Agata Cesario-Poesie-Biblioteca DEA SABINA

Biblioteca DEA SABINA

Agata Cesario
Agata Cesario

Le Poesie di Agata Cesario

 

Madre della Croce

Al canto del gallo

si sono voltati a guardare

chi aveva tradito.
Le ombre degli ulivi raccolti
si strinsero in un tenero abbraccio.
Le madri raccoglievano i figli
cantavano ancora le nenie,
melodie sepolte nella casa di pietra
che lo vide fanciullo.
“Non lo abbiamo visto passare”
Risposero in coro.
I sassi arroventati
sopportavano i gemiti.
Pronta la madre raccoglieva
le lacrime ed il sangue.
Fu un lungo patire
quando il tempio squarciato
gridava vendetta.
È lontano il tempo
che, tu, madre,
salisti il Calvario:
la strada è un lungo lamento,
c’è chi inciampa per l’ultima volta,
chi cerca orizzonti troppo lontani,
chi s’abbandona agli angoli, stanco.
Ma vedremo qualcuno seguirci per via?
Tenendoci per mano
vinceremo il furore
e ti faremo ghirlande
con i fiori sparsi
sul nostro cammino.

Canterò per te

Canterò, canterò per te
mio piccolo sole
tutta l’allegria del bosco
e i viaggi di bianchi aironi.
Ti farò la giostra
e ti condurrò
su cavalli alati.
Volerò, volerò per te
sui colli che non
hanno sera,
ti porterò canzoni
sulle ali del vento.
Ti darò la mia fantasia
e lunghe vette di luce
e la storia dei secoli
e la mia vita d’eterno.

 

“Amicizia”

Dimmele le tue paure,
posso prenderti per mano
e condurti dove le nebbie
non s‟alzano nemmeno
e su noi gli alberi
non hanno che cime;
ti conduco dove il passo mio
si fa più vicino al tuo;
non sentiamo altro
che questo nostro andare
senza orizzonti.

 

D’Estate

La notte è chiara
le nebbie che ci coprivano
il giorno appaiono disperse,
il cielo si svela
senza stanchezza,
l’uccello notturno
non sa più cantare.

 

“Non vorremmo”

Noi resteremo qui
ad ingaggiare primavere
piene di vento.
Non vorremmo altro spazio
che il nostro,
non vorremmo altro tempo
che quello per resistere
agli orrori.

 

“Come un’alba novella”

Se un fiore muore
non pensare alla vita
che si è spenta
ma a quella
che vive
nel bocciolo
del suo stelo.
Se una stella di notte
cade nel buio
non pensare alla luce
che si è spenta
ma a quella che brilla
di molte
fiammelle.
Se guardi un tramonto
non pensare ad un giorno
passato
ma a quello che sorgerà
domani
come un’alba novella.

Agata Cesario
Agata Cesario

 

Fonte- L’altroquotidiano.it

Dall’antico dolore all’estremo spiraglio

A cura di Francesco Sisinni

Ricordo di Agata Cesario, che dedicò alcune sue poesie alla Madonna.Nelle sue rime parlò spesso di fede e di speranza, nonostante le sofferenze di un brutto male,che ne causò la morte il 16 maggio 1989

 Agata Cesario resta nel cuore e nella memoria di molti, ricordata ogni anno a Cellara (Cosenza) paese dov’è nata e dove una piazza è intitolata al suo nome: “insigne poetessa cellarese” recita la dedica scolpita nel marmo.
Su iniziativa del Sindaco, la piazza è stata inaugurata l’anno scorso quando ci fu una grande festa in onore di Agata, quella che Pino Nano, in un lungo messaggio inviato, ha definito “la festa di A-gata e della sua famiglia”. Una cerimonia intima, scandita dai ricordi personali e dalle testimo-nianze di chi ha frequentato Agata, non solo insegnante, vista anche come “animatrice” della comunità con la quale amava confrontarsi e che la chiamava per iniziative in campo religioso come in campo sociale. Potremmo forse sintetizzare così il senso del suo percorso, racconta il fratello Giacomo, giornalista, presente alla messa in ricordo officiata a Roma dal cardinale Raffaele Fari-na, e che ora affida la recensione della nuova edizione del libretto di poesie “Spazi infiori-ti” (1981) al prof. Francesco Sisinni, una delle figure di spicco della cultura italiana, docente alla Lumsa e già direttore generale per i beni librari al ministero dei Beni culturali. Fu nominato da Giovanni Paolo II membro della pontificia Commissione per i beni culturali ecclesiastici.
Il testo, che qui di seguito si riporta, penetra fin nel fondo dell’anima di una poetessa che, confessa Sisinni, mi è familiare e che avevo quasi perduto di vista. Poesie datate 1981, ma in realtà senza tempo, che hanno sempre qualcosa da dire, “da leggere”.

Comprendere un’opera d’arte, ovvero, saperla leggere ed interpretare è certamente un fatto di cultura, connesso com’è alla disponibilità di un’accorta, quanto avanzata metodologia ermeneutica. E, tuttavia, intelligerla, ovvero indagarla ontologicamente, oltre e più che semanticamente, è soprattutto un fatto di empatia, che misteriosamente consente l’immedesimazione del Lettore nell’Autore, proprio nel momento creativo dell’opera stessa: Poiesis.
L’ovvietà di siffatta riflessione, che, come noto, rinvia alla vasta produ-zione estetica e linguistica, da Baumgarten a Croce, da Panofsky ad Heidegger, non delegittima, comunque, assumerla come premessa essenziale, là ove, come qui, rileva il debito di lettura alla capaci-tà empatica, appunto.
Dunque, un’esperienza di vita breve, ma intensa – quella di Agata Cesario – che distillata in grumi di poesia, è stata appena sospinta dal timido soffio dell’affetto fraterno tra le mie carte e miei libri ed ora è qui perché anch’io, più che la conosca, l’ascolti, anzi la senta, tra gli echi ineludibili di una terra a-vara e bella, cui han prestato voce innumeri scrittori e poeti anche del nostro tempo, dal calabrese Corrado Alvaro a Giuseppe Berto, che calabro non era.
E così ho letto e riletto questa silloge “spazi infioriti” , che si accredita, anzitutto, con la semplicità accattivante di una edizione essenziale, ove le liriche, 35 (se si esclude quella fuori testo: “Come un’alba novella”), si presentano a mo’ di palinsesto, che ti invita ad attraversarlo, scandagliandovi non evi, ma eventi, anzi stati d’animo che, coinvolgendo, trascinano fino all’ultimo fondale di quel mare profondo, che è l’anima, là ove nascono le memorie, senza tempo!
“Senza tempo”, come recita l’incipit della raccolta e proprio come insegna Agostino nelle sue Confessioni, giacché il tempo, come realtà, non è e se ne parliamo e lo misuriamo è solo per-ché esso appartiene all’anima, ove il passato è memoria, il futuro è attesa e il presente è attenzione.
Or è che da questo fondale senza tempo, solo poche sillabe si fanno paro-la e solo alcune parole, emergendo in superficie, tra macchie ed abrasioni, rivendicano senso: Nebbia; Paesaggio intimo ed esterno (la madre, il padre, il paese); Dolore; Nostalgia; Fede.
La nebbia, che ricorre ripetuta-mente nei versi della Cesario, non è un ingrediente di pittura surrealista, ma è piuttosto una presenza che ingombra l’assenza: divora, copre, vagheggia, eppure vela e rivela.
E là ove appena si dissolve, ecco apparire quel nostro piccolo mondo antico, la cui storia, uguale per tutti, diversa per ciascuno, pensavi di aver consegnato per sempre a quel lontano commiato sofferto e che, invece, ti porti dentro, ineludibilmente ovunque, sempre!
Ed ecco le note di nenia struggente, che ridisegnano su orizzonti improbabili gli occhi ostinatamente comprensivi della madre, mentre girandole e fiammelle, inventate per un giorno di festa dal padre, inutilmente si rincorrono nel caleidoscopio delle immagini cangianti, ove tutto fugge … e ritorna: le case di pietra, il dedalo dei vicoli, i vecchi balocchi, riproposti, sublimati, dalla pungente nostalgia.
La nostalgia! Certo la Cesario ha pensato a Plotino, giacché conosce bene questo sentir sottile e inquietante, che i moderni chiamano malinconia. Ma la sua poesia non è epica e perciò non ha bisogno né del mito di Ulisse, né del profeta dell’eterno ritorno. La sua è il rimpianto di un Eden perduto, fatto di piccole cose, ma, anche di “grandezze non comprese”.
Di qui “l’antico dolore”. E già, perché questo libretto è umido di lacrime non piante. È un dolore che non grida, ma singulta quello che è “stanco di passare sulla consueta strada”. Non infinito, come nello Schopenhauer, né cosmico, come nel Leopardi ma, semplice-mente esistenziale, connesso alla problematicità della storia, contro cui s’erge la sfida, né può spegnersi “l’ansia di rag-giungere l’estremo spiraglio”.
Ed ecco, perciò, finalmente la Fe-de: la fede, unica alternativa, come avverte Kierkegaard, alla disperazione. E perciò, dalla strada insanguinata del Calvario, giunge alto il suo grido: “Non abbandonarmi Signore” giacché tu sai “la paura dei miei giorni”; “Donami pace e consolazione”, perché tu sai che “sono priva di tutto”.
Solo la fede, infatti, può far spera-re in un domani “Come un’alba novella”: poesia, fuori testo, questa, che si può leggere come “postscriptum” della presente silloge, ma anche e meglio, come introduzione di quella, qua e là annunciata, ma che Agata non ha avuto il tempo di lasciarci.

A cura di Francesco Sisinni

Agata Cesario
Agata Cesario