Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo-Editori Laterza

Biblioteca DEA SABINA

Manuela Consonni- L'eclisse dell'antifascismo
Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo

Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo

Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989

Prefazione di Anna Foa-Editori Laterza

Epilogo

La distanza che vi è tra voi e il vicino che non vi è amico è in verità più grande di quella che è tra voi e la persona che amate e che vive al di là delle sette terre e dei sette mari. Giacché nel ricordo non vi sono lontananze; e nell’oblio vi è un abisso che né la voce né l’occhio potranno mai accorciare.

Kahlil Gibran-Il giardino del profeta, 1933

DESCRIZIONE

L’eclisse dell’antifascismoracconta l’intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l’Italia democratica. Un paradigma quello antifascista – e il suo uso politico – non privo di conseguenze anche nell’oggi.
Pilastro della narrazione de L’eclisse dell’antifascismo è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.

AUTORE

Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica. Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.

Prefazione di Anna Foa

È un libro, questo di Manuela Consonni, che farà probabilmente discutere. Perché tocca temi tuttora scottanti del nostro dibattito storiografico e politico, e lo fa senza aderire a nessuno degli schieramenti esistenti.

L’autrice, storica dell’Università di Gerusalemme, propone un’interpretazione originale del modo con cui il nostro Paese ha costruito, fin dalla liberazione, il paradigma interpretativo della sua storia, quello antifascista. Un paradigma che, pur senza mai essere completamente rigettato e nemmeno rimesso formalmente in discussione dalla politica, si è trasformato in un paradigma essenzialmente culturale. A sostegno della sua tesi, Consonni analizza minuziosamente la memorialistica resistenziale e della deportazione, sottolineando il ruolo della memoria e della questione ebraica nella costruzione di quella che potremmo chiamare “l’ideologia della Repubblica”.

Per Consonni, fin dai primi anni i partiti della Repubblica hanno preferito non fare un serio bilancio del passato, rimuovendo le responsabilità del fascismo e del regime di Salò, e affrettandosi a gettare esclusivamente sui nazisti le colpe di quanto era accaduto. Con l’amnistia varata da Togliatti allo scopo di promuovere l’inserimento del Partito comunista nell’area della politica di governo, si posero tutte le premesse per la debolezza politica del paradigma antifascista, presto ridotto a pura retorica celebrativa e relegato nella sfera della cultura. La memorialistica ha sostanziato l’antifascismo culturale, il ricordo dei campi nazisti ha portato il mondo ebraico a partecipare dell’etica resistenziale, mentre sul piano politico la Guerra Fredda ha reso l’antifascismo sempre più un fenomeno di opposizione, appartenente esclusivamente alla sinistra. Con cambiamenti e cesure, naturalmente.

La nuova resistenza dei ragazzi degli anni Sessanta lo ha riportato in auge, insieme a quelle che apparivano come aperture del centro-sinistra, mentre successivamente il richiamo strumentale delle Brigate Rosse alla Resistenza ha posto le basi per il suo declino. Nel frattempo, la memorialistica ha ricostruito la questione ebraica isolandola rispetto alla Resistenza, e rompendo quel legame strettissimo tra ebrei e sinistre, tra ebrei e lotta contro il nazifascismo, che aveva caratterizzato i primi decenni dopo la liberazione. La Shoah, così come si è andata costruendo a livello memoriale dagli anni Settanta in poi, nella sua unicità e nella sua separazione dalla Resistenza, alienata – potremmo dire – dalla storia e dalla percezione degli ebrei italiani, ha contribuito forse anch’essa, in qualche misura, all’eclisse dell’antifascismo, o perlomeno alla sua monumentalizzazione. E anche la storiografia, fino ai primi anni Settanta ancora intenta a ricostruire il fascismo e la Resistenza all’interno di questo paradigma, ha cominciato a fornire interpretazioni diverse.

L’analisi che Manuela Consonni dedica all’intervista di Renzo De Felice sul fascismo si inserisce in questo quadro, ma sembra mettere tra parentesi gli aspetti maggiormente accolti in questo vivace dibattito: quelli sul consenso. In realtà, il rifiuto del consenso fa parte del paradigma antifascista e della sua volontà di dimostrare che la maggioranza degli italiani non aderì veramente al fascismo ed è quindi monda da colpe. Ne rappresenta però anche il punto debole: di lì vengono la rimozione delle leggi razziali, durata fin quasi agli anni Novanta nella società e nella cultura del nostro Paese, quella delle colpe di Salò, e il mito del buon italiano. Solo che fino ad un certo momento questa lettura storiografica è stata parte del paradigma antifascista, mentre una nuova interpretazione “revisionista” contribuisce a minarne la credibilità.

Manuela Consonni costruisce la sua argomentazione sul nesso tra la duplice elaborazione memoriale – quella della Resistenza e quella della deportazione ebraica – e la cultura politica italiana. Questo nesso fa emergere anche la singolarità del percorso italiano, naturalmente ancorata nella storia del nostro Paese, nel ventennio fascista, nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel complesso rapporto tra la liberazione ad opera degli angloamericani e la Resistenza armata.

Ma tale singolarità emerge anche nel tipo di bilancio storico e memoriale che in Italia viene fatto del periodo fascista e del periodo della deportazione, non solo degli ebrei, evidentemente, ma anche dei politici e dei militari (come quella assai meno nota dei carabinieri).

Un altro aspetto interessante del percorso tutto italiano è rappresentato dalla mole di libri, scritti, memorie, che dalla fine della guerra in poi, con modalità diverse ma pressoché ininterrottamente, continuano ad essere pubblicati, contrariamente all’immagine di un lungo silenzio affermatasi quasi unanimemente nella storiografia. Una messe di scritti che in queste pagine vengono riportati alla luce, ricostruiti, ricollocati nel loro contesto, in quel che rappresenta uno dei risultati più innovativi di questo volume.

Le ragioni del declino, della eclisse di questo paradigma fondante sono, come sempre accade, innumerevoli: il contesto internazionale, con la fine della Guerra Fredda e poi la caduta del comunismo, ne rappresenta probabilmente la ragione primaria, forse anche perché il paradigma antifascista ha rappresentato per molto tempo un fattore di impedimento, per la sinistra italiana non comunista, nel denunciare i misfatti del cosiddetto “comunismo reale”. Come ci si poteva schierare contro l’Unione Sovietica, che a Stalingrado aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista, che aveva liberato Auschwitz? Rinunciando al comunismo non si finiva forse per approdare nelle braccia del fascismo? I pochi che lo hanno fatto sono assurti al ruolo di eretici a tutte le religioni, a tutte le politiche.

La strumentalizzazione del paradigma antifascista lo ha però svuotato del suo significato: rendendolo retorico e condivisibile da chiunque – sostiene Consonni –, ne ha determinato le debolezze e poi la caduta. Certo, c’erano in gioco esigenze anche importanti della politica, per esempio quella di fingere un’Italia tutta antifascista per potersi sedere al tavolo dei vincitori anziché a quello dei vinti. Ma c’erano anche, purtroppo, la continuità della macchina statale fascista, del potere giudiziario, la difficoltà di riparare alla vergogna delle leggi razziali, la strumentalità stessa con cui si sono usati gli ebrei e la questione ebraica, come dimostrano le lucide e premonitrici pagine di Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, qui analizzate con particolare finezza. Il rifiuto degli ebrei di separarsi, inizialmente, dalla Resistenza, la loro esigenza di presentarsi come italiani e combattenti (e tutti sappiamo quanti di loro hanno ingrossato le file della guerra di liberazione) ha una ragione di più in questa strumentalizzazione da parte di chi, dopo aver dato la caccia agli ebrei, era pronto ad usarli per sbiancarsi le mani.

Il libro di Manuela Consonni pone questi e molti altri problemi, lascia spazio al dibattito sulle questioni irrisolte, ne apre molte che pensavamo chiuse, invita ad affrontarle dal punto di vista storico e politico. A patto di non dimenticare ancora una volta che la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale.

D’altronde le svolte, nel nostro Paese, comportano sempre la rimozione, come abbiamo visto e continuiamo a vedere anche nell’Italia di oggi. E questa è forse la ragione che le rende tanto fragili.

Dicembre 2014

Introduzione

L’eclisse dell’antifascismo intende percorrere la storia del “paradigma antifascista”, cioè dell’antifascismo eretto ad asse portante e idea fondante della Repubblica italiana, dalla sua nascita al suo declino. Il suo sottotitolo, Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, spiega la struttura non sistematica del testo che, sebbene organizzato in tre parti, dedicate ciascuna ad un periodo diverso di questa storia – il periodo dal 1943 al 1948, quello tra il 1948 e il 1967, quello infine che copre gli anni Settanta ed Ottanta fino alla dissoluzione del mondo comunista, iniziata dalla Perestrojka di Michail Gorbaëv nel 1987, ma iscritta nella memoria storica europea dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 – procede per biopsie storiche, che abbracciano dibattiti politici e storiografici, la stampa, specifiche riviste, molte recensioni, innumerevoli memorie. Le diverse fonti si alternano nella discussione accentuando ora alcuni aspetti ora altri, tutti però convergenti nel sottolineare come l’antifascismo, nella sua storia e nella sua cultura, sia stato il momento più alto, di maggiore tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto.

Il libro si sostanzia attraverso l’intreccio di tre percorsi: quello della storia politica del nostro Paese, quello della memoria della Resistenza e del fascismo e quello della memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. Il fatto di trattare simultaneamente la politica e la cultura politica antifascista (includendo in quest’ultima il descritto dibattito memoriale) mette in una luce diversa, rispetto a quanto finora accettato, lo stretto legame tra l’antifascismo e la sua cultura e la deportazione politica e lo sterminio ebraico in Italia, fra italiani ed ebrei italiani, distinguendo il momento della scrittura da quello della sua recezione nel tempo. Nel volume, inoltre, si intende mostrare come il mondo ebraico del dopoguerra assuma sin dall’inizio un ruolo autonomo, di protagonista politico della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia.

Pilastro della narrazione è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, ne rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.

L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato cha ha contribuito a forgiare l’Italia democratica. Esso è l’ideologia di quanti, nel 1945, si impegnarono a ricostruire l’Italia e a darle un posto accanto alle nazioni che avevano sconfitto il nazifascismo, consentendo, pur nelle forti differenze ideologiche, a partiti disparati e divisi di formare coalizioni di governo e di iniziare l’opera di ricostruzione di un Paese distrutto, materialmente e moralmente, dalla guerra fascista, dalla deportazione e da una terribile occupazione. Esso costruisce, in altre parole, le coordinate istituzionali e politiche su cui si regge la difficile e dolorosa transizione dal fascismo alla Repubblica. Una repubblica sorta sull’alleanza dei partiti usciti dalla lotta di liberazione, il cui schema interno riflette, in modo profondo, il carattere d’emergenza dell’ampia alleanza antifascista tra le due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, che avevano cooperato alla sconfitta del nazismo e del fascismo. Tale alleanza era fondata su due concezioni diverse dell’antifascismo che esprimevano, a loro volta, visioni discordanti dell’interpretazione del passato: per gli americani e i loro alleati occidentali la lotta contro il fascismo era stata una lotta della democrazia contro le forze oscure che avevano violato la pace e perpetrato crimini di guerra e reati contro l’umanità; per i sovietici, invece, la chiave di lettura era costituita dall’opposizione del binomio fascismo/antifascismo: una questione di natura ideologica, quindi.

Il processo di Norimberga riassume perfettamente nella sua conduzione e nei suoi esiti la tensione tra questi due poli narrativi. In Italia, dove la narrazione storica non fece proprio il linguaggio giuridico dei processi – perché non ce ne furono, almeno non nella stessa misura della Francia o delle due Germanie –, e dove la guerra di liberazione e i suoi morti erano divenuti il passato su cui ricostruire il Paese, si generò più che nelle altre nazioni un racconto interamente declinato sull’antifascismo, ma privo del lessico processuale e di una rielaborazione critica del passato fascista.

Con la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e con la Guerra Fredda il paradigma antifascista si incrina, ma resta comunque al centro della cultura politica e storiografica italiana, pur perdendo efficacia sul terreno dell’alleanza politica allargata. L’antifascismo rimane forte e indiscusso soprattutto nei partiti di sinistra – comunisti e socialisti, ma anche nei partiti laici non marxisti – che lo ritengono centrale per la vita democratica del nostro Paese. Per gli uni e per gli altri esso rappresenta l’idea a cui aggrapparsi per proteggersi dagli attacchi della destra conservatrice. Viceversa, non è tanto l’antifascismo quanto l’anticomunismo a prevalere nell’ideologia politica dei partiti che vincono le elezioni nel 1948, emarginando le sinistre dal governo, mentre l’antifascismo e il suo paradigma interpretativo si spostano al centro della sfera culturale. Cultura e politica iniziano una separazione destinata a durare a lungo, il cui impatto e le cui contraddizioni si trascinano fino ad oggi. Alla radice di questa separazione ci sono anche le debolezze intrinseche alla nascita stessa del paradigma antifascista e al suo uso politico: si rimuovono le colpe del fascismo, privilegiando la continuità dello Stato rispetto alla necessità di fare i conti col passato.

Il paradigma antifascista resta tuttavia parte integrante dell’immagine del Paese che, mentre rifiuta il fascismo, trae dalla memoria della lotta di liberazione la spinta ad appellarsi alle masse contadine ed operaie perché partecipino alla vita democratica e dal ricordo della deportazione politica e dello sterminio ebraico – coltivato grazie ad una vasta memorialistica, senza dubbio la più grande in Europa – ricava la dolorosa consapevolezza di una battaglia ancora aperta, da proseguire perché eventi come quelli occorsi non abbiano a ripetersi.

In tale processo, il timore di un possibile rigurgito del fascismo sembra farsi concreto nel dibattito sia politico che culturale della sinistra, e uno sguardo retrospettivo mostra come questa possibilità fosse percepita come una realtà forte e pericolosa, tanto da far diventare l’antifascismo il cardine di ogni discorso politico-istituzionale e culturale sul passato. La destra democristiana e la destra fascista appaiono, in questo contesto, fenomeni quasi del tutto assimilabili, mentre l’anticomunismo sembra a volte stravolgere anche l’antifascismo, persino quando esso torna a farsi carne e sangue dell’Italia politica, soprattutto a sinistra. Il dibattito sul fascismo si fa, allora, vivace e attento, e la storiografia ne approfondisce gli aspetti sociali, politici, culturali. Il processo ad Adolf Eichmann, tenuto a Gerusalemme nel 1961, è un esempio paradigmatico di questa tensione: esso formalizza infatti, sul piano storico, la morte degli ebrei nei campi di concentramento come resistenza al fascismo, oltre a riempire di nuovi contenuti la memoria dello sterminio ebraico, grazie all’emergere della figura del testimone come suo depositario storico. Va precisato, per il nostro discorso, il cambiamento occorso a causa della guerra dei Sei giorni del 1967, il cui impatto e i cui esiti si protraggono fino ai nostri giorni. La guerra lampo israeliana provoca la rottura dell’alleanza fra una parte del mondo ebraico e la sinistra politica, mettendo in questione l’antifascismo ebraico, mentre si afferma una sinistra filoaraba e antisraeliana, e l’antisionismo si presenta, nella nuova lettura postcoloniale, come il riflesso di una società in cui l’odio verso gli ebrei non ha smesso di riprodursi, ma va in cerca di nuovi attributi su cui sfogarsi.

Successivamente il paradigma antifascista comincia a mostrare i primi segni di logoramento e ad apparire ‘sfalsato’ rispetto alla situazione politica e sociale del Paese. Ad isolarlo politicamente sono dapprima la strategia della tensione e poi il terrorismo con la sua pretesa di portare a compimento una Resistenza incompiuta. Sul piano storiografico è la revisione profonda del fascismo avviata in Italia dall’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice e dal dibattito nato intorno al libro, dieci anni prima che esplodesse la Historikerstreit in Germania, a rendere fragile l’antifascismo ormai incapace di rappresentare ancora un sostegno ideologico efficace dello Stato. Contemporaneamente anche la memoria dello sterminio ebraico prende le distanze da quella della deportazione politica e della Resistenza, caratterizzandosi per un paradigma “vittimologico” che vedrà il suo maggiore sviluppo dopo la dissoluzione del mondo comunista, e che non comprenderà in sé la lotta contro il nazifascismo ma solo i suoi morti ebrei. L’eclisse del paradigma antifascista in Italia precede così il suo tramonto in tutta Europa con il 1989.

Malgrado sia venuto meno il conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia marxista e i fautori del mondo libero, l’antifascismo rimane tuttavia il luogo privilegiato per reinterpretare e capire l’Italia repubblicana, quella di ieri ma forse e soprattutto quella di oggi, senza ambiguità ideologiche e senza equivoci. Sine ira et studio.

M.C.

Gerusalemme, dicembre 2014

Ringraziamenti

La mia gratitudine va a tutti coloro che mi hanno aiutata, sostenuta, sopportata, consigliata e accompagnata in questo lavoro.

In particolare ringrazio Sara Airoldi, Reuven Amitai, Michele Battini, Avi Bauman, Louise Bethlehem, Giovanni De Luna, Dan Diner, Bettina Foa, Luigi Goglia, Carina Grossman, Carola Hilfrich, Natalia Indrimi, Shulamit Laron, Eli Lederhendler, Manuela Leoni, Giovanni Levi, Stella Levi, Avishai Margalit, Andrea Marinucci, Dario Massimi, Maren Niehoff, Charlette Ottolenghi, Silvio Pons, Pier Paolo Portinaro, Yoav Rinon, Fegie Schwartz, Fiammetta Segrè, Moshe Shlukowski, Dimitri Shumski, Maurizio Tagliacozzo, Mario Toscano.

E poi grazie agli amici delle sere dello shabbat: Sharon e Zeev Tamuz, Ayelet Gross, Shai Zeltzer e Eytan Horowitz.

Un ringraziamento speciale ai miei genitori.

E un altro ancora ad Anna per la sua pazienza, affetto, per i consigli fondamentali e le parole importanti e decisive.

E, poi, ancora un ultimo grazie ad Abed per la costanza e per la saggezza.

I. Il paradigma politico e culturale

Nei primi anni del dopoguerra l’Italia del postfascismo fu dilaniata da una serie di contraddizioni fra le diverse forze che avevano combattuto insieme nella lotta di liberazione. Questa condizione segnò la fine delle speranze in un mutamento politico e sociale radicale, tale da costituire una chiara condanna dell’esperienza fascista, che aveva trascinato il Paese negli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, e l’instaurarsi di una complessa dialettica fra le varie forze in campo.

Possiamo riconoscere alle radici dell’ethos repubblicano e patriottico italiano cinque momenti fondamentali: il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e l’avvento del governo provvisorio di Pietro Badoglio; l’8 settembre 1943, data dell’armistizio firmato a Cassibile; il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione di Milano e quello in cui il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) e la condanna a morte dei maggiori gerarchi fascisti (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato a Dongo tre giorni dopo); il 2 giugno 1946, il referendum istituzionale che segnò il passaggio dalla monarchia alla repubblica; il 1° gennaio 1948, giorno in cui, dopo 18 mesi di lavoro, l’Assemblea Costituente approvò il nuovo testo costituzionale. Il fondamento dei valori che legò insieme queste cinque fasi storiche fu il paradigma antifascista, che legittimò la futura democrazia dall’interno, proponendo da subito la Resistenza come il punto di partenza per la riaffermazione dell’identità nazionale italiana ormai smarrita.

La ricostruzione, basata su questo paradigma, della vita politica e culturale della società italiana fu caratterizzata dalla tensione ideologica tra le diverse forze politiche che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo, forze che erano tornate ad essere, dopo la breve e comune parentesi resistenziale, ideologicamente antagoniste e in lotta per il potere. L’alleanza che durante la guerra si era stabilita tra libertà e uguaglianza sociale, tra mondo cattolico e liberale e mondo socialista e comunista, era un’alleanza fra ideologie che si presentavano come interpretazioni universali del mondo, in particolare il cattolicesimo e il comunismo. La loro lotta comune contro il nazifascismo era stata una lotta contro un’ideologia altrettanto universale, che interpretava la storia umana in termini razziali, nel contesto di un biologismo politico e sociale. Finita la guerra, venne meno la necessità storica di tale coalizione e le forze in campo tornarono a confrontarsi nell’arena politica, opponendo il principio della libertà individuale a quello dell’eguaglianza sociale.

Da parte del mondo cattolico e liberale l’antifascismo veniva rivendicato soprattutto in quanto capitale simbolico da utilizzare per il controllo dei poteri politici e istituzionali. L’antifascismo socialista e comunista, da parte sua, si richiamava al modello sovietico e comportava la fedeltà al comunismo, entro cui collocava la sua stessa partecipazione alla Resistenza. Fu la tensione tra questi due poli d’attrazione a caratterizzare il paradigma antifascista. Esso, però, fu non solo il risultato dello scontro ideologico e politico contro il fascismo ma, soprattutto dopo la guerra, anche la forma istituzionale attraverso cui si tentò di risolvere il problema della continuità storica dello Stato dopo il crollo del regime fascista. Alla fine della guerra, si trattava non solo di modificare – all’interno di una sostanziale continuità dello Stato – la forma di governo, ma di rifondare l’unità nazionale e il fondamento dei valori su cui si sarebbe basata la legittimità del potere politico. Se il conflitto tra le forze della Resistenza e il fascismo aveva determinato la sconfitta dello Stato fascista, la marcata divisione fra i partiti vittoriosi rendeva necessario un paradigma comune molto forte.

Come osservò Antonio Baldassarre, il paradigma antifascista, nel suo essere universalmente riconosciuto, delimitò lo spazio all’interno del quale le forze sociali e politiche avrebbero potuto radicare la legittimità del nuovo potere democratico forte. Ma determinarne i confini non significava ugualmente stabilire i motivi della legittimazione stessa. Nella situazione storica dell’immediato dopoguerra, il paradigma antifascista funzionò come sostegno ideale e politico della nuova forma istituzionale. Esso ebbe però bisogno di costruire una sua memoria del passato, dal fascismo alla Resistenza, e di renderla politicamente attiva. In questo contesto, l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso il passato della guerra, della deportazione e dello sterminio, e la politicizzazione della memoria determinarono due alternative conflittuali e in competizione, caratterizzate durante il processo di transizione verso la democrazia, ma forse e ancora più nel corso della sua stabilizzazione, dalla permanente tensione tra l’idea di aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non aver ancora iniziato a farli.

Visto sotto questo profilo il paradigma antifascista svolse quindi una duplice funzione: rappresentò il legame storico con il passato antifascista utilizzato per costruire il nuovo Stato democratico e il modello che pose le condizioni formali per la legittimazione del nuovo ordine, convalidando il riconoscimento reciproco delle forze politiche in campo. La democrazia avrebbe potuto così ricevere la propria giustificazione istituzionale. Al tempo stesso, fuori dalla politica istituzionale, il paradigma antifascista consentì la costruzione di un epos patriottico e antifascista ancorato, nello specifico contesto della memoria, alla tensione ideologica e di opposizione al fascismo che solo la Resistenza e la guerra partigiana potevano offrire. Questo intreccio fece sì che la memoria divenisse un elemento costitutivo del paradigma antifascista.

Dopo la liberazione di Roma nella primavera del 1944, nel Nord le formazioni partigiane rimasero sole a fronteggiare l’attacco nazifascista. La sollevazione, che si concluse con l’insurrezione armata del 24 aprile 1945, ebbe inizio con lo sciopero del 18 aprile a Torino, che si estese poi a tutte le regioni settentrionali, sicché al loro arrivo le autorità alleate trovarono un’Italia del Nord già in parte libera dai tedeschi. Il moto stesso dell’insurrezione antinazista e antifascista aveva determinato una situazione per molti aspetti ‘prerivoluzionaria’ in tutta l’Italia che si trovava a nord della Linea Gotica, la parte più importante del Paese, sotto l’aspetto industriale. Già dal settembre 1943, nel memoriale steso ad uso interno dell’esecutivo piemontese del Partito d’Azione, Giorgio Diena e Vittorio Foa avevano sottolineato questa condizione di fluidità politica, avevano cioè constatato la finis Italiae e la possibilità di un cambiamento in senso rivoluzionario: “In seguito all’armistizio e alla doppia invasione, l’Italia non esiste più come forza autonoma. Essa è oggi un semplice oggetto di destinazione militare, e se non interverrà un fatto nuovo, essa sarà in avvenire un semplice oggetto di destinazione politica”. Secondo la loro opinione, spettava alle formazioni partigiane la responsabilità di creare un nuovo progetto che, con la sua carica di rinnovamento e di rottura, avrebbe potuto estendersi all’intero Paese, permettendo di dare vita, in assenza di ogni carica istituzionale, a nuove autorità con iniziativa autonoma. Solo a queste condizioni l’Italia avrebbe cessato di essere, oltre che “passivo campo di battaglia”, una “semplice espressione geografica”.

In altri termini, Foa e Diena sostenevano che l’unico modo per impedire all’Italia postfascista di avviarsi verso soluzioni politiche reazionarie, e di diventare un agente passivo nelle mani di forze esterne, era un’iniziativa popolare sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale: tale iniziativa non solo avrebbe dovuto avere un carattere rivoluzionario, di cambiamento radicale, ma doveva aver luogo in sede precostituente, per spostare i rapporti politici e sociali prima ancora della messa in funzione dei meccanismi costituzionali e legislativi, ed inserirsi nella situazione di assenza o di semicarenza dell’autorità che si sarebbe inevitabilmente ripresentata al momento della ritirata tedesca.

Se ciò non avvenne fu – come affermò Palmiro Togliatti nel discorso tenuto al Consiglio nazionale del Partito comunista il 7 aprile 1945, alla vigilia della liberazione del Nord e dell’ordine di insurrezione alle Brigate Garibaldi – grazie alla scelta politica fatta dal Pci con la svolta di Salerno: “Noi sapevamo benissimo che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere (…), ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro Paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva”. Togliatti comprese, cioè, l’aspetto ‘esterno’, la collocazione internazionale dell’Italia: “Il quadro politico italiano nella sua lotta antifascista” era stato “assolutamente non rivoluzionario”, era stato quello “di un Paese che a causa del fondersi di elementi più avanzati del capitale finanziario con sopravvivenze feudali” aveva conservato “caratteristiche profondamente reazionarie”.

Nella primavera del 1945, con la liberazione e grazie alla presenza di dirigenti politici usciti dalla Resistenza, sembrò che gli ideali della lotta partigiana fossero finalmente giunti al potere, ma il fallimento immediato del primo governo postfascista, formatosi nel giugno di quell’anno sotto la guida di Ferruccio Parri – personaggio di spicco del Partito d’Azione e celebrato comandante partigiano nella guerra al nazifascismo – e comprendente tutte le forze confluite nel Comitato di Liberazione Nazionale, dimostrò che il contrasto tra apparenza e realtà non avrebbe potuto essere maggiore. La vecchia burocrazia e la grande industria, passate quasi indenni attraverso il fascismo e la guerra, continuavano a rappresentare il tessuto connettivo della società italiana. Conservatrici per formazione, l’una e l’altra erano amareggiate dalla riduzione del loro potere sociale ed economico, e ne attribuivano la colpa non alla guerra provocata dal fascismo bensì alla nuova realtà politica e a quei partiti che avevano assunto la direzione del Paese. Il fantasma dell’epurazione politica le spinse ancora più a destra, contrastando attivamente l’indirizzo preso all’interno del Movimento di Liberazione. Di ciò scrisse lo stesso Parri anni dopo, affermando che nonostante la liberazione l’Italia era rimasta in gran parte lo stesso Paese fascista dei vent’anni precedenti.

La spinosa questione dell’epurazione politica dominava la scena nazionale, con la conseguente necessità di punire i colpevoli dei delitti fascisti, insieme al costante pericolo di un ritorno offensivo del fascismo. Sebbene fosse stato lo stesso Badoglio, nel febbraio del 1944, a creare l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, l’epurazione politica venne accolta con timore e preoccupazione. Il suo fallimento non fece che riflettere il fallimento politico in atto, nonché la rinuncia a un più generale rinnovamento, che avrebbe dato origine a nuove realtà politiche e istituzionali. Un’epurazione di vasta portata avrebbe potuto realizzarsi solo se il fascismo fosse stato riconosciuto come un fenomeno politico e sociale profondamente radicato nella vita italiana e non fosse stato invece considerato, come sosteneva Benedetto Croce, un incidente di percorso, un’improvvisa e nefasta malattia di un corpo sociale per altro fondamentalmente sano. Dietro la rinuncia all’epurazione politica dello Stato stava il tipo di accordo raggiunto nell’aprile del 1944: il re, quello stesso re che aveva chiamato il fascismo al potere, era rimasto al suo posto anche se aveva ceduto le proprie funzioni; il principe ereditario era diventato luogotenente generale del Regno, e insieme a lui erano stati esclusi da ogni forma di indagine e di punizione il generale Badoglio e tutta una serie di alti ufficiali, anch’essi gravemente compromessi col regime.

L’epurazione così come venne realizzata rappresentò nella sostanza un insieme di provvedimenti che, sia pure del tutto giustificati singolarmente, finirono con l’apparire come il prodotto di procedimenti casuali se non addirittura dettati da desiderio di vendetta. Coloro che ne rimasero colpiti, sia pure in misura inefficace, o che temevano di essere colpiti in seguito, tesero a rialzare la testa, a criticare a voce sempre più alta le commissioni giudicanti e gli atteggiamenti dei partiti che ne erano responsabili. L’eliminazione, nel marzo del 1946, dei prefetti politici (giudici regionali) posti in carica dal Cln nelle zone che erano state liberate fu un altro riflesso di questa tendenza.

Il fallimento dell’epurazione è da considerarsi tutt’altro che un episodio marginale nella ricostruzione italiana del dopoguerra. La sua mancata realizzazione provocò un cambiamento nello stato d’animo di larghi settori dell’opinione pubblica, diventò il catalizzatore di un blocco sociale di orientamento conservatore o reazionario che si opponeva ai partiti che, in un modo o nell’altro, si presentavano come innovatori e progressisti. Difatti una incisiva politica di epurazione avrebbe potuto realizzarsi solo se fosse stata imposta dall’esterno, dalle forze alleate, dopo la sconfitta militare e l’armistizio: in questo modo, in quanto decisa dagli Alleati, non sarebbe apparsa luogo di arbitrio, e avrebbe aiutato la ricomposizione dell’unità nazionale, offrendo al Paese una via condivisa per affrontare il passato fascista. Ma questo avrebbe comportato, appunto, il riconoscimento della natura del fascismo da parte di tutte le forze politiche che lo avevano combattuto. Senza contare che gli Stati Uniti non erano interessati ad imporre una severa politica di epurazione, che avrebbe minato seriamente la loro strategia di opposizione al comunismo nell’area mediterranea.

La rinuncia ad attuare l’epurazione politica attraverso modalità processuali vere e proprie, come avvenne in Francia e in Germania, fu l’occasione persa definitivamente di ricostruire l’Italia democratica e liberale, la prima grande sconfitta politica e morale del mondo uscito dalla Resistenza, dalla deportazione e dallo sterminio. Ricorda puntualmente Pier Paolo Portinaro: “L’aver liquidato (…) il dittatore responsabile dell’instaurazione del regime finì non per favorire ma per ostacolare l’epurazione. In analogia a misure che sarebbero state adottate dagli Alleati in materia di denazificazione, anche la legge del 28 dicembre 1943, riguardante l’epurazione del personale della pubblica amministrazione, stabilì una tipologia degli epurati, che distingueva tra i fascisti di rango, su cui era chiamato a decidere il Consiglio dei ministri; squadristi e fascisti della prima ora, le cui situazioni sarebbero state decise nei ministeri; e iscritti al partito responsabili di atti liberticidi a livello locale, la cui sorte sarebbe stata decisa da Commissioni provinciali presiedute dai prefetti. Ma a differenza delle procedure di denazificazione, che avrebbero previsto un’ampia partecipazione dei partiti politici negli organi di epurazione, in questo caso l’epurazione era posta nelle mani degli organi che si sarebbero dovuti epurare, cioè dell’amministrazione pubblica. (…) Anche la più severa legge del 27 luglio 1944, che pure consentì la costituzione di circa 160 Commissioni d’epurazione che esaminarono migliaia di casi, non avrebbe conseguito esiti durevoli per effetto delle scelte politiche di reintegrazione degli indagati a opera dei maggiori partiti (Dc e Pci)”.

L’epurazione fu segnata da scelte istituzionali che furono il riflesso, la conseguenza, con la soppressione il 1° giugno 1946 dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, della rinuncia allo scontro politico con il governo guidato dal dicembre del 1945 dal leader democristiano Alcide De Gasperi, governo al quale parteciparono tutti i partiti del Cln a esclusione del Partito d’Azione (PdA), che si opponeva alla linea assunta da quel governo proprio sulla questione dell’epurazione politica. Questa scelta riguardava il senso stesso del legame tra Resistenza e continuità dello Stato. Togliatti e i comunisti preferirono guardare alla guerra di liberazione come ad una guerra patriottica combattuta contro l’invasore tedesco e, in tale lettura, i fascisti non esistevano come parte politica responsabile degli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, diventando semplicemente dei traditori della patria, dei semplici collaborazionisti.

Viceversa per il PdA – come sosterrà molto più tardi Claudio Pavone e prima di lui Roberto Battaglia – la Resistenza era stata soprattutto una guerra civile; per cui sarebbe apparsa più coerente con un’idea di rottura con il passato che non si limitasse a considerare il fascismo ma che investisse anche la democrazia prefascista e potesse farsi portatrice di una rivoluzione democratica nel presente. Ma questa non era una lettura tale da poter creare un consenso politico su cui fondare la nuova democrazia. Nelle sue memorie, così Foa ricordava questa tensione: “L’obiettivo della ricostruzione di un’identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. (…) Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi. (…) La costruzione di una ‘vera’ democrazia chiedeva la messa in discussione del ‘nostro’ passato e non solo la sconfitta del nemico esterno”.

Con il governo De Gasperi il fronte politico si cristallizzò e vide schierate da un lato l’Italia conservatrice e dall’altro l’Italia della Resistenza e della lotta antifascista. La concessione di una grande amnistia fu decisa dal governo che aveva portato il paese alla Costituente e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, l’ultimo governo basato sui criteri paritetici del periodo del Cln.

Dopo la sua ascesa al trono il 9 maggio del 1946, Umberto II aveva chiesto un provvedimento di perdono, in linea con la tradizione monarchica che prevedeva un atto di clemenza in occasione dell’insediamento del nuovo re. Il governo dapprima rifiutò. Ma lo stesso Togliatti, allora ministro della Giustizia, temette che respingere del tutto l’amnistia avrebbe significato consegnare nelle mani della monarchia un’efficace arma di propaganda alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno. Su sua proposta si decise allora di dare al decreto un contenuto limitato, riproducendo esattamente ciò che Vittorio Emanuele III aveva emanato 46 anni prima, al momento della sua ascesa al trono (amnistia per le pene fino a sei mesi), promettendo però al tempo stesso che un’altra legge, molto più ampia, sarebbe stata approvata subito dopo il 2 giugno. E in effetti fu questo il primo impegno che il nuovo governo dovette assolvere. Non rappresentò un problema rispettarlo perché i ministri e l’intera classe politica sentivano il bisogno di un gesto che sarebbe servito a chiudere, seppure simbolicamente, una pagina difficile della vita nazionale. E poiché l’amnistia riguardava non soltanto i reati degli ex fascisti e dei collaborazionisti, ma anche quelli commessi nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, il provvedimento fu accolto anche come il tentativo di impedire che i partigiani diventassero le vittime delle tendenze sempre più apertamente restauratrici di larga parte della magistratura.

Una preoccupazione, questa, presente nel pamphlet Triangoli della morte di Paolo Alatri, storico e giornalista comunista, pubblicato nel 1946. Nel testo, corredato da una breve storia sull’attività della Resistenza in Emilia Romagna, Alatri svolgeva un’inchiesta che partiva dai processi ai partigiani e ai comunisti accusati nel dopoguerra di aver commesso decine di delitti ai danni dei fascisti, per diventare un elogio della Resistenza e insieme un attacco politico alle scelte del governo in materia di epurazione e amnistia. Scriveva Alatri: “Un ‘triangolo della morte’ fra Bologna e Ravenna, un secondo ‘triangolo della morte’, fra Bologna e Modena; decine di delitti, uno più efferato dell’altro, e, in tutti, implicati comunisti, implicati partigiani, i mandanti, sempre figure di rilievo del movimento partigiano, i carabinieri, la polizia, la magistratura all’opera, finalmente, per svelare tutti i misteri, per scoprire e acciuffare i responsabili, questi biechi assassini; arresti a decine, a centinaia; istruttorie, processi: il trionfo, finalmente, della giustizia. (…) Dopo la liberazione, mentre la vita civile va man mano riprendendo in queste terre insanguinate dalla lotta armata e dalle rappresaglie, né la polizia giudiziaria, né la magistratura mostrano di voler aprire dei procedimenti per questi fatti. Poi, d’improvviso, l’atmosfera cambia: polizia e carabinieri si son dati una voce. Cominciano a frugare, a ripescare nel passato; e quando il 18 aprile i democristiani ritengono di aver ottenuto una vittoria tale che consente loro di avere un ‘nuovo corso’ alle direttive del governo, la scena cambia di colpo. Tutti quei fatti su cui pareva che fino ad ora non si sapesse nulla di preciso, diventano chiarissimi: sono tutti volgari delitti comuni, commessi dai partigiani per istigazione e sotto la direzione dei loro capi: ma la politica non c’entra. Grandi e leggendarie figure di combattenti della Resistenza, che hanno avuto il solo torto di non lasciarci la pelle come migliaia di loro compagni di lotta, diventano d’improvviso delinquenti comuni della peggiore specie, assassini, rapinatori. Decine d’arresti vengono a suggellare questa scoperta. Da un giorno all’altro polizia e carabinieri diventano attivissimi, ora non fanno che battere le campagne, arrestare partigiani, denunciarli alla magistratura per omicidio e rapina, dissotterrare cadaveri di giustiziati”.

A pochi mesi dalla sua approvazione l’amnistia, che in pratica portò alla scarcerazione di tutti i fascisti, anche di quelli responsabili dei crimini più abietti, divenne oggetto di polemiche. Soprattutto Togliatti, che in quanto ministro della Giustizia ne aveva studiato il progetto, fu accusato di aver assunto una volontaria linea morbida verso i fascisti per accrescere l’influenza del suo partito e così sottolineare ancora una volta l’aspirazione nazionale della politica del Pci, dando prova di moderazione. Certo Togliatti, nell’elaborare il testo dell’amnistia, tenne conto del fallimento dell’epurazione. I risultati catastrofici dell’amnistia furono la conseguenza, da un lato, di alcune formulazioni infelici – la più famosa fu quella delle “sevizie particolarmente efferate”, che portò alla scarcerazione di quasi tutti i torturatori della Repubblica di Salò – ma ancor più della mentalità con cui la magistratura interpretò l’amnistia. È evidente che i cambiamenti profondi non sono mai conseguenza della legge; piuttosto è la legge che a posteriori sancisce il mutamento dei rapporti di forza che si producono nella realtà. Ma i giudici dimostrarono la loro volontà di non cambiare nulla.

Quella dell’amnistia fu, da parte di Togliatti, una decisione certamente politica che rifletteva la scelta istituzionale fondata sull’incertezza del ruolo politico del Partito comunista, ma rappresentò una decisione che avrebbe segnato il destino dell’Italia postfascista negli anni a venire. Lo strumento dell’amnistia è sempre l’espressione di una forma di memoria rifiutata, poiché attribuisce all’oblio la funzione, istituzionalmente e giuridicamente formalizzata, di seppellire il passato ponendo fine alle reciproche accuse e ritorsioni. La sua scelta fu, nell’Italia del dopoguerra, il riflesso dell’“altra faccia della giustizia politica”, per usare le parole di Pier Paolo Portinaro, l’epitome del timore che una soluzione giudiziaria del passato potesse produrre solo processi politici. Perché l’amnistia rappresenta sempre il fallimento del diritto, la sua dichiarata impotenza a risolvere i grandi conflitti sociali e politici, l’atto con cui viene imposto “un reciproco oblio dei torti patiti” dalle parti in gioco, eludendo il problema della responsabilità. Una scelta che presuppone un vincitore incerto, consapevole della debolezza della sua posizione politica e istituzionale e conscio del fatto che uno scontro, attraverso i processi, può indebolire nella percezione della comunità il suo ruolo di vincitore. Così, alla fine della guerra, e alla fine della guerra civile, nella scelta dell’amnistia prevalsero tre motivi: la ragion di Stato, la neutralizzazione del conflitto interno, e la compromissione morale di una parte della comunità che nutriva “un evidente interesse a cancellare la memoria anche dei suoi crimini”.

Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 diede la maggioranza dei voti alla soluzione repubblicana. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica avvenne in un crescente clima di tensione politica e sociale. Era stato De Gasperi, già nel gennaio del 1946, a suggerire all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia, che fossero i governi alleati, americano e inglese, a imporre al governo italiano un referendum istituzionale. De Gasperi cercava in questo modo di limitare e contenere i poteri dell’Assemblea Costituente, che era molto sensibile nei confronti di un clima politico in cui erano ancora forti gli ideali del 1943-1945.

Il rafforzamento della presenza alleata in Italia spostava ancora di più l’asse istituzionale verso il centro-destra; mentre sulla scena internazionale le due sfere di influenza antagoniste, il blocco occidentale e quello orientale, già delineatesi durante la guerra, si avviavano verso una fase di scontro radicale. Sicché l’anticomunismo si trasformò in una guerra silenziosa e fredda in cui l’Occidente combatteva contro l’Oriente per conquistare l’egemonia sull’intero continente europeo e far pendere a proprio vantaggio la bilancia del potere.

Ragioni ideologiche e geopolitiche, dunque, caratterizzarono l’intervento degli americani in Italia (come in Europa), inizialmente ispirato alla dottrina Truman (12 marzo 1947), la cui strategia era volta a controllare la crescente diffusione del comunismo nell’Europa occidentale. Nel discorso alla nazione, nella primavera dello stesso anno, il segretario di Stato George Marshall aveva espresso la sua preoccupazione nei confronti del continuo deterioramento della situazione politica ed economica dell’Italia: il potere della sinistra era cresciuto in modo esponenziale, mentre quello delle forze più moderate era diminuito. Nel suo messaggio a James Dunn, ambasciatore statunitense a Roma, Marshall scriveva: “Il Dipartimento di Stato le chiede di inviare una stima immediata del futuro dell’Italia alla luce di alcuni preoccupanti eventi accaduti recentemente, fra i quali vi è l’invasione socialcomunista in alcune città del paese (…), il rafforzarsi del comunismo negli enti professionali (…), il successo del comunismo in Sicilia”.

Benché Togliatti avesse accettato la collocazione internazionale, De Gasperi aprì la crisi di governo ricorrendo a un pretesto: un articolo del leader comunista apparso su l’Unità il 20 maggio 1947, intitolato “Ma come sono cretini”. Nell’articolo, violentemente critico contro gli americani per le dichiarazioni anticomuniste rese dall’ex sottosegretario di Stato Sumner Welles, Togliatti sottolineava l’incapacità degli americani di capire la situazione italiana e la politica del Pci: “Prima di tutto perché sono ancora, nell’animo, negrieri: un tempo commerciavano con gli schiavi, ora vorrebbero mettersi a commerciare con i Paesi e i popoli interi, come se fossero partite di cotone in ribasso. Ma in secondo luogo è anche perché sono poco intelligenti, perché mancano di preparazione culturale e storica, di finezza mentale e di capacità di comprensione umana (…). Quanto al signor Welles, egli non ha capito, e forse non capirà mai, che alle ingiurie da lui lanciate contro di me farà seguito senza dubbio un nuovo afflusso al nostro partito di buoni patrioti italiani. Noi non potremmo che rallegrarcene: ma non vi pare che questo tipo di americani anticomunisti siano proprio cretini assai?”.

L’inizio della Guerra Fredda provocò la ripresa febbrile dell’attività di riarmo e l’inasprimento della lotta politica interna nei Paesi che facevano parte della nuova alleanza militare, la Nato, che nacque nel 1949. In Italia le prime ripercussioni della Guerra Fredda si ebbero, all’inizio del 1947, con la scissione all’interno del Partito socialista, in cui un gruppo andò a formare il Partito socialdemocratico italiano, di orientamento anticomunista, e con l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo.

L’elaborazione della Costituzione fu comunque portata avanti con spirito unitario e si concluse con il raggiungimento di un accordo su alcuni principi fondamentali molto avanzati di democrazia: il 12 dicembre 1947 essa venne approvata dalla classe politica antifascista di ogni tendenza, reduce dall’esilio, dalla clandestinità e dalla lotta partigiana, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

Le elezioni politiche, indette per il 18 aprile 1948, videro la vittoria della Democrazia cristiana, che ottenne il 48,5% dei voti contro il 35% del Fronte popolare formato da comunisti e socialisti. Con questa clamorosa vittoria elettorale la Dc si assunse la responsabilità del governo, presieduto da Alcide De Gasperi fino al 1953. Nella spartizione del potere del 1948, il blocco cattolico-conservatore ebbe in eredità lo Stato, nella continuità praticamente non scalfita dei suoi apparati e del blocco sociale (economico, istituzionale e politico) che attorno a De Gasperi si ricompattò: grande industria, finanza, burocrazia e ceti medi. Al mondo della Resistenza, che non volle o non poté spezzare la continuità dello Stato, toccò l’ethos della patria antifascista che si espresse nel controllo di vasti settori di consenso culturale e nella conseguente egemonia culturale all’interno della società civile. Una divisione tra Stato ed ethos patriottico che segnò non solo la storia istituzionale e politica italiana del postfascismo, ma influì soprattutto sulla memoria del passato fascista, della guerra, della deportazione e dello sterminio.

In altre parole, accanto all’antifascismo politico – schiacciato dalle scelte istituzionali e di potere – si sviluppò parallelamente una controcultura, una vera e propria forma di resistenza culturale, impegnata a mantenere vivo il ricordo e la memoria della lotta antifascista in generale, e della deportazione e dello sterminio in particolare. Essa rappresentò il fatto nuovo di cui avevano parlato gli azionisti Foa e Diena: una sorta di rivoluzione culturale, dopo gli anni del fascismo, che si espresse in una scrittura che cominciò sulle pagine dei giornali per estendersi all’elaborazione della memoria e che ebbe al suo centro l’esperienza concentrazionaria dei deportati politici e degli ebrei. Questa scrittura memoriale, nata durante la guerra di liberazione, si consolidò nel dopoguerra all’interno del paradigma antifascista, celebrando i sopravvissuti e i morti dei campi di concentramento e di sterminio accanto ai partigiani della lotta di liberazione.

II. Le parole per dirlo

1. Le notizie

Tra le prime notizie di stampa sui campi di deportazione e di sterminio nazisti ci furono quelle apparse sugli organi ebraici di informazione. L’Israel, che aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo una interruzione di anni, presentava il 4 febbraio 1945, a p. 4, un articolo dal significativo titolo “I combattenti per la libertà: Gilberto Cohen, Angelo Finzi, Luciano Servi”, e il 25 aprile, sulle stesse colonne, Fabio Della Seta celebrava l’insurrezione del ghetto di Varsavia di due anni prima: “Sei milioni di ebrei sono stati scannati, come un gregge che s’affolla docile sotto il coltello del suo carnefice. Non esiste nella storia del mondo un tale esempio di resistenza passiva (…) Ma pur se umiliati, martoriati, stanchi e disillusi v’è ancora un nome che ci fa fremere e ci fa sperare: Varsavia. Le bandiere issate di Varsavia testimoniarono la fiducia degli ebrei nella causa del buon diritto. Morirono per dare un esempio a se stessi, al mondo democratico in armi e allo stesso furente nemico. Morirono per consacrare una volta di più la volontà di vivere del popolo ebraico (…): per il ricordo santo del ghetto di Varsavia, gli uomini dovranno vincere il male e incamminarsi verso la luce”.

In quel momento, mentre tutti venivano reclutati per la creazione di una nuova identità nazionale democratica e antifascista, il paradigma concentrazionario dei deportati ebrei fu assorbito integralmente nella narrazione resistenziale del mondo antifascista italiano. Gli ebrei, come del resto gli altri deportati, scelsero consapevolmente di aderire al modello eroico proposto dalla Resistenza e favorirono una memoria ebraica di combattenti per la libertà, di caduti in battaglia con le armi in pugno: questo fece di loro, da subito, un importante fattore di mediazione per la normalizzazione del passato e la ricostruzione del presente. Era certamente vero che la loro partecipazione attiva nelle file della Resistenza non solo aveva contato su un numero elevato, circa 2.000 tra uomini e donne, e tuttavia essa era stata condotta all’interno della Resistenza senza dare origine a organizzazioni separate. Questa condizione ebraica di resistenza antifascista è testimoniata da Leo Valiani: “Gli ebrei in quanto tali avevano particolari ragioni per militare nelle file partigiane, ma ciononostante avevano sempre – nella stragrande maggioranza – la sensazione di battersi per la libertà della patria italiana. (…) E perciò non vi fu un antifascismo specificamente ebraico, non vi fu una lotta partigiana specificamente ebraica. Tutti si battevano per l’avvenire della comune patria italiana, sapendo che il destino degli ebrei era inseparabile da quello dell’Italia libera e democratica”. In altri termini, soltanto una vittoria della Resistenza avrebbe creato le condizioni perché gli ebrei potessero non solo sopravvivere ma anche vivere come liberi cittadini: perciò ad essa gli ebrei rivendicarono la propria appartenenza come singoli e come gruppo. Espressione di questa sintesi fra appartenenza nazionale, antifascismo ed ebraismo è la figura di Franco Cesana, staffetta portaordini presso la formazione Scarabello della Divisione Garibaldi, il più giovane partigiano italiano caduto in combattimento all’età di 14 anni.

La stampa ebraica continuò a sottolineare la resistenza antifascista degli ebrei. Dante Lattes, direttore di Israel, concluse la sua nota al XXII Congresso sionista del 1946 con un riferimento di chiaro sapore antifascista: “Sei milioni di morti. È questo il nostro contributo alla lotta contro il fascismo”. Nel clima generale sorto attorno alla nuova repubblica emergeva l’ingiunzione alla memoria, insieme alla considerazione che l’oblio fosse una colpa perché avrebbe reso vano il sacrificio delle vittime.

Questi primi riferimenti ebraici si accompagnavano a un’informazione più diffusa anche sulle pagine dei giornali non ebraici. Uno dei primi articoli fu pubblicato l’8 dicembre 1944 su l’Unità. Era la traduzione di un breve testo del corrispondente di guerra e poeta sovietico Konstantin Simonov, “Un campo di sterminio degli ebrei”, che descrivendo il lager di Majdanek lo definiva come “il macello più grande al mondo”. Contemporaneamente, il 7 dicembre sulle pagine di Israel Carlo Alberto Viterbo lanciava lucide e accorate affermazioni intese a risvegliare la coscienza del mondo, e tali da risuonare con forza nuova sugli spiriti democratici e antifascisti: “La guerra dichiarata agli ebrei da Hitler e dai suoi seguaci fuori e dentro i confini della Germania non è infatti soltanto una lotta di uomini armati contro inermi, non è soltanto il procedere di una enorme macchina guidata da un folle, è intesa a stritolare spietatamente uomini e donne, vecchi e bambini, per raggiungere lo scopo di un totale annientamento e di una totale depravazione”.

Assorti a comprendere cosa fosse realmente accaduto e a valutare la portata dello sterminio del proprio popolo, gli ebrei cercavano di ritrovare con difficoltà il loro posto nel mondo, di riprendere il discorso interrotto così drammaticamente dalla persecuzione prima e dalla guerra dopo. Alla fine del 1944, quando ancora i nazisti occupavano una gran parte dell’Italia, nessuno poteva ancora valutare pienamente la portata dello sterminio; e anche se si pubblicavano notizie come quella del processo tenuto a Lublino, in Polonia, contro sei nazisti per i crimini commessi nel campo di Majdanek, le informazioni apparivano caratterizzate da un tono improvvisato ed occasionale.

L’attenzione si accentuò alla fine del gennaio 1945. Su l’Unità e su l’Avanti! vennero pubblicati articoli corredati da mappe sull’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia che descrivevano la liberazione di alcune città, tra cui Auschwitz, indicata con il suo nome polacco, Oswiecim.

Perfino il battesimo di Israel Zolli, rabbino capo della comunità ebraica romana, fu letto da Dante Lattes nel contesto dello sterminio ebraico che aveva duramente messo alla prova la forza morale e lo spirito dei più deboli tra gli ebrei: “Nessuna fede, nessuna dottrina filosofica o politica è uscita con onore da questa catastrofe; nessuna si è infatti opposta al male, alla violenza, alla tirannide con quel coraggio da cui sorgono i martiri (…). Che cosa va a cercare fra i ruderi di questo mondo l’ebreo che è uscito sano e salvo, col suo corpo e colla sua idea, da tante spaventose tempeste? (…) Questo mondo al quale l’ebreo si vende, disertando il proprio, è in sostanza il mondo di cui egli ha paura”. Lattes utilizzava la conversione di Zolli per richiamare al suo dovere il mondo che era rimasto indifferente alla catastrofe, perché si salvaguardasse “quanto v’è di necessario, di legittimo e di giusto nell’aspirazione e nella volontà di dare pace e libertà agli ebrei, non solo come individui ma anche come collettività storica (…). È urgente che si dia massima importanza alla cura dei cuori e dei cervelli degli ebrei: altrimenti c’è il pericolo che la schiera degli apostati si accresca per generazione spontanea o per altrui propaganda”. Il discorso sulla propria identità riemergeva con forza all’interno del mondo ebraico, tanto che il settimanale Israel, il 24 maggio 1945, si fece promotore di un referendum, dal titolo: “Malgrado ciò che è accaduto nell’Europa e nel mondo intero, malgrado le stragi e le deportazioni, siete rimasto ebreo, perché?”.

L’8 marzo 1945, mentre in Palestina veniva proclamato il lutto nazionale per un’intera settimana, su Israel veniva pubblicato il primo articolo di timbro diverso, in cui non erano più l’antifascismo e la lotta armata ad essere al centro della recente storia ebraica bensì lo sterminio di inermi. Si trattò forse della prima riflessione su ciò che aveva e avrebbe significato l’Olocausto per la vita ebraica: “Nessun popolo nella storia ha fatto lutto per 5 milioni di caduti; nessun popolo mai nella storia si è trovato a constatare l’uccisione di un terzo dei propri componenti; nessun popolo ha mai perduto, non in combattimento con le armi in pugno ma per orrende carneficine contro inermi, insieme agli uomini validi, tante donne innocenti, tanti vecchi venerandi, tanti bambini sorridenti alla vita”. Nello stesso numero compariva il primo elenco degli ebrei deportati da Roma, accanto alla recensione, firmata da Carlo Albero Viterbo, all’anonimo fascicolo di 16 pagine intitolato Nove mesi di martirio. La tragedia degli ebrei sotto il terrore tedesco, in cui venivano presentati i fatti più salienti delle persecuzioni antisemite di Roma.

Da allora le pagine del giornale furono quasi interamente occupate dalle notizie sui campi di concentramento. Si parlava di Fossoli e di Auschwitz, ma con un linguaggio incredulo e dubbioso: non era nemmeno chiaro se chi scriveva sapesse dove era Auschwitz. Anche per l’uso del termine “campo di concentramento” bisognerà aspettare l’aprile del 1945. Cominciarono ad arrivare le prime informazioni sull’arrivo a Stoccolma di ebrei sopravvissuti ai lager di Bergen Belsen e di Birkenau, a quali si aggiunsero il 4 maggio 1945 quelli di altri sopravvissuti, forniti al ministero degli Affari esteri attraverso l’ambasciata italiana a Mosca. L’annuncio dell’arrivo a Bucarest di altri ebrei sopravvissuti di Oswiecim, scritto Oszviencim, riempiva la prima pagina del giornale. L’errore non casuale nella trascrizione dei nomi dei campi confermava il senso di estraneità, di distanza, di “ignota destinazione” che circondava la memoria dello sterminio nel suo iniziale tentativo di rielaborazione. L’articolo di Dante Lattes, “Dobbiamo ancora avere fiducia negli uomini?”, che riferiva quasi esattamente il numero e i dati dei 5.000.000 di morti ammazzati, sembra suggerire l’immagine di un mondo ebraico abbandonato a se stesso, separato dal resto, tutto compreso nella rielaborazione del proprio lutto. Si faceva martellante la pubblicazione dell’elenco in ordine alfabetico dei deportati da Roma che includeva, fatto rilevante, anche i nomi degli ebrei massacrati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La confusione nella memoria segnava il ricordo: la lista, il cui scopo era di determinare il numero dei morti, si era trasformata in un lungo e grande necrologio. Una settimana dopo, fu pubblicato dallo stesso giornale il messaggio di saluto alle proprie famiglie inviato dal campo di Buchenwald da Michele Amati e Sabatino Finzi, deportati da Roma il 16 ottobre 1943.

L’organo del Partito socialista l’Avanti!, il 20 aprile 1945, diede la notizia della liberazione di Buchenwald e Bergen Belsen, avvenuta rispettivamente l’11 aprile e il 15 aprile del 1945; quella di Mauthausen il 5 maggio. Il 13 maggio 1945 Il Giornale del Mattino ruppe il silenzio sui campi di concentramento con un articolo di Paolo Alatri che parlava di Ohrdruf, Buchenwald, Bergen Belsen, Ravensbrück e Nordhausen: era il primo contributo, lungo e dettagliato, che non avesse semplice carattere informativo.

Si moltiplicarono gli articoli su Auschwitz quando cominciarono ad apparire – numerose – le interviste dei sopravvissuti. Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata e responsabile della Commissione centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti ai danni degli ebrei, chiedeva a Israel, il 10 maggio 1945, di pubblicare un appello rivolto alla comunità ebraica di Roma e, attraverso questa, all’intera Unione delle Comunità, in cui si invitavano tutte le famiglie a raccogliere e documentare le notizie relative ai crimini subiti e a trasmettere il materiale raccolto alla Commissione centrale stessa. Si tratta della prima notizia pubblica che testimoni i rapporti tra il governo e la comunità ebraica. Nei mesi successivi gli articoli di Israel saranno sempre più attenti al ritorno dei deportati, alla “torturante attesa” dei familiari desiderosi di avere notizie dei loro parenti scomparsi: Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Oswiecim, Majdanek emergono tragicamente dalle nebbie, prendendo sempre più forma. Si vorrebbe sapere cosa è successo ai convogli che lasciarono l’Italia tra il 1943 e il 1944. Radio Mosca parlava di 11 milioni di assassinati, affermando che nel corso di tre anni nel solo campo di concentramento di Trablianca (Treblinka) erano stati trucidati 7 milioni di uomini, fra ebrei e non ebrei, più gli altri 4 milioni assassinati nei lager di Oswiecim e di Majdanek.

Vale la pena notare l’atteggiamento assunto dalla stampa cattolica, in linea col tono dell’appello rivolto da papa Pio XII ai fedeli nell’aprile del ’45 e che era stato un richiamo ad una pacificazione generale degli animi, definendo gli avvenimenti “crudeli: (…) atroce realtà” e “la guerra: (…) il frutto e il salario del peccato”. La tendenza fu quella di parlare di generici crimini contro l’umanità, senza mai pronunciare la parola “ebrei”. Come si leggeva sulle pagine dell’Osservatore Romano, il 29 giugno 1945: “Le informazioni ottenute da varie fonti danno un quadro impressionante sulle condizioni in cui generalmente si trova la massa degli internati composta da uomini e donne di ogni età, dall’infanzia fino alla decrepitezza. Una particolare compassione fanno coloro che si ritengono ormai senza patria, e sono molti assai (…). Molti altri, a causa della demoralizzazione subita in tanti anni di prigionia, stentano a riprendere la mentalità e le consuetudini del consorzio civile e cristiano…”. O su quelle della Civiltà Cattolica: “Di ritorno dalla Missione in favore dei prigionieri di guerra e degli internati in Germania, Mons. Carroll ha fornito alcuni ragguagli sull’opera di carità cristiana (…) per soccorrere tante vittime della guerra (…). La Missione pontificia si occupa di tutti, senza distinzione di nazionalità o di fede religiosa (…), 8.000 polacchi fra cui 450 sacerdoti”.

Il male della guerra e le sue terribili conseguenze venivano riduttivamente imputati alla semplice dimenticanza di Dio: “Invero la lotta contro la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; (…) era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; (…) era la denigrazione sistematica della Chiesa, del clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua storia”. Al centro della persecuzione venivano indicati generici “detenuti politici”, insieme a “le falangi di coloro, sia del clero che del laicato, il cui unico delitto era stata la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali”.

La definizione delle liste dei deportati tramite le commissioni nazionali e internazionali che le comunità ebraiche nominarono, e che furono attive subito dopo l’inizio della guerra, fu utile ai primi stadi del processo di costruzione della memoria. Chi faceva parte delle commissioni analizzò i documenti trovati negli uffici dei campi e controllò gli elenchi di deportati e sopravvissuti. Una delle liste fu portata in Italia tramite una spedizione di aiuti per i superstiti di Mauthausen e fu letta alla radio italiana il 26 maggio 1945: fu una delle prime testimonianze sulla deportazione di italiani che giunse al grande pubblico e che suscitò una certa impressione.

L’antifascismo ebraico veniva rappresentato come elemento di slancio verso il futuro, la volontà di riaffermare la propria esistenza, il desiderio di ricostruire una società migliore per gli ebrei e per l’Italia democratica. Così scriveva Carlo Alberto Viterbo su Israel il 31 maggio 1945: “Noi lavoreremo perché Israele torni completamente Israele. Riprendendo l’opera interrotta due anni fa con maggiore ardore (…) Ma noi vogliamo lavorare anche per questa Italia risorta, per questi italiani che ci accolsero nelle loro case quando eravamo braccati, che ci sfamarono”. Si riconsiderava il ruolo che gli ebrei dovevano avere nella nuova società civile e si faceva delle loro comunità il nucleo da cui doveva partire il processo di rinnovamento. Ancora una volta Carlo Alberto Viterbo, nel medesimo fascicolo di Israel: “La guerra in Europa è finita, l’Italia è liberata, gli ebrei sono stati restituiti ai loro sacrosanti diritti di uomini e di cittadini. Incomincia difficile e durissima la ricostruzione e incomincia difficile e durissima anche per noi, ebrei d’Italia (…). Noi ebrei abbiamo il compito particolare ed esclusivo di ricostruire le nostre comunità, di sanare le nostre ferite, di riprendere la nostra attività culturale e assistenziale, di svolgere una nostra politica, di riconsiderare le cause che ci hanno condotti sull’orlo del completo annientamento”.

Non senza contraddizione veniva però espressa un’altra posizione, non meno forte e non meno importante. Se ne faceva portavoce lo stesso Viterbo quando spiegava il volontario esilio degli ebrei, come gruppo sociale, dalla politica attiva e la conseguente estraneità alla vita nazionale, l’esclusivo interesse per la ripresa fisica e amministrativa delle comunità ebraiche, tutti aspetti che avevano attirato le critiche e la disapprovazione di una parte del mondo democratico antifascista italiano: “Più volte e in modo particolarmente insistente in questi ultimi tempi ci è stata espressa meraviglia e disappunto perché il nostro giornale non ha preso fino ad ora una posizione nell’accesa lotta dei partiti e delle correnti politiche che agitano l’Italia. E innanzi tutto è necessaria una fondamentale distinzione tra gli ebrei come singoli e come collettività. Gli ebrei come singoli e in quanto cittadini italiani hanno verso il Paese di cui sono parte costituente tutti i doveri e conseguentemente tutti i diritti (…) il diritto di voto, il diritto di iscriversi – come singoli – al partito che più sia conforme alle loro idee ed aspirazioni, di discutere pubblicamente gli affari della cosa pubblica (…) Come collettività gli ebrei non costituiscono un partito, mentre gli Enti e le Istituzioni ebraiche sono rivolti esclusivamente ai loro compiti particolari”.

Lentamente, durante la primavera e l’estate del 1945, lo sterminio ebraico catturò l’attenzione dei giornali. Il vettore essenziale dell’informazione sui campi divennero soprattutto le testimonianze: lettere di scampati, messaggi, racconti, elenchi di nomi che arrivavano alla comunità di Roma, con i nomi di ex internati che si trovavano a Bolzano e Merano già dal marzo 1945. La testimonianza di Leone Fiorentino, il primo ebreo romano tornato dall’inferno di Auschwitz, apparve sull’Italia Libera, Israel e l’Unità che la pubblicarono in prima pagina. Fiorentino, comunista, descriveva Auschwitz con i suoi cinque forni crematori, strumento di morte per i deportati.

Il 6 giugno 1945 l’Unità pubblicò il primo di una serie di articoli di Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, dedicati al campo di concentramento di Mauthausen dove era stato deportato: rivisitati, essi diverranno il crudo racconto della sua prigionia nel 1946. Pajetta raccontava la sua storia di politico dentro al campo, il ruolo svolto dalla Resistenza clandestina, la grande solidarietà tra i compagni. Da parte sua, L’Italia Libera pubblicò la testimonianza di Gabriele Di Porto internato ad Auschwitz nel marzo del 1944; dalle sue parole scaturiva un’ingiunzione al ricordo e la speranza in un mondo migliore: “Ho solo desiderio di pace; la giustizia che mi hanno chiesto coloro che mi sono morti fra le braccia, la farà chi non ha visto tanto sangue”. Ancora su l’Unità, la storia di Gina Piazza, un’ebrea romana di 29 anni, che nell’articolo “Ritorno da Oswiecim” descriveva e raccontava la sua esperienza di donna nel campo, parlandone come di un luogo di “affamata” e “disumana brutalità”. Negli stessi giorni la Rai (Radio audizioni italiane) trasmetteva l’elenco di alcuni deportati italiani che erano stati liberati a Dachau e Mitterwald. Giungeva intanto agli uffici della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei) una lista di 652 nomi di ebrei torinesi deportati in Polonia.

Attraverso le pagine del settimanale Israel le comunità ebraiche si mobilitarono per cercare i deportati, promuovendo un nuovo censimento che potesse stabilire con maggiore esattezza il numero degli ebrei italiani e non italiani che erano stati avviati ai campi di concentramento nazisti. Tutti gli ebrei vennero invitati a notificarsi a uno speciale ufficio. Bisognava però superare le difficoltà e i timori di quanti, dopo gli anni bui della persecuzione, non desideravano ufficialmente più fare parte della comunità; bisognava rifondere fiducia e sicurezza nelle loro menti. La richiesta veniva quindi spiegata con l’impellenza di ricostruire amministrativamente e spiritualmente il mondo ebraico; si sosteneva la necessità di rinnovare gli strumenti della vita ebraica: gli istituti religiosi, il collegio rabbinico, gli enti assistenziali ecc.

Nel contempo si chiedevano normative speciali che stabilissero un risarcimento economico per gli ebrei colpiti dalle leggi razziali e dalle persecuzioni. Trapelava dagli articoli del giornale una certa preoccupazione e delusione per l’atteggiamento assunto dal governo sul problema della riparazione economica. Una lettera in data 12 giugno 1945 fu fatta pervenire dal ministro delle Finanze a mezzo della segreteria particolare del presidente del Consiglio alla comunità ebraica di Roma: il governo sosteneva di non dovere in alcun modo ripagare i danni fisici, economici e morali subiti dagli ebrei, perché le sofferenze degli ebrei non erano state poi così dissimili da quelle del resto dei loro concittadini. Il settimanale Israel, che la pubblicò per intero il 5 luglio 1945, così commentava: “Questo ministero considera che vastissime categorie di contribuenti (perseguitati politici, patrioti, sfollati, ecc.) hanno sofferto a causa della guerra danni non meno gravi di quelli lamentati dagli ebrei. (…) Venute meno le discriminazioni razziali gli ebrei potranno beneficiare delle suddette disposizioni generali, senza che si renda necessaria l’adozione di particolari provvedimenti in loro favore”.

È vero che nel maggio del 1945 c’era stata l’iniziativa di Scoccimarro, ma né il governo né la società civile compresero il diritto dei superstiti a un risarcimento materiale e simbolico e non li appoggiarono, né riconobbero la deportazione e lo sterminio come eventi storici senza precedenti. Gli ebrei dovevano guardare al passato per capire l’urgenza di ridefinire il proprio ruolo all’interno della società italiana, che si percepiva, quasi nella sua generalità, non solo di non aver prestato mano alle persecuzioni, ma di essere stata d’aiuto e di aver protetto i perseguitati, “diversamente” – come scrisse Benedetto Croce – “da quel che accadde presso un altro popolo che di gran lunga assai più degli italiani si era giovato del contributo datogli dall’ingegno e dall’operosità ebraica, e della devozione degli ebrei al popolo germanico di cui erano cittadini”. L’insistenza sulla specificità della propria sofferenza e della propria diversità avrebbe solamente arrecato danno; bisognava, quindi, abbandonare l’idea di una elezione del popolo ebraico per giungere invece ad una fusione morale e spirituale con il resto del popolo italiano. Ancora Croce: “Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per gli altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi e preferenze”. Il filosofo auspicava che il loro “studio” fosse quello “di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”.

Alla fine dell’estate del 1945, Raffaele Cantoni, eletto dal Clnai commissario straordinario della comunità ebraica di Milano con funzioni di coordinamento per gli ebrei dell’Alta Italia, arrivava a Roma per trattare insieme al nuovo governo tutti i problemi che erano rimasti sul tappeto dopo la liberazione completa dell’Italia e l’abrogazione delle leggi razziali. Ma non solo: Cantoni intendeva ridefinire con il governo il ruolo delle comunità ebraiche italiane e riaffermare l’importanza avuta nella lotta di liberazione da molti ebrei che avevano sofferto insieme ai loro concittadini non ebrei nelle carceri e sulle montagne. Cantoni, in sostanza, non voleva che gli ebrei fossero dimenticati dal governo di Roma.

I racconti delle stragi perpetrate dai tedeschi cominciarono a riempire le pagine dei giornali: l’Unità e l’Avanti! concessero grande spazio al racconto della strage di Marzabotto, il 5 e l’8 luglio 1945. Mentre Israel dava notizia di un altro campo di concentramento scoperto vicino ad Auschwitz, dove altri ebrei italiani avevano trovato la morte: Buna-Monowitz. Il Comitato Ricerche Deportati chiedeva al governo che fossero inviati in Polonia, attraverso il ministero degli Affari esteri, dei diplomatici italiani, insieme alla Croce Rossa e alle altre organizzazioni internazionali, per controllare se ci fossero sopravvissuti tra gli internati italiani. Nel settembre del 1945 solo Israel riportava la notizia del numero di ebrei romani deportati da Roma il 18 ottobre del 1943, due giorni dopo l’assalto al ghetto, con destinazione Auschwitz. Cerimonie di commemorazione e un digiuno vennero indetti dalla comunità di Roma per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre e fu fatta coniare una medaglia in ricordo dei martiri.

La Rai continuava ad interessarsi al problema dei reduci e inseriva nella trasmissione “Sulla via del ritorno” uno stralcio delle notizie contenute nel bollettino del Comitato Ricerche Deportati. Il ritorno da Auschwitz di un altro sopravvissuto, Benedetto Di Segni, veniva dettagliatamente descritto sulle pagine di Israel, insieme ai processi contro i criminali nazisti. Il processo di Lüneburg, culminato con trenta condanne alle SS che avevano operato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, sarà seguito con grande attenzione dal giornale, come anche quello a carico delle SS accusate di crimini contro ebrei e partigiani a Dachau, che si concluse con trentasei condanne a morte per impiccagione.

Con il processo di Norimberga le cose cambiarono: tutti i giornali se ne occuparono. Ma anche in questo caso la stampa italiana si limitò a utilizzare principalmente i servizi dei corrispondenti delle testate e agenzie estere per “coprire” la cronaca del processo. L’unico giornalista italiano accreditato a Norimberga fu Enrico Caprile, del Corriere d’Informazione: i suoi articoli furono pubblicati tra il 29 novembre e il 15 dicembre del 1945 sulle prime pagine del giornale. Un diverso tono fu assunto dalla stampa cattolica. L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica considerarono la questione dello sterminio, anche dopo le sconvolgenti rivelazioni che emersero al processo, da un punto di vista squisitamente giuridico. Nel primo articolo apparso sulla Civiltà Cattolica si parlava infatti di questioni legate al diritto, ci si interrogava sulla liceità della pena per i crimini commessi, in assenza di un precedente giuridico che avallasse la condanna: “Verissimo che la guerra è stata dura, e indubbiamente certe crudeltà dovrebbero essere proscritte, ogni necessità a giustificarle dovrebbe venire esclusa. (…) Ci si metta pure una buona volta d’accordo per l’avvenire; ma come si può punire per la trasgressione di una legge che ancora non esisteva quando l’azione fu compiuta? Valga l’esempio della bomba atomica: altro che proiettili antirazzo, rappresaglie, bombardamenti indiscriminati! Eppure nessuno pensa di punire gli aviatori, lo Stato Maggiore o gli industriali americani. Perché? Perché se anche oggi si vietasse l’uso di quegli esecrabili mezzi di strage e di distruzione, la legge varrebbe per domani, non per ieri. A pari, dunque”.

La guerra moderna e totalitaria era la chiave di spiegazione della morte e della distruzione causate dalla Germania nazista che, se responsabile sul terreno diplomatico perché la prima “a dar fuoco alle polveri”, vi era stata, sempre secondo La Civiltà Cattolica, storicamente costretta: “Quando si deve amaramente riconoscere che anche oggi, dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale e nonostante l’organizzazione della società internazionale su nuove basi (O.N.U.), le grandi potenze che vi spadroneggiano non riescono ad assicurare ai popoli l’agognatissima pace, ma continuano a patteggiare provvisori compromessi a prezzo di flagrante ingiustizia contro i vinti e le potenze minori, viene fatto di domandarsi con quale coerenza, e soprattutto con quale diritto, siansi assise a Norimberga per condannare la Germania di un atto, che esse medesime non mancheranno di fare al momento opportuno, quando lo riterranno inevitabile pei loro interessi!”.

Disquisizioni giuridiche, considerazioni diplomatiche, spiegazioni scientifiche e relativizzazioni storiche: tutto serviva per non confrontarsi sul terreno della responsabilità con la propria storia. Così la rivista dei gesuiti parlava a proposito dei crimini contro l’umanità: “Ma anche in relazione ai delitti contro l’umanità e ai crimini di guerra troviamo avanzata ed ammissibile una eccezione della stessa natura ed efficacia. Il mondo è stato bensì inorridito dai molteplici crimini perpetrati dalle armate naziste; ma lo è stato anche da quelli commessi o comunque addebitati all’altra parte. Già, di delitti contro l’umanità in epoca moderna si è cominciato a parlare precisamente in seguito ai massacri, alle persecuzioni politiche e religiose, alle riduzioni in schiavitù di lavoro verificatesi in uno degli Stati, che ora fa da giudice in Norimberga. Ancora durante la guerra, maltrattamenti di prigionieri si sono avuti dappertutto. In Russia e in Algeria specialmente, la fame ha fatto stragi; e non solo la fame. In certi domini inglesi, l’onore dei prigionieri è stato vilipeso oltre ogni limite umano. E le fosse di Katin? Qui l’accusa era precisa e documentata. E gli stessi bombardamenti aerei angloamericani non hanno superato evidentemente ogni limite di rappresaglie? Si pensi alle innumeri città italiane semidistrutte in pretesa rappresaglia dei duecento in efficientissimi apparecchi, che avrebbero dovuto bombardare Londra. Si ricordino i mitragliamenti a bassa quota di civili e persino di fanciulli intenti a giochi innocenti (chi può dimenticare la ‘giostra’ di Grosseto?) e gli aviatori ubriachi e l’ignominia delittuosa di certe truppe di colore (marocchini), e le ruberie e le violenze dei singoli… Ma il colmo atroce dell’inumanità resta fissato nei secoli dalle bombe atomiche lanciate su città popolatissime e civili, quali Nagasaki e Hiroshima (secondo certa stampa, già dopo l’offerta di resa incondizionata e non solo per ragioni militari). Altro che ‘terra bruciata’, altro che ‘distruzioni indiscriminate’ (capi di accusa contro i tedeschi), altro che mezzi di offesa sproporzionati, non limitabili e perciò vietati dal diritto internazionale bellico e da quello naturale! Si parlerà di rappresaglie? Di necessità logistiche e militari? Noi non sappiamo se e come la Storia potrà accogliere questi argomenti, né come i posteri li giudicheranno. Sappiamo solo che a Norimberga gli imputati hanno assunto a difesa gli stessi principii e avanzato in tal senso analoghe eccezioni (diritto di rappresaglia, diritto di necessità oggettiva o determinata da analoga condotta dei nemici). Sappiamo che queste eccezioni pongono direttamente in stato di accusa le stesse potenze giudicanti tal che, secondo i principii generali del diritto, i giudici non sono più giudici ma parti in causa. In queste condizioni, essi non possono giudicare. Se taluno o tutti gli accusati rappresentano una minaccia per la pace futura, è lecito ai vincitori adottare contro di essi misure di sicurezza. Ma se si vogliono punire come delinquenti le parti lese (tutte e prima di tutte la Polonia) facciano magari da accusatori, non da giudici. Per il giudizio, ci si rivolga a un Tribunale di neutri, per esempio all’Alta Corte di Giustizia internazionale. Secondo giustizia, però, quelle quattro potenze non possono giudicare, non possono condannare”.

La realtà dei fatti è che nella sostanza neppure le vicende e la scoperta delle atrocità commesse durante la guerra riuscirono a modificare l’equilibrio di tali giudizi.

Norimberga aprì la strada a una nuova fase dell’informazione giornalistica. Da questo momento in poi si tentò faticosamente di colmare il ritardo nella diffusione delle notizie sulla deportazione. Come si è detto, però, le ragioni del divario non erano soltanto di natura tecnica, come la difficoltà di accesso alle informazioni o la carenza dei mezzi a disposizione, problema comune alla maggior parte delle testate; l’ostacolo principale era rappresentato dall’atteggiamento assunto verso il passato, verso la guerra, la deportazione e lo sterminio. Va ricordato che il Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero – le tre grandi testate giornalistiche compromesse col regime fascista e con la Repubblica sociale – erano state chiuse. Il Corriere della Sera subì un’interruzione tra la fine di aprile e la fine di maggio del 1945: un mese dopo la sospensione, imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale, il quotidiano tornò in edicola con la testata Il Corriere di Informazione (il 24 marzo del 1946 il giornale, al posto dei festeggiamenti per Mussolini, ricordò il massacro delle Fosse Ardeatine). L’anno successivo uscì come Nuovo Corriere della Sera. La Stampa, che era scomparsa dalle edicole il 25 aprile 1945 per riapparire il successivo 18 luglio grazie all’appoggio degli Alleati, col nome La Nuova Stampa, pubblicò il 26 settembre 1945 il primo articolo che affrontava il problema dello sterminio ebraico; e anche Il Messaggero fu costretto a sospendere le pubblicazioni nel 1944, alla liberazione di Roma, fino al 21 aprile 1946, quando riapparve col nome Il Messaggero di Roma.

Sulla stampa ebraica, intanto, venivano pubblicate le notizie sulla presenza di circa 15.000 profughi ebrei stranieri superstiti dai campi che avevano trovato rifugio in Italia. Il governo italiano si era in qualche modo piegato alle pressioni angloamericane affinché moltissimi sopravvissuti alla Shoah nell’Europa orientale potessero arrivare in Italia. In realtà la presenza dei profughi si trasformò rapidamente in un elemento identitario importante per le comunità ebraiche italiane: essi si organizzarono in un gruppo politico, il Comitato profughi, che faceva capo a Leo Garfunkel e che fondò il giornale Ba Derech (Lungo il cammino), che ne divenne l’organo ufficiale. Il settimanale era scritto in yiddish e voleva essere un foglio di informazione per gli ebrei stranieri in Italia scampati allo sterminio. Il Comitato ebbe intensi e importanti contatti con la leadership ebraica italiana, soprattutto con quella sionista, del quale fece poi parte. Nel convegno dell’Organizzazione sionista che si tenne a Roma tra il 26 e il 28 novembre 1945, il Comitato profughi chiese che fosse diramato un comunicato di ringraziamento a loro nome in cui venivano menzionate non solo le istituzioni ebraiche ma anche le autorità italiane e in cui si sottolineava il forte contrasto tra l’accoglienza fraterna nei riguardi dei profughi ebrei in Italia rispetto a quella ottenuta in Polonia, dove i pochi reduci dai campi versavano in condizioni di povertà e di paura.

Verso la fine del 1945 la Palestina e la questione ebraica divennero oggetto di interesse per parte della stampa. Su Israel le notizie di ciò che succedeva in Eretz Israel avevano trovato da sempre grande spazio; ma ora la novità era rappresentata dalla presenza di articoli e di lettere pubblicati nei quotidiani a tiratura nazionale, come anche in quelli a carattere regionale. Sul numero di Affari internazionali del 25 novembre 1945 un’intera pagina della rivista venne dedicata alla questione ebraica in generale e alla questione palestinese in particolare. L’articolo dal titolo “Gli Ebrei sono una nazione” riprendeva un testo di D.L. Lipson, politico inglese di origine ebraica, che era stato pubblicato dalla rivista The Spectator. Sul Giornale dell’Emilia, in un resoconto dal titolo “Aiutare gli ebrei”, Randolph Churchill, figlio dell’ex primo ministro britannico, si professava ardente sostenitore della nascita di uno Stato ebraico in Palestina. Ancora: un articolo su Risorgimento Liberale dal titolo “La Palestina due volte promessa”; Il Risveglio pubblicò anch’esso un articolo sui sionisti e sugli arabi in Palestina; La Città libera riportò un interessante contributo, “Le lotte per la sovranità in Palestina”, in cui si auspicava la costituzione di una federazione arabo-ebraica; mentre l’Unità e L’Italia Libera trattavano della crisi palestinese e della situazione diplomatica della Gran Bretagna tra ebrei e arabi.

Nel dicembre del 1945 venne pubblicato il libro Le Fosse Ardeatine di Attilio Ascarelli, il medico legale che si occupò dell’identificazione delle vittime della rappresaglia nazifascista, e che raccontava in modo dettagliato la strage avvenuta sull’Ardeatina a Roma. Carlo Alberto Viterbo ne fece la recensione. Nel primo anniversario dell’eccidio si tennero due cerimonie: la prima nel Tempio Maggiore di Roma e la seconda davanti al Campidoglio, in presenza dei rappresentanti delle forze alleate. Nel secondo anniversario della strage furono scoperte al Tempio Maggiore due lapidi al cospetto delle rappresentanze ebraiche, della comunità e delle autorità civili del comune di Roma: la prima in memoria degli ebrei uccisi alle Ardeatine, la seconda a ricordo degli ebrei uccisi in tutta Europa, con una menzione speciale per le vittime italiane. Il testo commemorativo così diceva: Del popolo d’Israele / Sei milioni le innocenti vittime in Europa / Del bieco odio razziale in tutta Italia dal fatale 16 ottobre 1943 / Oltre ottomila i deportati i martoriati e i trucidati / Da Roma / Duemilanovantuno i deportati. Dopo la funzione religiosa officiata dal rabbino capo David Prato, parlarono Ugo Della Seta, Leo Garfunkel, che espresse la solidarietà di tutti i profughi ebrei in Italia, e Raffaele Cantoni, che parlò a nome del Congresso mondiale ebraico.

Il 1946 fu l’anno che sancì la fine della speranza nel ritorno dei deportati. Gli ebrei italiani compresero che, nonostante si cercassero ancora sopravvissuti, e malgrado la febbrile attività del Comitato Ricerche Deportati e della Delasem, nessuno sarebbe mai più tornato. Ancora una volta fu Israel che si fece portavoce della rassegnazione: “Per gli ebrei di Roma il 16 ottobre di quest’anno è data di lutto profondo, perché ogni speranza sul ritorno dei deportati, poveri, innocenti, strappati bestialmente all’affetto dei loro cari, è ormai vana”. La frase è tratta dalla lettera inviata al giornale dall’avvocato Giulio Lombroso che rappresentava al processo contro Celeste Di Porto, detta Pantera nera, quindici famiglie di ebrei romani.

Quella di Celeste Di Porto è una storia drammatica, anomala, dolorosa, che insieme alla conversione di Israel Zolli lasciò un segno indelebile nell’animo degli ebrei, soprattutto romani. Giova ricordarla brevemente. Dopo l’armistizio e con l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, iniziarono i rastrellamenti di ebrei: per ogni ebreo consegnato dalla popolazione alla Gestapo era prevista una ricompensa di 5.000 lire (quasi lo stipendio annuo di un operaio). Dopo il 16 ottobre 1943, giorno della razzia nel ghetto di Roma, Celeste Di Porto, di umile famiglia, collaborò alla cattura di numerosi correligionari, al punto da guadagnarsi il soprannome di Pantera nera, essendo risaputo da ogni ebreo il “mestiere” di spia della ragazza, che all’epoca era poco più che diciottenne. L’arresto più noto fu quello del pugile romano Lazzaro Anticoli che, incarcerato in seguito alla delazione della Di Porto il 24 marzo 1944, incise con un chiodo sui muri della cella numero 306, del terzo raggio di Regina Coeli, la scritta: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Una tragica denuncia, espressa in poche righe. Nel pomeriggio di quel giorno il pugile venne ammazzato alle Fosse Ardeatine.

Le organizzazioni di soccorso ebraiche come la Delasem continuavano nel loro lavoro di ricerca per rintracciare i reduci e per aiutare i profughi che giungevano in Italia per imbarcarsi verso la Palestina. Nel mondo ebraico doveva serpeggiare una certa preoccupazione per questo loro continuo arrivo, aggiunto al timore di un rigurgito di antisemitismo anche in Italia, come traspare dalle colonne di Israel, che il 29 agosto 1946 riporta la seguente notizia: “Il Governo italiano sarebbe stato richiesto da quello americano di ammettere temporaneamente in Italia 25.000 profughi provenienti dalla Polonia, per i quali non c’è possibilità di accoglimento in Austria. Tali profughi sarebbero assistiti dalle organizzazioni alleate, principalmente dall’U.N.R.A., senza aggravio per l’Italia”.

Ancora più preoccupante si fece la situazione allorché l’Irgun Tzavai Leumi si assunse la responsabilità dell’attentato all’ambasciata inglese a Roma, questa volta ampiamente riportato anche dalla stampa non ebraica. I rappresentanti degli ebrei in Italia, la presidenza dell’Unione delle Comunità ebraiche con Raffaele Cantoni in testa, il Comitato profughi ebrei in Italia con Leo Garfunkel, la Federazione sionistica italiana con il suo presidente Carlo Alberto Viterbo reagirono immediatamente alla notizia smentendo qualsiasi legame con gli attentatori. Il presidente dell’Agenzia ebraica Umberto Nahon inviò una lettera al presidente del Consiglio De Gasperi esprimendo lo sdegno e i sentimenti di condanna per l’attentato. Il Congresso mondiale ebraico così si espresse sulle pagine di Israel del 28 novembre: “Le nostre autorità governative conoscono e apprezzano l’opera che anche in America i dirigenti del Congresso Mondiale Ebraico hanno svolto e vanno svolgendo per difendere il buon nome e gli interessi mondiali dell’Italia che risorge, nel mondo che la circonda. Infatti l’ospitalità che il governo italiano ha dato a decine di migliaia di profughi e continua a fornire loro, è stata molto apprezzata dal Consiglio Mondiale Ebraico e posta in rilievo presso tutti gli strati della popolazione americana e presso le autorità governative con le quali esso congresso in America è costantemente in contatto”.

Il governo italiano fu forse obbligato dalle autorità alleate ad accettare così tanti profughi? O forse voleva semplicemente essere identificato il meno possibile come Paese nemico che aveva perso la guerra? Se così fosse, anche i profughi ebrei vennero allora usati come fattore di mediazione, poiché anch’essi contribuirono a restituire all’Italia la dignità che aveva perduto con le leggi razziali, prima, e con la deportazione e lo sterminio dei suoi ebrei, dopo.

2. I codici testimoniali

La scrittura memoriale in Italia fu altrettanto frenetica; i libri sulla deportazione e sullo sterminio cominciarono a uscire quasi a ridosso degli avvenimenti, trentotto in tutto: due nel 1944, tredici nel 1945, diciassette nel 1946, tre nel 1947, due nel 1948 e uno nel 1950. Otto di essi furono scritti da ebrei.

In questo senso l’Italia rappresentò in Europa un caso unico. Come costituì un caso unico per i tre tipi di deportazione che incluse: quella politica, quella razziale e quella militare. Si calcola, per difetto, che furono almeno 32.820 i deportati politici, di cui soltanto il 10% sopravvisse, pari circa a 3.300; i morti furono quindi 29.500. Gli ebrei deportati raggiunsero il numero di 8.556 (dall’Italia e dal Dodecaneso), di essi 1.009 si salvarono, il numero dei morti fu quindi di 7.557, a cui vanno aggiunti i 303 ebrei uccisi nelle stragi razziali in Italia: il totale delle vittime sarebbe di 7.860, di cui 4.125 uomini e 3.735 donne. I militari italiani di ogni arma e grado deportati in Germania ammontano a circa 809.722 uomini, di cui 42.000 morirono nei lager; a queste vittime vanno aggiunti i 13.300 morti per l’affondamento nell’Egeo dei piroscafi che li avrebbero dovuti portare in Germania, i 6.300 militari uccisi su ordine di Hitler dall’Okw (Oberkommando der Wehrmacht) e i soldati – tra i 5.000 e gli 8.000 – morti o dispersi sul fronte orientale dove erano stati trasferiti: il totale in questo caso sarebbe di circa 69.700.

I libri di memorie che vennero pubblicati tra il 1944 e il 1950 ricostruiscono anche la mappa geografica della deportazione italiana nei campi di concentramento e di sterminio. I loro autori, ebrei e non ebrei, donne e uomini, giovani e meno giovani, ognuno con il proprio background sociale e culturale, catturati per delazione o più raramente durante rastrellamenti o come rappresaglia agli scioperi del gennaio e marzo 1944, furono incarcerati nella regione di cattura e dopo gli interrogatori e le torture furono trasferiti nei campi di concentramento e di transito italiani (Fossoli di Carpi, Bolzano-Gries, Risiera di San Sabba), e poi deportati nei campi di concentramento in Germania, Austria o Polonia, classificati come Politisch (prigioniero politico) o Schutzhäftling (prigioniero per motivi di sicurezza), talvolta nell’una o nell’altra categoria a seconda degli spostamenti da un lager all’altro. Per i deportati politici non era prevista l’eliminazione immediata, come per gli ebrei, ma lo sfruttamento fino alla morte. Venivano da molti campi di concentramento e di sterminio: Allach, Ascherleben, Auschwitz-Birkenau, Bad Gandersheim, Bergen Belsen, Buchenwald, Dachau, Dora, Ebensee, Floridsdorf, Flossenbürg, Gusen, Hersbruck, Innsbruck, Kamenz, Klessheim, Kotten, Linz, Malkow, Melk, Mauthausen, Monowitz, Natzweiler, Nordlingen, Punsen, Ravensbrück, Schönberg, Schwechat, Zwickau, Zwieberge.

Tra i libri sussistevano grandi somiglianze, ma anche rilevanti differenze, sotto ogni punto di vista. Se, infatti, le motivazioni che spingevano a scrivere erano solitamente comuni, l’esperienza era sempre individuale, rispecchiando i modi e le forme in cui la prospettiva personale guidava ogni racconto. Solo una piccola minoranza di superstiti riuscì a scrivere anche durante la prigionia: perché scr