Traduzione di Saleh Zaghloul-Disegno di Alex Albadree
Saramago:”Mahmud Darwish è il più grande poeta palestinese”
LE POESIE – Solo una minima parte della sua produzione è stata, fino ad ora, tradotta in italiano (segnaliamo, ad esempio, Una trilogia palestinese, tradotta da R.Ciucani per Feltrinelli). Vi offriamo alcune delle sue poesie.
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-Disegno di Alex Albadree
“Passanti tra le parole che passano”
Oh, voi, passanti tra le parole che passano: Prendete i vostri nomi e andatevene. Ritirate le vostre ore dal nostro tempo e andatevene. Prendete pure quanto volete dell’azzurro del mare e della sabbia della memoria. Portate via tutte le foto che volete, per sapere che non riuscirete mai a capire come possa una pietra della nostra terra reggere la volta del cielo.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Da voi la spada, e da noi il nostro sangue.
Da voi acciaio e fuoco, da noi la nostra carne.
Da voi un altro carro armato, da noi una pietra.
Da voi bombe a gas e da noi la pioggia.
Sopra di noi c’è lo stesso cielo e la stessa aria sopra di voi. Portate via la vostra parte del nostro sangue e andatevene.
Partecipate pure alla cena di gala e poi però andate via. Sta a noi vigilare sulle rose dei martiri, sta a noi vivere come vogliamo.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Come polvere amara passate dove volete ma non passate tra di noi come insetti volanti, perché noi abbiamo da fare in terra nostra, abbiamo il grano da coltivare e da innaffiare con la rugiada dei nostri corpi. E abbiamo qui per voi ciò che non vi piace: una pietra o la vostra vergogna. Portate pure il passato al mercato dell’antiquariato se volete. Ricomponete, se volete, lo scheletro all’upupa su un piatto di porcellana, noi abbiamo per voi ciò che non vi piace: abbiamo il futuro e abbiamo da fare in terra nostra.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano:
Seppellite dentro una fossa abbandonata le vostre illusioni e andatevene.
Riportate le lancette del tempo alla legittimità del vitello d’oro o all’ora della musica di una pistola, noi abbiamo qui per voi ciò che non vi piace, andatevene dunque.
E abbiamo ciò che voi non avete: una patria che sanguina e un popolo che sanguina,
una patria adatta all’oblio o alla memoria.
Oh, voi, passanti tra le parole che passano.
È arrivato il tempo che ve ne andiate,
che dimoriate dove volete ma non da noi.
È tempo che ve ne andiate, che moriate dove volete ma non qui da noi, perché noi abbiamo da fare qui, in terra nostra.
E abbiamo il nostro passato qui e la voce iniziale della vita e abbiamo il presente e il presente e il futuro.
E abbiamo qui la vita e l’aldilà, andate dunque via dalla nostra terra, dalla nostra terraferma, e dal nostro mare, dal nostro grano, dal nostro sale e dalle nostre ferite.
Andate via da ogni cosa, e andate via dai vocaboli della memoria, oh, voi, passanti tra le parole che passano.
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-
PENSA AGLI ALTRI
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole. Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire. Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
CARTA D’IDENTITA’
Ricordate! Sono un arabo E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila Ho otto bambini E il nono arriverà dopo l’estate. V’irriterete?
Ricordate! Sono un arabo, impiegato con gli operai nella cava Ho otto bambini Dalle rocce Ricavo il pane, I vestiti e I libri. Non chiedo la carità alle vostre porte Né mi umilio ai gradini della vostra camera Perciò, sarete irritati?
Ricordate! Sono un arabo, Ho un nome senza titoli E resto paziente nella terra La cui gente è irritata. Le mie radici furono usurpate prima della nascita del tempo prima dell’apertura delle ere prima dei pini, e degli alberi d’olivo E prima che crescesse l’erba. Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro, Non da un ceto privilegiato e mio nonno, era un contadino né ben cresciuto, né ben nato! Mi ha insegnato l’orgoglio del sole Prima di insegnarmi a leggere, e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante fatta di vimini e paglia: siete soddisfatti del mio stato? Ho un nome senza titolo!
Ricordate! Sono un arabo. E voi avete rubato gli orti dei miei antenati E la terra che coltivavo Insieme ai miei figli, Senza lasciarci nulla se non queste rocce, E lo Stato prenderà anche queste, Come si mormora.
Perciò! Segnatelo in cima alla vostra prima pagina: Non odio la gente Né ho mai abusato di alcuno ma se divento affamato La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo. Prestate attenzione! Prestate attenzione! Alla mia collera Ed alla mia fame!
PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
Brevissima Biografia di Mahmoud Darwish
Mahmud Darwish – Poeta palestinese-
POETA STRANIERO IN TERRA PROPRIA – Mahmoud Darwish, scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la Nakba e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche). Fuggito in Libano con la famiglia, per scampare alle persecuzioni sioniste, tornò in patria (divenuta terra dello Stato d’Israele) da clandestino, non potendo fare altrimenti. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese rappresenterà uno dei capisaldi della sua produzione artistica.
ARRESTI ED ESILIO – Arrestato svariate volte per la sua condizione di illegalità e per aver recitato poesie in pubblico, Mahmoud – che esercitò anche la professione di giornalista – vagò a lungo, non avendo il permesso di vivere nella propria patria: Unione Sovietica, Egitto, Libano, Giordania, Cipro, Francia furono le principali nazioni dove il poeta, esule dalla sua terra, visse e lavorò.
Eletto membro del parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, poté visitare i suoi parenti solo nel 1996, anno in cui – dopo 26 anni di esilio – ottenne un permesso da Israele. Il poeta si spense a Houston (Texas) il 9 agosto 2008 in seguito a complicazioni post-operatorie. Mahmoud aveva infatti subito diversi interventi al cuore, l’ultimo dei quali gli fu fatale.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Joy Harjo -La Foto dell’autrice è di Karen Kuehn.Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)
Breve Biografia-Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le sue raccolte di poesia comprendono Conflict Resolution for Holy Beings (W. W. Norton, 2015); How We Became Human: New and Selected Poems (W. W. Norton, 2002); A Map to the Next World: Poems (W. W. Norton, 2000); The Woman Who Fell From the Sky (W. W. Norton, 1994) In Mad Love and War (Wesleyan University Press, 1990); Secrets from the Center of the World(University of Arizona Press, 1989); She Had Some Horses (Thunder’s Mouth Press, 1983); and What Moon Drove Me to This? (Reed Books, 1979). Ha anche scritto un libro di memorie, Crazy Brave (W. W. Norton, 2012), che descrive il suo percorso nel divenire poeta e che nel 2013 ha vinto il premio letterario PEN Center USA per la narrativa creativa nonfiction. E’ anche performer, è apparsa nel canale HBO nella serie Def Poetry Jam e in spazi statunitensi e internazionali. Suona il sassofono con la sua band Poetic Justice e ha lanciato 4 CD di musica originale. nel 2009 ha vinto il Native American Music Award (NAMMY) come migliore artista femminile.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Pina Piccolo -traduttrice e scrittrice –
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Risvolto
Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Proseguiamo con le tradizionali classifiche dell’anno appena trascorso, occupandoci dei film e delle serie televisive più sopravvalutati e, perciò, maggiormente deludenti. Articolo di RENATO CAPUTO–Ass. La Città Futura
ROMA-21-gennaio 2022-Collective, regia di Alexander Nanau (Romania), drammatico, Francia e Lussemburgo 2019, nomination a miglior film internazionale e a miglior documentario ai premi Oscar 2021, oltre a diversi altri premi, voto 5-; film di denuncia sulla devastante situazione presente in Romania con la piena affermazione del modo di produzione capitalistico, in cui l’unica cosa che conta sono i profitti immediati privati, ai quali tutto è sacrificato. D’altra parte il film è decisamente sopravvalutato avendo un impianto naturalistico che lo rende piuttosto noioso e pesante. Si tratta di una scelta stilistica postmoderna, del tutto fine a sé stessa e tipica di una produzione non ancora industriale come quella statunitense, in cui ha ancora spazio il soggettivismo romantico – nella peggiore accezione del termine – dell’“autore”. Inoltre questa impostazione di fondo minimal-qualunquista si ferma, naturalmente, sempre agli effetti immediati della controrivoluzione e non fa il minimo sforzo per risalire alla causa reale, cioè l’abbandono del tentativo abortito di transizione al socialismo.
La ferrovia sotterranea è una serie televisiva statunitense del 2021 creata da Barry Jenkins, distribuita sulla piattaforma Prime Video, che ha vinto diversi premi, voto: 4,5. Sin dal primo episodio la serie tratteggia molto bene lo stato di oppressione degli afroamericani e, al contempo, la loro volontà di riscatto. Interessante anche l’uso del Nuovo testamento da parte del raffinato e sanguinario schiavista per divinizzare ed eternizzare la schiavitù. Significativa anche la pena spaventosamente sanguinaria che era prevista per uno schiavo che fosse in grado di leggere e scrivere.
Il secondo e il terzo episodio sono davvero esemplari nella serrata e appassionata denuncia di pagine davvero buie e sconosciute della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver denunciato in modo realistico la spaventosa sorte degli schiavi in Georgia e dopo aver accennato alle differenze con la Virginia, emergono gli spaventosi sistemi, quasi sempre occultati, presenti nel Sud e Nord Carolina. Nel primo caso, dietro a un’apparente integrazione degli afroamericani, si celano forme di violenza occulte terribili, con le donne sistematicamente sterilizzate e gli uomini avvelenati con medicine funzionali a svolgere esperimenti atti a sondare fino a dove era possibile spingersi nel far patire il corpo umano. Nel Nord Carolina, invece, il puritanesimo vuole una società fondamentalista religiosa purificata dalla presenza degli afroamericani anche nella condizione di schiavitù, così i malcapitati afro discendenti vengono paragonati e sgozzati come maiali. Al loro posto vengono asserviti gli irlandesi che, per difendere il loro status e accecati dall’ignoranza e dal fondamentalismo religioso, talvolta si accaniscono contro gli afroamericani e con chi li tollera. Peraltro si denuncia come lo schiavismo abbia degli esiti davvero infausti, antiliberali e antidemocratici, per la stessa popolazione caucasica, che rischia gravi multe se insegna a leggere e scrivere agli afroamericani e, addirittura, la condanna al rogo per stregoneria per chi li nasconde in Nord Carolina.
Il quarto episodio rappresenta una notevolissima caduta di tono, di interesse e di sostanzialità delle vicende narrate, rispetto agli episodi precedenti. Si tratta di un episodio sostanzialmente insignificante, che non aggiunge nulla di significativo e che sembra fatto esclusivamente per annacquare il brodo. Anche il quinto episodio è alquanto deludente e finisce con l’annoiare, non avendo nulla di sostanziale da aggiungere. Le grandi dinamiche storiche tendono a scomparire dietro rapporti fra individui, che lasciano ben poco su cui riflettere allo spettatore. Nel sesto episodio emerge in modo sempre più evidente il formalismo che anima il regista e principale ideatore della serie, ovvero l’ideologia dominante degli apologeti indiretti del modo di produzione capitalistico. Nel settimo episodio tale tendenza a un formalismo fine a se stesso diviene assolutamente dominante, con il risultato di accrescere la noia per un nuovo e gratuito annacquamento del brodo, sempre più insipido.
L’ottavo episodio, dopo un inizio naturalista, precipita improvvisamente in un surrealismo postmoderno, sostanzialmente fine a se stesso. È davvero un peccato che una serie tanto promettente dilapidi completamente la credibilità che si era conquistata. Il nono episodio cerca di riprendere in extremis il tema fondamentale della serie, la ferrovia sotterranea, ma lo fa in modo poco verosimile e convincente. Nel decimo episodio il film torna a un lentissimo flashback che ci narra, con dovizie di particolari tendenzialmente e gratuitamente splatter, la tragedia priva di catarsi della madre della protagonista.
Nomadland di Chloé Zhao, drammatico, Usa 2020, voto: 4,5; film, non a caso, premiato con il Leone d’oro al festival di Venezia, può essere considerato un caso esemplare di cinema naturalistico, da non confondere con il grande cinema realista di un Ken Loach. Il cinema naturalista si limita a un rispecchiamentofenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. Un film naturalista è, perciò, astratto in quanto mira a riprodurre ciò che è medio in un determinato ambiente, mentre il cinema realista è concreto in quanto rappresenta il tipico di un insieme sociale, facendo emergere le differenze interne che lo caratterizzano. La vera opera d’arte è solo quella realista, in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti tipi sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico.
Spencer di Pablo Larraín, biografico, Usa 2021, voto: 4+, il film ha ottenuto una candidatura a Golden Globes, 5 candidature a Satellite Awards, 2 candidature a Critics Choice Award; film senza infamia né lode, assurdamente candidato persino a miglior film drammatico. Certo la produzione dell’industria culturale a stelle e strisce limita la mania postmoderna del regista e rende il film tollerabile, anche se decisamente soporifero. Per il resto il contenuto è al solito squallido. Si riprende, senza un briciolo di senso critico, il mito piccolo-borghese di Diana Spencer. La parvenue incapace di adattarsi alle regole bizantine della corte inglese, diviene la martire ribelle che cerca invano, dopo aver sposato l’erede al trono del Regno Unito, di riconquistare la “mitica” libertà del plebeo, sfuggendo alla ricercata e salutista cucina reale, attraverso il gesto trasgressivo di portare i figli ad avvelenarsi in un McDonald’s. Larraín si conferma, ancora una volta, fra i registi più sopravvalutati di questa triste epoca, altrettanto sopravvalutata si dimostra la protagonista Kristen Stewart capace di impersonarsi, senza un briciolo di spirito critico, nel mito di cartapesta di Lady Diana.
Over the Moon – Il fantastico mondodi Lunaria di Glen Keane, animazione, Usa, Cina 2020, voto: 4+; ancora un film di animazione sino-statunitense, che dimostra, una volta di più, come non ci sia una significativa differenza ideologica tra le opere prodotte nella Repubblica popolare cinese e quelle dell’industria culturale a stelle e strisce. Al di là della prima parte piuttosto riuscita, il film si rivela, ben presto, una merce piuttosto mediocre dell’industria culturale ormai transnazionale. Il film ha ottenuto, nonostante ciò, diverse nomination e premi come miglior film di animazione: 1 candidatura ai premi Oscar, 1 candidatura ai Golden Globes, 2 candidature a Satellite Awards, 1 candidatura a Producers Guild, 2 candidature a Critics Choice Super.
Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, miglior film e miglior regia agli European Film Awards 2021, drammatico Bosnia-Erzegovina, Austria, Romania, Francia, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Norvegia, Turchia 2020, voto: 4. Fra i film più sopravvalutati dell’anno, premiatissimo, in particolare ha vinto i principali premi degli Oscar europei, che si dimostrano ancora una volta estremamente ideologici nel senso peggiore del termine. Il film può essere anche ben fatto dal punto di vista tecnico-formale, può apparire persino realista e verosimile, ma mediando un contenuto completamente rovescista questi aspetti non possono venir considerati a suo favore. Il regista si propone un imperativo puramente ipotetico, che non ha proprio nulla di morale e razionale. Si ritaglia, in effetti, della grande storia soltanto un frammento, ponendo al centro al solito la retorica delle povere vittime innocenti civili e si omette tutto il resto, ovvero il contesto storico, economico, politico e sociale. Così si mistifica, magari anche in modo non del tutto consapevole, la realtà. Di quest’ultima si dà una interpretazione del tutto ideologica e manichea, per cui i serbi bosniaci sarebbero il male assoluto, i bosniaci mussulmani sarebbero invece il classico agnello condotto al macello, mentre le colpe dell’Onu consisterebbero nel non aver fatto tutto il possibile per scatenare i bombardamenti della Nato, veri potenziali supereroi, contro i super cattivi serbi. Naturalmente di questi ultimi si mostrano solo gli aspetti più deteriori, mentre i musulmani sono presentati come vittime civili. Peraltro eroina del film è un personaggio davvero poco esemplare dal punto di vista morale, in quanto dinanzi a una tragedia di quella portata pensa quasi esclusivamente a salvare – con raccomandazioni e altri mezzucci, per di più completamente fallimentari – esclusivamente i membri della propria famiglia. Anche in questo caso questa triste vicenda e questa tragica attitudine potrebbero essere in sé anche verosimili, se fossero presentate in modo critico, con un po’ di sano effetto di straniamento. Al contrario nel film si fa di tutto per far impersonare l’inconsapevole spettatore con questo personaggio individualista ed egoista. Spingendo la parte peggiore del pubblico a far emergere il proprio lato più cattivo, per potersi così pienamente identificare in questa davvero intollerabile eroina. Certo, bisognerebbe comunque considerare ben più colpevoli di chi ha realizzato questo davvero nefasto film coloro che lo hanno, del tutto acriticamente, osannato addirittura come miglior film europeo dell’anno. Per quanto possa essere nefasta la produzione cinematografica dell’imperialismo europeo, un film così fondamentalmente rovescista avrebbe dovuto essere decisamente criticato e non incondizionatamente esaltato.
Yes-People di Gísli Darri Halldórsson, cortometraggio di animazione, Islanda 2020, voto: 4; certamente deludente per essere stato candidato ai premi Oscar. Per quanto breve, il documentario non ha nulla di sostanziale da comunicare, se non la totale mancanza di connessione sentimentale degli intellettuali che lo hanno realizzato con le masse popolari del loro stesso paese. Sugli elementi più arretrati delle quali si fa una ironia a buon mercato, da un punto di vista marcatamente elitario.
Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, drammatico, Italia 2020, voto: 4; film esaltato in modo davvero aberrante dalla critica della sinistra radicale cinefila, che dimostra ancora una volta di essere completamente egemonizzata dagli aspetti più irrazionalistici ed estremi dell’ideologia dominante fra gli “intellettuali tradizionali continentali”, ossia il postmodernismo. Nel caso specifico abbiamo finalmente un contenuto davvero sostanziale, ossia il selvaggio sfruttamento – strumentalizzando l’immigrazione clandestina – dei braccianti agricoli nel nostro paese e i relativi conflitti sociali che ne derivano, utilizzato come una ulteriore esibizione della propria subalternità all’ideologia che più fa comodo ai fautori dello status quo. Ecco allora che questi temi, estremizzati fino a renderli inverosimili, vengono strumentalizzati per rimestare ancora una volta nel torbido, riducendo la potenziale complessità della questione socio-economica affrontata all’unica interpretazione che sono in grado di darne questi intellettuali ultra decadentisti, cioè mirando a farne emergere esclusivamente gli aspetti più grotteschi.
Normal Peopleè una miniserie televisiva irlandese in dodici episodi prodotta da Element Pictures per Bbc Three e Hulu, voto: 4. Il primo episodio sembra introdurre a una serie avvincente e godibile, sulla falsariga statunitense, ma più profonda e malinconica, ovvero tipicamente europea. La serie sembra, dunque, sintetizzare gli aspetti migliori delle serie americane ed europee, evitandone gli aspetti peggiori, il postmoderno continentale e l’ingenuità anglosassone. D’altra parte la storia è priva di elementi sostanziali, resta completamente ripiegata nella sfera immediata e naturale dell’eticitàdella famiglia e sembra una tarda ripresa del romanticismo. Peraltro, con tutte le nomination ricevute, era lecito aspettarsi decisamente di più.
Come spesso accade il secondo episodio vanifica gli spunti significativi presenti nell’episodio pilota e ne accentua gli aspetti più deboli. Innanzitutto il non avere nulla di sostanziale da comunicare, se non una banalissima storia d’amore fra un ragazzo e una ragazza. Sembra, dunque, il consueto episodio per allungare inutilmente il brodo. La serie appare come una mera merce di evasione, di mediocre qualità, dell’industria culturale, incapace di interessarsi alle problematiche storiche, geopolitiche, sociali, economiche, etiche etc. Dopo un episodio del genere è difficile che una persona intelligente abbia interesse a continuarne la visione.
Il terzo episodio è un minimo più movimentato in quanto la protagonista non accetta l’ennesimo sopruso del ragazzo. Detto questo anche l’unica vicenda di cui si occupa la serie, ovvero il rapporto “d’amore” fra i due protagonisti è del tutto irrealistico e inverosimile, dal momento che è il ragazzo che si vergogna davanti alla società della sua relazione, sebbene sia il figlio della donna delle pulizie della famiglia ricca e aristocratica della sua ragazza. A questo punto non ci resta che consigliare di seguire il nostro esempio e di smettere di continuare a vedere questa mediocre serie.
Padrenostro di Claudio Noce, drammatico, Italia 2020, il film ha ottenuto 3 candidature ai Nastri d’Argento, 1 candidatura a David di Donatello, Il film è stato premiato al Festival di Venezia, voto: 4. Padre Nostro è un film decisamente sopravvalutato. Pur essendo in teoria incentrato su una questione sostanziale come i conflitti sociali negli anni settanta e la deriva avventurista terrorista, il film si occupa esclusivamente dei risvolti che questa tragedia storica ha su un bambino, il cui padre è stato ferito in un conflitto a fuoco. In tal modo non vi è nessun approfondimento sull’evento e l’epoca storica e il film finisce con l’essere decisamente soporifero, non avendo nulla di realmente significativo da offrire alla riflessione dello spettatore.
Petite maman di Céline Sciamma, drammatico, Francia 2021, distribuzione Teodora Film, ottobre 2021, vincitrice del premio miglior film Alice nella Città 2021 al festival di Roma, voto: 4; ennesimo film assurdamente sopravvalutato, di impronta minimal-qualunquista, non ha nulla di sostanziale su cui far riflettere lo spettatore, né è in grado di offrire un soddisfacente godimento estetico.
Falling – Storia di un padre di Viggo Mortensen, drammatico, Usa 2020, distribuito da Bim, voto: 4-; il film, pur offrendo una rappresentazione realistica del fascismo quotidiano americano, molto diffuso dell’elettorato repubblicano, è davvero troppo noioso, non avendo niente altro di significativo da comunicare. Peraltro le alternative offerte al fascismo sono le solite prospettive postmoderne, davvero inefficaci – con la loro rivendicazione della differenza in quanto tale – ad aprire una prospettiva di superamento al davvero intollerabile identitarismo tradizionalista.
Estate ’85 di François Ozon, drammatico, Francia 2020, voto: 4-; ennesimo film sopravvalutato, assurdamente vincitore del festival del cinema di Roma. Un film decisamente inutile, del tutto privo di aspetti sostanziali. La solita storia d’amore romantica, con l’unica specificità, di avere come protagonisti due ragazzi.
Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, drammatico, Netflix, Canada 2020, voto: 4-; film noiosissimo di cui non si capisce davvero la ragione di essere. Di un naturalismo esasperato, di fondo postmoderno per la quasi totale assenza di questioni sostanziali e di reali motivi di interesse, quantomeno, non essendo di produzione europea, mantiene il decisivo elemento catartico tipico del cinema nordamericano. Mantiene però, al contempo, l’altrettanto tipico snobismo del cinema europeo realizzato da intellettuali tradizionali cinefili per intellettuali tradizionali cosmopoliti, incapace di stabilire una qualche forma di connessione sentimentale con il popolo.
Heimat è uno spazio nel tempo di Thomas Heise, Germania 2019, voto: 4-; realizzato su misura per i cinefili snob, generalmente della a-sinistra, che non possono non considerare un capolavoro un film ideato per impedire ogni connessione sentimentale con le masse popolari. Tutto ciò in nome di uno sperimentalismo fine a se stesso, che vorrebbe rivendicare la sua assoluta particolarità – come se fosse un bene in sé – ma in realtà non fa che prender parte a quella distruzione della ragione, anche nello specifico filmico, così caratteristica del decadentismo dell’Europa continentale.
Undine – Un amore per sempre di Christian Petzold, drammatico, Germania e Francia 2020, voto: 4-: fra i film più sopravvalutati dell’anno, opera di un regista altrettanto insensatamente sopravvalutato, Undine è un’opera senza nessuna qualità. Il film non solo non ricostruisce in nessun modo un mondo storico, ma ne dà soltanto la pessima interpretazione classista dell’ideologia dominante e non presenta un solo personaggio tipico. Il film è del tutto irrealistico, inverosimile e con cadute piuttosto pesanti nell’irrazionale. Alla base vi è una concezione del tutto irrazionale, romantica (nel peggior senso del termine) dell’amore a cui tutto il resto è sacrificato. Il film è decisamente noioso e non lascia nulla di significativo su cui riflettere allo spettatore.
A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, horror, Italia 2021, voto: 4-; film del tutto sopravvalutato dalla presunta critica cinefila sedicente di sinistra, è anche un’opera assurdamente pretenziosa. In realtà non ha nulla di sostanziale o significativo da comunicare e rappresentare, se non la spocchia dell’intellettuale privo di qualsiasi connessione sentimentale con il popolo. Quest’ultimo è rappresentato come morbosamente attratto dai fatti di cronaca violenti e – per quanto concerne la componente meridionale e, in particolare, calabrese – come se fosse composto da dei caproni selvaggi del tutto soggiogati alla malavita organizzata.
Emily in Paris1×10, serie tv Usa, fra le più ingiustamente premiate dell’anno, voto: 3,5; prodotto ben confezionato d’evasione dell’industria culturale statunitense. Certamente piacevole, anche se pieno di luoghi comuni alquanto scontati. Emerge, in maniera significativa, come i francesi temano i lavoratori statunitensi che, con la loro logica calvinista e neoliberista, favoriscono l’auto sfruttamento e l’aumento di orari e ritmi di lavoro. In altri termini, il messaggio che viene trasmesso è che gli statunitensi vivrebbero per lavorare e si realizzerebbero attraverso il lavoro – naturalmente astraendo da tutte le problematiche dell’alienazione del lavoro salariato – mentre i francesi lavorerebbero per vivere e per godersi la vita, al di fuori dell’estraneazione del lavoro salariato. Inoltre i francesi avrebbero decisamente più buon gusto e gli statunitensi maggiore spirito imprenditoriale.
Il secondo episodio prosegue sulla falsariga del primo, discreto prodotto meramente culinario, gradevole, ma non bello, senza acuti né cadute, se non l’intollerabile concezione apologetica dello statunitense, priva di sfaccettature e decisamente inverosimile. Tali perplessità non possono che aumentare nel terzo episodio, in cui la giovane statunitense viene rappresentata come un modello di sensibilità dinanzi alla presunta rozzezza dei parigini. Così, dai luoghi comuni siamo passati a una rappresentazione decisamente rovescista. Il quarto episodio non aggiunge nulla di significativo, la serie pare aver già esaurito il poco che aveva da offrire.
Il quinto episodio rende sempre più surreale una serie che ha come protagonista una laureata in marketing, che adora il suo lavoro e che ha come principale obiettivo quello di far comprendere al suo dirigente – che la bistratta continuamente – che starebbero dalla stessa parte. Aspetto comune ad altre serie comiche statunitensi è quello di presentare, senza un briciolo di effetto di straniamento, lavoratori sfruttati e bistrattati dai loro dirigenti, che non ambiscono ad altro che entrare nelle loro grazie e sono disposti, a tale scopo, anche ai più umilianti sacrifici.
Sesto e settimo episodio sono alquanto anonimi e servono quasi esclusivamente ad allungare il brodo. La serie apparentemente puramente culinaria e di evasione mira, in realtà, a far introiettare quanto c’è di peggio nell’ideologia neoliberista. Così l’eroina, con cui si tende a identificarsi, non essendoci naturalmente nemmeno un minimo di effetto di straniamento, ha due scopi fondamentali nella vita: far fare profitti a una ditta che pubblicizza beni di lusso e conquistarsi il proprio dirigente con ogni forma, anche la più umiliante, di captatio benevolentiae. Così l’americana a Parigi da una parte fa la moralista puritana davanti ai francesi, che sarebbero tutti, secondo i più scontati luoghi comuni statunitensi, dei mezzi pervertiti, dall’altra normalizza e naturalizza gli aspetti peggiori del pensiero unico dominante.
L’ottavo episodio è sostanzialmente anonimo, al solito gradevole, ma ideologicamente micidiale. Nella serie i rappresentanti degli aspetti più rozzi del capitalismo – secondo il consueto luogo comune – sarebbero incarnati dai cinesi, mentre l’eroina statunitense si presenta come una donna che si è fatta da sola, grazie all’amore e l’assoluta deduzione per il proprio lavoro. Emily rappresenta in pieno la banalità del male, visto che non si interroga mai criticamente sul lavoro che svolge, sul suo (non) senso, sui suoi fini.
Nel nono episodio scopriamo un’altra perla di “saggezza” neoliberista, ovvero che un uomo ricco e di bell’aspetto sarebbe un ottimo partito per una donna, del tutto a prescindere dal fatto che sia un impresario laido, snob e del tutto privo di contenuti sostanziali, in ciò in perfetta consonanza con la serie. La decima puntata mostra, senza volerlo, tutta l’ipocrisia del moralismo pietista statunitense. La protagonista procede tranquillamente sulla duplice staffa dei due amanti, sfruttando la crisi nel rapporto d’amore della sua migliore amica francese. Dunque, sarebbe lecito tradire le amiche, appena possibile, mentre al padrone si dovrebbero fare costantemente tutti i possibili salamelecchi, rinunciando a qualsiasi residuo di dignità del lavoratore. Penoso anche il luogo comune per cui, a causa della burocrazia, non sarebbe possibile in Francia licenziare “liberamente” i lavoratori salariati, anche da parte di proprietari di imprese private.
Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, commedia,Francia 2001, nomination Oscar 2002 miglior film straniero, sceneggiatura, scenografia, fotografia e suono, film cult, voto: 3; difficile individuare un film così stupidamente sopravvalutato. Il favoloso mondo di Amelie è una vera e propria ode all’ideologia dominante dell’imperialismo europeo: il postmodernismo, degno erede della distruzione della ragione portata alle estreme conseguenze dal nazionalsocialismo. Non è un caso che tale opera programmaticamente ideologica abbia avuto successo anche negli Usa, dal momento che gli intellettuali della sinistra borghese statunitense si atteggiano a intellettuali postmoderni europei. D’altra parte l’irrazionalismo è frenato dalla stessa industria culturale, la quale deve comunque vendere dei prodotti che, se fossero eccessivamente ideologici, non avrebbero che un mercato di nicchia.
Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude, drammatico, Romania, Repubblica ceca, Lussemburgo e Croazia 2021, voto: 3; film insostenibile, ultraideologico dal punto di vista formale, essendo completamente improntato all’ideologia dominante continentale postmoderna, mentre dal punto di vista del contenuto considera rivoluzionari i controrivoluzionari del 1989 che hanno aperto la strada alla transizione al capitalismo nella sua forma più selvaggia.
Anche se nel film lo si vorrebbe addirittura interpretare, in modo rovescista, come conseguenza del socialismo, colpisce il livello davvero barbaro prodotto dalla controrivoluzione capitalista. Vediamo, così, una società povera, dove tutto è ridotto a merce e domina l’individualismo e la conseguente asocialità più sfrenata. La assoluta insostenibilità dei film prodotti nei paesi in cui si è affermata la controrivoluzione, lasciano molto da riflettere sul ruolo svolto dallo Stato durante l’abortita transizione al socialismo, quando il settore pubblico interveniva, cercando di dare un indirizzo alle produzioni, completamente finanziate dalla collettività. Se in quel sistema vi erano evidenti limiti, l’attuale neoliberismo non è certamente preferibile. Inoltre il film, fra i più sopravvalutati dell’anno, mostra ancora una volta come lo spirito del mondo abbia da tempo abbandonato il continente europeo. La cinematografia europea – a partire dai film presentati e premiati dai festival ed esaltati dalla dominante critica cinefila – è completamente imbevuta dell’intollerabile pensiero unico postmoderno, imperante nell’Europa continentale. Ancora una volta il festival di Berlino manifesta attraverso i suoi premi quanto sia reazionario l’imperialismo tedesco.
Il buco di Michelangelo Frammartino, voto: 2+; uno dei film decisamente più sopravvalutati dell’anno. Il buco dimostra il solito snobismo dell’intellettuale tradizionale cui piace rimirarsi la lingua e mantenere la massima distanza verso il proprio stesso popolo, nei confronti del quale non ha alcuna connessione sentimentale. Anche il grande tema della questione meridionale è del tutto sacrificato al formalismo e alla piena e convinta adesione all’ideologia postmoderna, dominante al di fuori del mondo anglosassone.
Un altro giro di Thomas Vinterberg, Danimarca 2020, voto: 2+; film del tutto insostenibile, sebbene sia stato considerato il miglior film europeo dell’anno. Un altro giro fornisce una pessima e del tutto inverosimile immagine degli insegnanti che, per poter riuscire a interessare gli studenti e non cadere nella depressione, si impongono di bere quantità sempre maggiori di alcolici. Paradossalmente gli insegnanti troverebbero così il successo nel luogo di lavoro e nella famiglia. Anche se l’aumento eccessivo di alcolici rischia di farli divenire alcolizzati, con conseguenze negative sul lavoro e in famiglia. Tanto che uno dei quattro sperimentatori muore, ma gli altri tre sembrano non solo avere successo, ma paiono suggerire agli stessi studenti in difficoltà di bere alcolici per superare con profitto la paura dell’esame.
Le sorelleMacaluso di Emma Dante, commedia, Italia 2020, voto: 2-; film assolutamente insostenibile, improntato al più bieco e ideologico postmodernismo all’amatriciana, noiosissimo in quanto tutto è dipinto con il solo colore del grottesco. Per quanto alcuni critici abbiano avuto il coraggio di cercare di salvare il film, mettendo in evidenza come la regista ami sempre indagare la vita delle masse popolari, in realtà non vi è nessuna consonanza spirituale con il proprio popolo, di cui si è in grado di cogliere i soli aspetti grotteschi. Anzi, film come questo mirano a voler cancellare dalla coscienza delle masse popolari anche quel residuo barlume del principio speranza e dello spirito dell’utopia, naturalizzando, per eternizzarla, la misera condizione dei subalterni.
Non mi uccidere di Andrea De Sica, drammatico, Italia 2021, distribuito da Warner Bros, nomination miglior film, montaggio, fotografia e colonna sonora ai Nastri d’Argento 2021, voto: 1,5; film decisamente insostenibile, senza capo né coda, si limita a mescolare nel modo più insensato una serie di luoghi comuni dei generi più diversi. Abbiamo, inoltre, la solita rovescista riabilitazione dell’irrazionalismo, come se costituisse, in quanto tale, un elemento sovversivo. È davvero assurdo come sia possibile continuare a sprecare risorse pubbliche e, più in generale umane, per prodotti così scadenti e diseducativi.
Titane di Julia Ducournau, drammatico, Francia, Belgio, 2021, miglior film al festival di Cannes e nomination miglior film e regia agli European Film Awards 2021, oltre a diversi altri premi, voto: 1. È veramente arduo trovare un film assolutamente insostenibile come questo, che ha ottenuto un numero così elevato di riconoscimenti nel modo più assoluto a tal punto immotivati. Per quanto si intenda assumere la posa da snob, per quanto si intenda distinguere la propria individualità dalle disprezzate masse popolari, non si capisce proprio come sia possibile giungere a un livello di così completa incapacità di formulare un giudizio estetico nei confronti di un film così palesemente ripugnante.
Oldboy di Park Chan-wook, drammatico, Corea del Sud 2003, voto 0,5; film assolutamente indecente. Fino a poco tempo fa la riproposizione dei classici del cinema marcava una decisa discontinuità rispetto alle tante, troppe misere opere prodotte nei nostri tempi. Purtroppo questi ultimi stanno sempre più prendendo il sopravvento anche nella selezione di sedicenti classici da ripresentare nelle sale, film che sono delle pure e semplici odi alla distruzione della ragione. Resta incredibile come abbia mantenuto un minimo di credibilità quella “critica” cinefila che oggi, come allora, considera questi pessimi saggi dell’ideologia postmoderna – nella sua fase di putrefazione – come se fossero dei veri e propri capolavori dell’arte cinematografica.
Articolo di RENATO CAPUTO–Fonte-Ass. La Città Futura
Roma- 30 aprile 2017-Cettina Donato è la prima – e unica- donna italiana a dirigere orchestre sinfoniche arrangiando un repertorio jazz, nonché l’unica ad aver inciso un album insieme ad una big band a suo nome ed eseguendo sue composizioni. Sul palco della Casa del Jazz domenica 30 aprile alle ore 18, in occasione dell’International Jazz Day UNESCO 2017 e del compleanno della Casa del Jazz, la pianista, compositrice e direttrice d’orchestra Cettina Donato presenterà il suo nuovo e quarto album edito dall’etichetta discografica AlfaMusic“Persistency-The New York Project”. Registrato lo scorso settembre a Brooklyn, e presentato live in anteprima alBlue Note di New York, il disco nasce dal successo di precedenti collaborazioni di Cettina Donato con il grande batterista Eliot Zigmund, con il sassofonista Matt Garrison e il contrabbassista Curtis Ostle.
Composto da otto tracce, questo nuovo lavoro ospita sette brani originali concepiti come grandi omaggi agli artisti più amati da Cettina Donato: George Gershwin, Thelonious Monk e Herbie Hancock – che più volte ha incoraggiato personalmente la stessa Cettina allo sviluppo della sua vena creativa – anche se a livello compositivo talvolta si discosta dalla tipica forma della jazz song. Valorizzato è comunque il senso della semplicità e della cantabilità, da sempre peculiarità della sua visione musicale. La tracklist ospita anche il brano “Lawns” di Carla Bley, con un mood che rispecchia musicalmente l’andamento dell’intero disco.
Il tour di presentazione del disco prevede date in Europa e Stati Uniti, con un calendario in continuo aggiornamento e con diversi musicisti ad avvicendarsi nella formazione trio e quartetto, tra cui Eliot Zigmund, Matt Garrison e Curtis Ostle per le date negli USA, Marton Juhasz, Matyas Hofecker,Vito di Modugno, Francesco Ciniglio, Luca Fattorini, Mimmo Campanale, Riccardo Fioravanti, Stefano Bagnoli, Nino Pellegrini e Vladimiro Carboniper le date in Europa.
Cettina Donato
BIOGRAFIA CETTINA DONATO
Pianista, compositrice e direttore d’orchestra messinese, Cettina Donato si è distinta negli Stati Uniti e Canada per la grande raffinatezza e versatilità musicale nell’affrontare e fondere tra loro i diversi generi, in particolare classica, jazz e pop.
Ha ricoperto il ruolo di International President del Women In Jazz del South Florida, associazione volta alla promozione di musiciste e compositrici di tutto il mondo. Durante gli studi alla prestigiosa Berklee Music College di Boston, dove è si è laureata, è stata nominata “Best Jazz Revelation Composer and Performer” e ha ricevuto l’ambito Carla Bley Award for “Best Jazz Composer of Berklee College of Music”.
In Italia ha collaborato come direttore, compositrice e arrangiatrice con varie orchestre tra cui l’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari, l’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, la New Talents Jazz Orchestra di Roma, l’Orchestra Giovanile “Città di Molfetta”, la Late Night Jazz Orchestra di Los Angeles e a Boston ha fondato la “Cettina Donato Orchestra” composta da musicisti provenienti dai cinque continenti.
Si è esibita in importanti festival tra cui l’Umbria Jazz, è stata finalista al concorso Note Di Donna (Piacenza Jazz Festival) e si è piazzata seconda al Luca Flores Award come miglior jazzista italiano emergente.
Negli anni ha suonato con alcuni tra i didatti-jazzisti più importanti dell’area jazz, tra cui Eliot Zigmund, Stefano Di Battista, Fabrizio Bosso, Salvatore Bonafede, Ray Santisi, Laszlo Gardony, Joanne Brackeen, Greg Hopkins, Jackson Schultz, Ken Pullig, Dick Lowell, David Santoro, Adam Nussbaum, Hal Galper, Billy Harper, Ron Savage, Scott Free, Dario Deidda, Roberto Gatto, Ken Cervenka, Bob Pilkington, Marcello Pellitteri, Marco Panascia, Orazio Maugeri, Dado Moroni, Bob Mintzer, Garrison Fewell ed altri.
Negli Stati Uniti è stata impegnata come performer, bandleader e direttore di Big Band per diverse organizzazioni musicali, festival e jazz club tra New York, Los Angeles, Boston, Cambridge, Austin.
Il suo primo album “PRISTINE” ha ottenuto ottime recensioni da alcune tra le più importanti riviste di jazz italiane e straniere come Jazzit, Musica Jazz, Jazz Magazine, JazzTimes, Keep Swinging, JazzWise, Metronome, Boston Globe. Il secondo disco “CRESCENDO”, registrato con un’orchestra jazz e un quartetto di archi e che comprende sue composizioni originali, è stato premiato al Jazzit Awardcome uno dei migliori album internazionali del 2013.
Ha riscosso un notevole successo di vendite e di critica il suo terzo lavoro “THIRD” (Blue Art Management), uscito nel febbraio 2015, che comprende sue composizioni per jazz trio. Il quarto album “Persistency-The New York Project” feat. Eliot Zigmund è stato registrato a New York nel 2016 e presentato in anteprima proprio al Blue Note nella Grande Mela. I suoi live e dischi sono stati recensiti da importanti testate come Musica Jazz, Jazzit, Jazz Times, The Boston Globe, Jazz Wise (UK).
Diplomata in Pianoforte classico e laureata in Musica Jazz al Conservatorio “A. Corelli” di Messina, oltre che al Berklee Music College di Boston, Cettina è a sua volta impegnata sul fronte della didattica, come docente dei Conservatori di Livorno, Alessandria e Messina.
E’ inoltre laureata all’Università di Messina in Psicologia Sociale.
Cettina Donato
I suoi prossimi concerti: il 26 maggio a Foggia, il 28 a Valenzano e a Trani, il 15 giugno a Messina, mentre il 23, 24 e 25 giugno sarà a Feltre protagonista di una residenza artistica al Jazzit Fest. Il 29 agosto tornerà negli Stati Uniti per un concerto a Kendall Square, Cambridge, e il 18 settembre a Boston per il Sounds of Italy Festival.
Cettina ha deciso di devolvere tutto il ricavato della vendita dei dischi ad un progetto da lei fortemente voluto: la costruzione della Residenza “VillagGioVanna”, in provincia di Messina, destinata ad ospitare in maniera permanente bambini, ragazzi e adulti affetti da autismo e che non hanno il sostegno della propria famiglia. Il progetto comprende anche un grande spazio destinato alle attività musicali con uno studio dotato di strumenti, dischi, una sala cinema, un terreno che ospiterà animali domestici per la Pet Therapy ed anche una piscina. Previsto il supporto di medici, assistenti, infermieri, operatori.
Cettina Donato da sempre divide la sua carriera tra Stati Uniti e Italia, luoghi nevralgici dove, tra jazz e classica, ha sviluppato un intenso percorso artistico, dalla composizione e direzione per orchestra, alla conduzione di formazioni come trio e quartetto, al piano solo, collaborando con molti artisti noti della scena internazionale.
Il JAZZIT Award 2015 ne riconosce i meriti annoverandola nella classifica dei migliori arrangiatori italiani. Un patrimonio di conoscenze ed espressività che in Italia diffonde anche attraverso una intensa attività didattica nei conservatori di Messina, Alessandria e Livorno.
Cettina Donato
Cettina Donato :”Puoi raggiungere qualsiasi obiettivo tu abbia programmato ma ci vuole azione, persistenza e la capacità di guardare in faccia le tue paure. Questo è il motivo per cui ho chiamato il mio nuovo progetto “Persistency” (perseveranza) perché niente è impossibile e non abbiamo alcun limite. Noi stessi siamo il nostro limite. Dobbiamo soltanto credere un po’ di più in noi stessi. Mi auguro che le musiche di questo album siano di vostro gradimento perché sono state realizzate con amore e con il cuore.” Cettina Donato”.
L’Album e il Presskit sono scaricabili integralmente sul sito di Italian Jazz Music (riservato esclusivamente agli addetti ai lavori previa registrazione gratuita): http://ijm.it/component/music/display/648. Per ricevere copia promozionale del disco inviare una mail a: Ufficio Stampa AlfaMusic Anita Pusceddu anita@alfamusic.com.
Cettina Donato con Eliot Zigmund
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