Benedetto XVI – Via Crucis al Colosseo – 22 aprile 2011““Ma guardiamo bene quell’uomo crocifisso tra la terra e il Cielo, contempliamolo con uno sguardo più profondo, e scopriremo che la Croce non è il segno della vittoria della morte, del peccato, del male ma è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio, di ciò che non avremmo mai potuto chiedere, immaginare o sperare: Dio si è piegato su di noi, si è abbassato fino a giungere nell’angolo più buio della nostra vita per tenderci la mano e tirarci a sé, portarci fino a Lui”.
Crocifissione –Opera di Andrea MANTEGNA
Museo del Louvre
DESCRIZIONE:
La Crocifissione è divisibile in due registri: uno inferiore, dove si trovano i soldati, il gruppo delle pie donne, san Giovanni e altri spettatori, e uno superiore, dove si trovano i tre crocifissi sullo sfondo del cielo terso, che si schiarisce verso l’orizzonte. Alla fiera sopportazione del dolore di Cristo fanno da contraltare le espressive pose contorte dei due ladroni. La scena mostra la comprensione delle opere di Donatello, con la profonda penetrazione psicologica dei personaggi (si pensi allo straziante dolore di Maria) e con l’effetto di rappresentazione casuale della vita sotto i nostri occhi, con la presenza di comparse come i due personaggi dimezzati in primo piano, che sembrano colti di sorpresa nel loro passaggio casuale. La profonda partecipazione dei personaggi ricorda anche le opere di Rogier van der Weyden, che Mantegna aveva probabilmente visto a Ferrara. Numerosi sono i dettagli di grande valore, dalla città sullo sfondo, rappresentazione ideale di Gerusalemme, alle guardie che si giocano a dadi la veste di Cristo, su un tabellone colorato di forma circolare. I teschi, che si vedono di lato e sotto la croce di Cristo, ricordano l’inevitabilità della morte.
-Cristo Morto-
–Opera di Andrea MANTEGNA Pinacoteca BRERA
DESCRIZIONE:
L’iconografia di riferimento per l’opera è quella del compianto sul Cristo morto, che prevedeva la presenza dei “dolenti” riuniti attorno al corpo che veniva preparato per la sepoltura. Cristo è infatti sdraiato sulla pietra dell’unzione, semicoperta dal sudario, e la presenza del vasetto degli unguenti in alto a destra dimostra che è già stato cosparso di profumi. La forte valenza sperimentale dell’opera è confermato sia dall’uso della tela come supporto, ancora raro per l’epoca, e dall’uso potente e invasivo dello scorcio prospettico, accompagnato a una sorprendente concentrazione di mezzi espressivi. Mantegna strutturò la composizione per produrre un inedito impatto emotivo, con i piedi di Cristo proiettati verso lo spettatore e la fuga di linee convergenti che trascina l’occhio di chi guarda al centro del dramma. A sinistra, compressi in un angolo, si trovano tre figure dolenti: la Vergine Maria che si asciuga le lacrime con un fazzoletto, san Giovanni che piange e tiene le mani unite e, in ombra sullo sfondo, la figura di una donna che si dispera, in tutta probabilità Maria Maddalena. Pochi accenni rivelano l’ambiente in cui si svolge la scena: a destra si vede un tratto di pavimento e un’apertura che introduce in una stanza buia. Il forte contrasto di luce, proveniente da destra, e ombra origina un profondo senso di pathos. Ogni dettaglio è amplificato dal tratto incisivo delle linee, costringendo lo sguardo a soffermarsi sui particolari più raccapriccianti, come le membra irrigidite dal rigor mortis e le ferite ostentatamente presentate in primo piano, come consueto nella tradizione. I fori nelle mani e nei piedi, così come i volti delle altre figure, solcati dal dolore, sono dipinti senza nessuna concessione di idealismo o retorica. Il drappo che copre parzialmente il corpo, contribuisce a drammatizzare ulteriormente il cadavere. Un particolare che sorprende è la scelta di porre i genitali del Cristo al centro del quadro; scelta che è aperta ad una moltitudine di interpretazioni. Secondo altri studiosi il ritratto con la prospettiva “di scorcio”, che suscita la sensazione del collo e della testa staccati dal resto del corpo, simboleggerebbe il valore redentivo che la fede cristiana attribuisce al Sabato Santo, al Santo sepolcro e alle Quarantore: nell’arco di questo periodo temporale, Gesù Cristo sarebbe contemporaneamente morto come uomo e vivo in quanto Dio.
Il 13 aprile 1204 è la data del “più grande saccheggio dalla creazione del mondo”: il sacco di Costantinopoli da parte delle truppe crociate alleate di Venezia. Una ferita che ha segnato per secoli i rapporti tra il mondo cristiano cattolico e quello ortodosso.Costantinopoli, la grande città di civiltà cristiana, inespugnata dai tempi di Costantino il Grande, non fu conquistata dagli arabi o dai “pagani” ma da un esercito di crociati.
La razzia che ne seguì fu senza precedenti. Geoffroy de Villehardouin, che pure era l’apologeta della spedizione, ricordò quel 13 aprile 1204 come “il più grande saccheggio dalla creazione del mondo”. Così, poco più di ottocento anni fa, naufragò l’Impero Cristiano Bizantino e prese corpo l’Impero Latino d’Oriente.
La Quarta Crociata, nata con lo scopo di liberare Gerusalemme, mise invece a ferro e a fuoco e sfregiò in modo indelebile la multietnica capitale che l’imperatore romano Costantino aveva fondato nel 330 sul luogo dove prima sorgeva la mitica Bisanzio.
La città fu orribilmente devastata, depredata delle sue immense ricchezze e mutilata di innumerevoli opere d’arte. Nulla fu risparmiato. Per tre giorni, le atrocità, gli incendi, i delitti e le torture si moltiplicarono, in uno scenario apocalittico.
I crociati conquistano Costantinopoli (Gustave Doré)
I testimoni dell’orrore Niceta Coniata, già segretario del basileus Isacco, testimone oculare dei fatti, raccontò con parole disperate, mescolate alle preghiere, la ferocia di quelle ore: ”Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e, anche se il suo fianco non è stato trafitto dalla lancia, il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”.
Il cronista bizantino parlò inorridito dei “precursori dell’Anticristo”. E annotò che perfino i musulmani erano “umani e benevoli” in confronto agli invasori occidentali, che pure “portavano la croce attaccata sulle spalle”.
Il metropolita di Efeso Jean Masaritès ripercorse con angoscia il furore di “guerrieri sconsiderati, arcieri, cavalieri, portatori di gladio che respiravano l’omicidio”. Ugo di Berzé, poeta e cavaliere, protagonista della spedizione, evocò con vergogna il ricordo dei crociati dimentichi delle vera fede.
Ernolfo scrisse che i francesi “entrarono a Costantinopoli con i colori di Dio e dentro la città indossarono quelli del demonio”.
Molto più indulgente appare il racconto di Geoffroy de Villehardouin, che dopo la crociata divenne Maresciallo di Champagne e di Romania. La sua “De la Conquête de Constantinople”, il più antico testo di prosa narrativa in lingua francese, è la fonte principale dell’evento. Con uno stile elegante ripercorre la vicenda dei comandanti crociati “costretti” dalla perfidia dei Greci a togliere l’impero e le sacre reliquie dalle mani degli scismatici imperatori, per farne dono alla Santa Romana Chiesa.
Roberto di Clari, piccolo cavaliere della Piccardia, descrisse l’umore dei “poveri” cavalieri, appena un anno dopo la conquista di Costantinopoli, quando tornarono nei loro miseri feudi francesi, con un bottino irrisorio, consapevoli di essere stati truffati dai “grandi signori” che dovevano guidarli alla liberazione della Terrasanta.
Mappa di Costantinopoli (1422) del cartografo fiorentino Cristoforo Buondelmonte
Il sogno della conquista Per i cittadini dell’Impero d’Oriente Costantinopoli era semplicemente la “Polis”, la città per eccellenza. Come se non ce ne fosse un’altra in giro degna di tale nome. Gli abitanti della metropoli si sentivano i soli, legittimi eredi di Roma. Chiamavano se stessi Romani e con lo stesso nome venivano appellati dagli altri popoli.
A imitazione della Città Eterna, la metropoli era stata edificata su sette alture e divisa in quattordici “regiones”. Nel dodicesimo secolo la città attirava mercanti, pellegrini e viaggiatori da ogni parte del mondo e contava 250.000 abitanti a fronte dei quasi 70.000 di Roma. Il Bosforo, la stretta vena d’acqua che segna la linea del confine tra l’Asia e l’Europa, era una irresistibile calamita per i popoli e le merci.
In Occidente l’avversione verso Bisanzio era cresciuta in modo progressivo a partire dallo scisma ecclesiastico del 1054 e con l’inizio delle Crociate.
L’idea di una conquista armata di Costantinopoli aveva già sfiorato i cavalieri francesi al seguito di Luigi VII durante la seconda, fallimentare spedizione in Terrasanta.
Federico Barbarossa accarezzò l’idea nel 1190, quando ottenne il passaggio nella capitale bizantina nella sua marcia verso i luoghi del Santo Sepolcro.
Suo figlio, Enrico VI, ne fece invece un perno della sua politica di conquista. Soprattutto attraverso il matrimonio del fratello Filippo, l’ultimo erede maschio del Barbarossa, con Irene, la figlia dell’imperatore Isacco II Angelo.
Alessio IV Angelo, Biblioteca Estense Universitaria di Modena
La debolezza e le ambiguità della dinastia regnante a Costantinopoli non fecero che aggravare la situazione. Nel 1195 Alessio Angelo, il fratello di Isacco II, si fece acclamare imperatore dalle truppe, quando il basileus era lontano dalla capitale, impegnato in una battuta di caccia. L’imperatore tornò in catene a Costantinopoli. Poi fu accecato e imprigionato dentro una torre.
Enrico VI, in nome della cognata Irene e di suo fratello Filippo ebbe allora l’occasione di presentarsi come il protettore della famiglia reale detronizzata da un vero e proprio “colpo di Stato”. Alessio III, impaurito dalle sue minacce, tentò in ogni modo di calmarlo. Ci riuscì, per poco, diventando, di fatto, un vassallo del Sacro Romano Impero: si impegnò infatti a versare ogni anno all’imperatore svevo 1600 libbre d’oro. In tutte le province orientali venne imposta una speciale tassa, che la popolazione, vessata da tempo da ogni genere di imposte, chiamò “alamanikon”. Una tassa “tedesca” di scopo: soldi in cambio della pace. Alessio III arrivò a far aprire le tombe degli imperatori nella chiesa dei Santi Apostoli per privare le auguste salme degli ornamenti d’oro. Ma nemmeno questo bastò per raggiungere la stratosferica somma richiesta dall’imperatore svevo.
La situazione sembrava precipitare. Il piano di conquista di Costantinopoli era ben vivo, in attesa di una nuova crociata. Ma nel settembre del 1197, a soli 32 anni, Enrico VI morì per una infezione intestinale. A Costantinopoli la notizia venne accolta con entusiasmo, anche perché portò con sé, come conseguenza diretta, l’abolizione dell’odiato balzello.
Alessio III, rinfrancato dalla scomparsa, dimenticò i suoi balbettii diplomatici e addirittura propose al papa una alleanza tra “l’unica Chiesa e l’unico Impero”, che il vicario di Cristo lasciò cadere nel vuoto.
Innocenzo III, ritratto nel Sacro Speco di Subiaco
L’appello di Innocenzo III Sul soglio di Pietro, nel frattempo, era salito un personaggio di grande carisma: il coltissimo e austero Innocenzo III (1161–1216). Il nuovo papa si fece intronizzare il giorno del suo 37º compleanno. Fu il primo pontefice a utilizzare uno stemma personale. Si ispirava alle concezioni teocratiche di Gregorio VII. Con lui, il capo supremo e riconosciuto della cristianità occidentale non era più, come fino a pochi anni prima, l’imperatore. Ma il papa.
Per Innocenzo, il potere spirituale era superiore a quello temporale, “come il Sole alla Luna” e come l’anima al corpo. Il ruolo del vicario di Cristo, detentore della “plenitudo potestatis”, era “a metà strada fra l’uomo e Dio, al di sotto di Dio ma al di sopra dell’uomo”. E quindi a lui era affidato “il governo non solo della Chiesa universale ma di tutto il mondo”.
Appena qualche mese dopo la sua elezione, il 15 agosto 1198, Innocenzo III emanò una enciclica con la quale incitava i cattolici alla riconquista di Gerusalemme. Nessun sovrano rispose all’appello. Riccardo I d’Inghilterra “Cuor di Leone”, fresco vincitore della guerra contro Filippo II, morì pochi mesi dopo, mentre assediava un castello. E il re di Francia, colpito da l’interdetto del papa dopo il ripudio della moglie Ingeburge di Danimarca, non poteva essere disponibile.
Dissero no anche molti principi tedeschi, nemici giurati del pontefice. Così, l’idea della Quarta Crociata cominciò a prendere forma soltanto nel 1199, in seguito alle appassionate prediche di un curato della Marna, Folco di Neuilly.
Il progetto trovò i suoi primi sostenitori tra alcuni nobili francesi, in occasione di un torneo cavalleresco, organizzato dal conte Tebaldo III di Champagne a Écry-sur-Seine, nelle Ardenne. L’arruolamento non era del tutto disinteressato. Tebaldo, che aveva appena 22 anni, era il fratello di Enrico di Champagne, che due anni prima era precipitato da una finestra a San Giovanni d’Acri dopo aver sposato Isabella di Gerusalemme, legittima titolare del trono gerosolimitano. Con il nobile e ardimentoso cavaliere, aderirono alla crociata anche suo cognato, il conte delle Fiandre Baldovino IX e suo cugino, il conte di Blois, di Chartres, di Châteaudun e di Clermont.
Alla vigilia della partenza, Tebaldo morì all’improvviso, lasciando ai crociati tutte le sue sostanze. Capo della spedizione diventò allora, per acclamazione, Bonifacio di Monferrato.
Crociati all’assalto. Frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna
L’ingaggio capestro I crociati decisero di raggiungere la Terrasanta via mare. Scartate Marsiglia e Genova, scelsero di appoggiarsi a Venezia, che per ironia della sorte, aveva appena chiesto al papa di essere dispensata dalla spedizione verso il Santo Sepolcro per non compromettere i suoi commerci con l’Egitto.
Ma Enrico Dandolo (1107-1205) doge ultranovantenne e quasi cieco, cambiò idea in fretta e concluse con i capi della spedizione crociata un incredibile ingaggio: per 85.000 marche imperiali d’argento (due volte le entrate annuali del re di Francia) i veneziani si impegnarono a costruire le navi sufficienti al trasporto di 4.500 cavalieri con i loro cavalli, 9.000 scudieri e 20.000 fanti. Il doge assicurò anche i rifornimenti di vettovaglie necessari e promise di partecipare all’impresa con ben cinquanta navi da guerra della repubblica marinara in cambio del 50 per cento del bottino della conquista.
Ma alla data prevista per la partenza, nell’aprile 1202, a Venezia si presentarono soltanto diecimila uomini: il denaro raccolto non bastava a coprire le spese di trasporto, calcolate per quasi 35.000 persone.
Dandolo, da buon commerciante, ricordò ai cavalieri crociati che un contratto è un contratto. E i veneziani si rifiutarono di prendere il mare. La situazione però si fece presto insostenibile: i crociati, accolti all’inizio con grandi feste, ora bivaccavano al Lido. L’esercito di armati fomentava disordini e nervosismi. L’impresa rischiava di abortire.
Ma a quel punto il doge fece una proposta che i crociati non erano più in grado di rifiutare: i cavalieri, i fanti e gli scudieri potevano pagare il loro debito “monstre” di 34.000 marchi lavorando per Venezia. Facendo quello che meglio sapevano fare: la guerra. Ma contro Zara, la città dalmata ribelle alleata del re d’Ungheria che Venezia non riusciva a piegare. Poi la spedizione si sarebbe diretta, come previsto, in Terrasanta. Il particolare che Zara fosse una città cristiana e che il giuramento crociato vietava espressamente la lotta fra cristiani non fermò il progetto.
Certo, ci furono proteste e altre defezioni. Ma il grosso dell’esercito si adeguò alle circostanze. E a ottobre una flotta di duecento navi con a bordo trentamila soldati dei quali più di ventimila erano veneziani, levò le ancore. Sulla imbarcazione che guidava il lungo corteo, c’era anche Enrico Dandolo, crociato a 95 anni e vero regista politico dell’impresa.
Nave con marinaio che suona il corno durante la IV crociata (foto Alinari)
La croce e i commerci Zara fu conquistata e rasa al suolo, anche se la popolazione aveva appeso i crocifissi sulle mura delle case. Molti abitanti vennero trucidati. I francesi, scontenti del bottino, si resero protagonisti di una sanguinosa guerriglia contro i soldati veneti. Così le strade si riempirono anche dei cadaveri degli invasori. Alla fine di novembre, sulla testa dei crociati arrivò pure la scomunica del papa, furente per l’oltraggio fatto al re cattolico d’Ungheria e ai cattolicissimi croati.
L’intoppo fu presto superato. I crociati francesi e tedeschi riuscirono, seppure a fatica, a farsi togliere la scomunica. I veneziani invece, non se ne preoccuparono. Perché allora, come scrisse lo storico e filosofo statunitense Will Durant (1885 –1981) “il commercio teneva dietro alla croce, e forse era anzi la croce ad essere guidata dal commercio”.
L’idea fissa di Dandolo era un’altra: approntare una spedizione contro Costantinopoli, la città che ormai danneggiava i commerci di Venezia, nonostante i quasi sessantamila mercanti italiani che vivevano stabilmente sul Bosforo. Tra l’altro, trenta anni prima, nella grande metropoli, membro di una ambasceria, il doge era stato coinvolto in una rissa, era stato imprigionato e aveva quasi perso la vista. Ma i risentimenti personali contavano poco di fronte alla “real politik”.
L’occasione arrivò quando tra le macerie di Zara piombò il principe Alessio Angelo, figlio del basileus Isacco II, deposto e accecato dal fratello Alessio III. Il giovane era riuscito a fuggire dalla prigione dove era rinchiuso insieme a suo padre. E ora, dopo un incontro infruttuoso con papa Innocenzo III, con il determinante aiuto di suo cognato, Filippo di Svevia, chiedeva ai crociati di rimetterlo sul trono di Costantinopoli. In cambio, prometteva ai crociati e ai veneziani, il pagamento dei 34.000 marchi che Venezia doveva ancora riscuotere e un altro aiuto concreto: diecimila cavalieri dell’esercito bizantino che sarebbero serviti a portare a termine la progettata conquista di Gerusalemme. L’erede al trono si impegnava anche a lasciare in Terrasanta 500 cavalieri. E oltretutto ventilava una riunificazione della Chiesa d’Oriente con quella di Roma.
Dandolo e Bonifacio persuasero la truppa. E nel maggio del 1203 a Corfù venne firmato l’accordo che certificava la deviazione della crociata.
La flotta arrivò davanti a Costantinopoli il 24 giugno. Meno di un mese dopo, il 17 luglio 1203, la città cadde, nonostante la strenua difesa di una guardia scelta di seimila soldati vichinghi, che da quasi due secoli era responsabile della difesa della capitale. Alessio III fuggì con i gioielli della corona. Suo fratello Isacco II, seppure cieco, fu rimesso sul trono, insieme al figlio Alessio IV, autore del rocambolesco accordo con i crociati.
Il giovane principe si trovò presto in una difficile situazione: da un lato non era in grado di mantenere le mirabolanti promesse fatte ai capi della spedizione crociata. Dall’altro, i bizantini lo accusavano di essere ricattato dai Latini che bivaccavano accampati sotto le mura della città.
Alla fine di gennaio la popolazione si ribellò. Nella rivolta, Alessio IV perse il trono e la vita. Qualche giorno dopo, anche suo padre morì in prigione. Alessio V Ducas Murzuflo, esponente di punta del partito antilatino e genero di Alessio III diventò imperatore.
Folco da Neully predica per la Quarta Crociata
Il grande bottino All’alba del 13 aprile 1204, dopo avere minuziosamente patteggiato con Venezia la spartizione del bottino, i crociati entrarono nella “regina di tutte le città”. I crociati attaccarono dopo aver ricevuto l’assoluzione. Il saccheggio sembrò infinito anche agli stessi protagonisti dell’impresa. I grandi signori si impadronirono in fretta dei palazzi più ricchi e dei conventi.
Baldovino scrisse al papa il suo resoconto: “Viene presa una innumerevole quantità di cavalli, di oro e di argento, di sete, di vesti preziose e di gemme e di tutto ciò che tra gli uomini è elencato tra le ricchezze. Viene trovata una tale immensità di abbondanza che non pareva possedere l’intera Latinità”.
Gunther di Pairis annotò che “tutti improvvisamente da poveri e stranieri che erano divennero ricchissimi”.
La città era sotto choc. Lo storico Fernand Braudel nel volume “Lezione di storia” paragonò Costantinopoli a un coniglio “pelato vivo” dai conquistatori.
La cupidigia della razzia fu spiegata con vivide parole da Roberto di Clari: “Dacché il mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né così magnifici, né così ricchi, né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto a mia conoscenza, che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quanto se ne trovarono a Costantinopoli”.
I cavalli della basilica di San Marco prima del sacco di Costantinopoli adornavano l’ippodromo della città
L’assalto alle reliquie L’incetta e il commercio delle reliquie caratterizzarono il grande saccheggio. La ricchezza di Costantinopoli si può ancora ammirare in decine di città d’Europa. Il capo di San Giovanni Battista fu portato ad Amiens. Amalfi volle come ricordo la testa di Sant’Andrea e il vescovo di Soissons spedì ai suoi parrocchiani il capo di Santo Stefano insieme a una reliquia di San Giovanni. Halbstadt pretese le reliquie di San Giacomo. I resti di San Clemente, razziati dalla Chiesa di Santa Teodosia, furono portati a Cluny. I baroni si divisero la Vera Croce, a parte un pezzetto trasportato a Parigi e una parte inviata in omaggio al papa. Re Luigi IX di Francia pagò la bellezza di 10.000 monete d’argento per la “vera” Corona di Spine e per custodirla costruì la Sainte Chapelle.
I veneziani trasportarono in laguna una infinità di capolavori: mosaici, pietre rare, manoscritti, cammei, medaglioni, straordinari gioielli e addirittura parti intere di splendidi edifici.
Ancora oggi il tesoro di San Marco conserva la più bella collezione d’artigianato bizantino che comprende il sarcofago Veroli, il più bel pezzo al mondo d’avorio bizantino intagliato e il Salterio dell’Imperatore Basilio, insieme a 32 calici bizantini e centinaia di reliquie e paramenti sacri.
Il doge Dandolo spedì a Venezia, come segno del suo trionfo, i quattro magnifici cavalli di bronzo placcati d’oro, risalenti ai tempi di Costantino che adornavano l’ippodromo della capitale. Nei secoli, sono diventati uno dei simboli della città lagunare e si possono ancora ammirare in cima alla galleria della basilica di San Marco.
La conquista di Costantinopoli, mosaico del 1216
Le statue perdute Nell’arco di 72 ore, Costantinopoli perse opere d’arte di inestimabile valore. Statue di Fidia, Prassitele e Lisippo scomparvero per sempre. I grandi bronzi vennero fusi per coniare le monete che servirono a pagare i soldati. Di tanti capolavori, rimase solo il ricordo. Il racconto di Niceta Coniata è un lungo e dolente elenco di meraviglie. “Quello che fu così prezioso all’antichità divenne ad un punto volgare materia; quello che costò un tempo immensi tesori, fu dalla bestialità latina in moneta converso. Le statue di marmo non solleticarono l’avarizia dei vincitori, furono però dal loro selvaggio talento in gran parte guaste ed infrante”.
Con parole accorate, lo storico evocò l’immagine della enorme statua di Giunone, esposta nella piazza dedicata all’imperatore Costantino. Così grande che “ai barbari”, per trasportare la testa della dea fino al palazzo di Bucoleone. servì un carro trainato a fatica da otto buoi.
Un’altra statua, nello stesso luogo, raffigurava Paride che offriva a Venere il pomo della discordia. E sulla cima di un grande obelisco, decorato con grazia da una moltitudine di figure scolpite, spiccava “La seguace del vento”: una statua capace di girare su se stessa a seconda della brezza che con forza diseguale arrivava dal Bosforo nelle varie ore del giorno. Sotto, intorno al monumento, erano raffigurate decine di specie di uccelli che con il loro canto salutavano il sorgere del sole. E poi “flauti, mastelli, pecore belanti e saltellanti capretti; sotto scorreva l’acqua del mare e si vedevano branchi di pesci, alcuni dei quali caduti nelle reti, altri che le rompevano e di nuovo si immergevano liberamente nelle profondità marine; c’erano alcuni amorini, a gruppi di due o tre, gli uni di fronte agli altri, nudi, mentre si scagliavano reciprocamente delle mele, scuotendosi tutti in una dolce risata”.
Per decenni, i racconti popolari ricordarono la statua equestre esposta in piazza del Monte Tauro: un cavallo al galoppo, e in groppa un cavaliere, con un braccio teso ad est, verso il sole. Forse era Giosuè che nell’episodio biblico comandava all’astro di fermare la sua corsa. Oppure il superbo Bellerofonte, che tentava la scalata al cielo su Pegaso, il cavallo alato.
Nei pressi del circo, scomparvero per sempre le effigi in bronzo dei tanti aurighi raffigurati sui loro carri e di favolosi animali egizi come l’aspide, il basilisco, il coccodrillo.
Fu distrutta anche una statua famosa dedicata a Elena, la bellissima moglie di Menelao, icona dell’eterno femminino, che causò la guerra di Troia: “Regolarissime ed eleganti erano le sue forme, la chioma alle aure diffusa, languidi gli occhi e le labbra e le braccia dello tesso bronzo rendeva immagine di vermiglie rose e d’intatta neve”.
L’ippodromo, galleria d’arte all’aperto nel cuore pulsante della città, fu spogliato dei suoi celebri ornamenti.
Vicino alle gradinate, riedificate in marmo nel X secolo, spiccava una colossale opera di Lisippo: un Ercole seduto sopra un letto di vermena, con il gomito sinistro appoggiato sul ginocchio. L’altezza delle gambe superava quella di un individuo in piedi e “la cintura di un uomo avvolgeva a malapena il pollice dell’eroe”. Poco oltre, altre meraviglie: l’antica Scilla; un cavaliere su un asino; la mitica lupa di Romolo e Remo; un’aquila con un serpente negli artigli; una sfinge col volto di donna e il corpo di un mostro; un elefante; il cavallo del Nilo con la coda ricoperta di squame e un uomo impegnato nella disperata lotta contro un leone.
Quasi un simbolo di una città ferita a morte. Il saccheggio durò tre giorni. Poi il marchese di Monferrato e il doge ordinarono che l’immenso bottino fosse trasportato in tre grandi chiese della città, difese in egual numero da soldati veneziani e francesi.
Le mura teodosiane durante la quarta crociata
Il nuovo assetto Alla spartizione del bottino seguì la divisione dell’impero. Baldovino IX, conte di Fiandra, protetto dai veneziani, salì sul trono dell’Impero Latino d’Oriente e ottenne un quarto di tutto il vecchio territorio dell’Impero Bizantino. Il francese sostituì il latino come lingua ufficiale dello Stato. Il nuovo impero si polverizzò presto in una miriade di piccoli e grandi principati.
Secondo gli accordi, Bonifacio di Monferrato doveva essere compensato con un territorio in Asia minore. Ma dopo varie lotte si impadronì di Tessalonica e fondò un regno che comprendeva anche la Tessaglia e la Macedonia.
A Morea, sul Peloponneso nacque un principato autonomo francese.
Anche Costantinopoli venne spezzettata in otto zone: cinque ottavi andarono all’imperatore e tre ottavi a Venezia.
Papa Innocenzo III condannò con durezza il saccheggio e comminò scomuniche e punizioni. Ma accettò il fatto compiuto che gli riconosceva piena supremazia su tutta la Chiesa cristiana d’Oriente e d’Occidente.
Sulla cattedra di Santa Sofia quale primo patriarca latino di Costantinopoli venne nominato il veneziano Tommaso Morosini. I vescovi bizantini furono deposti e sostituiti da prelati romani. Fu fatta pressione sul clero ortodosso perché si sottomettesse al papato, ma senza risultato.
La Quarta Crociata portò a Venezia un vero e proprio impero coloniale e sancì la sua egemonia su tutto il Mediterraneo orientale: la città lagunare arrivò a controllare gli stretti, l’ingresso nel Bosforo e tutta la rotta marittima dalla laguna veneta fino a Costantinopoli. La repubblica marinara si impadronì dei principali porti dell’Ellesponto e del Mar di Marmara, dei centri strategici del Peloponneso oltre che di Ragusa e Durazzo. Divenne padrona anche delle isole Ionie, di Creta, che comprò da Bonifacio, della la maggior parte delle isole dell’arcipelago e della città di Adrianopoli, nevralgico centro della Tracia imperiale.
L’Impero Latino di Costantinopoli durò mezzo secolo. Nel 1261 la signoria di Bisanzio tornò alla dinastia bizantina dei Paleologhi che regnò più a lungo di qualunque altro casato. Fino al 1453, quando le armate turche guidate da Maometto II tornarono a violare le mura della città e la grande cattedrale di Santa Sofia.
La Giordania finanzia il restauro del Santo Sepolcro
Gerusalemme- 14 aprile 2016- Sarà un’offerta personale del re di Giordania Abdallah II a finanziare i lavori di restauro dell’edicola del Santo Sepolcro, la tomba di Gesù a Gerusalemme.
Ad annunciarlo con una lettera al patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III è stato lo stesso sovrano giordano, che in quanto membro della famiglia reale hashemita vanta il titolo di discendente del profeta Maometto. Annunciato pochi giorni fa, proprio alla vigilia della Pasqua, il restauro è reso urgente dai problemi riscontrati alla struttura del luogo più venerato della Terra Santa: l’umidità del respiro delle migliaia di pellegrini che ogni giorno entrano nella piccola edicola memoria della Risurrezione (ma anche il fumo delle candele) stanno progressivamente alterando le malte, creando preoccupazioni per la stabilità.
Così le tre confessioni cristiane che hanno la giurisdizione sulla basilica del Santo Sepolcro – i greco- ortodossi, i latini (rappresentati dai francescani della Custodia di Terra Santa e gli armeni – hanno trovato un accordo sui lavori, che saranno coordinati dalla National Technical University di Atene. L’intervento dovrebbe durare otto mesi e concludersi all’inizio del 2017. In questo percorso ora si inserisce la makruma ( beneficenza) di re Abdallah, che è stata annunciata l’altra sera dall’agenzia di stampa giordana Petra, insieme al ringraziamento di Teofilo III. «Sua Maestà incarna nei fatti, e non solo a parole, la convivenza tra musulmani e cristiani in tutto il mondo e in particolare in Terra Santa», ha dichiarato il patriarca greco-ortodosso, che ha anche sottolineato come Abdallah stia «guidando gli sforzi di tutti i giordani nel seminare i semi dell’amore e della fratellanza tra musulmani e cristiani in questa era in cui guerre settarie stanno bruciando intere nazioni, come tutti possiamo vedere».
A questo sentimento si è associato ieri anche il patriarcato latino di Gerusalemme: «È un’ottima notizia dal carattere altamente simbolico – ha commentato il vicario, monsignor William Shomali –. Questa decisione mostra tutta la benevolenza del re verso i cristiani e il suo impegno nel preservare il patrimonio del cristianesimo, particolarmente nel suo ruolo di garante dei Luoghi Santi, cristiani e musulmani, di Gerusalemme». Quest’ultimo riferimento rimanda al significato anche politico della donazione di Abdallah II. Fino al 1967, infatti, il Santo Sepolcro era sotto la sovranità giordana e anche dopo che Gerusalemme con «la Guerra dei sei giorni» è passata interamente sotto il controllo di Israele la famiglia hashemita ha continuato a rivendicare il ruolo di custode dei Luoghi Santi (oltre al Santo Sepolcro anche la moschea di al Aqsa e la Cupola della Roccia).
Sostenere finanziariamente il restauro è anche un modo per riaffermare questa prerogativa in una Città Santa che Israele considera come sua capitale unica e indivisibile. Infine è interessante che il patriarca Teofilo III ricolleghi il gesto di re Abdallah al Patto di Omar, l’accordo in forza del quale nel 637 il califfo Omar, il secondo successore di Maometto, quando conquistò Gerusalemme rispettò il Santo Sepolcro lasciandolo al culto dei cristiani anziché trasformarlo in moschea. Un gesto di tolleranza dell’islam delle origini, prezioso da riscoprire in questo nostro tempo.
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