Ugo Foscolo-Nato a Zante il 6 febbraio 1778

Biblioteca DEA SABINA

Ugo FOSCOLO
Ugo FOSCOLO

Ugo Foscolo-Nato a Zante il 6 febbraio 1778
“Io non odio persona alcuna,
ma vi son uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano.”

Ugo FOSCOLO
Ugo FOSCOLO

 

Ugo Foscolo- 10 poesie

All’amata

Meritamente, però’ch’io potei
Abbandonarti, or grido alle frementi
Onde che batton l’alpi, e i pianti miei
Sperdono sordi del Tirreno i venti.
Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
In lungo esilio fra spergiure genti
Dal’bel paese ove or meni sì rei,
Me sospirando, I tuoi giorni fiorenti,
Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
Rupi ch’io varco anelando, e le eterne
Ov’io qual fiera. dormo atre foreste,
Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
Ahi, vóta speme! Amor fra l’ombre inferne
Seguirammi immortale, onnipotente.

.
Autoritratto

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
Labbro tumido acceso, e tersi denti,
Capo chino, bel collo, e largo petto;

Giuste membra, vestir semplice eletto;
Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti,
Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.

Talor di lingua, e spesso di man prode;
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
Pronto, iracondo, inquieto, tenace:

Di vizi ricco e di virtù, do lode
Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
Morte sol mi darà fama e riposo.
 .

 
In morte del fratello Giovanni

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.

.
Alla sera

Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago, a me si cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Ugo FOSCOLO
Ugo FOSCOLO

.
 .
A Zacinto

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 

Di se stesso

Perché taccia il rumor di mia catena
Di lagrime, di speme, e di amor vivo,
E di silenzio; ché pietà mi affrena,
Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
Ove ogni notte Amor seco mi mena,
Qui affido il pianto e i miei danni descrivo.
Qui tutta verso del dolor la piena.
E narro come i grandi occhi ridenti
Arsero d’immortal raggio il mio core,
Come la rosea bocca, e i rilucenti
Odorati capelli, ed il candore
Delle divine membra, e i cari accenti
M’insegnarono alfin pianger d’amore.

 

L’ultimo addio

T’amai, dunque, t’amai, e t’amo ancor
di un amore che non si può concepire
che da me solo. È poco prezzo,
o mio angelo, la morte per chi
ha potuto udir che tu l’ami,
e sentirsi scorrere in tutta
l’anima la voluttà del tuo bacio,
e pianger teco – io sto col piè
nella fossa; eppure tu anche
in questo frangente ritorni,
come solevi, davanti a questi occhi
che morendo si fissano in te,
in te che sacra risplendi
di tutta la tua bellezza…
Io muoio… pieno di te,
e certo del tuo pianto…

 

Non son chi fui

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avvanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.
Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

 

All’Italia

Te nudrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia, antiqua, infame soma.
Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua chioma.
Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste
ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.

 

Alla Musa

Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando dè miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto

questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t’invoco; ohimè! Soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! Tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.

Ugo FOSCOLO
Ugo FOSCOLO

 

Biografia di UGO FOSCOLO-Poeta (Zante 1778 – Turnham Green, presso Londra, 1827). Tra i massimi esponenti della letteratura italiana del neoclassicismo e del primo romanticismo, nella sua produzione si distinguono due linee letterarie principali: una di indirizzo romantico (i sonetti In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera, e il carme I Sepolcri), l’altra di indirizzo neoclassico (le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, e il poema incompiuto Le Grazie). Nella corrente romantica si collocano anche le Ultime lettere di Jacopo Ortis, romanzo epistolare dal carattere autobiografico; ispirata ai romanzi di J.-J. Rousseau (La nuova Eloisa) e di W. Goethe (I dolori del giovane Werther), quest’opera si può considerare il primo romanzo italiano moderno.

Vita e opere

Il nome di battesimo era Niccolò; ma sin dal 1796 alternò le firme “Niccolò Ugo” e “Ugo”. Di madre greca (Diamantina Spàthis) e di padre veneziano (Andrea), nato in un’isola greca governata da Venezia, egli riconobbe sempre in sé le due patrie, anche quando, venuta meno la libertà di Venezia, la sua seconda patria fu quella italiana. La madre, vedova, si stabilì nel 1793 a Venezia, e qui Ugo, precoce poeta e amatore (s’innamorò giovanissimo d’Isabella Teotochi Albrizzi), fu fervido propugnatore con l’azione e la poesia delle libertà proclamate dalla Rivoluzione francese (ode A Bonaparte liberatore, 1797; dello stesso anno è la rappresentazione di Tieste, tragedia di spiriti alfieriani, veementemente antitirannici). Nel 1797, deluso dal trattato di Campoformio, passò a Milano, dove conobbe G. Parini e divenne amico di V. Monti. Intensa qui l’attività di F. sia politica (1797-99), in senso ormai meno giacobino e più italiano, sia militare (dal 1799). Combatté contro gli Austro-Russi, partecipò alla difesa di Genova assediata, dove fu ferito (1800); fu poi dal 1804 al 1806 in Francia – scontento e amareggiato – ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto partecipare all’invasione dell’Inghilterra progettata da Napoleone. Ma la sua intensa attività non gli impedì una complessa vita sentimentale: s’innamorò via via, in questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di V. Monti, di Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'”amica risanata” dell’ode famosa), l’inglese Fanny Emerytt (dalla quale ebbe una figlia: Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina Mocenni Magiotti (la “donna gentile”), che lo confortò e soccorse durante il suo esilio. Fervido fu, sin dalla giovinezza, il lavoro da lui svolto di critico, erudito, pubblicista politico, poeta. Risalgono infatti a questi anni il commento dottissimo, anche se segretamente inteso a satireggiare la pedanteria, alla catulliana Chioma di Berenice (1803), l’edizione delle Opere di Raimondo Montecuccoli (1807-08), la composizione e la pubblicazione, attraverso complicati rimaneggiamenti e travestimenti, delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1802), la raccolta in volume (1803) delle odi All’amica risanata e A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e di 12 sonetti, la pubblicazione dei Sepolcri (1807). Nominato nel 1809 professore di eloquenza a Pavia, vi pronunciò la celebre prolusione Dell’origine e dell’uffizio della letteratura, e cinque altre lezioni; ma la cattedra fu subito soppressa. F. partecipò allora, con la veemenza che gli era naturale, ad aspre polemiche letterario-politiche, di cui restano documento gli scritti satirici Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici (1810), e l’Hypercalypsis, cominciata nel 1810 e pubblicata nel 1816, come opera di Didimo Chierico (v.). Rappresentata nel 1811 una seconda tragedia, Aiace, subito proibita per le sue allusioni a potenti personaggi e allo stesso Napoleone, F. lasciò Milano e dopo varie peregrinazioni si stabilì (1812) a Firenze. Qui riprese e rifece la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick di L. Sterne, già cominciata in Francia, e la pubblicò (1813); lavorò, secondo un proposito balenatogli forse già nel 1803, avvalendosi anche di frammenti prima composti, alle Grazie, che tuttavia non condusse a compimento. Tornato nel 1813 a Milano, si adoperò coraggiosamente in favore del pericolante Regno Italico. Gli Austriaci vittoriosi gli furono benevoli ed entrarono in rapporto con lui, pensando di affidargli la direzione di un giornale letterario; ma al punto di dover prestare, come gli altri ufficiali, giuramento di fedeltà, vi si sottrasse con l’esilio (1813), donando così all’Italia, come disse C. Cattaneo, “una nuova istituzione”, cioè l’esilio volontario per amore di libertà. Fu in Svizzera sino all’anno seguente, in lotta con la miseria; poi passò a Londra (e visse ad alterni periodi nel centro della città e nei sobborghi), dove fu assai bene accolto e poté sulle prime, con i grandi guadagni che gli procuravano i suoi lavori letterarî, condurre vita agiata. Qui ebbe un ultimo, ma non corrisposto, amore per Carolina Russel (da lui celebrata col nome di Calliroe); ritrovò la figlia naturale Floriana (1822), insieme con la quale visse gli ultimi anni, tristi per miseria, per l’assillo dei creditori, per malattie. Il periodo londinese – sebbene F. lavorasse anche alle Grazie e alla traduzione dell’Iliade – fu contrassegnato letterariamente da una produzione storico-filologico-critica: lo scritto Della servitù d’Italia, iniziato in Italia e steso in massima parte in Svizzera, e la Lettera apologetica, nei quali, difendendo il proprio operato, F. indaga acutamente le ragioni della caduta del Regno Italico; la Narrazione della fortuna e della cessione di Parga, critica della politica inglese, non divulgata per ragioni di opportunità; le frammentarie Lettere scritte dall’Inghilterra, di cui fa parte il Saggio d’un Gazzettino del Bel Mondo, gustose osservazioni di costume e di psicologia sociale; gli studî d’alta filologia Sul digamma eolico, Storia del testo di Omero; e soprattutto i saggi critici innovatori, sulla nuova scuola drammatica romantica, su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante, ecc. Il poeta si spense, assistito da pochi amici, il 10 sett. 1827 e fu seppellito nel cimitero di Chiswick, donde nel 1871 le ceneri furono trasportate nella chiesa di S. Croce a Firenze.

Strettamente intrecciate si presentano le vicende personali e l’attività letteraria di F., nell’immagine di lui più divulgata e attendibile. Attraverso un autobiografismo enfatico e compiaciuto, ancorché stilizzato e ridotto ad alcuni grandi motivi, F. incarna tempestivamente l’ideale ottocentesco del poeta, incline fatalmente all’eroismo e alla trasgressione (“bello di fama e di sventura”), e, solo in questo senso, appartiene davvero alla temperie culturale del romanticismo europeo. Le opere più note illustrano con didascalica nettezza la sua prepotente personalità e alludono continuamente ai dati essenziali e emblematici della realtà vissuta, ponendo l’una e l’altra sotto il segno di una passione intollerante, quella amorosa come quella patriottica e civile. Il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, sul quale lo scrittore, dopo avergli affidato la testimonianza di una precisa delusione storica e esistenziale, tornò ripetutamente nel corso di un ventennio, costituisce, con la sua vena diffusamente autobiografica, il banco di prova decisivo del personaggio Foscolo. Quando si rende conto che “altamente oprar non è concesso”, Ortis reagisce con il suicidio all’impossibilità di realizzare i suoi sogni d’amore e di libertà, fornendo un esemplare sbocco tragico all’intransigenza foscoliana e offrendola a un vero e proprio culto risorgimentale. Il personaggio non è più disperato o meno ragionevole del poeta che, messo alle strette, si risolve piuttosto all’esilio e ripiega naturalmente sulla creazione letteraria (“fama tentino almen libere carte”); ma l’identificazione tra lui e l’autore è appunto imperfetta, rinunciando F. alla diretta proiezione romanzesca del proprio Io, quale gli potrebbe consentire una vera autobiografia, pur di non rinunciare alle risorse della letteratura, al potere consolatorio della bellezza e alla tutela artistica, se non al controllo intellettuale sul proprio stesso incoercibile temperamento. Anziché ricorrere al canonico confronto con I dolori del giovane Werther di J. W. Goethe – che, prima ancora della traccia narrativa, aveva fornito al romanzo foscoliano la prova della duttilità di uno strumento espressivo capace di conciliare introspezione lirica e racconto – è dunque preferibile cercare nei dodici sonetti e nelle due celebri odi, unici superstiti della più vasta produzione rifiutata dall’autore, la conferma di come F. volesse rappresentare non sé stesso, ma la figura del poeta, già nelle Ultime lettere: un irriducibile campione dell’individualismo che nulla o ben poco concedesse alle concrete determinazioni individuali. Mentre persegue un idoleggiamento neoclassicistico della bellezza, sulla base di un’esperienza diretta dei capolavori della grecità, e trasforma questa illusione in un valore etico e gnoseologico, il poeta indulge volentieri ai forti chiaroscuri (“quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”) di un autoritratto di ascendenza alfieriana; e arriva a paragonarsi agli eroi del mito o a confessare un proprio privatissimo strazio (“Un dì s’io non andrò sempre fuggendo”, che riecheggia un celebre componimento catulliano), sempre in funzione del mito personale che vuole stabilire e del tipo universale corrispondente. Analogamente, la fedeltà alla più recente tradizione italiana, tra Parini, Cesarotti e Monti, che gli farà dichiarare “sdegno il verso che suona e che non crea” e lo persuaderà a misurarsi nell’esercizio cruciale della traduzione omerica, non esclude la ricerca di più remote e prestigiose autorizzazioni per una poesia lungamente tentata da un sogno archeologico di emulazione con gli antichi e incontentabile nel suo sforzo di perfezione. Con il carme Dei sepolcri, indicativo di una vocazione all’eloquenza complementare e forse più spontanea rispetto alla insistita ricerca dell’eleganza neoclassica, la poesia si propone esplicitamente come supremo valore di un’umanità disillusa dalla vanità del tutto (“involve Tutte cose l’Oblio nella sua notte”) e generosamente protesa alla pietosa perpetuazione (“finché il Sole Risplenderà su le sciagure umane”) della “corrispondenza di amorosi sensi” e di quant’altro può sottrarsi al fato luttuoso cui soggiace, “tranne la memoria, tutto”, secondo una coerente concezione materialistica. Senza tradursi in un improbabile atteggiamento estetistico, l’esaltazione dell’ideale poetico dovrebbe scongiurare d’altro canto il rischio che una ricerca letteraria molto più complessa si riduca a un protagonismo quasi romanzesco. Di tale complessità e problematicità, costituisce una proverbiale dimostrazione lo stato frammentario nel quale F. ha lasciato Le Grazie, da molti ritenute il suo capolavoro. I tre inni dell’incompiuto poema, intitolati rispettivamente a Venere, a Vesta e a Pallade, celebrano la missione civilizzatrice delle arti, unitariamente considerate, proponendosi come un’audace continuazione moderna della tradizione classica, arricchita di un nuovo mito e rivissuta come una dimensione dello spirito. Il significato allegorico che dovrebbe sostenere concettualmente il vagheggiamento della bellezza antica, e rappresentarne il potere conoscitivo, non riesce però a imporsi su di esso e a contenerne la tendenza alla dispersione, confermando F. poeta di “rade, operose Rime”. Antesignano della leopardiana poesia sermoneggiante, F. sembra quasi sottrarsi ad essa, preferendo l’evidenza delle sue figure mitologiche, e al limite il silenzio poetico, al discorso più articolato e eloquente inaugurato dai Sepolcri. Basta del resto considerare l’esiguità della produzione poetica in un’opera vastissima e comprensiva di tragedie estremisticamente alfieriane, mirabili traduzioni, prose narrative romanticamente ispirate o divertenti, saggi letterarî acutissimi e accesi scritti politici (come risulta dai ventitré volumi dell’edizione nazionale, avviata nel 1933 e ora quasi conclusa, uno solo dei quali contiene Poesie e carmi), per correggere ogni interpretazione unilaterale. Una singolare tensione tra la lucida consapevolezza critica e lo slancio passionale, ribadita perfino dalla materiale scissione tra lo scrittore e il fondatore dei nostri moderni studî letterarî, conferisce a F. la sua inconfondibile fisionomia; fisionomia che qualcuno ha visto emblematicamente rappresentata nell’alternanza tra un’ispirazione ortisiana e un’ispirazione didimea, riferendosi, con quest’ultima espressione, alla produzione polemica e satirica (che lo stesso F. scherzosamente attribuiva al suo nuovo alter ego, il Didimo Chierico della Notizia che accompagnava la sua traduzione del Viaggio sentimentale di L. Sterne), e più in genere all’animosità estrosa e ironica che serpeggia perfino nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Fonte-TRECCANI Enciclopedia on line