Ilde Arcelli-Poesie-Biblioteca DEA SABINA

Biblioteca DEA SABINA

Ilde Arcelli
Ilde Arcelli

Ilde Arcelli-Poesie

UTOPIA

Nell’allucinato plenilunio
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la mia gazzella muove
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leggera
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per dirupati anfratti
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a sterrare speranze sepolte
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in cui morire.
Ma quell’utopia suicida
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è sale della terra,
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è tremolante torcia
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che illumina la storia
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ben sapendone
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il cieco disamore.

NON CHIEDETEMI MAI

Respingo pregiudizi secolari,
ricevo visite, lavoro e faccio spesa,
sorsi di tenerezza dono all’albero ricco
del mio sangue e intanto fino in fondo
vivo questa morte nata con me
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(nel continuo mutamento sempre me stessa
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con le cose che amo creo la bellezza,
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con quelle in cui credo libertà)
Ma la sera una teoria di pietrose tastiere
è bersaglio dolente per me sola
mentre un’ala di gabbiano canuto
oltre le sartie ferme del tempo
mi germina infinite dimensioni
scavando guance dal gemito roco
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(non chiedetemi mai perché le scriva
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queste cose totali dissepolte
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ai margini dell’umana solitudine)
Poi il vento che scava finestre
riaccende un fumido faro
per chi — come me — rimane
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alla soglia

 

REDI IN TE IPSUM

Una traccia iridata sopra i vetri
ridendo lentamente muore —
la mia presenza non è necessaria
alla festa finale della pioggia
ma dentro qualcosa che grida
vuole uscire dal mite
vortice d’ombra: tutto questo
presente sparirà – tutto è
e si disfa — come te anima mia
che passi le vetrate
per raspare il muro —
ogni aria di ruggine o d’asfalto
al delicato fiuto fatta vana.
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Dov’è che vai — se tu stessa
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ritorni e non ti fermi
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anima sempreviva, intenerita:
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passeggia a lungo — dopo si vedrà
da MENO MALE.

 

QUASSÙ

la notte ha ormai lunghe dita
è tempo di pioggia e di vento,
nei cesti noci funghi castagne
quassù nelle case già s’accendono
fuochi e tutto muta o s’avvita
al sole sbiancato, luce di questa
stanchezza stranita dove niente
va perso, niente di lucida vita.

 

OGNI ESILIO

Nei tuoi occhi s’arrotolano gridi
ombre mobili di plenilunio ghiacciato
alberi secchi e mutilati fiori:
tu stai alle regole del gioco
e fingi d’esplorare ancora
ma altro tempo — felice —
frastorna la memoria
e già ogni esilio s’innerva
nel tuo sguardo, ogni paura antica
da LA CASA DI LIDE
«…il punto tra memoria e desiderio
si sposta, è alla deriva di un gorgo…»
(Mario Luzi)
E nel quasi-svegliarsi
nella non-consistenza
al di qua della soglia
giovane ancora pensarsi
con l’oro il riso la voglia
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non capire nel grigio
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confuso se è giorno di già
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o speranza di alba
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che neghi
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quest’altra reale
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barbarica età
«Ecco, qualcuno ci dice: sì, tu
mi entri nel sangue…
Che giova, egli non può trattenerci,
noi svaniamo in lui e intorno a lui…»
(Rainer Maria Rilke)
Per una volta entrare nell’altro
che adesso in mezzo alla strada
mi parla
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— scambiare il mio sé col tuo io
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i ricordi la pelle la bocca —
vedere le cose diverse
amarmi da fuori di fronte
però chissà se il tuo io mi va stretto
se l’occhio s’è accorto
del glicine timido sulla ringhiera
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— un universo tra plastiche stanche —
di un gatto che passa col rosso
di me che tremo per lui
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che semino idee sull’asfalto
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consumo parole nell’aria
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facendo l’amore col vento…
Ma almeno una volta più bello sarebbe
scambiare la vita aprire una porta
di un altro il sorriso sapere
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— di un’altra pietà —
LA LUCE.

 

 

NOTTURNO

«… e ci saranno strofe d’amore
che già sanno
a memoria le case»
(F. Garcìa Lorca)
Già si spensero i vetri affocati
del tramonto
nelle stradette brevi della città
ritorta verso un cielo in salita
con esili braccia di pietra
e il suo volto fasciato di silenzi
prepara asfodeli di riso notturno
tra rari lampioni e antiche ombre
Sulla fragilità del marciapiede
risuona il passo mio vagante
dietro immagini sepolte
all’arco del tempo incorruttibile:
mi perdo in questo gioco estenuante
che sempre cede il posto alle domande
(dove vita s’annida batte ora
un pipistrello cieco
come pensiero inquieto ed assonnato)

 

PARTIGIANO

Per noi
fu d’improvviso giorno
quando dal vischio uscimmo
della vergogna;
tu scendevi la notte
partigiano
alla casa sicura di cibo
ed io, bambina,
stropicciandomi gli occhi
oscuramente
ti sentivo padre
della mia libertà.
Risalivi in collina
col mitra portando
piccole lotte sognate,
velleità di vecchi e ragazzi:
altro non chiedevamo, allora,
che ritrovarci lassù
quando il gallo
frantumando la notte
altre attese brevi porgeva
e nell’aria
allegre andavano canzoni.

 

CREATURE

Sale ai ginocchi l’erba
maculata dell’inverno
mentre sotto la crosta
già striscia marzo
e l’oscura forza che affatica
la terra: lì crepita il bulbo,
si ramifica in figli
che nasceranno deboli
come quelli umani.
Perduto nei millenni il cielo
— il cielo che ogni cosa
fa piccola quaggiù —
solo la terra ha voce
le sue creature storte
un po’ contuse dentro: eppure
qualcosa canta piano — adesso —
nel cuore che sa,

 

FOSSILI

Un fossile chiuso dentro l’ambra,
la nenia dei secoli
— era vita, la sua, lanceolata,
e adesso è pietra —
la luce liquida perduta
per tutto quel tempo — lunghissimo, nero —
che t’ha salvato, fossile buono
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(anche un po’ fortunato)
al riparo dall’acqua
che cresceva nei pozzi
L’ho dentro
il tuo odore di aria remota,
letizia scampata all’inferno:
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tu – fatto pietra –
ora duri per sempre
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io quale impronta
di me nemmeno una foglia
Io nei secoli senza mai rivedermi.

 

GENESI

in noi una strana terra di nessuno
che protegge le idee, le emozioni:
qui aspettano a lungo la parola bella
che le affranchi, ma quale lingua diversa,
misteriosa, lì si dipana o si aggruma,
quale respiro di libertà e di nascosto
fuoco dilaga all’improvviso…
Nasce un linguaggio nuovo,
inaspettato o forse addirittura altro
che per un attimo almeno
attinge alla tua umanità e ti porta
lontano dall’ottusa gravità
della materia, dell’avere, del tempo:
tutto questo forse un giorno
si chiamerà poesia.

 

L’ASSENZA

multiforme l’assenza dona
incertezze, scava vuoti
di senso, moltiplica falsi
legami, corre, dio, come corre
la gente verso la calaverna
che brucia col gelo la terra
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eppure è qui il nostro posto
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— ieri un amico mi ha detto —
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il mondo ha tanto bisogno
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dei resistenti dell’anima

IL BRIVIDO

Luce di marzo
che gioca su di te,
strade di luce
calpestate dal sole
ed io impotente appendice
presa dall’ombra.
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Nel lago mansueto dei tuoi occhi
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si specchiano mille ipotesi d’amore,
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preludi di parole indugiate
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al brivido breve che mi coglie
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sapendo che addosso ho solo
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la povertà di me stessa.

 

INQUIETUDINE

Troverò un quieta landa
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dove posare finalmente il cuore,
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errante falco inassuefatto
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ai deserti di livida arenaria:
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dal madido profondo allora
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ti parlerò di me, della ricerca mia
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ostinata e dei prati d’astri
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sfiorati nel lungo andare solitario.
Troverà un senso infine
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la mia presenza umana tra miliardi
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sotto le fredde stelle inaccessibili,
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quando mi specchierò appagata
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nel piccolo fondo d’un bicchiere
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che intera conterrà la mia inquietudine
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placata da un amore senza fine.

 

 

LO SPECCHIO

lo specchio ingoia tutto fedelmente
non lo sapevi che non ha pietà:
ti sei fatta cassa di risonanza
per ogni dolore, nodo dell’umanità
e adesso specchiarti non ti piace?
Quel filo d’aria fredda che t’insegue
negli anni t’ha reso un Amleto
un po’ triste un po’ rabbioso,
un’anima che cerca la sua anima
se fuori della porta latrano voci

 

LA MIA CITTÀ

Pronta di pietre
alte in tramontana
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(un balzo – quasi – e spazio)
cuore rupestre del vento roditore
e poi lampioni rari
– stelle fanè in vetrina –
e dita d’erbe/d’aria
che sulle case ricamano sudari;
il sole si ricerca nei cortili
sopra il muschio dei pozzi scardinati
tra gente che quieta tesse vita
e pianamente parla – in ironia –
L’anima vecchia della mia città
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(confine e verde e vita)
con le sue mura sapide, con gli archi
– ventagli stretti al cielo –
lega l’ossame etrusco ai nostri giochi
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(acqua passata per le sue fontane)
e nei vicoli occhiuti di balconi
tra i grilli addormentati sui gerani
le mie corse rubate al primo bacio
Poi tutto vola – sai – ma lei traspare
e di noi vibra, della nostra vita
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(le occhiaie della storia, che ferita)

LA FOLLIA

Libero va, consegnato all’ignoto,
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il pensiero sinuoso
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per giochi alienanti
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tra bianchi fogli da riempire
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ed agavi riemerse dall’inconscio.
C’è forse una speranza che resiste
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a quest’oltraggio estremo:
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qualche ombra di un’età sconfitta
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stampata sul muro del ricordo
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come un glicine riverso
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sulla ringhiera di ferro arrugginito.
da D’AMORE E D’ALTRO

 

LA QUIETA COLPA

Angoli acuti, spigoli,
asettici fonemi,
occhi che fuggono
su labbra sibilanti,
paura di specchiarsi
nella gemella freddezza
da obitorio
del vicino.
Proibito ridere di niente,
leccarsi le ferite
apertamente,
proibito essere veri
nella lebbra scura
del conformismo.
La mia quieta colpa
è la difformità
dell’innocenza.
da POSTILLE AL NECESSARIO

 

NOI QUI

noi qui sepolti nel dubbio
davanti alla triste demenza
del male, qualcuno tenta
col mistero del Dio dell’amore
ma non vuol dire grazie
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unito alle voci infinite
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che al male dicono no,
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chiuse nel disperato pensiero
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ieri oggi sempre, nei secoli
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dei secoli…

 

LA DISSENNATA ASSENZA

Le ali vischiose dei ricordi
le loro dita di gelo e cenere
e mille idee
ferme sul foglio bianco:
ti pare poco dilapidare qui
le tue memorie — la dissennata
assenza che ti sfratta.
Lava questo presente dal ricordo
della lontana vita
troppo presto fuggita —
ora parvenza e sogno
di tutto quanto è stato.
È solo cosa tua
non l’ospita la storia — meglio
allora come un vecchio cane
sciogliere il cappio molle
dei ricordi: vedi, le rondini
oggi svegliano il cielo
il sole cresce, scorre per casa
ancora qualche dolce cuore
entra uno sciame d’aria —
è la fiamma d’un giorno
un sorso lungo.