedia in tre atti (Ivrea 1912); Il mazzo di gelsomini. Novelle (Firenze 1913); Il pilota dorme [poesia] (Genova 1913); Momento politico (Alessandria 1913); Patria. Antologia di prose e poesie per le scuole secondarie inferiori (Milano 1913); Il campo di grano [novelle] (Milano 1916); Le trasfigurazioni [novelle] (Milano 1917); Don Giovanni in provincia. Teatrino ironico (Milano 1920); Le più belle pagine di Annibal Caro, scelte da F. Pastonchi (Milano 1923); Alessandro Dumas figlio, La dama dalle camelie, traduzione di F. Pastonchi Milano 1932); Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, prefazione di F. Pastonchi (Torino 1948); Patria e mondo. Antologia per la scuola media (Milano 1954).
Fonti e Bibl.: L’Archivio P., ereditato alla sua morte da Luigi Manuel-Gismondi, è conservato dagli eredi a Bordighera.
Bergami, Il fenomeno P. nella vicenda letteraria e culturale torinese, in Almanacco piemontese, 1986, pp. 45-51; E. Decleva, Arnoldo Mondadori, Torino 1993, ad ind.; G. Bergami, Paesaggi torinesi e performance di P. nelle lettere a Gustavo Balsamo-Crivelli, in Belfagor, L (1995), 4, pp. 450-475; F. Contorbia – C. Carena – M. Guglielminetti, Ricordo di F. P. (1874-1953), Atti del convegno di Santa Maria Maggiore…, Novara 1997; P.: ricordo di un poeta ligure. Atti del convegno…, Riva Ligure – Sanremo… 1997, con antologia, a cura di G. Bertone, Novara 1999; M.L. Altieri, Il regime e il poeta. Documenti sul fascismo di F. P. (1934-1941), in Levia Gravia, 2001, 3, pp. 305-328; La Riviera Ligure, XVI (2005), 48 (n. monografico).
Clementina Cavicchia, seguì a Firenze il corso di lettere nell’Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910, laureandosi in letteratura greca con G. Vitelli.
Fu questo un periodo ricco di relazioni e di amicizie: da R. Serra a E. Cecchi, da G. Amendola a E. Corradini. L’A. fu intimo, con Chiavacci e il musicista G. Bastianelli, di Carlo Michelstaedter e insieme a lui studiò con passione la poesia greca (Il coro nella tragedia greca fu l’argomento della tesi) e Platone. Collaboratore de La Voce, primo editore degli scritti dell’amico, scomparso tragicamente, (Dialogo della salute – Poesie, Genova 1912, La persuasione e la retorica, ibid. 1913), assunse quel suo caratteristico atteggiamento di critica dall’intemo, di “ricostruzione”, come la chiamerà più tardi (Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940], p. 20) dell’idealismo storicistico e dell’attualismo, con il Discorso del metodo (in L’anima, I[nov. 1911], pp. 323-344), e con l’articolo Svolgimento e progresso (in La cultura contemporanea, IV[1912], n. 58, pp. 174-181), scritti ai quali si richiamerà l’Introduzione all’attualismo (in Giorn. crit. d. filos. ital., XXXV, 2 [1954], pp . 178-208).
Dopo avere insegnato come ordinario nei ginnasi di Stato e avere partecipato come ufficiale d’artiglieria alla guerra dei ’15-’18, dove fu ferito, si laureò in filosofia nel 1921 con P. Martinetti (tesi: Conoscenza e moralità, Città di Castello 1922). Fu quindi professore di ruolo nei licei e poi preside nei licei scientifici, a Modena e a San Remo, e dal 1934 preside della scuola italiana di Alessandria d’Egitto.
Con Platone (Gorgia, Firenze 1925), il Manzoni (Morale filosofica e morale religiosa, Lanciano s. d.), Leopardi e Machiavelli, sono gli interlocutori intorno al suo tema costante: la vita morale e l’esperienza artistica. Del 1935 sono le Prose morali (Roma) fra cui la “meditazione” Questa incomprensibile vita (A Augusto Guzzo), la raccolta Arte e filosofia (Genova), dove è ristampato Il problema estetico della Divina Commedia già apparso nella Critica del 1920. Ma nel 1926 era uscito nel Giornale critico, in polemica con Gentile e accompagnato da una sua postilla di risposta, l’articolo L’individuo e lo Stato (a. VII, fasc. II, pp. 132-52; cfr. recens. di B. Croce in La Critica, vol. XXIV [1926], pp. 182-3) affermazione di quel liberalismo che sarà un motivo ispiratore dei suoi scritti del secondo dopo guerra. L’A. vedeva nell’attualismo una teoria dell’esperienza morale della persona, da non identificarsi, contrariamente all’affermazione del Gentile, con “la vita nello Stato” la legge in interiore homine è universale, la vita politica non è “omnis homo“, è solo una parte delle azioni che la legge comanda. Per questo, attualismo e idealismo oggettivo hegeliano sono inconciliabili (cfr. la prima delle Quattro lettere di R. Le Senne e L’Umanismo di VI. A. R. cit. nella Bibl.).
Tornato dall’Egitto per assumere la vicepresidenza della Scuola Normale Superiore di Pisa, passava per concorso ad occupare nel 1940 la cattedra di storia della filosofia nella facoltà di magistero di Firenze fino alla morte, avvenuta dopo lunga infermità l’8 nov. 1952.
È questo il periodo più laborioso e fecondo dell’A. Oltre gli articoli negli Annali della Scuola Normale (fra cui Dialettica delle distinzionì e dialettica delle opposizioni. Note sullo storicismo di B. Croce, 1941), le edizioni di classici (fra cui le Liriche e tragedie del Manzoni [Torino 1949], alla poetica del quale dedicò un corso [Firenze 1948], la traduzione e interpretazione del Sofista [Bari 1951]), il volumetto di saggi Umanità dell’arte, Firenze 1951 (“saggi” dice l’A. “che hanno tutti lo stesso intendimento: di combattere la separazione dell’artista e dell’uomo, di arte e vita”, p. 7), con la ininterrotta collaborazione a riviste filosofiche e letterarie (come a Leonardo con le note Sic et non) e a vari quotidiani (dalla Nazione del popolo al Giornale d’Italia e al Giornale dell’Emilia) prendeva compiuto profilo la sua fisionomia di saggista “morale” aperto ad ogni interesse della vita reale ed insieme raccolto nell’intima coscienza di un valore assoluto (cfr. Otherworldness, in Rassegna d’Italia, I, 6 [1946], pp. 80-88). Pur senza dar luogo a grossi libri sistematici ed eruditi, il suo “moralismo assoluto” (così lo Sciacca; ed è titolo che egli accettò; cfr. Il mio moralismo, in Filosofi ital. contemp., Como 1944, pp. 47-58). Si colloca in modo significativo nel movimento del pensiero italiano del suo tempo e, soprattutto, ha un tono inconfondibile, se si guarda allo scrittore e all’uomo. Negli ultimi anni, sofferente e costretto a lunghi periodi di immobilità, continuò a lavorare e far lezione, in casa, e discutere con gli amici (assidui, oltre il “fraterno” Chiavacci, E. Garin e L. Scaravelli), mantenendo, consapevole del suo stato, la sua consueta serenità fino alla fine.
Bibl.: G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo, Brescia s. d. [ma 19461], pp. 266 ss., 303 ss.; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Torino 1947, pp. 437 ss., 815 (bibl.); I. Mancini, Il platonismo di VI. A. R., in Giorn. di metafisica, VIII(1953), pp. 312-323; E. Garin, in Enc. filos., I, Venezia-Roma 1957, coll. 320 s.; Id., Cronache di filosofia ital., Bari 1955, passim; D. Faucci, L’umanesimo di VI. Arangio–Ruiz,in Filosofia, XI(1960) pp. 297-315; Filosofi d’oggi, VI. A.-R., a cura di D. Faucci, G. Chiavacci, V. E. Alfieri, con Quattro lettere di R. Le Senne, Torino 1960 (con elenco delle opere e bibl. sull’A.).
Fonte Enciclopedia TRECCANI on line
Biografia di Vladimiro ARANGIO-RUIZ-Nato a Napoli il 19 febbraio 1887, da Gaetano, professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia, seguì a Firenze il corso di lettere nell’Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910, laureandosi in letteratura greca con G. Vitelli.
Fu questo un periodo ricco di relazioni e di amicizie: da R. Serra a E. Cecchi, da G. Amendola a E. Corradini. L’A. fu intimo, con Chiavacci e il musicista G. Bastianelli, di Carlo Michelstaedter e insieme a lui studiò con passione la poesia greca (Il coro nella tragedia greca fu l’argomento della tesi) e Platone. Collaboratore de La Voce, primo editore degli scritti dell’amico, scomparso tragicamente, (Dialogo della salute – Poesie, Genova 1912, La persuasione e la retorica, ibid. 1913), assunse quel suo caratteristico atteggiamento di critica dall’intemo, di “ricostruzione”, come la chiamerà più tardi (Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940], p. 20) dell’idealismo storicistico e dell’attualismo, con il Discorso del metodo (in L’anima, I[nov. 1911], pp. 323-344), e con l’articolo Svolgimento e progresso (in La cultura contemporanea, IV[1912], n. 58, pp. 174-181), scritti ai quali si richiamerà l’Introduzione all’attualismo (in Giorn. crit. d. filos. ital., XXXV, 2 [1954], pp . 178-208).
Dopo avere insegnato come ordinario nei ginnasi di Stato e avere partecipato come ufficiale d’artiglieria alla guerra dei ’15-’18, dove fu ferito, si laureò in filosofia nel 1921 con P. Martinetti (tesi: Conoscenza e moralità, Città di Castello 1922). Fu quindi professore di ruolo nei licei e poi preside nei licei scientifici, a Modena e a San Remo, e dal 1934 preside della scuola italiana di Alessandria d’Egitto.
Con Platone (Gorgia, Firenze 1925), il Manzoni (Morale filosofica e morale religiosa, Lanciano s. d.), Leopardi e Machiavelli, sono gli interlocutori intorno al suo tema costante: la vita morale e l’esperienza artistica. Del 1935 sono le Prose morali (Roma) fra cui la “meditazione” Questa incomprensibile vita (A Augusto Guzzo), la raccolta Arte e filosofia (Genova), dove è ristampato Il problema estetico della Divina Commedia già apparso nella Critica del 1920. Ma nel 1926 era uscito nel Giornale critico, in polemica con Gentile e accompagnato da una sua postilla di risposta, l’articolo L’individuo e lo Stato (a. VII, fasc. II, pp. 132-52; cfr. recens. di B. Croce in La Critica, vol. XXIV [1926], pp. 182-3) affermazione di quel liberalismo che sarà un motivo ispiratore dei suoi scritti del secondo dopo guerra. L’A. vedeva nell’attualismo una teoria dell’esperienza morale della persona, da non identificarsi, contrariamente all’affermazione del Gentile, con “la vita nello Stato” la legge in interiore homine è universale, la vita politica non è “omnis homo“, è solo una parte delle azioni che la legge comanda. Per questo, attualismo e idealismo oggettivo hegeliano sono inconciliabili (cfr. la prima delle Quattro lettere di R. Le Senne e L’Umanismo di VI. A. R. cit. nella Bibl.).
Tornato dall’Egitto per assumere la vicepresidenza della Scuola Normale Superiore di Pisa, passava per concorso ad occupare nel 1940 la cattedra di storia della filosofia nella facoltà di magistero di Firenze fino alla morte, avvenuta dopo lunga infermità l’8 nov. 1952.
È questo il periodo più laborioso e fecondo dell’A. Oltre gli articoli negli Annali della Scuola Normale (fra cui Dialettica delle distinzionì e dialettica delle opposizioni. Note sullo storicismo di B. Croce, 1941), le edizioni di classici (fra cui le Liriche e tragedie del Manzoni [Torino 1949], alla poetica del quale dedicò un corso [Firenze 1948], la traduzione e interpretazione del Sofista [Bari 1951]), il volumetto di saggi Umanità dell’arte, Firenze 1951 (“saggi” dice l’A. “che hanno tutti lo stesso intendimento: di combattere la separazione dell’artista e dell’uomo, di arte e vita”, p. 7), con la ininterrotta collaborazione a riviste filosofiche e letterarie (come a Leonardo con le note Sic et non) e a vari quotidiani (dalla Nazione del popolo al Giornale d’Italia e al Giornale dell’Emilia) prendeva compiuto profilo la sua fisionomia di saggista “morale” aperto ad ogni interesse della vita reale ed insieme raccolto nell’intima coscienza di un valore assoluto (cfr. Otherworldness, in Rassegna d’Italia, I, 6 [1946], pp. 80-88). Pur senza dar luogo a grossi libri sistematici ed eruditi, il suo “moralismo assoluto” (così lo Sciacca; ed è titolo che egli accettò; cfr. Il mio moralismo, in Filosofi ital. contemp., Como 1944, pp. 47-58). Si colloca in modo significativo nel movimento del pensiero italiano del suo tempo e, soprattutto, ha un tono inconfondibile, se si guarda allo scrittore e all’uomo. Negli ultimi anni, sofferente e costretto a lunghi periodi di immobilità, continuò a lavorare e far lezione, in casa, e discutere con gli amici (assidui, oltre il “fraterno” Chiavacci, E. Garin e L. Scaravelli), mantenendo, consapevole del suo stato, la sua consueta serenità fino alla fine.
Bibl.: G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo, Brescia s. d. [ma 19461], pp. 266 ss., 303 ss.; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Torino 1947, pp. 437 ss., 815 (bibl.); I. Mancini, Il platonismo di VI. A. R., in Giorn. di metafisica, VIII(1953), pp. 312-323; E. Garin, in Enc. filos., I, Venezia-Roma 1957, coll. 320 s.; Id., Cronache di filosofia ital., Bari 1955, passim; D. Faucci, L’umanesimo di VI. Arangio–Ruiz,in Filosofia, XI(1960) pp. 297-315; Filosofi d’oggi, VI. A.-R., a cura di D. Faucci, G. Chiavacci, V. E. Alfieri, con Quattro lettere di R. Le Senne, Torino 1960 (con elenco delle opere e bibl. sull’A.).
Fonte Enciclopedia TRECCANI on line
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Scritti di Nello Rosselli | |
Mazzini e Bakounine: 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872) | F.lli Bocca, Torino 1927 |
Michail Bakounine, a cura di Nello Rosselli, V volume dell’Enciclopedia Italiana diretta da Gioacchino Volpe, 1930. | 1930 |
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano | F.lli Bocca, Torino 1932 |
Leo Ferrero, Società anonima editrice Dante Alighieri | Milano 1933 |
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, E. degli Orfini | Genova 1936 |
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, prefazione di Gaetano Salvemini, Einaudi | Torino 1946 |
Inghilterra e il regno di Sardegna. Dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi | Einaudi, Torino 1954 |
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, [introduzione di Walter Maturi], C.M. Lerici | Milano 1958 |
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani | G. Einaudi, Torino 1967 |
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con un saggio di Walter Maturi | G. Einaudi, Torino 1977 |
Saggi sul Risorgimento, prefazione di Gaetano Salvemini, introduzione di Alessandro Galante Garrone | Einaudi, Torino 1980 |
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani | Einaudi, Torino 1982 |
Ebraismo e italianità Intervento di Nello Rosselli del 1924 al congresso della gioventù ebraica, tratto da “Nello Rosselli. “Uno sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937)” a cura di Z. Ciuffoletti, La Nuova Italia pp. 1-5. |
La Nuova Italia |
Informazioni tratte dal sito:
http://www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/NRosselli