Dall’introduzione di Nadia Fusini.Un anno con Virginia Woolf: «L’idea è questa: svegliarsi ogni mattina, in compagnia di Virginia Woolf. Per un anno intero, farsi accompagnare nella giornata che si apre dalla sua voce. Giorno dopo giorno, provate a sfogliare questo libro come fosse un breviario, un libro dei giorni, se non delle ore. Una liturgia dei giorni scanditi come nei libri delle ore del passato, che guidavano la mente a concentrarsi su immagini e pensieri che l’arricchivano, e la preparavano all’incontro con la vita quotidiana… Tutti noi, lettori e lettrici di Virginia Woolf, se leggiamo i suoi romanzi, i suoi racconti, i saggi, le lettere, il diario, è perché godiamo del ristoro che ci viene dall’essere in compagnia con la sua mente. Perché Virginia Woolf ha vissuto, come tutti noi, una vita ricca di gioie, e anche di dolore… Scopriremo così, frequentandola per l’appunto quotidianamente, una compagna di vita libera, e coraggiosa. E se spesso le capitava, come le capitò, di finire in vicoli ciechi, erano strade che cercava – molte delle quali ha lasciato aperte per noi. E sono certa, non ho dubbio alcuno, che ci verrà del bene a convivere per un anno, fianco a fianco con una creatura che non ha mai ceduto, in cambio di sicurezza, o di identità, il suo grande amore per un’esistenza libera».
Carmen Verde-Romanzo “Una minima infelicità” – Neri Pozza Editore
DESCRIZIONE-
Una minima infelicitàè un romanzo vertiginoso. Una nave in bottiglia che non si può smettere di ammirare. Annetta racconta la sua vita vissuta all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Una petite che non cresce, che resta alta come una bambina. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l’arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa cosí il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l’approdo brusco all’età adulta. Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione. Ogni pagina di questo romanzo ci mostra cosa significhi davvero saper narrare utilizzando una lingua magnifica che ci ipnotizza, ci costringe ad arrivare all’ultima pagina, come un naufragio desiderato. Questo libro è il miracolo di una scrittrice che segna un nuovo confine nella narrativa di questi anni.
RECENSIONI
«Nelle fotografie sediamo sempre vicine, io e mia madre: lei pallida, a disagio, con uno sguardo che pare scusarsi. A quei tempi, pregava ancora Dio che le mie ossa s’allungassero. Ma Dio non c’entrava. Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne avevo anche troppa».
«Ho letto il romanzo di Carmen Verde. Mi è piaciuto. Ha un ritmo veloce e leggero, come un treno che attraversa la notte con tutte le luci accese. Guardi stupito e ti chiedi chi siano quelle sagome che appaiono dietro i vetri. L’autrice conosce la geometria dei segreti e sa come giocare con il lettore». Dacia Maraini
«Carmen Verde ha una voce sorprendente e un immaginario cosí personale da risultare splendidamente spiazzante. Una minima infelicità è un libro pieno di ossessione e dolcezza, di crudeltà e pietas. Ha dentro la meravigliosa complessità di certe miniature, dove la cura per i dettagli rivela un mondo insieme familiare e straniato. I suoi personaggi si muovono sul bilico morale dei grandi classici e custodiscono l’oscura sensualità e abiezione che sanno regalarci scrittrici come Némirovsky o Lispector». Veronica Raimo
L’Autrice-Carmen Verde, vive a Roma. Questo è il suo primo romanzo.
Dopo una doverosa premessa storica, il giornalista Domenico Quirico affronta in queste pagine un discorso, sotto forma di dialogo-intervista con Farhad Bitani, sulle cause della veloce e ritirata americana dall’Afghanistan e sulle menzogne a cui quanti hanno creduto in 20 anni di missione salvifica, da parte degli americani nei confronti di una popolazione duramente provata dal regime Albano e dai conflitti precedenti, che si è rivelata in atto qualcosa nei diverso.
Una prima reazione condivisibile è quella della delusione e del sentirsi presi in giro, anche se che la guerra non sia un bene per nessuno, soprattutto per i popoli che la subiscono è una verità assoluta in ogni circostanza.
In particolare in questo caso, si parla delle responsabilità occidentali e delle false credenze attribuite all’una e all’altra parte (la stessa popolazione afghana) attraverso un fitto dialogo tra il giornalista de La Stampa, responsabile degli Esteri, corrispondente da Parigi e inviato, Domenico Quririco e l’ex capitano dell’esercito afghano Farhad Bitani, figlio di un generale, che ha vissuto nell’Afghanistan dei mujaheddin e poi dei Talebani e infine si è definitivamente trasferito in Italia, dopo aver frequentato l’Accademia militare di Modena e la scuola di Applicazione di Torino.
Le domande sono poste da Quirico come si trattasse di una lunga intervista, anche se in realtà è più un dialogo a due voci, la parte “occidentale” che tenta di riconoscere e puntare il dito sui limiti del sistema messo in atto dai paesi della coalizione e smaschera le bugie date in pasto all’opinione pubblica e la parte più coinvolta emotivamente, ormai svincolata dalla cruda realtà del paese, a cui guarda con disincanto e senza remore di dire come stanno le cose, che è quella di Bitani, cresciuto come molti in un clima di violenza, sopraffatto da quella stessa violenza, fino ad abituarsene
Perché questi quarant’anni circa di guerra hanno fatto crescere una generazione nel male. Cosa vuol dire? Quando tu cresci nel male, e non conosci il bene, nella vita il male diventa parte di te, ti plasma. Tutto il dolore che vedi pensi che sia ineluttabile, naturale, che faccia parte della vita. Sparare, morire, che una persona venga uccisa, pensi che faccia parte dell’esistenza, pensi che la vita sia questa, perché tu in questo ambiente cresci, fai esperienze, maturi, scegli… Se resti vivo! (p.48)
Particolarmente interessanti sono le parti del libro in cui si cerca di spiegare il perché del fallimento della “missione” che in questi vent’anni ha visto gli Stati Uniti e i paesi della coalizione Nato, compresa l’Italia, impegnati in un’opera di democratizzazione dall’esterno, senza capire che gli strumenti messi a disposizione facevano arricchire più la parte dialogante e politica, che era anche quella corrotta e non aiutavano la popolazione in nessun modo, se non in quello di fargli rimpiangere degli interlocutori che avessero davvero a cuore le sorti del paese, e che in un certo senso non hanno mai smesso di tenerlo in pugno, con la loro promessa di comprensione vera delle dinamiche e nello stesso tempo con la pratica della violenza.
I mujaheddin prima e i Talebani poi, hanno avuto la loro santificazione e la loro contemporanea condanna grazie ad una narrazione volta a creare eroi (Massoud, che per Bitani è un eroe costruito a tavolino dai francesi) o mostri (i Talebani), agli occhi di una sbrigativa opinione pubblica internazionale, che non si è mai veramente addentrata nelle dinamiche di un paese profondamente diviso, disunito, corrotto, tribale e privo di strumenti, che non fossero l’odio contro il nemico e la volontà di approfittarne prima e cacciarlo poi.
Attestandosi battaglie modaiole per i diritti delle donne e per le minoranze apparentemente più fragili le potenze straniere si sono mantenute in superficie, senza scavare nei drammi familiari di un paese che ha i suoi limiti e le sue estensioni ben oltre Kabul, che vive di una religione che è legge coranica e giustizia civile, che si alimenta dei suoi stessi mostri e non conosce i concetti per cui “gli invasori” sono venuti a predicare, senza distinguere nemmeno le minoranze o le differenze linguistiche, abbacinati da spot di democratizzazione che ha dato in pasto lo specchio di ciò che volevamo vedere, per rassicurarci che tutto stesse andando per il verso giusto:
Ma la democrazia non è sollevare il velo, la democrazia è credere, convincersi che è il sistema più giusto, il migliore. Prima bisogna convincere i popoli del significato della democrazia, poi portarla affinché diventi realtà. Invece gli americani hanno portato la democrazia in un Paese dove nessuno sapeva che cosa fosse. (p. 99)
La condizione femminile, la politica, la religione islamica, il rapporto con un Dio totalitario, le bugie la sottile arte della dissimulazione sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i punti di vista, certo personali, ma supportati da un buon numero di evidenze, dei due uomini, narratori e protagonisti, che intrecciano le loro idee e le loro opinioni in un dialogo notturno, che è un viaggio dentro il cuore di tenebra dell’Afghanistan, che rischia di far prevalere questo suo lato oscuro su tutte le cose e di restare invischiato, ancora una volta in una lunga notte di oblio e di terrore, che investe tutte le cose e tutte le apparenti conquiste, bruciate sul rogo delle finte intenzioni e dei goffi tentativi di pulirsi la coscienza, dimenticando chi è rimasto indietro.
«Bruna sono ma bella, / o figlie di Gerusalemme, / come le tende di Chedar, / come i padiglioni di Salma»: cosí i versi del Cantico dei Cantici (I, 5-6). Perché questa bellezza bruna piena di mistero, in cui avviene l’elezione di Israele a Sposa di Dio, è stata ripudiata? Perché la poesia del Cantico, invece di stagliarsi come impenetrabile testimonianza di un’elezione «erotica» è stata sostituita da una teologia dell’elezione avanzata da un’altra religione? Queste sono le domande da cui muove questo agile libro in cui Monica Ferrando mostra come il crescente dominio economico-tecnologico del mondo, non solo del mondo umano ma anche di quello naturale, è avvenuto attraverso un capovolgimento del paradigma biblico dell’elezione. Un capovolgimento in cui il paradigma teologico della predestinazione, dell’imperscrutabilità dell’elezione divina, ha permesso ai gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti di vantare un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini. I prescelti sono divenuti gli appartenenti a un certo tipo umano (bianco) e a una certa classe (alta) i quali, grazie a un estorto messianismo fondato sul privilegio di razza, di censo e di cultura, hanno edificato un sistema tecnico ed economico che si arroga il diritto sovrano e patriarcal-maschilista di decidere al posto della divina varietà dell’umano e dell’umanità nel suo complesso.
RECENSIONI
«Per secoli i gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti, forti di un monoteismo teologico cui avrebbero dato crescente legittimazione politica, hanno vantato un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini».
AUTORE
Breve biografia di Monica Ferrando ha pubblicato vari studi di filosofia e pittura. Ha curato le edizioni italiane di Triade e de I nomi degli Dei di Hermann Usener, di Ercole al bivio di Erwin Panofsky e di La pittura e lo sguardo di Avigdor Arikha (Neri Pozza, 2016). Dirige la rivista on-line «de pictura» www.quodlibet.it/riviste/testata/80. Ha pubblicato L’oro e le ombre (Quodlibet, 2015).
Eugenio Mazzarella- Perché i poeti -La parola necessaria – Neri Pozza Editore
DESCRIZIONE
Nel 1946 Martin Heidegger tenne una conferenza, Perché i poeti?, pubblicata poi nei saggi di Holzwege. Negli scritti di Heidegger, è tra quelli che segnano il grande confronto del pensiero heideggeriano con il dire dei poeti, e la cosiddetta svolta nel pensiero del filosofo tedesco dall’analitica esistenziale di Essere e tempo alla riflessione sul senso dell’essere come evento del linguaggio custodito nella poesia. Passaggio che avviene soprattutto attraverso un’interrogazione sull’essenza della poesia in Hölderlin. In questa piccola opera, Eugenio Mazzarella ritorna sui temi propri del confronto di Heidegger con la poesia, e la domanda sulla sua essenza, in una prospettiva, però, in cui l’analitica esistenziale non è affatto abbandonata. Il senso dell’essere, la verità dell’essere, schiusa dalla poesia, appare come un “fatto di parola”, come l’evento stesso del linguaggio, ma è, ad un tempo, anche un’esperienza esistenziale. Lo “strano fatto” della poesia è “l’istituzione linguistica del mondo” prima che ci siano le singole cose, è l’apertura stessa del mondo. Ma questa “istituzione linguistica” è imprescindibile dall’Esserci, dall’Io che nomina il mondo e, nominandolo, ritrova sé stesso. Di qui il ruolo, centrale e fondativo, come insegnerà Leopardi, dell’Io lirico. In un attraversamento, dell’esperienza della grande lirica moderna, del “nichilismo” poetico di Leopardi, del suo presupposto spirituale nell’Ecclesiaste, e in un confronto con la stessa lettura di Heidegger di Hölderlin,Mazzarella mostra in queste pagine la parola necessaria della poesia e la sua insostituibilità come fenomeno peculiare dell’esistenza umana.
RECENSIONI
«“Essere” è un fatto di parola, averla e nominare. Nominare un mondo, e – nello specchio del mondo – trovare l’Io, la solitudine che (si) appartiene: presso di sé, l’essersi fatta sola, insieme al mondo che “vede”, della vita che prende la parola».
Breve biografia di Eugenio Mazzarella insegna filosofia teoretica all’Università Federico II di Napoli. È stato preseide della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo friedericiano e deputato al Parlamento nella XVI legislatura. Tra le sue opere Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico (Il melangolo, Genova 2004); L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Quodlibet, Macerata 2017); Sacralità e via (Guida, Napoli 1998); Vita politica valori (Guida, Napoli 2010) e la raccolta di poesie Anima madre (ArtstudioPaparo, Napoli 2015).
Il 4 aprile del 1956, in una lettera a Goffredo Parise in cui rimprovera allo scrittore vicentino di aver smarrito, nel suo ultimo racconto Il fidanzamento, l’esuberanza patetica e piena di forza della sua opera prima Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza scrive: «Non ti dolere di questo parere negativo, io sono un vecchio provinciale con idee estremamente chiare anche se sbagliate (per te). Saranno idee d’arte e di poesia, che fanno pochi soldi, ma sono le sole capaci di sedurmi e interessarmi. Il resto, per me, è buio e vanità». La fede ostinata nel carattere d’arte e di poesia del lavoro editoriale attraversa da cima a fondo questi carteggi, che qui pubblichiamo per la prima volta nella loro completezza, tra l’editore vicentino e gli scrittori con cui ebbe un rapporto privilegiato di amicizia e di collaborazione: Dino Buzzati, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale e Goffredo Parise. Dal 1946, quando Neri Pozza fondò la sua casa editrice, fino al 1988, l’anno della sua morte, l’editore intrattenne rapporti epistolari con le figure di spicco della cultura italiana del Novecento: da Giuseppe Prezzolini a Emilio Cecchi, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi, da Camillo Sbarbaro a Corrado Govoni, da Carlo Diano a Concetto Marchesi, da Elémire Zolla a Amedeo Maiuri. È nelle lettere a Buzzati, Gadda, Montale e Parise, tuttavia, che emerge davvero la figura di Neri Pozza editore. Come ha scritto Fernando Bandini, Pozza «aveva già in mente per suo conto dei libri che pensava mancassero, e li proponeva agli autori che gli sembravano i più adatti a scriverli. Se avesse potuto li avrebbe scritti tutti lui di suo pugno». È Neri Pozza che, nel 1950, sedotto dall’idea di un’opera di Buzzati indica all’autore del Deserto dei Tartari la via per «un libro serio, vivo, necessario alla sua storia di scrittore». È Neri Pozza che, contro il parere dei critici che lo consideravano oscuro, pubblica Gadda e il suo Primo libro delle Favole, un titolo non compreso o addirittura sbeffeggiato quando apparve. È Neri Pozza che stampa coraggiosamente l’esordio in prosa di Montale, quella Farfalla di Dinard che esce nel 1956, con copertina rosso mattone, in un’edizione fuori commercio di 450 esemplari, con allegata un’incisione di Giorgio Morandi. È l’editore vicentino, infine, che non esita, in nome della chiarezza dell’arte e della poesia, a indicare «orrori» ed «errori» a Goffredo Parise, diventando, come ha scritto Silvio Perrella, oltre che il suo editore anche «il suo primo critico». A sessant’anni dalla nascita della casa editrice che reca il suo nome, con la pubblicazione di questi carteggi e della monografia Neri Pozza, la vita, le immagini, appare sempre più evidente il posto di rilievo che spetta all’editore vicentino nell’editoria e nella cultura del Novecento.
Cenni biografici di Neri Pozza
Neri Pozza nacque a Vicenza il 5 agosto 1912. Iniziò la propria attività come scultore nel 1933 seguendo l’esempio del padre, Ugo Pozza. Nell’ampia produzione è forte il richiamo di Arturo Martini e di Marino Marini. Espose alla Biennale di Venezia nel 1952 e nel 1958, alla Quadriennale di Roma e ancora alla Biennale veneziana della grafica. Nell’attività letteraria Pozza si distinse con volumi quali Processo per eresia (1970), Premio selezione Campiello, Comedia familiare (1975), Tiziano (1976), Le storie veneziane (1977), Una città per la vita (1979), Vita di Antonio, il santo di Padova e alcuni scritti sulle memorie della Resistenza come Barricata nel Carcere. Morì a Vicenza il 6 novembre 1988. Tra le opere pubblicate dalla casa editrice che porta il suo nome figurano: Neri Pozza, la vita, le immagini (a cura di Pasquale di Palmo, Neri Pozza, 2005); Saranno idee d’arte e di poesia (Neri Pozza, 2006); Opere complete (Neri Pozza, 2011).
Tradotto da Stefano Bortolussi- Neri Pozza Editore
DESCRIZIONE
Vienna, 1938. Quando riceve la lettera che la porterà a Tyneford House, sulle coste del Dorset, la diciannovenne Elise Landau non sa nulla dell’Inghilterra. Cresciuta negli agi di una famiglia borghese ebraica – la madre, Anna, è una stella dell’Opera di Vienna; il padre, Julian, un noto scrittore – Elise, in fuga dal nazismo, si trova costretta ad abbandonare l’Austria e ad accettare un visto per lavorare come cameriera alle dipendenze di Mr Rivers. Una volta giunta a Tyneford House, una magnifica residenza signorile con il prato che digrada verso il mare e una facciata di arenaria su cui campeggia lo stemma dei Rivers, la giovane donna non può fare a meno di sentirsi sola e sperduta. Lontana dalla sua famiglia e dalla scintillante Vienna, soltanto un filo di perle donatole dalla madre e una viola di palissandro, in cui è gelosamente custodito l’ultimo romanzo di suo padre, le ricordano chi è e da dove viene. In difficoltà con una lingua che non comprende e con cui fatica a esprimersi e a disagio sia con la servitù sia con il padrone, l’affascinante vedovo Christopher Rivers, Elise tenta, giorno dopo giorno, di non abbandonarsi alla nostalgia e alla preoccupazione per i suoi familiari, bloccati in Austria in attesa del visto per fuggire in America. Finché l’arrivo a Tyneford House di Kit, il figlio di Mr Rivers, non le restituisce la speranza di una rinnovata felicità. La guerra, tuttavia, sta per raggiungere l’Inghilterra, pronta a chiedere il suo tributo di sangue e a spazzare via ogni certezza. Il mondo che Elise ha conosciuto è sull’orlo di un epocale cambiamento e lei dovrà decidere se soccombere alle circostanze o abbracciare un’altra vita e un altro destino.
Times:Dopo il grande successo dei Goldbaum, Natasha Solomons torna con una struggente stostoria d’amore, «un’elegia toccante e romantica», sullo sfondo di un’Europa attraversata dalla violenza della Seconda guerra mondiale.
Autrice- Natasha Solomonsè nata nel 1980. È autrice di cinque romanzi, tra cui si segnalano: Un perfetto gentiluomo, La fidanzata inopportuna e La galleria dei mariti scomparsi, pubblicati in Italia da Frassinelli. Il suo lavoro è stato tradotto in diciassette lingue. Vive nel Dorset con il marito, il premiato scrittore per bambini David Solomons, e i loro due figli.
Le loro esperienze di vita e di scrittura erano molto diverse: Charlotte Brontë riservata, solitaria e anticonformista; Elizabeth Gaskell estroversa, ambiziosa e politicamente impegnata. Eppure, le due scrittrici vittoriane furono grandi amiche. Dopo la morte di Charlotte Brontë, avvenuta nel 1855, suo padre, il pastore Patrick Brontë, affidò proprio alla Gaskell il compito di scrivere una biografia veritiera sulla figlia, troppo spesso vittima di maldicenze e pregiudizi. Elizabeth Gaskell partì così sulle tracce della popolare scrittrice, componendo un’opera notevole per quantità e qualità, attingendo a lettere, intervistando quanti l’ave – vano conosciuta e arrivando fino a Bruxelles, dove nel 1842 Charlotte si era recata insieme alla sorella Emily per studiare la lingua francese. Ne emerge il ritratto di una donna che, andando controcorrente rispetto all’epoca vittoriana, seppe trovare le parole per dare voce alla propria esperienza, anche a costo di apparire «poco femminile» agli occhi dei contemporanei. Orfana di madre e con un padre «eccentrico», Charlotte crebbe in un villaggio sperduto tra le brughiere dello Yorkshire, in una casa di pietra grigia circondata dalle lapidi di un cimitero. Fin da piccola, grazie a un padre colto e all’avanguardia, assieme alle sorelle e al fratello fu avviata agli studi e incoraggiata a pensare con la propria testa. Un’educazione che un giorno l’avrebbe spronata a mettere mano alla penna per dare vita ad alcuni dei grandi capolavori della letteratura inglese, tra cui Jane Eyre, immediato successo all’epoca della sua pubblicazione e ormai classico intramontabile, che firmò con lo pseudonimo Currer Bell. Storia di una donna volitiva, ribelle e passionale, che fece della letteratura una ragione di vita, l’opera di Elizabeth Gaskell ha il pregio raro di una biografia di Charlotte Brontë composta da una scrittrice che occupa un posto di rilievo nel pantheon delle lettere inglesi.
ISBN: 978-88-54523-27-2
Collana:Le Grandi Scrittrici
Pagine: 624
Tradotto da: Annamaria Biavasco e Valentina Guani
Prezzo: €25,00
RECENSIONI
«Un’amorevole difesa del valore e del potere della scrittura femminile e, insieme, una testimonianza dei vincoli posti alle scrittrici e dei modi che hanno trovato per superarli». The Guardian
AUTORE-Elizabeth Gaskell
Elizabeth Cleghorn Gaskell (Londra, 29 settembre 1810 – Alton, 12 novembre 1865)è stata una scrittrice britannica. In alcuni suoi romanzi (Mary Barton, 1848; Nord e sud, 1855) si avverte l’eco dei problemi sociali del tempo, il conflitto tra capitale e lavoro, quello tra nord industriale e sud agricolo, che la Gaskell affronta con partecipazione umanitaria. L’opera più nota, Cranford (1853), è uno studio di ambiente provinciale, ora lirico ora ironico. È da ricordare anche Ruth (1853), in difesa dell’uguaglianza sociale e di genere della donna.
1906: Maud Lovell è rinchiusa nel Manicomio di Angelton da cinque anni. Nella sua memoria ci sono solo quelli; dei ventidue anni che li hanno preceduti non ricorda nulla, non un volto, non un luogo familiare. Non sa come è arrivata in quell’inferno in terra, non sa nulla di ciò che accade fuori di quelle mura fatiscenti. La sua mente è cosí instabile che non può fare a meno di ricorrere a gesti violenti; ha persino tentato di strangolare il dottor Womack. O almeno è quello che le hanno detto. Le sue giornate si susseguono avvolte in un torpore totale, che è pur sempre meglio degli incubi che bussano alla porta della notte. Un giorno compare a Angelton il dottor Dimmond. Ha gli occhi buoni, diversi da quelli di Womack. Le giura che lei non è stata sempre cosí, sempre con la mente malata, lo sguardo offuscato. Le regala un quaderno e, addirittura, una matita con la punta. Le dice che vorrebbe inaugurare una tecnica rivoluzionaria che prende il nome di ipnosi medica e che lei, una donna senza passato, è la candidata ideale per l’esperimento. Maud si chiede perché non abbia scelto la disgraziata che ride tutto il tempo, o quell’altra che si crede l’amante del re. Ma accetta di sottoporsi alle sedute. Dimmond è l’unica luce in quel luogo di tenebra, dove la solitudine è la regola e i suoi unici compagni sono solo pensieri confusi e disperati. Armato di un piccolo pendolo, il dottore va all’assalto dei muri che il cervello di Maud ha innalzato davanti al trauma, ed ecco che una vita che pare vissuta da un’altra persona emerge a frammenti, ondate di ricordi taglienti come schegge di vetro: il tragico incidente che ha causato la morte dei tre fratelli di Maud lasciandola senza un tetto né i mezzi per sostentarsi; la famiglia dell’eccentrico Mr Banville, che le ha offerto un lavoro e un rifugio, ma certo non la sicurezza… Sono ricordi reali o il frutto di una mente alterata? O, addirittura, circostanze indotte da chi vuole mantenerla in silenzio? Un giorno, però, Maud ricorda finalmente ciò che le è stato fatto e nella sua mente affiora un unico, chiaro pensiero: il pensiero della vendetta.
L’Autrice-Karen Colesè nata nel Berkshire. Ha studiato belle arti ed estetica a Cardiff ed è pittrice e scultrice. Appassionata di letteratura gotica, oggi vive in una cittadina del Galles che, in epoca vittoriana, ospitava tre manicomi, la cui storia le ha ispirato Hypnosis.
RECENSIONI
«Ipnotico, vi perseguiterà». Essie Fox
«Mi sono disperata per Maud, ho lottato per la sua salvezza, ho agognato la sua vendetta». Kerry Fisher
«Un romanzo gotico che ribolle di claustrofobia, traumi e pensieri di vendetta. Sofisticato e ammaliante». Fiona Mitchell
«Evocativo, minaccioso e oscuramente sinistro. Un thriller gotico a regola d’arte, che vi lascerà senza fiato». Jane Isaac
«Vivido, disturbante e viscerale. Hypnosis è la lettura dell’anno». Ruby Speechley
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