Marianne Moore- Poesie scelte- Biblioteca DEA SABINA

Biblioteca DEA SABINAMarianne Moore

Marianne Moore- Poesie scelte-

Rivista Avamposto

La poesia

Non piace neanche a me: ci sono cose
assai più importanti di simili inezie.
Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo,
uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino.
Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi,
capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi,
sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose
che possono suggerirvi, ma perchè sono utili.
Quando diventano derivate a tal punto da non essere più
intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare
ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello
appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa
da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio
che si rotola, un lupo
sotto un albero, instancabile, il critico ottuso
che si contrae di scatto la pelle
come a un cavallo infastidito da un tafano,
il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica-
e non ha senso neppure
svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”.
Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere:
se vengono utilizzati a sproposito
da poeti di secondo ordine, il risultato
non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia
finchè i poeti non sapranno essere
i “veristi dell’immaginazione”
sdegnando banalità e insolenza,
e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari
con dentro rospi veri”.
Se, comunque, pretendete da un lato
il materiale della poesia allo stato grezzo
e dall’altro richiedete ciò che è genuino,
allora vuol dire che la poesia vi interessa.

Da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951, Rizzoli.

Leggi anche Il legame poetico tra Marianne Moore e Grace Schulman

 

Serpenti, manguste, incantatori di serpenti e simili

 

Ho un amico che pagherebbe un occhio della testa per quelle lunghe dita tutte uguali –

per quegli orrendi artigli d’uccello, per quell’aspide esotico e la mangusta –

prodotti del paese dove tutto è fatica, il paese del cercatore d’erba,

del portatore di torce, del servo addetto al cane, del portatore messaggero, del santone.

Affascinato da questo esimio verme, selvatico e feroce quasi quanto il giorno della cattura,

lo fissa con occhi sbarrati che sembrano incapaci d’analisi.

«Il serpe sottile che si snoda fulmineo nell’erba,

la tartaruga placida dal dorso variegato,

il camaleonte che passa dalla frasca alla pietra e dalla pietra al ruscello»,

un tempo gli accendevano l’immaginazione;

ora la sua ammirazione è concentrata tutta qui.

Spesso, ma non pesante, si drizza sporgendo dal suo cesello da viaggio,

l’essenzialmente ellenico, il plastico animale tutto d’un pezzo dal naso alla coda;

non si può fare a meno di guardarlo come si è costretti a guardare le ombre delle Alpi

che nelle loro pieghe imprigionano come mosche nell’ambra

i ritmi della pista di pattinaggio.

Questo animale, al quale dalla notte dei tempi

è stata attribuita tanta importanza,

bello, a quanto sostenevano i suoi adoratori – a che scopo fu inventato?

Forse per dimostrare che quando l’intelligenza nella sua forma pura

s’imbarca in un ordine di pensiero improduttivo deve fare marcia indietro?

Chissà; la sola cosa certa al riguardo è la sua forma; ma perché protestare?

La passione di migliorare il prossimo è di per sé una malattia affliggente.

Meglio la repulsione, che non avanza pretese.

 

 

Che cosa sono gli anni?

 

Cos’è la nostra innocenza,

cos’è la nostra colpa?

Tutti sono nudi,

nessuno è salvo.

E da dove viene il coraggio:

la domanda senza risposta,

il dubbio risoluto – che chiama

muto, e sordo ascolta –

che nella sventura,

nella morte stessa

dà coraggio agli altri,

e nella stessa sconfitta induce

 

l’anima a farsi forte?

Sa vedere nel fondo delle cose ed è lieto

chi accede alla mortalità e nella sua prigione si eleva

al di sopra di se stesso,

come il mare dentro un abisso

lotta invano per liberarsi

e trova nell’arrendersi

il suo perdurare.

 

Così chi sente fortemente

opera da forte. Anche l’uccello

cresciuto cantando

rinsalda la propria forma e l’innalza.

Benché prigioniero, dice

col suo canto potente

che la soddisfazione è cosa vile,

cosa pura è la gioia.

           Questa è la mortalità.

           Questa è l’eternità.

 

 

A una lumaca

 

Se «la concisione è la prima grazia dello stile»,

tu la possiedi. La contraibilità è una virtù

come lo è la modestia.

Non è l’acquisizione d’una cosa qualsiasi

capace di adornare,

né la qualità accidentale

che può accompagnarsi a una cosa espressa bene,

che noi apprezziamo nello stile,

ma il principio nascosto:

nell’assenza di piedi, «un metodo conclusivo»;

«una conoscenza dei princìpi»,

nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.

 

 

New York

 

l’epopea del selvaggio,

cresciuta dove lo spazio ci occorre per i traffici –

il centro del commercio all’ingrosso delle pellicce,

costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,

i lunghi peli che ondeggiano due dita sopra il pellame;

il terreno cosparso di pelli di daino – macchie di bianco su bianco,

«così come un ricamo monocromo su raso può avere una trama varia»;

e vizze piume d’aquila compresse dal vento;

e strisce di pelli di castoro – bianche, sollecite di neve.

Ce ne corre di spazio tra la «regina carica di gioielli»

e il bellimbusto col manicotto,

tra il cocchio dorato a forma di flacone di profumo,

e la confluenza del Monongahela con l’Allegheny

e la filosofia scolastica delle terre selvagge.

Non è la copertina dei romanzetti di frontiera che conta,

le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;

non è il dire «la pelliccia se non è più bella delle pellicce delle altre,

è meglio non averla» –

e il cui equivalente in carne cruda e in bacche ci basterebbe

per sfamare l’universo;

non è il clima dell’ingegnosità,

le pelli di lontra, di castoro, di puma

senza armi da fuoco, né cani;

non è il profitto,

ma «la possibilità di accedere all’esperienza».

 

Una tomba

 

Uomo che scruti dentro il mare,

impedendo la vista ad altri che come te avrebbero diritto di guardare,

e dell’umana natura porsi nel bel mezzo d’una cosa,

ma in mezzo a questa non ti è possibile stare;

il mare non ha altro da offrire che una tomba ben scavata.

Gli abeti stanno in processione con in cima

una smeraldina zampetta di tacchino,

riservati come i loro profili, non dicono nulla;

non è la repressione, comunque, la più evidente caratteristica del mare;

il mare è un collezionista, pronto a restituire uno sguardo rapace.

Altri, oltre a te, hanno avuto quello sguardo –

e la loro espressione non è più di protesta; i pesci non li esplorano più

poiché le loro ossa non hanno durato;

gli uomini calano le reti, senza sapere che stanno dissacrando una tomba,

e remano via veloci – le pale dei remi

che si muovono insieme come le zampe dei ragni d’acqua

quasi non vi fosse una cosa come la morte.

Le increspature avanzano insieme in una falange –

belle sotto i ricami della spuma,

e svaniscono esauste mentre il mare

penetra mormorando fra le alghe e si ritira;

gli uccelli, attraversano a nuoto l’aria velocissimi, stridendo come sempre –

lo scudo della tartaruga tormenta la base degli scogli muovendosi sotto;

e l’oceano, sotto il pulsare dei fari e il rintocco delle boe,

come al solito avanza, e non sembra neppure

lo stesso oceano in cui le cose, cadendo, sono destinate ad affondare –

quell’oceano in cui, se una cosa si torce o si rigira,

lo fa, semmai, senza volontà né coscienza.

 

 

Non c’è cigno più bello

 

«Non c’è acqua più immobile

delle morte fontane di Versailles.» Non c’è cigno

dal cupo cieco sguardo obliquo

e dalle gambe di gondoliere, bello quanto

il cigno di porcellana

dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato

che ne attesta l’appartenenza.

 

Allogato nel candelabro Luigi XV

di boccioli dipinti di celòsie

dalie, ricci di mare e sempreverdi,

se ne sta appollaiato sulla spuma ramificante

di lucidi fiori scolpiti,

alto, a suo agio. Il re è morto.

 

Che cosa sono gli anni

Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l’intrepido dubbio, –
che chiama senza voce, ascolta senza udire –
che nell’avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona

l’anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia ti leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto
trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.

Così colui che sente fortemente
si comporta. L’uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,
e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.

Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.

In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e

“in verità, non è
affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero
in questa circostanza. Alcuni
rotarono sull’asse del proprio valore,
come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;

non si avventurarono
in una professione di umiltà. Il cuneo levigato
che poteva spaccare il firmamento
era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso
e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.

“Superiore in altezza a tutti gli altri
di quanto può esser lunga una conversazione
di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose
che non avrebbero potuto mai essere vere –
ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile

filastrocca che parla di certezza;
il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua
efficacia,

del più feroce assalto a viso aperto.
Il bastone, la sacca, la finta incoerenza
dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la
salvaguardia di se stessi.

Cogliere e scegliere

La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura
la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza
non conta quello che se ne può dire.
L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto
non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto
che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti
ma per il resto è gratificante; che James
è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere
e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione.
Il critico deve sapere quello che a lui piace:
Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”,
con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”,

Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico.

E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione.
Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente –
molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi
sul sommo di una “diligenza”!
Noi non siamo maniaci del significato,
ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati.
Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità.
Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria

e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte:
basta un comportamento elementare per metterci sulla pista.
“Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie,
è tutto quello che noi pretendiamo.

Nei giorni del colore prismatico

non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo
era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore
era bello, non per l’affinamento
di un’arte primitiva, ma per la sua stessa
originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la
nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante
del perpendicolare, semplice a vedersi e
a spiegarsi: non è
più così; né la fascia blu-rosso-gialla
di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è
anch’essa una
di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di
peculiare;
la complessità non è un delitto, ma se la portate
fino alla soglia dell’oscurità,
più nulla sarà semplice. La complessità,
poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece
di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno
come per confonderci con la tetra
illusione che l’insistenza
è la misura di ogni risultato e che ogni
verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente
la sofisticazione è quel che è sem-
pre stata – agli antipodi delle iniziali grandi verità. “Parte strisciava, parte
si accingeva a strisciare, il resto
stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul-
tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la
classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo
del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà
sommergerla, se vuole.
Sappi però che ci sarà se dice:
“Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.

Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.

Marianne Moore (St. Louis, Missouri, 1887 – New York 1972) esordì nel 1921 con Poems, una raccolta di poesie giovanili che H. Doolittle, sua ex compagna al Bryn Mawr College, e R. McAlmon s’incaricarono di pubblicare nel più stretto riserbo. Tra il 1925 e il 1929, dopo un primo successo ottenuto con Observations (1924), diresse la rivista letteraria «The Dial», divenendo uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia modernista. Spesso sospesa tra sconfinamenti fantastici e scientifica puntualità d’osservazione (noto l’eclettico bestiario cui M. dà vita nei suoi versi), la sua poesia è siglata da una cifra ironica e da un linguaggio che si fa sempre più rarefatto e compresso. Tra le sue opere più significative: The pangolin and other verse (1936); What are years (1941); Nevertheless (1944); A face (1949); Collected poems (1951 – Premio Pulitzer, National Book Award e Premio Bollingen). Oltre alle raccolte successive (Like a bulwark, 1956, trad. it. 1974; O to be a dragon, 1959; Tell me, tell me: granite, steel, and other topics, 1966), ha lasciato un volume di saggi, Predilections (1955) e un’esemplare traduzione di The fables of La Fontaine (1954). Il Complete poems of Marianne Moore è apparso nel 1967 (trad. it., in 2 voll., 1972-74).

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Testi selezionati da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951 (trad. di G. Galteri, Rizzoli, 1981)

«Avamposto» 

«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere. 

Avamposto

Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)

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