Il cantautore Cristiano Godano cita Cioran e sogna i sogni di Nabokov-Rivista PAN-Biblioteca DEA SABINA
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Il cantautore Cristiano Godano cita Cioran e sogna i sogni di Nabokov-Rivista PAN-
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“Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp)
con Cristiano Godano, tra Nabokov, i Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, fermi, per sempre fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Cristiano Godano, per lo più, è negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo. Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora. Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti. Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in quegli anni, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano, gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi anni Novanta, pareva paragonabili, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting; pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo, annegando, Nuotando nell’aria:
“Intanto l’aria intorno è più nebbia che altro…
Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio Faletti, Laura Pausini.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche, inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
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Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti, nei Gulag sovietici, poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio, però, era Oblomov.
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Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata. Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo. In Poeti – installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo WhatsApp. Facciamo un esperimento: ti faccio una domanda al giorno. Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un concerto e l’altro – Godano ci sta.
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Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part – ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa vedi. Più tardi, sul palco, Godano estrae da quel disco il pezzo-Houdini, che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per te. Manca Skin, non ho il physique.
“Di Nick Cave amo tutti. I miei tre dischi preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entra Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024):
“Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo; quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e crocefisso del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo, poi la abolisce. Si leva la maschera e la offre come trogolo al pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro. Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio – fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che una variante del cielo.
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Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte, sull’aldilà.
“Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano: detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos, è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos, ma dal fato: un dono più che una condanna. Da preservare, come il fuoco e il suo fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste). Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso, salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto. Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
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Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta addosso. Mi risponde poco dopo:
“Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’, ma si smarca: “non avendo fede e non riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Poi parliamo dell’anima, “ragionerei più in termini di coscienza”, fa lui, e si smarca, “ammetto di non essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
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Più che altro, va tenuta sull’ambone questa vita da sfracellati. Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi, questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo di ombre.
*Nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
Una volta scritti, i libri dovrebbero essere sotterrati – oppure, sotterrato sotto svariati, variopinti pseudonimi, dovrebbe svanire lo scrittore, sottratto all’etica delle vendite, alla claustrofobia delle interviste, della ‘prestanza’ pubblico. Non può prestarsi al mondo, lo scrittore, perché, se è grande, ha dato forma a un mondo: non si resta impuniti – non si deve, è doverosa la reazione – dopo aver scritto un libro. Ordire un nuovo ordine verbale nel covo caotico del tempo, estrarre allo spazio una nuova dimensione – l’immaginazione, dove tutto, soprattutto l’opposto, è possibile – è azione pericolosa. A volte diabolica. Non si scrive impunemente un libro, ancora.
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Tra gli scrittori di genio, cioè dediti con monastico scempio alla scrittura, Vladimir Nabokov mi pare il demoniaco. Ha scritto, con intenzione peculiare, in contrasto alle altezze, sfidando le potenze, dando al suo mondo una coerenza più accurata di qualsiasi altro creato. Nabokov ha scritto scombinando i simboli, organizzando il regno in modo obliquo, proprio. Per questo, per quanto sia più citato che letto (pochi vanno oltre Lolita), la sua qualità incantatoria è sublime, superiore. Ti ubriaca dimostrando, ovunque, una superiorità a tratti esaltante, spesso esilarante, a volte insopportabile. Il ‘metodo’ di scrittura di Nabokov – per schede, in faldoni, come un classificatore celeste – e la sua ostinata scienza nello studiare le farfalle (“Non poche farfalle diurne e una notturna sono state battezzate col mio nome, e in questi casi il mio nome diventa nabokovied è incorporato in quello dell’insetto… C’è anche, in Sudamerica, un genere Nabokovia Hemming. Tutte le mie collezioni americane sono in qualche museo, a New York, Boston e Ithaca”), lo rendono affascinante, cristallino e sinistro. Una volta, ho pensato che Cormac McCarthy – scrittore opposto a VN – abbia raffigurato il temibile Nabokov nel Giudice Holden di Meridiano di sangue, albino, demoniaco, generosamente assassino, pingue, con il vezzo di classificare tutto ciò che vede, a degna incoronazione del suo infinito romanzo del caos.
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Icona della forza dell’originalità contro i romanzieri creati in batteria, dei libri unici, inclassificabili, inimitabili, Nabokov non avrebbe alcun consiglio per il ‘giovane scrittore’ se non: leggi i miei libri e gettati in un pozzo. Con canonica perizia Emily Temple ha estratto un mazzo di Vladimir Nabokov’s Best Writing Advice, tuttavia, ricavandoli da interviste, libri, conferenze dell’immenso VN (a cui, ora che mi ricordo, ho dedicato un romanzo terribile, tutt’ora inedito). Ne ho tratto una traduzione. In effetti, uno scrittore, dopo aver scritto un libro – ogni parola non benedice ma contrasta il mondo – deve sotterrarsi. Oppure, diventare farfalla – sulla fragilità brunita delle sue ali, è detto, è descritto il futuro del mondo, l’apocalisse, la resurrezione.
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Non esiste immaginazione senza conoscenza (comincia a studiare Dio e il mondo). “Uno scrittore creativo deve studiare attentamente le opere dei suoi rivali, incluso l’Onnipotente. Deve possedere la capacità innata non solo di ricombinare ma di ricreare il mondo dato. Per fare ciò in modo adeguato, evitando la mera duplicazione, l’artista dovrebbe conoscere il mondo. L’immaginazione senza conoscenza non conduce oltre la serra di un’arte primitiva, lo scarabocchio di un bambino sullo steccato, il messaggio divulgato in un supermarket. L’arte non è semplice – mai”.
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Copia soltanto da te stesso. “Gli epigoni sembrano versatili perché imitano molti altri, del passato o del presente. L’originalità, in arte, non copia altro che se stessa”.
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Ascolta il caos del mondo. “Scrivere è un’occupazione futile se non implica anzi tutto l’arte di osservare il mondo come possibilità per un’opera di finzione. Il materiale del mondo appare piuttosto reale, per ciò che riguarda la realtà, ma non ammette la totale conoscenza: di fatto, è il caos e il caos dice allo scrittore, “vai, inventa!”, permettendo così al mondo di sfarfallare e coagularsi”.
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Segui l’esempio della Natura: menti. “La letteratura è invenzione. La finzione è finta. Definire una storia una ‘storia vera’ è un insulto all’arte come alla verità. Ogni grande scrittore è un grande mentitore, come la Natura, arcigna. La Natura inganna sempre. Pensate all’illusione dei colori, che inganno sofisticato e prodigioso. La Natura è retta da un meraviglioso sistema di incantesimi e di astuzie. Lo scrittore segua l’esempio della Natura”.
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Forza e originalità rendono il brivido di un libro indimenticabile. “Forza e originalità congiunte al primo spasmo dell’ispirazione sono direttamente proporzionali alla grandezza del libro che un autore sta scrivendo. In fondo alla scala, si può provare un brivido lieve notando la connessione tra una fabbrica, il fumo, un cespuglio stentato e un bambino pallido. La combinazione è così semplice, la simbologia tanto evidente, il ponte tra le immagini noto e consunto dai venditori di idee standard, che la finzione messa in atto avrà necessariamente un valore modesto… Basta, a volte, ascoltare il lampo creativo: un’immagine improvvisa e viva, a cui si connettono unità narrative diverse, in una specie di esplosione stellare della mente”.
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Vuoi essere narratore, insegnante o prestigiatore? “Uno scrittore può essere considerato un narratore, un insegnante, un prestigiatore. Uno scrittore di genio combina questi tre aspetti, ma è il prestigiatore che predomina. Al narratore ci rivolgiamo perché ci intrattenga, per l’eccitazione mentale più semplice, primaria. Una mente diversa, non necessariamente superiore, cerca un insegnante. Propagandista, moralista, profeta: questa è la sequenza. Infine, e soprattutto, un grande scrittore è sempre un grande prestigiatore, uno che conosce gli incantesimi, di cui amiamo cogliere la magia individuale del genio, studiare lo stile, le immagini, il modello”.
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La disciplina della parola esatta. “Lo stile non è uno strumento, non è un metodo, non riguarda soltanto la scelta delle parole. Lo stile costituisce la personalità dello scrittore… Uno stile può essere perfezionato, precisarsi, diventare più potente, come accade in Jane Austen. Ma se uno scrittore è privo di talento non può sviluppare alcuno stile letterario di qualche vigore. Per questo credo che non si possa insegnare a scrivere narrativa se non si possiede un talento. Solo in quest’ultimo caso un giovane autore può essere aiutato a trovare se stesso, a sfrondare la lingua dai luoghi comuni, a eliminare la goffaggine, ad abituarsi alla disciplina della parola esatta, l’unica, la sola che con la massima precisione trasmetterà la tonalità perfetta di quel pensiero”.
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Le idee sono solo fesserie. “Stile e struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono fesserie”.
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Un romanzo si scrive nella testa – soltanto dopo, molto dopo, sulla carta. “Non so se un uccello visualizzi o meno il futuro nido e le uova al suo interno. Quando, a posteriori, ricordo la forza che mi ha fatto annotare alcuni nomi, alcuni concetti e dettagli prima che ne avessi un concreto bisogno, credo che l’ispirazione – ciò che non riusciamo a dire in altro modo – fosse già al lavoro, indicandomi i reperti di una storia ancora sconosciuta. Dopo il primo shock, il primo riconoscimento – una voce improvvisa: “ecco quello che devi scrivere” –, il romanzo si costruisce da solo, il processo procede nella mente più che sulla carta… Arriva un momento in cui tutto è scritto nella nostra mente, allora quello che devi fare non è altro che afferrare carta e penna. Dal momento che l’intera struttura è già forgiata, come un enorme dipinto, io posso illuminarne con la torcia soltanto un settore, e partire da lì. Non comincio mai un romanzo dall’inizio, non scrivo il capitolo tre se prima non ho completato il quattro, non scrivo in modo diligente una pagina dopo l’altra, no, proseguo vagabondando, un po’ qui un po’ là finché non ho riempito tutti gli spazi vuoti”.
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I dettagli, i dettagli… “I dettagli, i dettagli: accarezza la divinità dei dettagli”.
Vladimir Nabokov
Fonte- PAN è su www.PANgeA.News