Il fascismo dalle mani sporche- Paolo Giovannini – Marco Palla

Biblioteca DEA SABINAPaolo Giovannini - Marco Palla

Il fascismo dalle mani sporche- Dittatura, corruzione, affarismo

a cura di Paolo Giovannini – Marco Palla

Editori Laterza- Bari

 

DESCRIZIONE

Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una ‘dittatura degli onesti’. Un regime, che pretendeva di forgiare un ‘uomo nuovo’ e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell’industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma ‘mani sporche’ sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei ‘pesci piccoli’ a caccia di buone occasioni nelle colonie dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia. Un iceberg,quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda.

Introduzione di Marco Palla e Paolo Giovannini

La parabola storica del fascismo dalle origini alla seconda guerra mondiale, dal movimento al partito e al regime, mostrò svariati segnali coevi dell’emergere, discontinuo e dissimile nei tempi e nella morfologia, e quasi sempre occultato dalla propaganda, di una sorta di ‘questione morale’ relativa ai molteplici episodi e casi di corruzione e di affarismo, di interessi privati in atti d’ufficio, o – come diremmo oggi – di conflitto di interessi: in una parola, di un peculiare rapporto tra fascismo/fascisti in quanto istituzione al potere e uso privato (talora manomissione e appropriazione indebita) della cosa pubblica.

Le lotte intestine fra ras locali e nascenti gerarchi ‘in doppiopetto’ nella fase di iniziale stabilizzazione al potere, dopo la marcia su Roma fino al 1925-26, videro l’avvicendamento al comando dei potentati in periferia o anche in grandi città segnato non di rado da denunce del malaffare e dei pragmatici risvolti per così dire pecuniari e privatistici di defenestrazioni e cadute in disgrazia. La liquidazione del ‘populista’ Padovani a Napoli, lo scandalo soffocato sul nascere sulle trame affaristiche di Giampaoli a Milano, le oscure vicende legate agli intrighi attorno al primo podestà di Milano, Belloni, in cui rischiò di essere invischiato il fratello di Mussolini, Arnaldo, la rivincita degli ex liberali che a Firenze ripresero le redini del potere sul parvenu Tamburini, che aveva lucrato sul gioco d’azzardo e tenuto sotto controllo buona parte del racket della prostituzione e delle case di tolleranza, potrebbero essere menzionati come le punte di un ben più consistente iceberg.

All’intensa e maniacale sommersione di quell’iceberg il capo del governo, che stava nel frattempo edificando una dittatura con manifeste tendenze verso uno Stato totalitario, dedicò un’attenzione costante, introducendo la censura sulla stampa che veniva integralmente fascistizzata e irreggimentata dall’alto e dal centro, potenziando il cardine dell’incipiente apparato propagandistico dello Stato-partito con l’onnipresente e tentacolare Ufficio stampa alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, costruendo insomma gradualmente un complesso e pervasivo ‘discorso pubblico’ in cui il fascismo era presentato come l’unico decisivo elemento propulsore della moralizzazione italiana. Nella politica di ‘andare al popolo’ sancita dalla nomina di Starace a segretario nazionale del Pnf alla fine del 1931, con la creazione nel 1934-35 prima di un sottosegretariato e poi di un ministero della Stampa e propaganda dotato di un ingente budget di spesa pubblica, Mussolini in prima persona e un po’ tutti gli organismi di massa del regime e non poche delle sue istituzioni piccole e grandi seguirono la disposizione superiore e inderogabile di descrivere l’Italia come un paese dove la cronaca nera, i crimini e i suicidi, per non parlare poi degli illeciti amministrativi, contabili, finanziari, erano del tutto scomparsi e la corruzione in generale, e quella legata alla politica in particolare, era stata sradicata. La macchina per la ricerca del consenso popolare funzionò a lungo, con notevole efficacia di risultati, negli anni Trenta, e, quando non riuscì a suscitare entusiasmo o adesioni fanatiche, per lo meno centrò il target di una specie di manzoniano e antichissimo ‘troncare e sopire’, diffondendo nuove versioni di arcaiche e meno arcaiche forme di conformismo.

I segnali di guerra, accolti dallo spirito pubblico con una certa apprensione, una volta tradottisi in guerra vera e propria, per quanto lungamente annunciata e proclamata, rappresentarono una svolta epocale, mettendo per primi i combattenti italiani alla prova dei fatti e di realtà belliche disastrose per le forze armate nazionali, con il manifestarsi tra soldati e ufficiali delle campagne balcaniche, africane, russe, di una distonia e poi un distacco dai falsi miti e dalle false illusioni di una guerra facile e vittoriosa: per primo fu Roberto Battaglia, nella sua pionieristica Storia della Resistenza italiana, a concettualizzare il fenomeno dell’‘antifascismo di guerra’, che tendeva in modo abbastanza naturale a trasmettersi dai soldati combattenti alle loro famiglie in Italia. Il fronte interno cominciò a sviluppare, come testimoniato da innumerevoli segnalazioni delle varie polizie fasciste, una specifica casistica di prese di distanza dal regime che a lungo risparmiarono Mussolini nel periodo 1940-43, investendo tuttavia tutto il resto della classe dirigente dello Stato-partito, in particolare sommergendo di odio e ripulsa la casta privilegiata dei gerarchi che conducevano una vita dispendiosa e lussuosa al di sopra e in aperto contrasto e quasi beffa e spregio dei sacrifici e delle ristrettezze della vita quotidiana della maggior parte della popolazione, alle prese con il tesseramento e il razionamento dei generi alimentari primari. Gli affari di una gerarchia corrotta, tuttavia, erano sulla bocca di tutti ma ancora non sfociavano in insofferenza manifesta o, sul piano politico, in una sorta di indignazione collettiva capace di insorgere contro il regime fascista e di ribellarsi apertamente al suo duce.

Negli anni della guerra combattuta sul territorio italiano, una svolta si verificò con la liberazione di Roma nel giugno 1944, con la fine del governo Badoglio e la formazione del primo governo a composizione ciellenistica e l’avvio del processo di epurazione. Emerse allora, all’interno del più ampio ambito delle sanzioni contro il fascismo, una vera e propria specifica definizione di ‘profittatori del regime’, che derivava dalla unanime convinzione politica delle varie forze antifasciste che cooperavano nel Comitato di liberazione nazionale – bipartito in quello romano/centro-meridionale e in quello del Nord o Comitato di liberazione nazionale Alta Italia – e che intendevano aprire una pagina nuova nell’ambito istituzionale, legislativo, amministrativo, iniziando rapidamente a defascistizzare lo Stato e a costruire su basi nuove un’autentica democrazia. Tuttavia, i profittatori fascisti potevano costituire un più o meno vasto insieme di persone, individui e gruppi che era molto più facile identificare tramite un solidale sforzo politico che non attraverso una codificazione del reato, di imputazione giuridica assai generica se non discrezionale.

La volontà di fare i conti con il fascismo e con i fascisti che dal regime avevano lucrato carriere e successi anche patrimoniali corrispondeva bene all’indignazione di buona parte dell’opinione pubblica, mentre secondo la celebre battuta di Nenni soffiava forte il «vento del nord» a cambiare l’aria stantia della vecchia Italia monarchica e fascista. Quel vento però non tardò ad affievolirsi e l’intero meccanismo istituzionale, politico e giuridico, dell’epurazione si avviò a una graduale ma sempre più veloce archiviazione. Le corti di assise straordinarie svolsero parimenti un intenso lavoro di istruzione e messa a processo degli autori dei vari reati di collaborazionismo, inclusi quelli sommariamente rubricabili come ‘economici’, ma cessarono il loro operato nell’inerzia della nuova fase 1946-47. I beni razziati agli ebrei italiani nel 1943-45 dalla Rsi, e anche quelli in vario modo ceduti da cittadini e famiglie ebraiche sotto la costrizione o il ricatto della congiuntura delle leggi antisemite del 1938, non furono restituiti che in minima parte.

Nella complessa transizione italiana del 1945-48, con la liberazione seguita però abbastanza presto dai riflessi nazionali della Guerra Fredda, iniziò in parte a disperdersi la memoria dell’indignazione e della ripulsa del fascismo, con la sua classe politica corrotta e il suo duce sempre disponibile a coprire scandali e ruberie. Si dimostrò sotterraneamente persistente uno dei miti e canoni propagandisti del regime totalitario, la presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e in parte della sua dittatura. Anzi, in seguito, con il trascorrere del tempo, a ogni emergere di scandali e denunce del malaffare nelle cosiddette Prima e Seconda Repubblica, il ‘discorso’ neofascista, tacitamente accolto dalla ‘maggioranza silenziosa’ dell’opinione media e ‘moderata’, finì per contrapporre una democrazia screditata a un regime immaginario ma, per così dire, intonso dalla corruttela affaristica. Da Tangentopoli nel 1992 a oggi, per quello che ormai è un lungo quarto di secolo, è parso più credibile, agli occhi di parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal ‘cono d’ombra’ delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi.

La storiografia sul fascismo, in linea generale, ha considerato affarismo e corruzione come elementi pressoché ‘fisiologici’, ma anche come aspetti tutto sommato marginali, comunque di non primaria importanza per la comprensione del fenomeno fascista, meritevoli al massimo di qualche rapido accenno. Il tema dell’affarismo e della corruzione, pur spesso presente o evocato, non è stato sottolineato con vigore e continuità. Uno dei primi libri, pamphlet e testimonianza più che ricerca o analisi sistematica, a sollevare apertamente la questione fu quello dell’antifascista fiorentino Ernesto Rossi, che prendeva di mira l’avidità della classe dirigente economica, connivente e complice del regime, ma tralasciava di approfondire il nesso sistematico dello ‘scambio’ reciproco di favori, convenienze e sostegni tra politici fascisti e ambienti finanziari, bancari e del grande capitalismo industriale, che del profitto si occupavano per così dire in modo professionale e strutturale. Le prime storie generali del periodo fascista, da Salvatorelli (1953, poi in edizione ampliata con la collaborazione di G. Mira, 1964) a Carocci (1959) non posero il problema. Gli storici professionali ‘pionieri’ (Aquarone, De Felice, Santarelli) e una prima serie di indagini archivistiche successive tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta si concentrarono sulla ricostruzione pur necessaria dei lineamenti istituzionali della fisiologia, e a volte della patologia, del regime facendo emergere come momento centrale della discussione storiografica soprattutto la questione del consenso.

Restarono ancora a lungo sullo sfondo o ai margini i nessi tra regime e corruzione, con qualche meritoria eccezione. Per esempio lo storico inglese Adrian Lyttelton mise in luce, grazie al ricorso frequente alla prospettiva di indagine che partiva dalle periferie e non dal centro, un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo già nel processo di conquista e stabilizzazione al potere del fascismo fino al 1929. In varie sintesi generali di storia del regime fascista il tema del carrierismo e del rampantismo degli uomini nuovi fascisti, della rapacità del nuovo establishment dei gerarchi, della corruzione e dell’affarismo endemici, stentava a figurare tra i principali e più rilevanti, sia in sede puramente informativa e descrittiva sia in ambito interpretativo. Seppure affarismo e corruzione avessero certamente avuto un peso e un costo notevoli nel funzionamento dello Stato fascista e continuino a suscitare l’interesse di studiosi dell’età liberale e della prima guerra mondiale, in anni abbastanza recenti neppure due ampi e assai articolati dizionari hanno ritenuto l’argomento meritevole di specifiche voci.

Significativamente diverso è il caso di quelle opere nelle quali la dimensione periferica e anche i sia pur sommari ritratti biografici di gerarchi maggiori e minori sono tenuti nel massimo conto, come nel libro di Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, e con particolare evidenza negli studi di Paul Corner, dove emerge la valenza euristica di un approccio attento a tali questioni. L’esame complessivo dei cosiddetti duri e puri dello squadrismo ha messo in luce numerosissimi risvolti prosaici e affaristici delle loro carriere. Mentre corruzione e malversazioni hanno trovato un’adeguata considerazione in biografie di importanti gerarchi, studi di alcuni anni addietro hanno dimostrato che affarismo e corruzione a livello centrale non rappresentavano una degenerazione del tardo fascismo, di un regime ormai ripiegato su sé stesso, ma costituivano già una realtà dei primi anni, come attestato dallo scandalo dei residuati bellici, che aveva contribuito non poco a intorbidare il clima politico nei primi tempi del governo Mussolini, e dall’affare Sinclair Oil, che era arrivato a toccare lo stesso presidente del Consiglio.

Interventi storiografici (soprattutto di storici stranieri) hanno poi messo in evidenza il forte contrasto che si venne a stabilire fra un regime che pretendeva di correggere i mali dello Stato liberale, di forgiare un «uomo nuovo», e il proliferare durante il Ventennio dell’affarismo, della corruzione, del clientelismo e del nepotismo, in una forma addirittura assai più estesa rispetto al passato.

Su tali questioni si sono soffermate anche opere recenti di taglio giornalistico, che non di rado sacrificano il rigore storiografico a favore di un sensazionalismo o di uno ‘scoopismo’ teso soprattutto ad accattivarsi l’attenzione di un vasto pubblico. Così il libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, dal titolo anacronistico ma di forte richiamo Tangentopoli nera, dedicato a «malaffare, corruzione e ricatti all’ombra del fascismo», promette di restituire «per la prima volta in modo organico» – come recita la quarta di copertina – «la verità sulla corruzione dei gerarchi, la faida interna al Partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell’Italia del Ventennio», attraverso l’uso delle «carte segrete di Mussolini». Si tratta di un libro piuttosto discontinuo, che, se non è del tutto inservibile, lascia comunque parecchio a desiderare dal punto di vista scientifico, mentre la documentazione utilizzata, proveniente dagli archivi nazionali britannici, risulta spesso essere nient’altro che la riproduzione di quella conservata a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato. Le sue acquisizioni, in definitiva, non aggiungono granché rispetto a quanto già noto, ma hanno almeno il merito di sollevare il problema sia pure con metodologia criticabile sul piano storiografico professionale.

Eppure le fonti per studiare seriamente questi argomenti non mancano di certo, come dimostrano anche i contributi qui proposti. Presso l’Archivio centrale dello Stato sono disponibili vari fondi che permettono approfondimenti in questo senso: dal Carteggio riservato della Segreteria particolare del duce, dove si trovano – pur con qualche significativa assenza rispetto all’inventario – vari fascicoli su gerarchi e altre personalità di spicco del regime o su spinose questioni, alle carte della Polizia politica (con i fascicoli per materia e personali), agli archivi fascisti, alle buste dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, ecc. Recente è l’acquisizione di un importante fondo sugli ‘arricchimenti illeciti’ (in corso di riordino e inventariazione) che risale alla seconda metà del 1943 ed è il risultato di una duplice committenza: dapprima esso fu commissionato dal governo Badoglio subito dopo il 25 luglio, con l’evidente intento di delegittimare il regime appena crollato, poi passò in gestione a Mussolini, tornato al suo posto con la Repubblica sociale italiana, secondo un orientamento che mirava a distruggere la reputazione dei gerarchi che si erano rapidamente messi a disposizione di Badoglio e del re, e soprattutto quella di coloro che gli avevano votato contro il 25 luglio.

A livello provinciale in particolare la documentazione prefettizia, come anche quella prodotta dalle questure e dagli enti locali, contribuisce a far luce su episodi e situazioni di corruzione e affarismo che in vari casi vanno al di là del cosiddetto ‘beghismo’, degli scontri fra fazioni contrapposte, dei contrasti fra una piccola e media borghesia emergente in camicia nera e il vecchio notabilato, permettendo di focalizzare da un interessante punto di vista specifiche dinamiche del potere locale, il costituirsi di rinnovate reti di interessi e di rappresentanza, il rapporto del centro con le molteplici e diverse periferie e viceversa. Dagli studi finora condotti emerge un’endemica conflittualità interna ai fascismi provinciali, conseguente alla perniciosa mescolanza fra le deteriori pressioni personalistiche dei capi e le istanze politico-affaristiche connesse con il controllo del territorio, tant’è che essi – nonostante i ripetuti tentativi in tal senso messi in atto dai vertici governativi e del partito – non appaiono praticamente mai pacificati.

Gli studi sul fascismo locale, facilitando lo scavo archivistico, possono contribuire efficacemente alla ricostruzione dei contorni del fenomeno. Ad esempio ci si chiede quale quadro generale emergerebbe dall’insieme dei diversi casi trattati da Leandro Arpinati nel periodo in cui, come sottosegretario del ministero dell’Interno, intraprende un’opera di moralizzazione dei fascismi provinciali e dispone accertamenti sulle fortune economiche di vari gerarchi. Certamente si trattò di casi non legati in un’unica trama, ma che comunque compongono i tasselli di una realtà che appare assai diffusa. O, negli anni 1930-31 della segreteria del Pnf retta da Giovanni Giuriati, quali possibili risultati potrebbero fornire le fonti archivistiche in merito alla verifica analitica delle espulsioni in massa di circa 200.000 iscritti al partito per indegnità o per veri e propri reati connessi al carrierismo e in generale alla manomissione della cosa pubblica.

Con i saggi presentati in questo libro i curatori vogliono ribadire, nello specifico di questi contributi storiografici professionali, l’acquisizione ormai consolidata di più stagioni di studi scientifici, che forse ha il limite di non essere riuscita a trovare gli opportuni canali di diffusione nella più generale cultura di massa e negli stessi vari livelli della divulgazione di memoria e dell’insegnamento scolastico di ogni ordine e grado. Non si affronta, con questi contributi, una più generale questione di come si siano svolti nel periodo fascista gli affari e le transazioni economiche, finanziarie, bancarie; di come si siano approcciati al regime fascista i potentati economici, gli imprenditori e i manager, insomma i professionisti degli investimenti, dell’allocazione di risorse e della gestione produttiva, privata e dei grandi apparati pubblici di interventismo economico. Restano deliberatamente al di fuori della nostra cernita gli imprenditori tout court come Agnelli, Benni, Donegani e tanti altri che Ernesto Rossi definì i ‘padroni del vapore’, coinvolti strutturalmente nel regime fascista.

Tuttavia abbiamo scelto di includere nel libro un ritratto che evidenzia la natura politica e la statura politica di un grosso calibro come il magnate dell’industria elettrica privata Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, il più eminente tra le figure di uomini d’affari designati a far parte degli esecutivi fascisti in tempi diversi, quali Guido Jung o Vittorio Cini: Volpi fu uno dei pochissimi, come anche Alberto Pirelli, a essere regolarmente ricevuto in udienze periodiche dal duce, mantenendo per tutto il Ventennio fino alla caduta del luglio 1943 una stretta prossimità anche personale con il dittatore. Abbiamo anche deciso di includere nella casistica qui presentata figure di collegamento e sutura tra industria privata e dicasteri militari come il capo di Stato maggiore che sostituì, nel 1940, il maresciallo Badoglio, cioè Ugo Cavallero, il quale aveva in precedenza affiancato alla carriera militare la presidenza del gruppo industriale Ansaldo.

In buona sostanza, con la scelta di gerarchi come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza, il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi, alcuni casi di gerarchie provinciali come quelle di Verona o Palermo, ovvero esaminando anche fortune e insuccessi dei ‘pesci piccoli’ alla caccia di buone occasioni d’affari in colonia soprattutto nel neonato impero italiano dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia, ci siamo concentrati sul più specifico nesso politica-affari e sulla facilitazione che la prima componente di questa endiadi ha dato al successo della seconda componente. Se accanto alla monarchia e all’élite militare il mondo dell’establishment economico e finanziario italiano accompagnò benevolmente e sorresse costantemente le origini del fascismo, legittimandone la presa del potere, fu poi la politica come professione a garantire una scorciatoia al successo in affari dell’ambiziosissimo, astuto e spregiudicato Farinacci, o a consentire a un modesto armatore livornese come Costanzo Ciano, e ai suoi famigliari, di diventare non solo tra i più ricchi, ma tra i pochissimi super-nababbi del regime, con il capolavoro del più importante legame matrimoniale della storia del regime: quello tra i rispettivi primogeniti – Edda e Galeazzo – di quella nuova famiglia ‘allargata’ che furono dall’inizio degli anni Trenta i Mussolini-Ciano.

Nelle ricerche dello storico e politologo francese Musiedlak è stata debitamente documentata con fonti archivistiche primarie la vera e propria bulimia patrimonialistica di vari gerarchi: Farinacci, che comprò immobili e proprietà al ritmo di circa uno all’anno tra il 1936 e il 1941; il delfino di Galeazzo Ciano, Alessandro Pavolini, acquirente di due fattorie in provincia di Firenze per 4 milioni di lire (e proprietario di un’abitazione romana talmente sontuosa da avere una sala cinematografica inclusa nell’immobile); il gerarca protettore dell’intellettualità, Giuseppe Bottai, che acquistò a Casal Palocco «un villino di 42 stanze» per un valore di 4 milioni. Gli studiosi non hanno tuttavia ripreso uno dei dati più clamorosi documentati da Musiedlak, e cioè le due occasioni in cui furono stanziate ingenti somme di denaro pubblico da parte di uno dei due rami del Parlamento in favore del duce, riscontrabili dall’archivio del Senato del Regno d’Italia e precisamente sui libri mastri contabili; si tratta di somme registrate come spese inserite a bilancio: una prima, del 31 agosto 1936, come «offerta per la celebrazione della fondazione dell’impero», su cui non ci sono dubbi essere costituita da denaro, ma di cui il documento non menziona l’ammontare né se sia stata effettivamente erogata e incassata dal beneficiario, cioè dal capo del governo; una seconda l’11 giugno 1938, per l’esercizio 1937-38, indirizzata al cav. Benito Mussolini, con mandato esecutivo per 1 milione di lire pur senza indicazione di causale – una somma ingente per l’epoca, che corrispondeva all’insieme annuo (932.000 lire) delle indennità versate a tutti i senatori –; fondi pubblici sottratti alle casse del Parlamento, ovvero allo Stato, erogati per la prima volta senza la benché minima giustificazione tanto più obbligatoria quanto più enorme e non certo simbolica era l’entità della elargizione. Non conosciamo altri particolari, ma gli episodi appena menzionati sono più che sufficienti a proiettare uno spesso ‘cono d’ombra’ sul duce in affari in prima persona.

Non è inutile rammentare che ben prima del successo fascista e dell’esercizio del suo potere di dittatore, Mussolini si era dimostrato un abile, spregiudicato e incredibilmente ‘veloce’ sollecitatore e collettore di finanziamenti: dagli esordi poche settimane dopo l’espulsione dal Psi nel 1914, quando mise in piedi ‘dal nulla’ il quotidiano milanese «Il Popolo d’Italia», con una redazione, tipografia, società editrice che avrebbero conosciuto grande espansione, per ovvie ragioni, durante il Ventennio; e proseguendo, sempre affiancato dal più fedele braccio destro nella persona del fratello Arnaldo, con la fondazione dei fasci di combattimento nel 1919, in particolare con la gestione personale anche finanziaria dei proventi in favore del fascio milanese, e con ulteriori incrementi nel periodo 1921-25 e un flusso regolare di enormi introiti del Pnf per tutto il corso successivo del regime.

Insomma, i fattori che consentono di qualificare sul piano storico di lungo periodo il regime fascista come un momento che fa compiere, per così dire, un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo sono molteplici, ed emergono a nostro parere con chiarezza da tutti i contributi qui raccolti, ed esemplarmente dal saggio di apertura di Paul Corner, che li inquadra in un contesto sia analitico sia interpretativo assai innovativo. La soggezione degli altri poteri all’esecutivo e in particolare la subalternità della magistratura al governo e la vera e propria obliterazione del potere di contrappeso e di controllo parlamentare degli eventuali o reali abusi del potere ministeriale procedettero di conserva e sempre in parallelo con la propaganda che occultava scandali o semplici infortuni di percorso, nella dilatazione di inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa che rispetto al fascismo facevano impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale. Tra i tanti elementi, con la dittatura e l’onnipresenza del partito unico del regime si apriva la strada del successo, non incidentalmente ma strutturalmente, ai più audaci e spregiudicati gerarchi, che godevano quasi sempre di una sorta di impunità preventiva, e rappresentarono rispetto al personale politico prefascista, non raramente improvvisato e talora sprovveduto, una nuova inedita fase di professionalizzazione della politica, ma non certo nel pluralismo e nella democrazia dei valori e dei comportamenti: professionisti della politica, come segretari federali e gerarchi di ogni ordine e grado, che vivevano degli stipendi, prebende e gratifiche varie che solo la politica garantiva loro e che molto spesso, anzi nella maggior parte dei casi, riuscirono a conservare il maltolto dal punto di vista patrimoniale anche dopo la fine del regime e della dittatura.

Anche la letteratura coeva o immediatamente successiva alla fine dei regimi fascisti aveva registrato con sarcasmo l’ampiezza dei fenomeni di corruttela delle dittature totalitarie, tutte tese a celarli e a presentarsi come immacolate e incorruttibili. Così recita il magnifico ‘elogio’ della corruzione che l’esule tedesco Bertolt Brecht mise in bocca a due esuli incontratisi per caso nel ristorante della stazione di Helsinki durante il periodo dei grandi successi militari del Nuovo ordine europeo nazista (il testo, redatto nel 1940-41 e rimasto incompiuto e inedito, fu pubblicato postumo nel 1961):

lo spirito umanitario, di questi tempi, non si potrebbe mantenere senza la corruzione, che è pure una forma di disordine. Lei trova umanità se trova un impiegato che intasca qualcosa. Con un po’ di corruzione talvolta può persino ottenere giustizia. Io, per raggiungere il mio turno nella fila all’Ufficio passaporti in Austria, ho dato una mancia. A un impiegato gli ho visto in faccia ch’era di animo buono e avrebbe intascato. I regimi fascisti ce l’hanno con la corruzione proprio perché sono disumani.

E di non minore ferocia fu Carlo Emilio Gadda, che nel 1944-46 iniziò a redigere la tormentata stesura del suo Eros e Priapo:

Ontogeneticamente, cioè quanto all’«evoluzione» individuale (nel lor caso involuzione), erano giovanissimi, giovani e giovinastri, talvolta addirittura puberi […]. Socialmente provenivano, dico gli arrivati primi, i conti palatini, la guardia scelta, la coorte pretoria e quelli che si autodefinivano «élite», e con loro i paradigmi, i campioni, i manganellatori tipo, senza professione specifica e dunque senza disciplina o morale o civile o tecnica, provenivano dalle squallide lande dell’insipienza e del tedio, dalla sciagura del non aver che fare, dalle brame onnicupienti d’una «infantile» povertà. […] Alati d’una subita impellenza ascensionale corto-circuitante i normali gradini dell’ascendere, e d’una lubido rapace cortocircuitante le normali fatiche del lavoro e del profitto e del guadagno legittimo, ecco ecco la lor duplicata levità li ha tolti fuora dalle parificate lane e parificate groppe del gregge: li ha sublimati allo stipendiucolo del bidello, al premio del sicario «una tantum», alla media agiatezza della spia, all’agiatezza del provocatore o del ruffiano, al sedente fasto della sanguisuga, ai sommi onori del pacco di merda: corporativo e non.

Il tema dell’affarismo e della corruzione durante il fascismo ha avuto anche varie – sia pure incidentali – rappresentazioni cinematografiche, rivestendo un ruolo centrale in particolare nel film del 1962 Anni ruggenti, diretto da Luigi Zampa. Il protagonista, l’assicuratore Omero Battifiori (magistralmente interpretato da Nino Manfredi), arrivato da Roma, viene scambiato dai maggiorenti di una cittadina meridionale per un funzionario del Pnf inviato in incognito dalla direzione centrale per un’ispezione politico-amministrativa nel comune, dando luogo a una commedia degli equivoci che coinvolge soprattutto il podestà don Salvatore (Gino Cervi) e il segretario politico del fascio don Carmine (Gastone Moschin), «i forchettoni», impegnati, con altri, a evitare che l’ispettore scopra le loro molteplici malefatte e ruberie ai danni della povera gente, peraltro di pubblico dominio. Come dice a Battifiori in modo allusivo il personaggio interpretato da Salvo Randone, il dottor De Vincenzi, l’agente delle assicurazioni avrebbe fatto molti più affari se invece che contro la grandine avesse assicurato «i cittadini contro i furti», aggiungendo subito dopo che «i ladri di qui sono molto più furbi», tant’è «che nessuno di loro è mai stato arrestato».

Il presente volume – frutto di un progetto di ricerca intrapreso da alcuni anni, i cui primi parziali risultati sono stati pubblicati in un recente fascicolo monografico di «Storia e problemi contemporanei» – non riunisce atti di un convegno né di uno o più seminari propedeutici. Gli studiosi di generazioni diverse che hanno collaborato si sono trovati a convergere sulle linee guida loro proposte dai curatori e hanno raggiunto, ciascuno nel proprio ambito e sviluppando le proprie specifiche ricerche in autonomia, una complessiva sintonia interpretativa che di per sé è forse esemplificativa del rilievo del tema. A tutti gli autori e all’editore va il nostro non solo formale ringraziamento.

L’auspicio è che questo libro possa stimolare ulteriori ricerche sul piano scientifico, soprattutto sul piano locale e con la moltiplicazione di biografie anche ‘minori’, e che possa suscitare interesse e curiosità anche oltre la cerchia degli specialisti e della storiografia professionale. La circolazione delle tematiche storiche del ‘fascismo dalle mani sporche’ presso un pubblico di lettori più ampio, meno incline a seguire le sirene del sensazionalismo e più attento ai molteplici risvolti culturali e alle implicazioni per così dire ‘civiche’ della lettura e rilettura del nostro passato nazionale, sarebbe la gratificazione migliore per l’impegno di curatori e autori.

Corruzione di sistema?
I ‘fascisti reali’ tra pubblico e privato
di Paul Corner

1. Dittatura e corruzione

È un fatto generalmente riconosciuto che le dittature sono spesso – anzi, quasi sempre – corrotte. Il che è un paradosso, dato che quasi sempre le dittature nascono con il fermo proposito di eliminare la corruzione. L’autorappresentazione degli uomini ‘nuovi’ che cercano di sostituirsi ai ‘vecchi’ è quella di un vento purificatore che spazza via un mondo politico degenerato e corrotto. Se, molto spesso, il dittatore afferma la sua legittimità al potere attraverso discorsi sprezzanti sulle istituzioni parlamentari e rappresentative, ciò avviene perché quelle istituzioni sono percepite come inefficienti, fonte di divisione, e, soprattutto, corrotte. Gli esempi di questo tipo di giustificazione dell’assalto al potere non mancano, e non è necessario allontanarsi dall’Italia per trovarne uno fra i più calzanti. Nei primi anni di vita il fascismo denunciò la decadenza del vecchio regime liberale e in particolare l’inefficienza del Parlamento, considerato semplicemente il luogo di accordi e compromessi all’insegna della corruzione, e promise la ‘moralizzazione’ della vita pubblica attraverso l’eliminazione della vecchia classe politica. Che questa moralizzazione fosse realizzata con l’olio di ricino e il manganello poco importava agli squadristi; anzi, sia la purga che la bastonatura erano viste come azioni ‘purificatrici’ di un mondo che aveva venduto i suoi valori. Nel nuovo mondo fascista non ci sarebbe stato più spazio per la corruzione e per i corrotti; gli interessi nazionali avrebbero messo al bando tutti gli intrallazzi privati e personali.

La realtà, come sappiamo, era molto diversa. Nonostante la costante reiterazione del tema della moralizzazione della vita pubblica, il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato, e da un clientelismo e nepotismo senza precedenti. Il potere pubblico – ad esempio, il potere del segretario di una federazione provinciale – veniva spesso usato per scopi privati; la cura e la coltivazione di interessi privati attraverso un ruolo pubblico – l’affarismo – erano pratiche comuni. In questo il fascismo era simile ad altri regimi dittatoriali. L’esempio più evidente è rappresentato dal regime di Hitler, che denunciava la corruzione e la decadenza della Repubblica di Weimar ma non esitava a ‘comprare’ l’appoggio di generali e industriali attraverso l’elargizione di sontuose ville, terreni, grandi tenute (tutti sequestrati ai nemici del nazismo), né muoveva un dito contro il vertiginoso arricchimento di alcuni dei suoi gerarchi. Sotto Stalin l’immensa burocrazia sovietica era notoriamente sensibile alla corruzione, molto spesso l’unico modo per farla funzionare. E nella Romania comunista l’accumulo di ricchezze da parte di Ceauescu e sua moglie era evidente a tutti quelli che li circondavano – la bilancia da cucina in oro massiccio era forse una spia di un certo tipo di comportamento –, ma a nessuno dei funzionari passava per la mente di denunciare questa rapina di Stato in quanto erano essi stessi il prodotto e i beneficiari del medesimo sistema corrotto. E si potrebbe andare avanti, parlando della Cina del dopo-Mao, dell’Africa e dell’America Latina… Dittature e corruzione sembrano andare sempre assieme.

Che la corruzione non sia limitata ai regimi dittatoriali è evidente; sappiamo bene che anche in democrazia la tangente, la bustarella e il finto appalto sono prassi comune. Ma non c’è in democrazia quel rapporto stretto fra il regime dittatoriale e la corruzione che sembra esistere in quasi tutte le dittature. È un rapporto che fa pensare a qualcosa di funzionale, quasi di strutturale, come se facesse parte del regime stesso e non rappresentasse un cancro esogeno o marginale che il regime non è in grado di controllare. Viene da chiedersi pertanto quale fosse il ruolo della corruzione e dell’affarismo in regimi che, formalmente, si proposero al mondo come regimi della retta via e della morale. Posto il quesito in termini più concreti e meno astratti, ci si potrebbe chiedere perché Mussolini, che era indubbiamente a conoscenza dell’alto livello di corruzione che esisteva all’interno del Pnf e del modo in cui i gerarchi sfruttavano le loro posizioni per arricchirsi personalmente – basti pensare a Farinacci –, non agisse contro le cattive abitudini ma guardasse sempre dall’altra parte, quando necessario.

Prima di cercare una risposta, può essere utile procedere con alcune osservazioni di carattere generale. Nei regimi ci sono certamente delle persone corrotte, ma va sottolineato che il regime dittatoriale è, in un certo senso, corruttore della società che domina. La coercizione – aperta o implicita – sulla quale esso si basa richiede un atto di sottomissione da parte della popolazione che la rende, volente o nolente, in qualche modo complice del regime stesso. L’atteggiamento che sembra caratterizzare gran parte della popolazione che vive sotto una dittatura – il conformismo pubblico, vissuto in forme e gradazioni diverse – rappresenta l’accettazione dei limiti imposti dal regime, spesso a costo di non poter esprimere e, a volte, quasi neanche formulare i pensieri privati. Va ricordato che molto spesso i regimi governano dall’alto popolazioni povere e che il potere di distribuire scarse risorse – case, lavoro, licenze, talvolta persino il cibo – permette alla dittatura di esercitare una forma di ricatto nei confronti della popolazione; in un regime ‘del bastone e della carota’ è meglio mirare alla carota che subire il bastone, la dacia è evidentemente meglio del campo di lavoro forzato. All’interno di questo quadro, gli spazi per l’indignazione individuale o collettiva di fronte agli abusi di potere sono molto limitati, e la volontà di reagire è ancora più circoscritta.

Václav Havel aveva perfettamente compreso la corruzione morale della popolazione della sua Cecoslovacchia quando scriveva del verduraio che, la mattina, accanto alle carote e alle cipolle, affiggeva nella vetrina del negozio un cartello con lo slogan ‘Operai del mondo, unitevi!’, pur essendo totalmente indifferente al senso della frase. Lo faceva, spiegò Havel, perché nel mondo comunista «si faceva così», ma lo faceva anche per nascondere a sé stesso la sua condizione subordinata rispetto al potere – in fondo, lo slogan avrebbe potuto essere anche accettabile, quindi perché non mostrarlo? In tal modo, il verduraio «viveva dentro una bugia», sapendo bene che gli operai del mondo non si sarebbero mai uniti, ma comportandosi come se quello slogan rappresentasse realmente un qualche tipo di verità. Attraverso il suo conformismo, il verduraio si rendeva complice del sistema e, in quanto complice, aiutava il sistema a sopravvivere.

Complicità con il potere non significa di per sé corruzione, almeno non nell’accezione usuale della parola. Ma può essere molto importante nel creare un terreno in cui può svilupparsi la corruzione vera e propria. Il regime dittatoriale, infatti, distrugge sempre la sfera pubblica, impedendo la formazione di una vera opinione pubblica in grado di commentare, criticare, biasimare, e forse modificare, i comportamenti di coloro che detengono il potere. In tali circostanze, le complicità – anche coatte – con il regime possono generare un clima morale che accetta come inevitabile ciò che non è in grado di cambiare. Pertanto, chi è corrotto e chi corrompe, chi fa affari sporchi e illeciti, non subisce la pressione di un’opinione pubblica nella misura in cui ciò avviene solitamente in una società aperta.

Tale considerazione è pertinente rispetto a quel fattore, centrale per qualsiasi discorso sulla corruzione nei regimi dittatoriali, rappresentato dall’assenza di controlli su chi esercita il potere, sia a livello di vertice nazionale sia a livello locale. Se non esiste un giornalismo libero, con libera stampa e mass media autonomi, un potere giudiziario indipendente, un Parlamento con una vera opposizione in grado di istituire commissioni di inchiesta, se la polizia è in mano al partito o al governo, non ci sono ostacoli all’abuso del potere; è la discrezionalità della dittatura che determina tutto. Anche le elezioni o le pratiche plebiscitarie, se ci sono, non rappresentano un elemento di freno ai comportamenti illeciti; la popolazione è controllata ed è comunque in qualche modo complice del regime. Nonostante che tutti gli elementi del potere dominante possano essere percepiti o perfino emotivamente avversati dalla popolazione, quel clima morale di non-protesta, generato dal ricatto implicito esercitato dal potere, interviene a facilitare la prevaricazione. Fra chi detiene il potere cresce quasi inevitabilmente una forte sensazione di impunità di fronte agli scarsi o inesistenti controlli – sensazione di impunità che molto spesso corrisponde concretamente a ciò che avviene nella realtà.

Ovviamente non tutti i regimi dittatoriali sono uguali. I rapporti di forza fra chi domina e chi è dominato possono variare, anche se le caratteristiche di fondo cambiano poco. Si può osservare una differenza maggiore fra i vari regimi nei livelli di controllo dell’economia. Nell’Urss il controllo da parte dello Stato era pressoché totale, mentre nell’Italia fascista e nella Germania nazista la sfera economica manteneva una certa autonomia. Anche in questi due casi, però, la mano della dittatura si faceva sentire in quanto, là dove vigevano comunque il primato della politica e un certo livello di dirigismo di Stato, i rapporti fra economia e politica erano sempre rapporti di scambio, con concessioni ma anche favori ripagati – il terreno ideale per la corruzione, il clientelismo e l’affarismo. Come vedremo, una delle caratteristiche più evidenti dell’Italia fascista era la rete di interessi privati che si sviluppò intorno alla gestione ‘politica’ dell’economia.

2. Fascismo e corruzione

Fra le armi più efficaci utilizzate dalle dittature c’era il ricatto, un ricatto di sistema, con un messaggio molto semplice: o collabori con il regime o subisci le conseguenze del tuo rifiuto. Più o meno esplicito, il ricatto era sempre presente. Si traduceva non solo nella necessità di osservare determinati comportamenti, ma anche – se si voleva far carriera, intraprendere un’attività commerciale, far funzionare un’industria, esercitare una professione senza intralci – di cercare, mantenere e coltivare appoggi politici, e, avendo il regime il monopolio del potere politico, il prezzo di questi appoggi veniva deciso in gran parte dai rappresentanti del regime stesso.

Il fascismo italiano non faceva eccezione. Non che l’Italia non avesse avuto problemi di corruzione anche prima dell’avvento del fascismo. Giolitti si era guadagnato il titolo di ‘ministro della malavita’ da parte di Gaetano Salvemini per il modo in cui utilizzava il trasformismo e il clientelismo allo scopo di garantirsi una maggioranza in Parlamento, basata più su scambi che su principi; e come dimostrò la Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra, ovvero sui sovrapprofitti realizzati dagli industriali durante la prima guerra mondiale (commissione soppressa da Mussolini appena arrivato al potere), la manomissione dei fondi statali non era una novità. C’è comunque materia per ritenere che la corruzione e l’affarismo raggiungessero nuovi livelli sotto il regime fascista.

Come prevedibile, l’elemento del ricatto risulta evidente nel finanziamento delle organizzazioni locali del Pnf e – spesso associato con le stesse fonti di finanziamento – nella realizzazione di cospicue fortune da parte di alcuni fra i gerarchi più in vista. Il fundraising del partito aveva diverse facce. Molto comune era la richiesta fatta dal fascio a noti personaggi locali, i quali in qualche misura dipendevano dal beneplacito del fascio per il loro lavoro, di un ‘contributo volontario’ alla causa del fascismo. Si trattava, di fatto, di un atto di estorsione, dato che l’entità del contributo veniva decisa dal fascio e non di rado riguardava grosse somme.

Una variante molto comune della prassi di estorsione consisteva nel vendere pubblicità sul giornale del fascio locale a persone che non avevano bisogno di quella pubblicità; anche qui furono richieste somme molto elevate per un servizio non voluto ma pressoché obbligatorio. Una strategia più diretta (e più chiaramente delinquenziale) fu il controllo, nelle grandi città come Milano e Genova, del commercio e dei mercati centrali attraverso l’imposizione di una tassa che in realtà non era altro che un ‘pizzo’ di tipo mafioso. In tutti questi casi il rifiuto di pagare poteva avere conseguenze disastrose – chiusura del negozio, ritiro del permesso, boicottaggio dello studio legale, appalti negati, e così via. In più e peggio – almeno negli anni Venti – lo spettro della violenza squadrista non era mai molto remoto. Chi rifiutava di versare il suo ‘contributo volontario’ rischiava la bastonatura, la devastazione dello studio, l’incendio del negozio, da parte di persone che risultavano sempre ignote alla polizia e alla magistratura.

Un’altra variante di prassi estorsiva riguardava il posto di lavoro. Se nei primi anni Venti i braccianti agricoli avevano dovuto scegliere fra l’adesione al sindacato fascista e la fame, anche i lavoratori di altri settori si trovarono a fare più o meno la stessa scelta: lavoro o fame. In altre parole, il posto di lavoro aveva un valore e in certe zone i fascisti non esitavano a monetizzare quel valore approfittando in modo sfacciato di situazioni di disperazione. A Napoli, ad esempio, alcuni operai lamentavano il fatto che il fascio locale imponeva una tariffa a chi voleva lavorare e che chi non la pagava non lavorava: «500 lire per un manovale, 1500 per un muratore, prezzo da concordare per gli apprendisti meccanici e così via». Altri operai, questa volta a Pescara, raccontavano del federale che aveva venduto i posti a chi voleva andare in Africa orientale come emigrante (500 lire per garantire la partenza). Non sorprende che in alcune città i fascisti venissero chiamati «sanguisughe» e definiti «buoni solo a spillare soldi alla povera gente».

In questo quadro di estorsione e di sfruttamento del monopolio di potere, non poteva mancare il mercato della tessera del partito. Com’è noto, con effetto progressivo durante il corso del Ventennio (e, a volte, con un sorprendente ritardo), la tessera del Pnf divenne il passaporto per alcuni tipi di lavoro. L’importanza della tessera era evidenziata soprattutto dalle dichiarazioni di chi non la possedeva, di chi rischiava di perderla o di chi era stato espulso dal partito. Secondo un informatore che scriveva nel 1938, «oggi, definitivamente, non essere iscritti al partito vuol dire non poter trovare nessun lavoro», opinione confermata da un fascista che osservava che «il ritiro della tessera, vale a dire del pane», poteva avere delle conseguenze molto gravi, e di un altro, espulso, che pregava di essere riammesso al partito e «alla vita». Lo stesso Mussolini, nell’avvertire Farinacci che rischiava l’espulsione dal partito per il suo persistente ‘frondismo’, ricordava al ras cremonese che «chi è fuori del partito, muore». Tale era l’importanza della tessera che si sviluppò un mercato di tessere falsificate, rilasciate da burocrati corrotti, che dovevano non solo attestare l’appartenenza al partito ma anche indicare una data di adesione della ‘prima ora’, per consentire al portatore di beneficiare dei privilegi riservati ai membri della ‘vecchia guardia’. Come venne più volte osservato all’epoca, il numero dei ‘Sansepolcristi’cresceva via via ogni anno che passava.

Lucrare dove possibile sembra essere stato l’obiettivo di non pochi dirigenti fascisti, ma la destinazione precisa dei soldi, passati sopra o sotto la scrivania, è difficile da stabilire. Come in altri regimi di questo tipo, la mancanza di una qualsiasi forma di trasparenza permetteva la deviazione dei fondi in diverse direzioni. È evidente, comunque, che se una parte dei contributi estorti doveva servire a far funzionare l’organizzazione fascista, una parte anche notevole finiva nelle tasche dei fascisti stessi. Solo così si può spiegare il fenomeno del repentino arricchimento di molti dei nuovi dirigenti fascisti, persone spesso di modeste origini sociali che già alla fine degli anni Venti si erano abituate a vivere nel lusso. Anche se il confine fra la donazione spontanea e la tangente è spesso molto labile, esistono pochi dubbi sul fatto che i nuovi ricchi dovevano molto non solo al fatto di essersi appropriati di fondi versati al fascio, ma anche a donazioni più o meno ottenute con la concussione e a offerte ‘interessate’, intese a mantenere buoni rapporti con chi deteneva il potere. L’evidente rapporto di scambio che operava dietro queste elargizioni verso i fascisti aveva un costo, ma presupponeva anche un eventuale premio. A Milano, ad esempio, nel 1928, in occasione del matrimonio di Mario Giampaoli, capo del fascismo in città, imprenditori e commercianti si misero in fila per offrirgli regali. Si diceva che il gerarca avesse ricevuto regali per più di un milione di lire – soldi peraltro spesi male, perché Giampaoli fu rimosso da Milano ed espulso dal partito (per malaffare) meno di un anno dopo.

I gerarchi fascisti avevano molte possibilità di sfruttare il rango per vantaggi personali. L’avvocato Roberto Farinacci, ad esempio, era in grado, con dubbie credenziali professionali, di chiedere e ottenere parcelle a sei cifre per interventi in casi giudiziari in cui il suo peso politico veniva usato per ‘aggiustare’ la sentenza. Che Farinacci fosse, alla fine degli anni Trenta, un uomo molto ricco non era un segreto per nessuno, ma anche molti altri gerarchi disponevano di somme che non erano giustificate dal loro stipendio. Nel 1942, in piena guerra, Giuseppe Bottai acquistò una villa di 42 stanze per 4 milioni di lire; nello stesso anno, per una cifra analoga, Alessandro Pavolini comprò due fattorie fuori Firenze. L’origine di questi soldi resta sconosciuta – certamente somme che andavano ben oltre le possibilità offerte da uno stipendio ministeriale – anche se un indizio si può forse trovare nel comportamento di Luigi Federzoni che, come presidente del Senato, nel 1929 si aumentò lo stipendio da 25.000 lire annue a 125.000 senza dire niente a nessuno (e senza che nessuno avesse qualcosa da ridire). Non contento, incrementò anche le sue indennità parlamentari, raggiungendo nel 1939 uno stipendio annuale di 263.000 lire: al confronto, la paga annuale di un bracciante agricolo nel 1938 era di circa 2.000 lire. Al processo del 1947 i beni di Federzoni vennero valutati quasi 8 milioni di lire.

Ma i rapporti di scambio più premianti per molti gerarchi fascisti nascevano dagli stretti legami esistenti fra la politica e il mondo dell’industria, delle banche e di quegli istituti parastatali che avevano visto uno straordinario sviluppo durante gli anni Trenta. Qui il regime aveva enormi possibilità di patronage; erano in palio nomine alle cariche più alte, posti nei consigli di amministrazione, prestiti, contratti, concessioni, appalti per lavori pubblici – un mondo che ragionava sempre in termini di centinaia di milioni di lire e dove, molto spesso, la mano del governo di Roma poteva essere decisiva nell’andamento delle cose. Come è evidente, lo scambio fra economia e politica aveva dei vantaggi per entrambe le sfere. I posti di dirigente o membro dei consigli di amministrazione offrivano lauti compensi ai fascisti (o ai loro amici e sostenitori) che li occupavano, mentre per le società coinvolte avere una linea diretta con il ministero a Roma tramite i consiglieri fascisti poteva costituire un asset prezioso. Naturalmente le società dovevano pagare un prezzo, richieste pressanti di contributi e ‘sussidi’ per i progetti dei fasci locali e per l’organizzazione nazionale erano sempre all’ordine del giorno, ma al tempo stesso chi pagava sperava di poter contare su un occhio favorevole del regime. Si formava dunque un intreccio per così dire ‘virtuoso’ fra il mondo politico e quello economico, che offriva benefici a entrambi, ma a trarne particolari vantaggi erano quei fascisti che, riusciti ad entrare nei gangli del mondo dell’industria e della finanza grazie all’operato del partito, si trovavano nella posizione di poter incidere sulle decisioni di società di importanza nazionale e, di conseguenza, con un’influenza enorme da sfruttare come sembrava loro più opportuno.

3. Percezioni e impunità

Che la corruzione e l’affarismo restino nascosti, una faccenda gestita all’interno delle strutture del regime stesso, è un tratto tipico di molti regimi dittatoriali; ad eccezione dei casi clamorosi e difficili da nascondere, la zona ‘sporca’ dei ricatti e degli intrallazzi non arriva all’attenzione del pubblico, se non attraverso voci e sospetti non suffragati da prove. Per questo motivo spesso non è semplice valutare con precisione la natura e l’estensione del fenomeno. Diverso, invece, è il discorso sulla percezione dei livelli di corruzione e di affarismo da parte dell’opinione pubblica, che arriva spesso ad esagerare l’entità di quel mondo che non riesce a vedere bene ma della cui esistenza non dubita.

Tali considerazioni valgono appieno per l’Italia fascista. A giudicare dalle relazioni degli informatori fascisti, dalle spie della polizia, dai rapporti delle autorità locali di prefetture e questure, per non parlare delle lettere anonime, esiste lungo il Ventennio – ma in modo crescente quanto più ci si avvicina alla seconda guerra mondiale – la convinzione in almeno una parte dell’opinione pubblica che il regime fascista fosse un regime intimamente corrotto. Benché spesso derivino da fonti che vanno utilizzate con cautela, le accuse rivolte al regime e ai fascisti puntavano sempre il dito sui funzionari locali del partito – in particolare, sui segretari federali – incolpati di utilizzare la propria posizione pubblica per realizzare obiettivi privati, ed erano troppo concordi e convergenti per essere attribuite soltanto ai nemici del regime o alle malelingue. Al riguardo bisogna ricordare che il fascismo, sin dai primi anni, aveva attratto una certa componente criminale e che, nonostante le purghe del partito degli anni Venti, essa non era stata del tutto sradicata. Indicativo è il fatto che nel 1935 l’intero gruppo dirigente di Perugia venisse denunciato per criminalità e che le fedine penali di molti, attestanti condanne per attività criminali, venissero allegate alla denuncia.

La più comune fra le denunce di abuso di posizione riguardava ciò che potremmo definire lo stile di vita del federale: grandi automobili, i posti migliori nei ristoranti migliori, uniformi ‘napoleoniche’ indice di un narcisismo dilagante, il palco al teatro con il contorno di belle donne. Questo stile di vita, più che evidenziare direttamente la corruzione, esibiva gli attributi vistosi del potere locale, spesso portati all’eccesso da persone nuove alla politica, ma a chi denunciava simili comportamenti veniva spontaneo chiedersi da dove provenivano i soldi per le macchine, i pranzi e le donne. L’uomo che nel 1937 racconta (con un misto di rabbia e di invidia, come si avverte fra le righe) che il federale di Piacenza «dedica ogni sua attività allo sport del tamburello e alle gite sulle spiagge adriatiche ove […] col pretesto di visitare una colonia estiva, passa lunghi giorni in graziose compagnie femminili» non poteva non notare che le spese di queste giornate provenivano da fondi pubblici. La stessa constatazione si legge in una lettera anonima inviata al duce nel 1939: «Qui a Perugia essi [i funzionari fascisti] spendono il denaro pubblico in modo sfacciato e scandaloso», e anche in questo caso le accuse sono le stesse: grandi macchine («una potente Alfa-Romeo, del costo di oltre 70.000 lire») e frequentazioni pubbliche di «volgari prostitute».

Vere o no, le denunce di questo tipo riflettevano ciò che appare come un disagio generalizzato, quando si trattava di verificare l’onestà dei funzionari fascisti. In parte era un disagio che nasceva da un fattore che abbiamo già osservato, e cioè la totale mancanza di trasparenza che circondava le finanze dei fasci locali; la gente poteva fare il conto del denaro che entrava – bastava moltiplicare il costo della tessera per il numero degli iscritti per farsene un’idea – ma non riusciva a capire come venivano spesi quei soldi: «È da tutti risaputo che la maggioranza degli iscritti al partito versano annualmente delle somme non indifferenti che assommano a parecchie centinaia di lire, mentre vengono versate al centro solo tre lire per ogni iscritto al partito. Tutti si domandano dove vanno a finire le somme versate dai fascisti e tutti non si sanno spiegare la ragione per la quale non debba venir mai fatto un resoconto». In effetti, quando le situazioni locali degeneravano al punto che da Roma veniva inviato un ispettore, le relazioni che questi ispettori compilavano raccontavano spesso di ammanchi, di elargizioni senza causale, di ‘sussidi’ pagati ad amici senza alcuna giustificazione, di ‘missioni’ in altre città con tanto di alberghi e ristoranti di lusso. Tali situazioni davano man forte a chi si lamentava del fatto che «i caporioni del fascismo sono tutti dei mangioni e dei profittatori» o che «il requisito necessario per rivestire le alte cariche politiche e amministrative è quello della delinquenza raffinata».

Se la finanza allegra e lo stile di vita eccessivo attiravano le critiche un po’ dappertutto, a volte le denunce avevano a che fare con faccende più squallide. In alcune relazioni, si legge che l’abuso della posizione di potere si estendeva anche alla richiesta di prestazioni sessuali rivolta a donne che in qualche modo dipendevano dal funzionario fascista. Del gerarca di Savona, che aveva costituito un istituto commerciale serale femminile, si diceva che «le favorite passano nel suo ufficio durante le ore di lezione, e quelle che soddisfano i suoi piaceri trovano lavoro». Ancora più esplicita la denuncia di un cittadino padovano, che in una lettera a Starace spiega il modo migliore per ottenere un lavoro a Padova: «ha un figliolo da occupare? occorre che abbia una bella mamma o una sorellina». Casi di questo genere riflettevano i rapporti di forza in una situazione in cui il cittadino non aveva alternative o possibilità di ricorso. Nel Ventennio il regime aveva il coltello dalla parte del manico ed era difficile e a volte rischioso mettersi a discutere.

Guardando sempre alle realtà locali, la percezione generalizzata del marcio trova conferma anche in altre circostanze, in cui i federali mostrano di preferire la strada più diretta della criminalità spiccia. Uno dei casi più clamorosi è quello di Clodo Feltri, federale di Modena alla fine degli anni Trenta, che secondo l’ispettore del partito aveva mescolato polvere di marmo alla farina per aumentarne il peso (suo cugino era proprietario della principale azienda molitoria della provincia), aveva venduto illegalmente a terzi la benzina ‘rossa’ destinata esclusivamente a usi agricoli (egli stesso era il direttore della locale filiale Agip) e aveva concesso al cognato alcuni contratti per lavori edili finanziati dallo Stato. Qui potere incontrollato e familismo sono molto evidenti. Ma Feltri non era l’unico. Nel 1934, a Savona, il federale venne accusato di «aver ricavato quest’anno una somma considerevole dalla gestione dei campi estivi» e il sospetto spingeva ignoti a scrivere sui muri «Duce, lega le mani ai profittatori». Verso la fine degli anni Trenta diversi federali furono accusati di aver guadagnato grosse somme con la raccolta di oro e di altri metalli preziosi – raccolta mai trasferita, o trasferita solo in parte allo Stato. Non sorprende pertanto trovare un vecchio fascista che nel 1939 scriveva a proposito delle «infiltrazioni di numerosissimi elementi profittatori e di nessuna fede» che avevano preso in mano il partito, né che altri protestassero per il fatto che «si lascia che la nuova casta creata dal regime faccia soldi a palate, a destra e a manca».

Il quadro dipinto dalle denunce di prefetti, fascisti, informatori e cittadini comuni è chiaro. Arrivati al 1940, pochi erano disposti a negare l’esistenza di una corruzione su larga scala all’interno del partito; la percezione popolare era quella di un Pnf organizzato per assecondare gli appetiti dei suoi capi. Ma più che la corruzione in sé, ciò che colpisce è il manifesto senso di impunità che accompagnava l’attività dei corrotti. Regnava fra i ras e i funzionari fascisti la sensazione di poter fare quello che volevano; alcuni lo affermavano esplicitamente – ‘Chi mi può toccare?’ – e, molto spesso, avevano ragione.

Il senso di impunità dimostrato dai capi fascisti, che tanto nuoceva all’immagine del fascismo fra una popolazione pesantemente colpita dalla crisi economica, si può spiegare in diversi modi. In parte nasceva dal fatto che il partito, più che un’organizzazione impersonale e rigidamente disciplinata, era in realtà un reticolo di rapporti clientelari e personali in cui ciò che contava non era la correttezza dei comportamenti ma la fedeltà a – e l’appoggio di – un particolare capo. Essere ‘uomo di Balbo’ o ‘uomo di Ciano’ spesso rendeva quella persona intoccabile, anche da parte della magistratura. Per i capi locali i guai seri cominciarono con la perdita dell’appoggio del padrino e non con la denuncia per abuso di potere. Certo, il segretario del Pnf poteva agire contro i corrotti – di fronte a gravi abusi gli ispettori arrivavano da Roma e compilavano i loro rapporti, a volte molto critici sui poteri locali –, ma tutti sapevano che, nella peggiore delle ipotesi, la conseguenza più probabile di una punizione sarebbe stata la rotazione, ovvero un incarico diverso in un posto diverso. La parola d’ordine era sempre quella di evitare scandali in grado di screditare il partito agli occhi della gente. Non sorprende dunque che il cittadino si sentisse impotente di fronte al regime; era difficile contestare la corruzione dei funzionari perché ci si trovava davanti a un muro di omertà fascista che mirava solo ad insabbiare qualunque protesta.

Ma il senso di impunità aveva anche origini più lontane. Sin dall’inizio del movimento fascista gli squadristi avevano agito contro la legge e nella presunzione – che si dimostrò spesso giustificata – di non essere perseguibili per le loro azioni di fronte alla magistratura. Convinti di aver trovato l’Anello di Gige che rende invisibili, essi sostenevano di rispettare una legge superiore dettata dalla nazione e non esitavano a ridicolizzare le autorità dello Stato liberale e a umiliare prefetti e polizia. Le azioni e le dichiarazioni di Italo Balbo durante l’occupazione di Bologna nel 1922 sono una sintesi di questo atteggiamento di sfida. E anche se con la svolta del 3 gennaio 1925 (quando anche Mussolini invocò una legge superiore) e con i provvedimenti successivi la posizione degli squadristi venne ridimensionata, i primi anni di lotta avevano lasciato un tipo di imprintingche affermava la soggettività del diritto, assai difficile da sradicare. Come non pochi prefetti furono costretti a constatare, per tanti fascisti l’atteggiamento del ‘Qui comando io’ oppure ‘Obbedisco solo a Mussolini’ restava il principio fondamentale della rivoluzione fascista determinandone l’azione per tutto il Ventennio. I frequenti litigi tra federali e prefetti rappresentavano, in realtà, non solo il contrasto fra le diverse interpretazioni delle competenze del partito e dello Stato, ma anche un conflitto fra la legge dello Stato, che il prefetto doveva far rispettare, e una fantomatica ‘legge fascista’, derivante dalle vittorie degli anni Venti, alla quale faceva appello il federale.

Conseguenza non ultima dell’interpretazione fascista della legge era anche l’incapacità – o, meglio, la non volontà – da parte dei fascisti di distinguere fra ciò che era pubblico e ciò che era privato. Per molti, l’idea che ‘la legge è del più forte’ aveva in parte annullato la distinzione, in quanto gli squadristi erano avvezzi a mostrare scarso rispetto per la proprietà privata, soprattutto di quella dei nemici del fascismo, e ad appropriarsi di quello che volevano. Quest’atteggiamento era ulteriormente incoraggiato dall’interscambiabilità di ‘fascismo uguale nazione’, che induceva i fascisti più rozzi a pensare che tutto ciò che era parte della nazione apparteneva ai fascisti. Si creava così una sorta di sentimento di ‘credito’ e di ‘diritto’ a varie ricompense e prebende di potere; per quelli che avevano conquistato la nazione i lauti premi offerti anche dall’affarismo e dalla corruzione apparivano in qualche modo dovuti.

In molti casi, dietro a questi comportamenti arroganti e spavaldi, che persistettero ben oltre la prima fase della ‘battaglia fascista’, c’era il desiderio del dirigente fascista, una volta assurto al potere, di essere riconosciuto dall’élite tradizionale. Causa non ultima della corruzione del tipo descritto qui sopra – cioè la corruzione legata agli abusi di potere a livello provinciale e locale – è la necessità degli ‘uomini nuovi’ alla politica di legittimare le proprie posizioni all’interno della società locale. Sconfitta la spinta intransigente di Farinacci che avrebbe voluto un radicale cambiamento nella classe dirigente, e ignorata l’invocazione di Augusto Turati di «mettere una camicia nera ad ogni posto di comando», in molte città i fascisti si trovarono costretti a venire a patti con l’élite della società provinciale. Per alcuni fascisti ‘rivoluzionari’ la questione non mancava di sollevare problemi, com’è testimoniato da scontri anche molto duri in alcuni luoghi; ma per altri la prospettiva di poter far parte dell’establishment era troppo seducente. Non solo ciò sembrava legittimare agli occhi dei concittadini il controllo esercitato dal fascismo, ma si apriva la strada a tutta una serie di privilegi e di possibilità di affari che permettevano al capo fascista di sedersi effettivamente allo stesso tavolo dei maggiorenti locali. Dall’altra parte, per l’élite locale corrompere il federale con offerte e promesse allettanti era la strada maestra per limitare il più possibile l’ingerenza del partito nelle proprie faccende ed anche – come abbiamo già visto – per sfruttare le possibilità offerte da qualche contatto utile a Roma.

Si spiegano così le lotte interne che caratterizzarono i fasci locali, soprattutto sul finire degli anni Venti e per tutto il decennio successivo. Come abbiamo avuto occasione di osservare altrove, il ‘beghismo’ diffuso esprimeva solo di rado differenze di opinione sul significato del fascismo o sul percorso da seguire per realizzare fino in fondo la ‘rivoluzione fascista’; molto più spesso rappresentava semplicemente un conflitto per il potere fra gruppi rivali, in quanto il potere apriva la porta a possibilità che andavano ben oltre il diritto all’uniforme ‘napoleonica’.

Una delle lamentele più persistenti contro i capi fascisti nelle lettere anonime e nei rapporti degli informatori riguardava l’‘accumulo di cariche’ da parte dei boss del fascismo locale. Come abbiamo già accennato, molto spesso al segretario federale veniva offerto un posto nel consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio, nel comitato direttivo dell’ospedale locale, nella redazione del giornale cittadino, per non parlare dei posti nei consigli di amministrazione delle industrie del luogo – tutti incarichi remunerati, che gli permettevano di moltiplicare diverse volte il suo stipendio di federale, di per sé non indifferente, senza dover fare altro che presenziare a qualche riunione. Alcuni fascisti di spicco arrivavano a sedere in più di venti consigli di amministrazione. Qui si vede come, per il giovane e rampante fascista, l’ambizione e il desiderio di riconoscimento si intrecciassero con la ben più banale ma concreta ricerca di arricchimento. E se agli inizi degli anni Trenta, di fronte al malcontento popolare suscitato dal fenomeno dell’accumulo delle cariche, il partito cercò di reagire con un decreto contro tale prassi, non c’è però alcuna evidenza che quel provvedimento abbia avuto effetto. Il decreto, come le ammonizioni di Mussolini contro lo stile di vita esagerato dei fascisti provinciali (la ‘Consegna’ del 1933), restò lettera morta. Il potere delle realtà locali di condizionare i comportamenti dei funzionari fascisti era evidentemente molto più forte.

Naturalmente non tutto il fascismo provinciale era una palude di corruzione e di affarismo; c’erano federali onesti come federali corrotti. Colpisce comunque il tono di esasperazione e di indignazione che emerge da molte denunce – firmate anche da fascisti di lungo corso – per le condizioni del partito alla fine degli anni Trenta e durante i primi anni di guerra. Il ‘succo’ dei commenti era che molti fascisti avevano utilizzato il potere dello Stato per favorire i propri interessi privati, ignorando totalmente le condizioni di estrema difficoltà in cui si trovava buona parte della popolazione. Come scriveva un fascista, l’Italia era divenuta «un campo da razziare non una nazione», dove il denaro pubblico veniva sistematicamente rubato e sperperato da un ceto dirigente «parolaio, confusionario, e spesso corrotto». Un altro fascista convinto annotava nel suo diario che «raramente le menzogne e la frode si sono sistemate nelle abitudini consuete di un grande popolo come si stanno attualmente instaurando nella classe dirigente del popolo italiano». Più articolato, ma fededegno, il commento di un informatore, che protestava per «una politica interna in mano ad elementi che servono solo in apparenza il capo e il fascismo, ma che in realtà servono unicamente la propria vanità e il proprio esclusivo interesse» e concludeva scrivendo che «mai come oggi fu corrotta l’Italia borghese». Come risulta evidente, la percezione di un sistema corrotto era molto diffusa.

4. Una corruzione funzionale

Viene da chiedersi perché il fenomeno della corruzione, così largamente riconosciuto fra tutti quelli che avevano a che fare con le reti di influenza dei fascisti, non venisse affrontato in modo più determinato. Per quali motivi, alla fine del Ventennio, la corruzione era molto più diffusa di prima dell’avvento del fascismo? Perché quel movimento che aveva promesso la ‘moralizzazione’ della vita pubblica non seguiva le sue stesse prediche? In parte – lo abbiamo visto – la corruzione non veniva colpita perché si cercava di evitare scandali che avrebbero messo il fascismo in cattiva luce. Se alla fine degli anni Trenta il fascismo era diventato soprattutto ‘esteriorità’, come sostenevano gli osservatori più acuti, almeno le apparenze di rigore morale dovevano essere mantenute; la facciata pubblica del regime non doveva tradire i segni della malattia interna. Al riguardo, una magistratura accondiscendente facilitava le operazioni di copertura.

Il medesimo intreccio fra corruzione, affarismo e rapporti di scambio coinvolgeva anche alcuni dei gerarchi più alti – ossia quelli che in teoria avrebbero dovuto agire contro il malcostume. Non conveniva a nessuno lanciare una campagna moralizzatrice, perché chi si permetteva di denunciare altri rischiava di trovarsi contro l’intero Stato maggiore del fascismo. In un ambiente caratterizzato da ciò che Salvatore Lupo ha definito «la politica dei dossier» – cioè l’affannosa ricerca, da parte di tutti, di materiali da utilizzare, se necessario, contro gli altri – i rischi, per chi era tentato di gettare la prima pietra, erano molto forti; pertanto la convivenza negli affari assicurava un’omertà di collusione. In effetti, nei rari momenti in cui la corruzione venne additata come causa dell’espulsione di qualche gerarca dal partito, si trattò di solito di persone già cadute in disgrazia per altri motivi, per cui l’accusa di corruzione era più che altro la giustificazione di facciata.

Ma torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio: perché Mussolini non intervenne per fermare ciò che veniva percepito come una corruzione endemica e un affarismo generalizzato? Il duce era certamente a conoscenza del fenomeno; e chi pensava che non lo fosse – ed erano in tanti – si illudeva, anche se il mito dell’ignoranza del capo tornava indubbiamente comodo e serviva, semmai, a rafforzarne il culto di uomo sobrio e integerrimo in mezzo ai corrotti e agli opportunisti. L’indifferenza di Mussolini di fronte alla corruzione è da attribuire a fattori legati alla struttura del fascismo stesso e ai suoi modi di governo e controllo. Innanzitutto si può sostenere che Mussolini apprezzasse il fatto che quell’intreccio tra il fascismo e il mondo degli affari, anche se gestito e alimentato da persone corrotte, rappresentasse comunque la penetrazione del regime negli ambiti che più contavano nel paese e andasse pertanto considerato un punto di forza per il fascismo. In questo quadro il comportamento dei singoli attori appariva di importanza secondaria; ciò che contava erano i rapporti di potere, e avere fascisti alla direzione di banche e nei consigli di amministrazione di grandi e medie industrie significava gestire il potere. Lo stesso discorso valeva per i problemi spiccioli delle periferie: il federale corrotto e immorale rischiava la sua posizione solo se i suoi comportamenti minacciavano di mettere a repentaglio il controllo fascista della provincia. Per il resto, come sta a indicare l’indifferenza del duce, le grandi macchine, i ristoranti di lusso, e le donne ‘di facili costumi’ non erano poi così importanti e andavano semmai ascritte alla terribile e potente turbina della ‘rivoluzione fascista’.

C’è tuttavia da aggiungere un’ulteriore considerazione. Chi mai avrebbe potuto realizzare la bonifica del partito? E con quali conseguenze? A differenza di Hitler, Mussolini non disponeva delle SS, una guardia pretoriana pronta ad agire contro i corrotti del partito. La Milizia non era minimamente paragonabile alle SS (semmai somigliava più alle SA) e, come risulta dalle relazioni dei prefetti, molti militi erano corrotti quanto i loro compagni di partito. Invocare l’intervento della polizia sarebbe stato possibile – Bocchini sapeva fare bene il suo lavoro –, ma il risultato di una purga effettuata dallo Stato sarebbe stato un partito molto indebolito nei quadri e, soprattutto, danneggiato nel suo status di portabandiera della rivoluzione fascista. In effetti, il problema riguardava proprio la struttura del potere mussoliniano. Riformare il partito dall’interno, eliminando i corrotti e inserendo persone capaci e oneste (ammesso che se ne trovassero, dato che arruolare quadri efficienti rappresentò sempre un problema per il regime), rischiava di rendere il partito troppo forte; aggredire il Pnf dall’esterno, utilizzando soprattutto la polizia e la magistratura, avrebbe reso il partito subordinato e troppo debole. A Mussolini serviva il partito – su questo non c’è dubbio –, ma il Pnf non doveva essere né troppo forte, in grado di contestare il suo potere (come Farinacci e Adelchi Serena ebbero modo di imparare a proprie spese), né troppo debole.

In un colloquio del 1943, prima della caduta del fascismo, Mussolini parla «delle indigestioni del totalitarismo», riferendosi alle difficoltà sperimentate nel mantenere un ‘equilibrio’ fra i diversi centri di potere nel paese – e fra questi centri c’era anche il Pnf. Nell’economia del potere mussoliniano il partito aveva un suo ruolo – veicolare il consenso, certamente, ma anche controbilanciare altri centri di potere – e cambiare la natura del partito avrebbe potuto distruggere quel faticoso ma funzionale equilibrio. In una dittatura per molti versi policratica, un partito dominante, realmente totalitario e moralmente inflessibile, avrebbe creato non pochi problemi per tutti, in primo luogo per Mussolini, che sin dal 1925 aveva capito che l’Italia non avrebbe accettato un fascismo intransigente. Dal suo punto di vista era preferibile un partito immobile e stagnante, occupato con le ‘esteriorità’ e tenuto assieme da grandi e piccoli abusi di potere, rispetto a un partito dinamico, fatto di veri ‘uomini nuovi’, che avrebbe contrastato tutti quei compromessi, anche a livello locale, su cui poggiava il regime. Assai lontano dalle promesse di un fascismo ‘moralizzatore della vita pubblica’, pertanto, il partito corrotto e inefficiente faceva parte di un complesso sistema di equilibri, con la corruzione e i vari affarismi che fungevano da collante per tenere insieme un segmento non piccolo della classe dirigente fascista.

Lo squadrismo al potere.
La parabola di Roberto Farinacci di Matteo Di Figlia

Il giovanissimo Ettore non si assunse – né poteva, appunto perché giovanissimo e considerando la struttura di una famiglia siciliana – il ruolo di investigatore, di coordinatore, di guida del collegio di difesa. Avrà senza dubbio «meditato» (espressione che ricorre nelle sue lettere quando parla di una qualche difficoltà da superare), sul problema: ma proprio nel porselo come problema è da credere riuscisse a vivere il caso con più distacco e meno ansietà degli altri familiari. Che poi delle sue deduzioni, della sua soluzione del problema gli avvocati si avvalessero è del tutto improbabile. Quasi tutti «principi del foro» – e l’unico che non lo fosse era Roberto Farinacci: ma la sua nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica – c’è da immaginarsi con quale freddezza o addirittura spregio avrebbero accolto ogni profano suggerimento.

Così, nel suo La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia parlava en passant di Roberto Farinacci, individuando nella sua «temibilità politica» il motivo per cui era entrato nel collegio di avvocati che rappresentò la famiglia Majorana in beghe giudiziarie precedenti la scomparsa di Ettore. Quando Sciascia scrisse il libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, erano già disponibili un paio di biografie del gerarca, del quale ovviamente si parlava molto anche negli studi generali sul fascismo e l’Italia mussoliniana. Non so, però, se lo scrittore di Racalmuto abbia attinto a questa letteratura storiografica o se invece abbia dato conto di un rumore di fondo, di una memoria del periodo fascista che, sospesa nel pulviscolo dei racconti familiari o dei ricordi personali, era giunta fino all’Italia degli anni Settanta.

Di certo, l’idea che Farinacci si giovasse del suo peso politico anche nella professione di avvocato era diffusa sin dagli anni Trenta. Nella trascrizione di una intercettazione telefonica del 1939 leggiamo, ad esempio, che un avvocato rifiutava il nome di un collega per un patrocinio in Cassazione indicando senza indugio quello di Farinacci: «no; oggi Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze che nessuno immaginerebbe mai […], Farinacci supera tutti, ha più influenza». Quest’ascendente era stato costruito nel tempo, attraverso una pervicace prassi volta all’acquisizione di una visibilità strettamente connessa al suo essere considerato leader del fascismo intransigente. Organizzatore delle violentissime squadre cremonesi nei primi anni Venti, assertore di una fascistizzazione completa del paese nel periodo successivo, era stato messo a capo del Partito nazionale fascista dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, ma aveva perso la carica di segretario nazionale un anno dopo (1926). Le ragioni di questo allontanamento erano profonde e avevano a che fare con il conflitto con Benito Mussolini, intento ad attenuare il clima di terrore in cui le squadre avevano gettato il paese. Sui suoi giornali «Cremona nuova» e, poi, «Il Regime fascista», Farinacci non smise mai di auspicare fascistizzazioni feroci dell’establishment italiano, di scagliarsi contro coloro che, giunti al fascismo dopo la marcia su Roma, non potevano a suo dire essere considerati affidabili interpreti delle politiche del regime. Né mancò di lanciare strali contro i suoi avversari fascisti cui attribuiva arricchimenti illeciti, accusandoli di aver tradito la rivoluzione. Ne derivarono continui contrasti col duce, stremato dai suoi richiami moralizzatori e consapevole di quanto lo stesso Farinacci avesse avuto modo di migliorare le sue condizioni di vita:

Quanto alla pezzenteria ed alle fortune – gli scriveva nel 1928 – io non contesto che tu fossi un pezzente nel 1922, ma nego nella maniera più recisa che tu sia rimasto un pezzente anche nell’anno di grazia 1928 – sesto del regime Stop. I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso Stop. La demagogia del falso pezzentismo mi est odiosa come l’esibizionismo pescecanesco Stop.

Lo stesso concetto gli veniva ribadito da altri gerarchi: «io ora vado in automobile – gli disse Leandro Arpinati in una agitata riunione svoltasi poco tempo dopo –, ho la serva, tutte cose che prima non avevo. […] Ho una posizione sociale che prima non avevo e che mi permette un determinato tenore di vita. Tu stesso che fai l’avvocato io credo che tu non pensi che saresti diventato il grande avvocato Farinacci se non fossi l’ex segretario del partito».

Oltre che ergendosi a paladino dell’intransigentismo, però, Farinacci si difendeva mettendo insieme dossier sui suoi avversari, dai quali potevano evincersi malefatte e illeciti su cui costruire questioni morali

 

Gli autori

Paolo Giovannini

Paolo Giovannini insegna Storia contemporanea all’Università di Camerino. Ha studiato la storia sociale della psichiatria, del movimento cattolico e del fascismo. Tra le sue pubblicazioni, La prima democrazia cristiana. Progetto politico e impegno culturale (Edizioni Unicopli 2014), La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale (Edizioni Unicopli 2015) e Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918) (Affinità Elettive 2017).

Marco Palla

Marco Palla ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Firenze. Ha studiato a lungo il periodo 1914-1945 e ha pubblicato, tra l’altro, Firenze nel regime fascista 1929-1934 (Olschki 1978), Fascismo e Stato corporativo (Franco Angeli 1991) e Mussolini e il fascismo (Giunti 1993). Ha curato volumi sullo Stato fascista, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, l’antifascismo a Prato e la storia della Resistenza in Toscana.

 

RECENSIONE Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA

IL FASCISMO DALLE MANI SPORCHE-

Dittatura, corruzione, affarismo

Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA

-Quaderno 4103 -pag. 517 – 518-Anno 2021-Volume II

La storiografia relativa al Ventennio mussoliniano ha considerato a lungo i temi dell’affarismo e della corruzione tutto sommato marginali. Le prime ricostruzioni generali del periodo non si occuparono affatto di questi argomenti, ma un gran numero di contributi più recenti ha messo in rilievo come simili fenomeni non abbiano caratterizzato solo il tardo fascismo, ma siano stati presenti anche in quello degli inizi e, rispetto allo Stato liberale, in una forma addirittura più estesa. Il quadro di insieme è apparso dunque caratterizzato da truffe, tangenti, legami con la mafia, arricchimenti rapidi e inspiegabili; quella di Mussolini fu, quindi, tutt’altro che una «dittatura degli onesti».

È quanto viene documentato in questa raccolta di saggi curata da Giovannini e Palla, ai quali va riconosciuto il merito di aver illustrato in maniera esauriente il nesso tra politica e affari, nonché quanto la prima componente di questo legame sia stata decisiva nell’agevolare il successo della seconda. Detto altrimenti: il regime che intendeva forgiare un «uomo nuovo» e correggere nel contempo le storture dell’Italia post-unitaria vide al contrario estendersi a macchia d’olio il malaffare, che raggiunse il cuore delle istituzioni statali.

Nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo durante l’epoca fascista vi fu insomma un vero e proprio «salto di qualità»: una dinamica in grado di spiegare i successi e la notevole accumulazione di ricchezze che riuscirono a realizzare alcuni tra i protagonisti della scena economica e finanziaria di quegli anni: da Giuseppe Volpi, magnate dell’industria elettrica privata, al generale Ugo Cavallero, presidente dell’Ansaldo, fino all’imprenditore Alberto Pirelli.

Le cosiddette «mani sporche» furono però anche quelle di alcuni esponenti di primo piano del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza e il giovane pesarese Raffaello Riccardi, ai quali occorre aggiungere una miriade di «pesci piccoli» che, dopo la conquista dell’Africa orientale, ricercarono occasioni propizie nelle colonie, provando a «oliare» le ruote giuste.

Una pratica, quella della corruzione, della quale lo stesso Mussolini era pienamente consapevole, tanto da dedicare costanti attenzioni – mediante l’attività della censura e della propaganda – al suo occultamento. Così, da un lato, venne elaborato un «discorso pubblico» finalizzato a indicare nell’ormai consolidato regime fascista l’unico elemento moralizzatore presente nel sistema istituzionale italiano e, dall’altro, rimase costante la disponibilità del Duce a coprire scandali e ladrocini.

Frutto di un’attenta consultazione dei fondi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, questo volume sfata dunque il mito della presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e, in parte, del suo sistema dittatoriale: un’immagine rimasta però curiosamente nella memoria di molti e che si sarebbe riaffacciata verso la fine del secolo, quando avrebbe preso piede la tendenza a contrapporre un sistema democratico ormai screditato a un regime che sarebbe rimasto invece sostanzialmente immune dalla corruttela affaristica. Osservano al riguardo i due Curatori: «Da Tangentopoli nel 1992 a oggi […], è parso più credibile, agli occhi di una parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal “cono d’ombra” delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi» (p. VII).

È pertanto probabile che molti contributi forniti dalla storiografia non sia­no purtroppo riusciti a trovare gli opportuni canali di diffusione nell’ambito della cultura di massa né dei vari ordini e gradi nei quali si articola l’insegnamento scolastico.

 

RECENSIONE il manifesto

Paolo Giovannini - Marco Palla

Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo
a cura di PAOLO GIOVANNINI – MARCO PALLA
Roma – Bari, Laterza, 2019, 272, € 22,00.