Ilse Koch -Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald”
Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Appendice e nota di redazione
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Sullo sfondo di una città in guerra Ellen, una ragazzina per metà ebrea, fa amicizia con un gruppo di coetanei «con i nonni sbagliati». Tra giochi, paure, sogni, desiderio di fuga e addii, Ellen e i suoi compagni fanno esperienza della crudele realtà della persecuzione razziale e della minaccia costante della deportazione e della morte, affrontando un mondo assurdo e incomprensibile. La speranza iniziale di una fuga possibile, al di là dell’oceano, sembra destinata a svanire entro gli angusti e invalicabili confini della città assediata, ma si trasforma in una speranza più grande – forse meno terrena della prima, ma non per questo meno tangibile – che dischiude la possibilità di raggiungere la terra promessa, «dove tutto diventa azzurro». Un viaggio in dieci stazioni nelle pieghe profonde dell’esistenza e di una Vienna ferita, raccontato dalla voce corale dei perseguitati, sul crinale di una quotidianità che sconfina nella dimensione del sogno. Il romanzo di Ilse Aichinger è un coraggioso atto di resistenza al nulla esistenziale, un gesto di interrogazione del mondo e della lingua volto a restituire alla realtà devastata dalla guerra un senso nuovo, e a indicare, come fa la stella di David con Ellen, una strada da seguire.
Ilse Aichinger
L’autore-Ilse Aichinger
Ilse Aichinger è nata a Vienna il 1° novembre 1921 da un’insegnante austriaca e da un medico di origine ebraica. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Vienna insieme alla madre, mentre la sorella gemella, la pittrice Helga Michie (1921-2018), riesce a emigrare in Inghilterra. Nel 1942 gran parte della famiglia materna viene deportata e uccisa nel campo di sterminio di Malyj Trostenec. Uscito nel 1948, La speranza più grande è il primo e unico romanzo di Ilse Aichinger. Autrice di numerosi racconti, radiodrammi, poesie, aforismi e diari, Aichinger partecipa agli incontri del Gruppo 47, vincendo il premio nel 1952 con il racconto Spiegelgeschichte (Storia allo specchio). Nel 1953 sposa il poeta e drammaturgo tedesco Günter Eich. Insignita di molti e prestigiosi premi, nel 1995 riceve il Großer Österreichischer Staatspreis, premio di Stato austriaco per la letteratura. Muore a Vienna l’11 novembre 2016
Ilse Aichinger-La speranza più grande
Traduzione di Ervino Pocar A cura di Matteo Iacovella
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza- Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo… C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-
Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE
“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.
«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.
Andrea Ricciardi- Ferruccio Parri. Dalla genesi dell’antifascismo alla guida del governo-
Biblion Edizioni-Milano
DESCRIZIONE
Il volume tratteggia, basandosi anche su carte d’archivio inedite, il percorso politico-culturale e umano di Ferruccio Parri a partire dagli anni Venti. Attivo nel contesto degli ex combattenti della Grande guerra, in seguito al delitto Matteotti Parri prese una posizione radicalmente antifascista che lo condusse in carcere e al confino, anche perché contribuì all’espatrio di Filippo Turati nel 1926. Alla fine degli anni Venti, con la nascita di Giustizia e Libertà fondata dall’amico Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani e Gaetano Salvemini, Parri iniziò la sua militanza attiva nel movimento, lavorando contemporaneamente presso la Edison dal 1933. Sebbene fosse di origine piemontese, Parri, sposato e con un figlio, visse a lungo a Milano. Qui, nel 1942, all’atto della fondazione, aderì al Partito d’Azione divenendone uno dei più prestigiosi dirigenti al fianco di Leo Valiani e Vittorio Foa, oltre che capo del Comitato militare del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Incarcerato dai nazisti all’inizio del 1944, fu liberato dopo una trattativa con gli Alleati e tornò ad essere protagonista della Resistenza a capo del Corpo Volontari della Libertà (CVL) fino alla sconfitta del nazifascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1945 presiedette il primo governo di coalizione dopo la Liberazione: l’esperienza durò meno di sei mesi e si configura come il punto d’arrivo del libro, al quale è direttamente connessa l’appendice documentaria, cui l’autore ha lavorato con Alice Leone. Completa il libro la prefazione di Luca Aniasi, presidente FIAP ‒ Federazione Italiana Associazioni Partigiane.
AUTORE
Andrea Ricciardi, storico contemporaneista, è socio della Fondazione Rossi-Salvemini e Direttore Scientifico della FIAP. Ha collaborato a lungo con l’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, è stato assegnista e docente. Si occupa di storia politica e culturale del Novecento, con particolare attenzione per vicende e figure dell’antifascismo e del movimento operaio. Tra le sue pubblicazioni, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica (Milano, FrancoAngeli, 2007), Paolo Treves. Biografia di un socialista diffidente (Milano, FrancoAngeli, 2018), Sinistra per l’Alternativa. Storia di una corrente del PSI 1976-1984 (Milano, Biblion, 2021) e, con Claudia Fredella, I saperi essenziali di storia (Milano, Giunti, 2021).
Biblion Edizioni
via Giuseppe Govone, 70 – 20155 Milano
Marco Mondini- Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita
Editore Il Mulino
Descrizione
«I fascisti erano ossessionati dal potere, e dalla possibilità di redimere la nazione e di trasformare gli italiani, anche a costo di eliminare tutti quelli che non erano d’accordo con loro. […] Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione.» L’ascesa al potere del fascismo e il suo atto culminante, la cosiddetta marcia su Roma, possono essere capiti solo all’interno di un quadro più vasto, quello di un’Europa incapace di chiudere i conti con la Grande guerra. E se furono soprattutto i paesi sconfitti a scoprire che uscire dalla cultura dell’odio e della violenza quotidiana non era facile, frustrazione, scontento e desiderio di rivalsa si impossessarono anche degli italiani che pure – almeno formalmente – la guerra l’avevano vinta. Marco Mondini compone la storia corale e implacabile di un’Italia in cui la lotta politica si trasforma in guerra civile e che scivola via via verso il lungo ventennio della dittatura fascista.
Hannah Arendt, La banalità del male : Eichmann a Gerusalemme
Hannah Arendt
Tradotto da Piero Bernardini- Prefazione di Ezio Mauro-
Feltrinelli Editore
DESCRIZIONE
Sono passati sessant’anni da quando questo libro uscì per la prima volta. Il resoconto del processo a Eichmann, con la sua analisi di come lo sterminio di gran parte degli ebrei d’Europa – una delle più terribili manifestazioni del Male – si fosse concretizzata a opera di uomini normalissimi, non ha perso nulla della rilevanza che aveva nel 1963. Anzi, se possibile, il suo valore si è andato accrescendo, suffragato da numerosi drammatici esempi di crudeltà e massacri perpetrati da organizzazioni e Stati che fondavano (e fondano) il perseguimento dei crimini più atroci su individui come Eichmann: persone sprovviste di qualsiasi tipo di eccezionalità, semplicemente concentrate sulla corretta esecuzione del compito loro assegnato dall’autorità. Il Male che Eichmann incarna, infatti, appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano. È una verità che ciascuno è chiamato a tenere presente, specialmente in un’epoca di rinnovate tensioni, guerre e atrocità, come quella che stiamo vivendo. L’onestà intellettuale che Arendt mette in campo in questo libro, e che le valse anche diversi attacchi dallo stesso mondo ebraico, è l’unica arma che ci permette di riconoscere il Male, anche nelle sue forme più banali, quelle che potrebbero allignare in ciascuno di noi.
Hannah Arendt
Biografia di Hannah Arendt – Hannover 1906 – New York 1975–nasce da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari fu costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici. Si rifugiò prima in Francia e poi si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove continuò l’attività di ricerca fino alla morte . Cominciò la sua ricerca con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant’Agostino, pubblicata nel 1929. Tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe una relazione sentimentale Husserl. L’opera che la renderà famosa in tutto il mondo fu il saggio del 1951, intitolato “Le origini del totalitarismo”, a cui nel 1958 seguirà “La condizione umana”, titolo voluto dall’editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di “Vita Activa”, conservato nella traduzione italiana del libro del 1964.
Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno –
-Alle origini della Resistenza armata nel Vicentino. Settembre 1943-aprile 1944
Cierre Edizioni
DESCRIZIONE
Tra i giovani (soprattutto militari) che dopo l’8 settembre 1943 vollero sottrarsi all’invio in Germania o all’arruolamento nell’esercito della Rsi, diversi decisero di opporsi a tedeschi e fascisti “con le armi in pugno”. Il volume analizza le convinzioni che li animavano e le organizzazioni e i partiti che li sostenevano; come e dove si riunirono i primi partigiani e in particolare il gruppo di Malga Silvagno; la nascita e lo sviluppo del gruppo di Malga Campetto, che mise in atto la “guerriglia di movimento” contribuendo a diffondere la lotta armata; i rapporti conflittuali tra i partigiani di diversa ispirazione e la formazione del battaglione “Danton” di Giuseppe Marozin; la costituzione, verso la fine di aprile del 1944, delle principali formazioni partigiane del Vicentino, che più tardi estesero la loro azione anche nelle province limitrofe. Più che di strategie e tattiche, si parla di storie di persone e luoghi che evidenziano come la Resistenza armata abbia trovato terreno fertile nei giovani contadini e montanari, nella gente delle contrade, nell’ambiente operaio delle fabbriche, in buona parte del clero e degli intellettuali e persino tra le autorità civili e militari
Siamo sui monti di Aune, il paese sopra Feltre bruciato dai tedeschi l’11 agosto del 1944, base di appoggio della brigata partigiana Gramsci.Giacomo, undici anni, è stato mandato in alpeggio a lavorare in una malga durante l’estate. Il suo padrone si chiama Bepi, un uomo rude che gli incute timore. E poi ci sono Sergio, sempre ingrugnito anche lui, e Alpina, la nipote di Bepi. È taciturna, Alpina, e vestita da maschiaccio.L’estate di Giacomo comincia così, tra la nostalgia di casa, l’odore delle vacche e la fascinazione per i famosi partigiani, che circolano da quelle parti ma lui non ne ha ancora mai visto uno.Poi un giorno, insieme all’amica Rachele, trova in una casèra abbandonata un plico di volantini. È roba segreta, roba che scotta, lo capiscono subito, ma è anche la via d’accesso a quel mondo di combattenti che tanto li affascina.E intanto, mentre le giornate trascorrono veloci tra il lavoro e l’avventura, qualcosa di inquietante e difficile da capire fino in fondo turba le notti di Giacomo, ponendo fine per sempre alla sua innocenza di bambino.In bilico tra realtà e finzione, un romanzo crudo che racconta la Liberazione e l’Italia ferita di quegli anni ma anche la fatica di conoscere gli adulti e le loro feroci contraddizioni.
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
Recensione
L’ESTATE DI GIACOMO. LA GUERRA E UN PARTIGIANO DI UNDICI ANNI di Luca Randazzo
Estate 1944.Giacomo, undici anni, viene mandato in alpeggio a lavorare in un malga, insieme ad Alpina, ragazzina ribelle e selvatica, Sergio, il pastore, e Bepi, scontroso casaro con il vizio dell’alcol. Giacomo, tra un pascolo e l’altro, sogna di incontrare i partigiani che proprie su quelle montagne trovano riparo, e quando scopre un plico di volantini nascosti in una casèra abbandonata, viene a conoscenza di un segreto scottante. Un segreto che decide di condividere con l’amica Rachele, in visita sulle montagne, senza rendersi conto che quella scelta finirà per cambiare per sempre la sua vita e quella di altre persone…
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
L’estate di Giacomo di Luca Randazzo ricorda per alcuni aspetti Il sentiero dei nidi di ragno, opera prima nonché uno dei capolavori di Italo Calvino. La figura di Giacomo, con le dovute differenze, non può non far pensare a quella di Pinn, protagonista del romanzo di Calvino; entrambi infatti si trovano a vivere, durante la guerra, esperienze da adulti, senza tuttavia riuscire a distinguere il bene dal male o comprendere adeguatamente il peso degli eventi di cui sono testimoni. Esperienze che inevitabilmente conducono entrambi a dover rinunciare alla propria infanzia, catapultati nella “giungla” degli adulti. “Giacomo si aggrappò al suolo per non farsi travolgere, poi un conato gli scosse lo stomaco e, sul bordo dell’abbisso, vomitò giù la sua anima di bambino”.
Luca Randazzo – L’estate di Giacomo-
Sullo sfondo la guerra dei partigiani, in questo caso le vicende della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Feltre, le violenze esplicite, rumorose, legate al conflitto, e quelle private, silenziose, legate a quella concenzione arcaica di uomo-padrone intimamente connessa con il mondo rurale dell’epoca. Un quadro da cui trapela, tuttavia, un po’ di nostalgia per i tempi che furono, naturalmente non in riferimento alla guerra ma al fascino di un mondo agricolo di cui tanti, soprattutto i più giovani, ignorano persino l’esistenza.
Croce-D-Aune-Rifugio-Dal-Piaz-Monte-Pavione-
Il libro si legge velocemente e nonostante la presenza di qualche espressione dialettale la scrittura risulta semplice, fluida. Affascinante l’ambientazione nelle Vette Feltrine, in cui operarono realmente i partigiani della Brigata Garibaldi, alcuni dei quali compaiono nella storia, come il “mitico” comandante Brunetti Paride detto “Bruno”. Un romanzo breve ma intenso, appassionante, consigliato ai ragazzi e, perchè no, a tutti gli adulti che vogliono fare un tuffo nel proprio passato.
L’AUTORE LUCA RANDAZZO nasce nella turbolenta Milano degli anni ’70 e vive un’infanzia tutto sommato spensierata nella natura trentina. Destinato a un sicuro fallimento come astrofisico, scopre l’amore per l’insegnamento e si getta con entusiasmo nella scuola elementare. Attivista sociale nella città di Pisa, completa la propria vita ritrovando un amore perduto e figli già pronti, che confeziona in una deliziosa famiglia. Scrive romanzi per ragazzi quando il tempo glielo consente, cioè durante le vacanze estive, al mare, in montagna o in viaggio con il suo amico furgone. Nel 2008 ha pubblicato Le città parallele con Salani..
Laura Conti- Madre dell’ecologia italiana è stata partigiana, medico, politica Deputata PCI, scrittrice-
Nata a Udine il 31 marzo 1921, Laura Conti è stata partigiana, medico, politica, scrittrice e ambientalista che, attraverso il suo lavoro rivolto su più fronti, ha inciso un solco nel Novecento italiano, contribuendo allo sviluppo dell’etica ambientale in Italia e alla nascita delle narrazioni ecologiche. A causa dell’impegno antifascista della famiglia, è costretta più volte a cambiare dimora, fino a stabilirsi a Milano, e dopo aver terminato le scuole superiori si iscrive alla facoltà di medicina. Nel 1944, però, sente il bisogno di partecipare alla Resistenza entrando nel “Fronte della gioventù” con un incarico di propaganda presso le caserme: un attivismo che le costa l’arresto e la deportazione nel Campo di transito di Bolzano, un’esperienza dalla quale, qualche decennio più tardi, nascerà La condizione sperimentale (1965), opera nella quale ripercorrerà quei momenti; mentre la sua prima opera narrativa, Cecilia e le streghe, uscirà nel 1963. Rientrata a Milano, si laurea in Medicina e si specializza in Ortopedia, ma fin da subito continua nella sua attività politica, prima nel Psi e poi nel Pci, riuscendo, tra il 1960 e il 1970, a diventare consigliera alla Provincia di Milano, poi alla Regione Lombardia, e infine ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Durante il suo impegno politico si occupa di tematiche femministe e ambientali, svolgendo un ruolo importante nella gestione della catastrofe ambientale che colpì Seveso nel 1976, trattata anche attraverso la pubblicazione di un saggio, Visto da Seveso (1977), e di un romanzo come Una lepre con la faccia di bambina (1978): la sua idea di politica ambientale la porta a elaborare un metodo di lavoro che l’accomuna ad una ricercatrice, convinta dell’importanza di sostenere le decisioni politiche che possano poggiarsi su solide basi scientifiche. Nella notte del 25 maggio 1993 muore a Milano per un malore improvviso.
(a cura di Andrea Pardi)
Laura Conti
Nata a Udine il 31 marzo 1921, ha vissuto a Trieste dove la famiglia aveva un’azienda commerciale che persero, a seguito del loro impegno antifascista. Si trasferirono prima a Verona e poi a Milano.
Non sono una scienziata, ma una studiosa dei problemi ecologici. Pur trovando affascinante lo studio, penso che sia importante anche agire ed operare. Per questo motivo ho deciso di fare politica: non basta studiare, bisogna anche darsi da fare.
Laura Conti, madre del movimento ecologista italiano, è stata partigiana, medica, ambientalista, scrittrice, politica eco-femminista. Ha fondato Lega per l’Ambiente, poi diventata Legambiente.
Ha scritto ventisei libri e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali, soprattutto per L’Unità.
Dotata di una grande potenza di scrittura, ha da sempre avuto un’attenzione particolare per i problemi dell’inquinamento ambientale.
Il suo pensiero contiene un dettagliato programma politico, mai attuato da nessuno, al cui centro risiede la tutela dei patrimoni genetici delle specie viventi.
Appassionata di natura e biologia sin da bambina, venne folgorata dalla lettura della biografia di Marie Curie che ne ispirò le scelte di studio.
Frequentava la facoltà di Medicina quando, nel 1944, è entrata a far parte del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Giovane partigiana, col rischioso compito di fare propaganda nelle caserme, venne presto arrestata e detenuta, prima a San Vittore e poi rinchiusa nel Campo di transito di Bolzano, da cui riuscì miracolosamente a tornare. È l’unico caso che si ricordi in cui un’internata sia riuscita a far avere al giornale l’Avanti (che allora usciva clandestino) un articolo di denuncia sui campi di sterminio, ripreso poi anche da Radio Londra.
Quella forte esperienza fece spostare il suo interesse sull’impatto dell’ambiente sul corpo umano, soprattutto quello delle donne che le fece continuare la lotta politica e avvicinarsi al femminismo.
Dopo essersi laureata in medicina ha svolto servizio all’Inps, attività che le ha permesso di osservare gli strani effetti di certi ambienti industriali sulla salute di operai e operaie.
Ha militato nelle file del Partito Socialista e, dal 1951, in quello Comunista. Ha ricoperto l’incarico di consigliera della provincia di Milano per dieci anni e per altri dieci della regione Lombardia.
Segretaria della Casa della Cultura, ha fondato e diretto l’Associazione Gramsci. Nel 1980, ha partecipato alla fondazione della Lega per l’ambiente la famosa associazione ecologista che promuove attività concrete per la salvaguardia della natura e i suoi abitanti, di cui è stata presidente del Comitato scientifico.
Il suo primo libro è stato Cecilia e le streghe, con cui nel 1963 ha vinto il premio Pozzale. Romanzo che prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e in cui affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Sempre sull’esperienza nel lager, nel 1965, ha scritto il romanzo La condizione sperimentale.
È salita alla ribalta nazionale con la catastrofe di Seveso del 1976, provocata dalla fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina da un’industria chimica. Per il suo ruolo di consigliera regionale, si era recata immediatamente sul luogo del disastro per seguire da vicino gli abitanti e, in particolare, le donne incinte a cui, per il rischio di malformazione dei neonati, venne eccezionalmente concessa la possibilità di abortire. Diritto raggiunto da tutte le donne soltanto due anni dopo.
Con le pubblicazioni Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina la sua popolarità ha varcato i confini nazionali e i suoi studi hanno ispirato, nel 1982, la direttiva sui rischi di incidenti connessi con determinate attività industriali della Comunità Europea, chiamata Direttiva Seveso.
Tra i libri che ha scritto ci sono anche Che cos’è l’ecologia,Questo pianeta e La fotosintesi e la sua storia capolavoro scientifico scritto per le scuole superiori, il cui tema centrale è l’aria e la storia della formazione dell’ossigeno.
Dopo aver ricevuto il Premio Minerva per il suo percorso scientifico e culturale, nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati col partito dei Verdi.
È morta il 25 maggio 1993 a Milano.
Il suo archivio è stato lasciato alla Fondazione Micheletti di Brescia.
In sua memoria sono state compiute varie iniziative pubbliche, il Comune di Milano l’ha riconosciuta come Cittadina benemerita e le ha intitolato un giardino pubblico, Bolzano, invece, le ha dedicato una strada e sono stati scritti vari libri sulla sua vita e il suo importante contributo.
Laura Conti ha mostrato quanto possa incidere l’ambiente di lavoro sulla salute e quanto sia importante occuparsi di ecologia applicata nelle fabbriche e nelle periferie urbane.
La sua attività di divulgatrice è stata una vera missione politica.
Una donna che abbiamo il dovere di non dimenticare.
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