LA DANIMARCA E LA RESISTENZA NONVIOLENTA AL NAZISMO: UN’ESPERIENZA DA RISCOPRIRE

Biblioteca DEA SABINA

LA DANIMARCA E LA RESISTENZA NONVIOLENTA AL NAZISMO: UN’ESPERIENZA DA RISCOPRIRE

LA DANIMARCA E LA RESISTENZA NONVIOLENTA
LA DANIMARCA E LA RESISTENZA NONVIOLENTA

Articolo di Irene Bracchi

La nonviolenza è un metodo di lotta che può raggiungere risultati evidenti.

Soprattutto se, invece che i morti, si contano le vite strappate al nemico.

Forse in pochi conoscono la storia di resistenza nonviolenta al nazismo della Danimarca, eppure è unica ed interessante perché mostra la potenza della nonviolenza e della resistenza passiva, anche quando l’avversario è un regime estremamente sanguinario e gode di mezzi infinitamente superiori.

Riferendosi all’esperienza danese, Hannah Arendt sosteneva che su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università, ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per insegnare a quali risultati può arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello di coesione sociale e di riconoscimento popolare nelle istituzioni.

L’invasione nazista

Il 9 aprile 1940 la Danimarca viene invasa dalla Germania nazista. L’esercito danese in sole sei ore capitola, il governo socialdemocratico danese resta in carica e, pur protestando contro la violazione della neutralità, acconsente a misure come la messa al bando dei comunisti e al mantenimento di relazioni economiche con la Germania, diventando un simbolo di propaganda e lasciandosi usare come «vetrina democratica» del III Reich.

Alla limitata resistenza armata si affianca una più diffusa e sempre crescente non collaborazione civile incoraggiata e sostenuta dal re Cristiano X che sin da subito si era opposto all’obbligo per gli ebrei di portare la stella di Davide, e dal governo che già nell’ottobre 1942 era riuscito ad evitare l’introduzione delle leggi antiebraiche, minacciando di dimettersi e dichiarando che ogni attacco agli ebrei danesi avrebbe costituito un attacco alla Costituzione che garantiva l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Dopo un primo periodo, in cui il Paese diventa una sorta di protettorato tedesco, con la Germania che si impegna a non ingerire negli affari interni danesi, nell’agosto del 1943 cessa la libertà relativa concessa alle autorità locali con l’introduzione della legge marziale.

La resistenza nonviolenta

La reazione del governo fu quella di dichiarare il proprio autoscioglimento, dando in tal modo legittimazione alla resistenza. Le istituzioni collaborazioniste vengono svuotate e delegittimate, la parvenza di normalità a cui aspirano gli occupanti fallisce.

È proprio in questo momento che la risposta nonviolenta della popolazione diviene fondamentale: viene attivato tutto il tessuto associativo, vengono nascosti i ricercati e viene raccolto il denaro per organizzare la loro fuga nella vicina Svezia, li si accompagna nella notte ai luoghi di imbarco mentre i membri della resistenza si occupano di sorvegliare le strade per permettere l’esodo. A queste operazioni collaborano molte associazioni della società civile ma anche organi amministrativi, polizia e guardia costiera, arrivando a pagare con la vita e le deportazioni il proprio impegno. Grazie a questa mobilitazione più del 90% dei 7.695 ebrei danesi viene portato in salvo.

A queste opere di supporto e resistenza si affianca, così come negli altri paesi scandinavi, un rifiuto diffuso da parte di professionisti quali insegnanti, magistrati, medici e sportivi (spesso appoggiati dalle Chiese) ad iscriversi ad associazioni di mestiere e corporazioni di stampo nazista. Tanto che nella vicina Norvegia, a causa di questa scelta, non si organizzano gare sportive fino alla fine della guerra, contribuendo in tal modo ad allontanare i giovani dal regime.

Il sangue risparmiato

Se questa storia è poco conosciuta la ragione è da ricercarsi nel disinteresse diffuso, fino almeno agli anni novanta, per le lotte disarmate. Le ricerche in queGermania, sto ambito erano condotte quasi esclusivamente da studiosi dell’area nonviolenta, tra cui lo storico francese Jacques Sémelin, che alla fine degli anni ottanta elabora il concetto di resistenza civile, dando a queste pratiche estremamente eterogenee, riscontrabili anche in altri Paesi europei (Italia compresa), uno statuto teorico, chiarendone le specificità: assenza delle armi e metodi in genere nonviolenti, i cittadini come protagonisti principali, autonomia degli obiettivi diretti a contrastare lo sfruttamento e il dominio nazista sulla società.

Che senso ha quindi oggi riscoprire questi atti di ottant’anni fa? E che legame possono avere con l’oggi? L’esperienza danese insegna che la lotta nonviolenta può essere più efficacie di quella armata e che una popolazione che coopera verso un fine comune può ottenere risultati difficili da immaginare. Insegna anche, come scrive Anna Bravo, che «la seconda guerra mondiale ha ancora molto da dire, a cominciare da quel che si intende per contributo di un Paese o di un gruppo alla lotta antinazista (e a qualsiasi lotta). Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto, tanto più in tempi di guerre contro i civili, misurarlo anche sulla quantità di energie, di beni, soprattutto di vite strappate al nemico; sul sangue risparmiato non meno che sul sangue versato”.

Per approfondire

La Danimarca per esempio – Azione nonviolenta

La Resistenza nonviolenta in Danimarca (aadp.it)

L’ esempio dei danesi – la Repubblica.it