Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Interlinea edizioni
Descrizione-Ormai Bella ciao è tornata a essere una canzone dei giovani e circola anche all’estero, grazie alla serie Netflix La casa di carta e ai cori delle piazze invase dalle “sardine”. Ma le sue origini sono a lungo rimaste sconosciute, con vere e proprie fake news che negano il suo legame con la lotta partigiana. Il maggiore storico della cultura orale, Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Oltre Bella ciao. Storie di resistenza
Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Il 24 aprile su Radio 3-Farenheit è andata in onda l’intervista a cura di Loredana Lipparini allo storico Cesare Bermani, per raccontare il suo nuovo libro “Bella ciao”
Di seguito trascriviamo parte dell’intervista:
Cominciamo da una storia che abbiamo sentito cantare da ultimo in un video pochissimi giorni fa dai vigili del fuoco inglesi dedicandola all’Italia. L’abbiamo ascoltata anche a sorpresa in una serie tv molto popolare La casa di carta e la sentiremo cantare domani comunque, e in qualsiasi forma. Ma la storia di Bella ciao è più lunga e riserva anche delle sorprese, come racconta Cesare Bermani. Cesare Bermani è tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato tra i primi ad utilizzare le fonti orali per la ricostruzione storica e per Interlinea ha pubblicato Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Prima domanda. Ma la canzone della resistenza era Fischia il vento, lei scrive, è cosi?
Al Nord sicuramente Fischia il vento era molto popolare e molto cantata. Però in centro Italia veniva cantata anche Bella ciao, forse soprattutto Bella ciao, dalla formazione della Brigata Maiella e dalle formazioni che diedero vita a Montefiorino. Questo però all’inizio non lo sapevamo. Infatti spesso, quando facemmo lo spettacolo Bella ciao a Spoleto..
Quello spettacolo del ‘64 che suscitò un putiferio?
Si quello. Io mi occupavo del fascicolo che veniva poi usato in teatro, e quello che scrissi allora era che non c’erano prove che Bella ciao fosse stata cantata durante al Resistenza. Ma scrivevo questo perché allora non avevamo ancora fatto la ricerca su Bella ciao, nessuno si era preso la briga di andare a vedere se era vero o no che la canzone fosse stata cantata durante la Resistenza. Immediatamente dopo abbiamo fatto ampie ricerche e abbiamo emendato questo nostro errore iniziale dovuto anche al fatto che abbiamo imparato a fare ricerca sul campo e quindi facendo errori. A questo punto si può dire che è una bufala, o meglio un’auto-bufala, che Bella ciao non fosse cantato durante la Resistenza.
Riassumendo per ora, Fischia il vento nasce al nord in formazione partigiana comunista. La seconda ?
Ci sono due versioni, perché sono nate indipendentemente l’una dall’altra. Quella della Brigata Maiella che poi è venuta su al nord con la quinta armata è una canzone che ha delle strofe che parlano della Brigata Maiella, e questa canzone veniva cantata soprattutto quando avvenivano degli spostamenti, perché quando si spara è un po’ difficile cantare, ma quando ci si muove il canto viene naturale nelle formazioni partigiane. Una è la canzone della Maiella che solo molto tardi grazie ad una lettera che un partigiano scrisse a Indro Montanelli sul Corriere della Sera indicando che loro cantavano questa canzone. Questo partigiano, che poi io intervistai, si chiamava Proserpio, mi fece capire con precisione che si trattava di una trasformazione della canzone epico lirica Fior di tomba.
Che però era della prima guerra mondiale?
Anche prima, era una canzone popolare che poi venne adattata nella prima guerra mondiale e che venne nuovamente riadattata nella guerra partigiana e ne abbiamo almeno due versioni. Una è quella della Maiella, l’altra è quella dei partigiani che si trovavano di partecipare alla Repubblica i Montefiorino. Questi due testi sono molto diversi, però per tutti e due si capisce con chiarezza che sono trasformazioni di Fior di tomba. Come lei sa le canzoni popolari si trasformano..
E il canto delle mondariso, delle mondine?
Anche questa è una storia abbastanza divertente. Perché noi sentimmo per la prima volta il canto delle mondine da Givanna Daffini, la quale infondo ci imbrogliò raccontando che l’aveva cantata durante il fascismo. Questo perché Giovanna Daffini aveva capito che noi ricercatori eravamo particolarmente interessati a canzoni di protesta durante il regime fascista: in realtà la canzone che lei ci cantò e che prendemmo per buona, poiché eravamo degli apprendisti alle prime armi, saltò poi fuori non fosse così. Perché ci fu un certo Vasco Scansani, che aveva fatto il partigiano in Emilia, il quale rivendicò di averla fatta durante una riunione di teatro nel ‘51-52. Ci sembrò bellissimo che Bella ciao provenisse da una canzone partigiana e una canzone di lavoro, ma in realtà le cose non stavano così.
Bella ciao: dalla Liberazione alle Sardine e Netflix
Cesare Bermani-Bella ciao-
La fortuna di Bella ciao dalla Liberazione alle Sardine e Netflix: un libro sulla canzone diventata inno anche dell’emergenza Covid-19
Il maggiore storico italiano della tradizione orale, Cesare Bermani, rilegge l’evoluzione della canzone in un libro di Interlinea: Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenza. Cantata sui balconi dell’emergenza sanitaria e dai protagonisti della serie tv La casa di carta, nelle piazze delle “sardine” e sempre più all’estero, Bella ciao è diventata una delle canzoni più celebri nel mondo e in occasione del 25 aprile 2020.
Cesare Bermani, nato a Novara nel 1937 e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà» e per Interlinea ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia con Silvia Benatti e il romanzo inedito di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea.
In occasione dell’uscita del suo libro, l’abbiamo intervistato per sfogliare in anteprima le pagine di Bella ciao.
Nonostante la canzone per antonomasia associata alla Resistenza italiana e nel mondo sia Bella ciao, nel suo libro lei ci parla di un’altra canzone più nota in quegli anni.
Nel periodo della Resistenza circolavano tantissime canzoni. Le diverse brigate avevano a volte anche inni che le connotavano, ma non ebbero mai un inno ufficiale. Tuttavia la canzone di gran lunga più popolare, e non solo fra le brigate garibaldine, soprattutto al Nord, fu Fischia il vento. Se si vuole accostare Fischia il vento a Bella ciao occorre però dire che sono state all’origine canzoni profondamente diverse. La prima è un canto nato al Nord in una formazione partigiana comunista ed è un canto prevalentemente antifascista, che spesso non nasconde come la finalità della lotta sia la realizzazione di un’Italia socialista, e comunque sempre profondamente diversa da quella lasciata in eredità dal fascismo.
La seconda è con ogni probabilità nata in Abruzzo, dove la Resistenza ha avuto una connotazione ben diversa che al Nord, in una formazione partigiana non garibaldina ed è un canto contro l’invasore tedesco.
Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo.
A cosa si deve quindi il successo poi crescente di Bella ciao?
Fischia il vento venne ampiamente e rapidamente sostituita da Bella ciao, in un processo spontaneo di massa che fu certo influenzato dal nuovo quadro politico ma non solo: giocarono infatti anche trasformazioni complessive del gusto musicale e l’accompagnamento con il battito delle mani, non ultima ragione della fortuna di Bella ciao. Così una canzone non connotata dal punto di vista politico e accennante solo all’«invasor», quindi in grado di essere fatta propria da tutti i partigiani, divenne nel giro di pochi anni la canzone per antonomasia della Resistenza. Cantata in ogni manifestazione, Bella ciao partigiana divenne quindi dalla metà degli anni sessanta anche la matrice testuale e musicale di varie canzoni di fabbrica, di partiti e di gruppi politici. Con l’avvento del centrosinistra la Resistenza diventò infatti il fondamento della ideologia della «Repubblica nata dalla Resistenza» e della «guerra di liberazione nazionale», un vero e proprio canone ufficiale di auto interpretazione, e la canzone un’auto legittimazione della Repubblica.
Come mai sono circolate così tante fake news intorno a questa canzone?
Le origini di Bella ciao sono a lungo rimaste sconosciute. Questo è dipeso dal fatto che per un non breve periodo la canzone è stata ignorata dai libri di storia e dai canzonieri della Resistenza, ciò che ha permesso alla bufala che non sia stata cantata nei mesi della lotta partigiana di giungere sino a oggi, accreditata purtroppo anche da giornalisti studiosi quali Bepi De Marzi, Arrigo Petacco, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, tanto da poter essere ribadita nel 2018 anche dal giornalista Luigi Morrone.
Come viene usata oggi nel mondo questa canzone?
Dopo una momentanea decrescita negli anni Settanta, Bella ciao riprese tutto il suo vigore contestativo nel 2001, nelle manifestazioni contro il G8 di Genova, venendo da allora cantata dovunque ci siano conflitti. Divenuto uno dei canti di resistenza dei giovani del Leftist Jordanian Movement, cantatissimo durante le rivolte arabe del 2011 dai giovani mediorientali di sinistra, cantata dai giovani del Parco di Gezi a Istanbul contro l’abbattimento di centinaia di alberi per costruire un centro commerciale, ha dato inizio a una mobilitazione in difesa dei diritti civili repressa ferocemente da Erdogan. Nel 2012 un’iniziativa del regista e ambientalista belga Nic Balthasar aveva invitato a registrare musica e parole della canzone su un video per inviarlo agli organizzatori delle lotte ambientaliste, coinvolgendo circa 380 000 persone di ogni parte del mondo. Già in precedenza, sull’aria di Bella ciao, va almeno segnalata Sing for the climate (Canta per il clima), che è diventata la colonna sonora della protesta globale contro gli sconvolgimenti climatici. In Francia il 15 maggio 2016 Bella ciao è stata suonata a Parigi durante la rivolta contro la legge sul lavoro di François Hollande. In Spagna la canzone è diventata la colonna sonora della serie tv La casa di carta (2017), lanciata dalla multinazionale Netflix e divenuta forse la trasmissione a puntate più vista al mondo. Infine in Italia tra novembre 2019 e febbraio 2020 le manifestazioni delle “sardine” sono state accompagnate dall’inno di Bella ciao.
Come detto in precedenza Bella ciao è considerata l’inno per eccellenza alla libertà. Ma come mai?
Risponderei con una citazione di Moni Ovadia che ho inserito nel finale del libro, tratta dalla prefazione a “Bella ciao”. La canzone della libertà di Carlo Pestelli:
«Ho sempre pensato che la capacità di un canto di suscitare adesione, emozione e coinvolgimento sia la prova provata dell’universalità della condizione umana al di là di confini, nazioni, sistemi di governo e persino delle differenze culturali e delle lingue che pure rappresentano l’espressione della bellezza e del genio molteplice di una comune appartenenza antropologica e di un solo destino: il destino condiviso per la passione della libertà.»
Non credo si possa esprimere meglio perché questo canto sia oggi così amato da chi vuole la libertà e contemporaneamente avversato da ogni genere di reazionario.
Cesare Bermani (Novara 1937), tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato fra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della ricostruzione storica.È autore di molti libri tra cui Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana. 1937-1945 (Bollati Boringhieri, Torino 1988); Trentacinque anni di vita del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino (Jaca Book, Milano 1997); Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia (Rizzoli, Milano 2011). Per Interlinea Cesare Bermani ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia (1994, con Silvia Benatti); le poesie in dialetto novarese di Sandro Bermani Un poeta, una città (2001); il romanzo di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea (2004); i saggi «Vieni o maggio». Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo (2009) e Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze (2020). Vive a Orta san Giulio dove ha sede il suo archivio di registrazioni sulla tradizione orale.
Carlo Greppi -Storia di Lorenzo, che salvò Primo Levi-Editori Laterza
Descrizione del libro di Carlo Greppi-In Se questo è un uomo Primo Levi ha scritto: «credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi». Ma chi era Lorenzo? Lorenzo Perrone, questo il suo nome, era un muratore piemontese che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Un uomo povero, burrascoso e quasi analfabeta che tutti i giorni, per sei mesi, portò a Levi una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del Lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare. La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico. Questo libro è la biografia di una ‘pietra di scarto’ della storia, di una di quelle persone che vivono senza lasciare, apparentemente, traccia e ricordo di sé. Ma che, a ben guardare, sono la vera ‘testata d’angolo’ dell’umanità.
Carlo Greppi-
L’autore Carlo Greppi
Carlo Greppi, storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento. Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente(2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018), Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo(2023,Premio TIR-The Italian Review, tradotto in spagnolo, olandese e francese e in corso di traduzione in inglese e russo).
Editori Laterza | Sede legale Piazza Umberto I n. 54, 70121 Bari | Ufficio Via di Villa Sacchetti 17, 00197 Roma
Prologo
E io gli ho detto: “guarda che rischi a parlare con me”.
E lui ha detto: “non me ne importa niente”.
Primo Levi, novembre 1986
Un giorno di dicembre di diversi anni fa mi trovai a dover guardare un documentario intitolato Il coraggio e la pietà, che descrive la solidarietà – vera e presunta – degli italiani nei confronti degli ebrei perseguitati che permise alla maggior parte di loro, al di qua delle Alpi, di salvarsi, a differenza degli oltre settemila che svanirono nella Shoah. Il documentario era andato in onda nel novembre 1986, cinque mesi prima della morte di Primo Levi. Tra le poche scene che mi colpirono ce ne fu una in cui lo stesso Levi raccontava, con la sua consueta pacatezza, quanto fu un uomo silenzioso a permettergli di salvarsi. Era un umile muratore, non un prigioniero di Auschwitz. Era un lavoratore civile piemontese, di Fossano, che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz, con il quale Levi si incontrò per diversi mesi, compensando la malnutrizione del Lager con zuppe di brodaglie che quest’uomo gli portava con regolarità. Tutti i giorni, per sei mesi. L’unico compenso che quest’uomo accettò, se così lo possiamo chiamare, fu di farsi riparare dai ciabattini di Monowitz le scarpe di cuoio, camminando per quattro giorni con gli zoccoli di legno di Levi, per poi scambiare nuovamente le rispettive calzature. Non volle nient’altro.
Non era la prima volta che sentivo parlare di Lorenzo Perrone, perché il chimico torinese sopravvissuto ad Auschwitz ne scrisse innanzitutto in Se questo è un uomo fin dal 1947, poi in una manciata di pagine di Lilìt e altri racconti e inoltre in due passi de I sommersi e i salvati – sempre omettendone il cognome – e perché già sapevo che entrambi i figli di Levi (Lisa Lorenza, nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957) dovevano il loro nome a quest’uomo enigmatico; cosa che, come avrei scoperto in seguito, dichiarò anche pubblicamente. Ma sentire che Lorenzo rischiò di finire ad Auschwitz per i suoi gesti, sentirlo dire intendo – e non leggerlo – smosse in me qualcosa di profondo, toccò una parte di me che era addormentata, forse assuefatta, da tempo.
In quello stesso frangente, ed era sera tardi di un giorno compreso tra l’8 dicembre e Natale del 2014, prima di andare a dormire misi nel lettore un dvd che da quasi tre anni mi riproponevo di guardare e finiva sempre in fondo alla lista: si intitola Il Giudice dei Giusti. Ebbene, nella prima scena – la prima – vediamo Mordecai Paldiel, all’epoca direttore del dipartimento che all’interno del museo della Shoah di Gerusalemme (lo Yad Vashem) si occupa del riconoscimento dei “Giusti tra le nazioni”, i non ebrei che salvarono gli ebrei, prendere un faldone tra le mani. Ed è quello di Lorenzo Perrone, il dossier n. 8157.
A quel punto andai sulla sezione del sito di Yad Vashem dedicata ai 25.271 “Giusti”, 610 dei quali erano italiani (nel 2021 sono diventati 27.921, e 744 gli italiani), e trovai, come epigrafe in inglese che apre la pagina, proprio un estratto del passo che in Se questo è un uomo descrive Lorenzo, cioè questo (otto anni dopo è ancora lì):
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
Primo Levi, forse il più grande testimone del Novecento, ha scritto e detto in più occasioni – ben al di là di quelle finora citate, lo vedremo – di dovere a Lorenzo non solo la vita, ma qualcosa di più, e per l’istituzione che si occupa della cura della memoria dei gesti che salvarono i perseguitati Lorenzo Perrone è senza ombra di dubbio il più importante tra loro, ai livelli dei ben più noti Oskar Schindler e Giorgio Perlasca – resi celebri dal film Schindler’s List di Steven Spielberg (1993), tratto da un libro del 1982 di Thomas Keneally, e da un bestseller di Enrico Deaglio, La banalità del bene (1991), diventato a sua volta un prodotto audiovisivo, lo sceneggiato Perlasca. Un eroe italiano di Alberto Negrin (2002) –, seppur proveniente da un contesto sociale completamente differente. Questo personaggio povero e burrascoso, “quasi analfabeta” e taciturno, “era un uomo – ha scritto ancora il chimico torinese –; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. I suoi gesti semplici e quotidiani sono diventati con ogni probabilità la radice della testimonianza di Levi, e la sua indelebile solidarietà è impressa nei libri che hanno formato la parte sana della cultura del mondo occidentale degli ultimi decenni. Libri che ancora oggi sono un passaggio obbligato nella formazione di ogni studente delle scuole, in Italia e non solo.
Ma chi era, Lorenzo Perrone? In questi anni ho raccolto materiale sulla sua vita prima, durante e dopo “Suiss” (così lui chiamava Auschwitz), dagli archivi di Fossano – si chiamava Perrone o Perone? Questo è il primo inciampo della nostra storia – alle testimonianze dei due nipoti ancora in vita, dal tentativo impraticabile del carotaggio sistematico di ogni possibile accenno nelle biografie di Primo Levi, nelle sue interviste (oltre trecento quelle finora censite) e nelle migliaia di libri a lui o alla sua opera dedicati (circa 7.000 quando sto scrivendo questo libro) al faldone ancora conservato allo Yad Vashem della pratica istruita nel 1995 grazie alla biografa Carole Angier, tutto questo solo per cominciare; ma una porzione considerevole di quello che possiamo dire intorno a quest’uomo straordinario che rese possibile “la storia stupefacente della sopravvivenza” di Levi è già incardinata nei testi di quest’ultimo. È quanto di più straordinario uno storico possa desiderare di avere tra le mani, nell’avviare una ricerca che punti al cuore dell’umanità: le pagine di uno dei più esatti indagatori dell’animo nostro. Ma non è tutto, naturalmente: “la realtà degli uomini non è la stessa della realtà degli uomini raccontata dagli scrittori”, mi dice Alberto Cavaglion, tra i più fini conoscitori dell’opera leviana, nonché curatore dell’edizione commentata del 2012 di Se questo è un uomo; Primo Levi stesso ne ha parlato sovente, dell’arte di “arrotondare”, facendo perno sull’immaginazione, perché “la realtà è sempre più complessa” e “più ruvida”.
È fisiologico che una nuda vita così umile – così ordinaria, fino a “Suiss” – che oltretutto, come si vedrà, arriva a inabissarsi prima che il suo punto più alto venga alla luce, lasci molti vuoti da colmare, ma la coltre di oblio che è calata su gran parte dell’esistenza di quest’uomo di poche parole la si può perforare. Ci si deve almeno provare. Ed è naturale che questa storia, per iniziare, parta dal primo incontro in cui levò lo sguardo e poi torni sui suoi piedi, che hanno fatto centinaia e centinaia di chilometri, prima di approdare al lascito profondo racchiuso in questa storia di dannazione e salvezza che parla a tutti e a ognuno.
Gli ultimi
[…]
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
[…]
Primo Levi, Agli amici, 16 dicembre 1985
Tacca dal Burgué
Quando ha conosciuto il prigioniero 174 517, Lorenzo stava tirando su un muro con un altro tizio della sua ditta, anch’egli di lingua italiana, e com’era prevedibile nonostante e forse proprio per gli schiaffi che la vita gli aveva dato, ne parleremo, anche laggiù lui i muri “li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale” – è Primo Levi che ne parla, ne I sommersi e i salvati. Quando vide per la prima volta quel minuto torinese, Lorenzo giunto dal Burgué, il borgo vecchio di Fossano, non si stava chiedendo a cosa e a chi avrebbe giovato il suo faticare come un mulo: un bombardamento alleato aveva appena sconvolto “quello sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo” che era la “Buna”, il grande progetto della Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG – meglio nota come I.G. Farben – fondato a Monowitz, a sei chilometri da Auschwitz I, e dopo aver zigzagato tra i calcinacci che scricchiolavano sotto il cuoio delle sue scarpe da lavoro, lui era giunto con il suo collega e connazionale nei pressi dei macchinari più preziosi, per proteggerli con alte e robuste tramezze, senza troppo arrovellarsi.
Metteva giù mattoni da un’impalcatura, muto, e quel prigioniero 174 517, che poi avrebbe saputo chiamarsi Primo, il numero tatuato sul braccio sinistro – un Häftling scialbo, un detenuto quasi invisibile tanto ansimava tra i morsi della fame –, era sotto e a un certo punto Lorenzo gli aveva parlato in tedesco avvertendo “che la malta stava per finire”, e di portare dunque su il bugliolo. Quel ventiquattrenne mingherlino che era ancora solo un numero aveva provato ad allargare le gambe, ad afferrare il manico del secchio con entrambe le mani, a sollevarlo e a imprimergli un’oscillazione di modo da poter sfruttare lo slancio e portare il carico in avanti e, da lì, sulla spalla. Ma i risultati s’erano rivelati a dir poco patetici, e il secchio era ricaduto in terra rovesciando metà della malta. A Lorenzo non era scappato da ridere ma aveva pronunciato otto parole, le prime della parte che più conta di questa storia, che sarebbero rimbombate in testa a Primo, non è difficile da immaginare, per interminabili ore di un giorno di inizio estate del 1944, che è da collocare tra il 16 e il 21 giugno, date in cui entrò in allarme la parte occidentale dell’Alta Slesia, che dai mesi successivi sarebbe stata sistematicamente bombardata da raid sempre più imponenti.
“Oh già, si capisce, con gente come questa”, aveva detto Lorenzo accingendosi alla discesa dalla sua posizione, prima di portarsi al medesimo livello della malta rovesciata che già s’induriva tra i calcinacci del cantiere piegato dalle bombe degli Alleati, che colpivano gli impianti industriali – scattando poi fotografie al “pianeta Auschwitz” dal cielo – senza però liberare i prigionieri dalla condanna del gas. A cosa si riferiva, con quel “gente come questa”? Intendeva gli “schiavi degli schiavi”, “lo scalino più basso” della gerarchia di Monowitz, o intendeva i borghesi incapaci di tenere in mano un secchio di malta, privilegiati fino all’ingresso in quel mondo alla rovescia, divenuti a quel punto gli ultimi degli ultimi? Comunque la si voglia leggere, questa frase trasuda disprezzo, o commiserazione: ed è lo stesso Levi a dircelo; e al contempo è a sua volta un cortocircuito; chissà quante volte, suppongo non poche, Lorenzo se l’era sentita dire. Lui, e lo vedremo, era un poveraccio, alcolizzato, rissoso; sarà anche stato uno che faceva bene il suo lavoro, ma della “gente come questa” non è che ci si possa fidare. La sfrutti, finché, a quarant’anni, inizia a perdere vigore e concentrazione – poi, quando non serve più, la butti via.
Ad ogni modo non fu certo un primo impatto raccomandabile, tra loro due, considerato il disastro compiuto da quel manovale 174 517; Primo Levi si era imposto tuttavia alla vista di Lorenzo per la sua curiosa reazione a sentir parlare italiano, dopo quell’ordine burbero da lui intimato in pessimo tedesco, per di più con riconoscibilissimo accento piemontese, creando così un varco in quella sorta di incantesimo che inchiodava ogni essere umano al suo posto, nell’universo ferocemente grottesco che era il Lager. Lorenzo la aveva riconosciuta particolarmente prossima, quella manodopera maschile non qualificata, e tanto poteva bastare, sebbene spesso non fosse sufficiente affatto. Nonostante anche internati di altre nazionalità avessero avuto l’occasione di stabilire un contatto con il mondo esterno, ad esempio tramite i lavoratori forzati del Servizio obbligatorio del lavoro francese, gli schiavi erano infatti per i civili – compresi i lavoratori come Lorenzo, s’intende – “intoccabili”. E tali dovevano restare, non importano le circostanze: “I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa”, avrebbe ricordato Primo Levi.
Lorenzo lo pensava, nell’attimo in cui lo notò? Non credo, perché lui non stava a distribuire colpe a cuor leggero, perché sapeva che quelli in catene sono quasi sempre i miseri, mentre il potere cambia scarpe ogni tre settimane – e perché nulla so di quello che eventualmente disse nelle ore seguenti, e ritengo impossibile lo si possa sapere. Azzardo l’ipotesi, avendo intuito qualcosa della sua personalità grazie a una discreta quantità di fonti, che non volle cercare le parole neanche nei due o tre giorni successivi: stava più probabilmente a macinare pensieri con lo sguardo tra il perso e l’arcigno, indecifrabile, come quello che svelano le sue fotografie giunte fino a noi – mi risulta che siano solamente due. La prima la vedremo a breve; l’altra è questa.
Lo disprezzava, quell’uomo che quasi svaniva, morente? Lo commiserava? Lo temeva? Sembra quasi di sentire l’inquietudine che scaturì già con le leggi razziali del 1938, che Primo Levi avrebbe raccontato ne Il sistema periodico, nel 1975, rievocando quel primo “lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto”: “Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te?”.
Servono ancora – sempre – scorci di Levi, che avrebbe saputo sapientemente intessere le parole e i concetti utili a comprendere l’animo umano; qui riferendosi proprio allo sguardo dei lavoratori civili sugli “schiavi degli schiavi”, i prigionieri ebrei che poi, tramite ordinatissime marce con divisa a righe sbrindellata e berretti, andavano alla Buna a lavorare, ammesso che di lavoro si possa parlare:
Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione.
Fotografando il momento in cui questa storia si innescò per divenire qualcosa di più di una riga in un archivio sepolto, per quanto si possa tentare di unire in un unico disegno i chilometri percorsi a capo chino fin da ragazzo e quel momento in cui lo sguardo di Lorenzo cercò al contrario di dare un senso e vagò in cerca delle parole giuste per poi dirlo, bisognerebbe innanzitutto ammettere che poi nelle vite randagie, forse più che nelle altre, è il caso a giocare le sue carte migliori. Un’immagine allora si impone: Lorenzo e Primo appartenevano, semplicemente, “a due caste diverse”, e avrebbero potuto, altrettanto semplicemente, non guardarsi mai. Nella vita precedente, innanzitutto, e poi lì dove il privilegio era la chiave di volta di ogni giorno, in termini completamente ribaltati. Primo era destinato a morire, se non si fosse ingegnato ogni minuto; Lorenzo a vivere, se non si fosse messo nei guai.
La posizione di superiorità nella disposizione spaziale di quel momento e nella gerarchia del Lager, in quel lungo tempo passato a distanza ravvicinata senza essere a conoscenza l’uno dell’esistenza dell’altro, era per così dire un contrappasso, considerati i reciproci trascorsi, nel mondo di prima e di lassù. Mentre laggiù nel 1944 il privilegio era sul suolo che calpestava lui che tanto aveva sputato polvere, ora, il prigioniero 174 517 che nella vita svanita era il borghese dotato di discreta fortuna, il laureato chimico in erba Primo Levi, laggiù sul fondo dello spirito umano era schiavo come migliaia d’altri. Come altri 11.600 lavoratori della I.G. Farben in quell’anno, eseguiva ogni sorta di impiego sfibrante per costruire la Buna-Werke, la fabbrica di prodotti chimici del campo; ma era sovente un lavorare “senza scopo”, il suo, il loro, uno sgobbare per esaurire ogni fibra vitale, fino a morirne. Che piovesse a dirotto o nevicasse sottile, che il vento soffiasse via la cenere o il sole quasi desse l’impressione di poterla ravvivare, come migliaia d’altri lui spalava, interrava, sollevava, cadeva, smistava, assembrava fino a che vene e arterie non erano prossime allo scoppio, e prendeva badilate in testa da un Kapò o da un qualunque prominente se non riusciva a proseguire. Andava ribadito, il potere; e andava annientato, ciò che ci rende uomini e ci fa credere di poterci non piegare. Ma non chiese aiuto a Lorenzo quel giorno, Primo, suppongo perché non aveva, all’epoca dei fatti d’estate del 1944, “un’idea chiara del modo di vivere e delle disponibilità di questi italiani”, prevalentemente dei poveracci nel mondo di prima, ma che lì stavano in superficie mentre lui sprofondava con migliaia di altri pezzenti della storia e nella storia essa stessa. Eppure bastava una manciata di parole, appena misurate sulla bilancia del comune linguaggio, per rompere il sortilegio e spezzare le catene del contagio del male: è così che “si spuntano le armi della notte”, direbbe la sapienza di Levi.
Ebbene Lorenzo le parole le centellinava, è vero – ma queste le pronunciò dopo quell’iniziale e goffo malinteso.
“Guarda che rischi, a parlare con me”, disse Primo.
“Non me ne importa niente”, gli rispose Lorenzo.
Un muratore, uno che sa fare il suo mestiere, costruisce.
Non è detto che abbia la visione d’insieme, quella ce l’ha chi lo comanda, chi lo istruisce, ma lui fa la sua parte. La visione d’insieme ce la si ha alla fine, di solito. O almeno così dovrebbe essere. Mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che Lorenzo sia stato uno dei pochi, nella storia, che quella visione ce l’ha avuta dall’inizio, ma risulta impossibile scovarne una prova, ed è difficile trovare qualcuno che possa sostenere di averlo conosciuto per davvero.
Era un uomo di poche parole, Lorenzo. E doveva sempre partire. Attraverso il Colle delle Finestre, negli anni Trenta, a partire dal 1935 o dal 1936 secondo i suoi parenti, andava in Francia a lavorare illegalmente, passando il confine in clandestinità con altri poveracci come lui – i palmi callosi, i piedi nodosi raggrinziti da tanto andare – e come il fratello maggiore Giovanni, due anni scarsi più vecchio di lui, gli occhi sottili e la capigliatura folta, che lo affiancava a passo spedito, sui valichi del contrabbando. Capitava che camminassero una settimana filata: andava così. Mi pare quasi di intravedere i contrabbandieri con cui Lorenzo e Giovanni condividevano brandelli di strada dire loro qualche parola in piemontese: ’ndôma, ’mpresa, le sillabe di rito insomma, quelle che sorvolano la testa di chi procede a capo chino, risparmiando energie per il lavoro che lo aspetta al di là di quella linea tracciata dagli uomini su una carta. Su quelle rotte, in cui potevi essere frontaliero o contrabbandiere a seconda delle circostanze ed era molto sfumata la distinzione tra regolari e irregolari, illecito e lecito, si incontravano persone di ogni età che dalla Francia venivano in qua, in Italia; parlavano la medesima lingua, quella degli sbandati del mondo, dei dannati dei monti. Che si fanno un culo così, con il sole e l’alluvione, per un piatto di polenta concia; ma che se si tratta di sdraiarsi senza se ne fanno in fretta una ragione. Suo fratello Giovanni, detto barba Giuanin, dall’agosto del 1931 era certamente in Francia dove viveva loro zio, “Jean”.
Andavano in Costa Azzurra, dove “lavoro ce n’era sempre” come avrebbe ricordato Levi, probabilmente a Tolone o in altri centri abitati del sud-ovest francese; più precisamente a Embrun, un comune a una sessantina di chilometri dal confine, e quando passava il Giro d’Italia sul Colle della Maddalena, con i controlli più blandi, i vecchi approfittavano dell’occasione per andare su in taxi a salutarli, e forse bere un bicchiere o due. Me lo racconta a gennaio del 2020 il nipote Beppe, figlio di un altro fratello (Michele, otto anni più giovane di Lorenzo), spiegandomi che ogni categoria aveva il suo gergo: non avrebbe senso immaginarli a discutere in italiano, ma nel loro criptico magüt.
A pranzo Lorenzo tirava fuori la sua gavetta d’alluminio, due uova, la buta di vino nero, le croste di pane, e piegava la testa sul suo corpo imponente di un uomo già anziano anche se navigava fra i trentuno e i trentacinque anni, allora. Il cucchiaio di legno sembrava una protesi delle sue braccia, il suo busto pareva ancorato sulla terra, un marcantonio di pelle coriacea emersa dal Burgué, il borgo vecchio dei muratori e dei pescatori – i pescau – che si guadagnavano il pane sul fiume Stura, divorati da zanzare spesse come conigli. Il Burgué era proprio come lo si può visualizzare sforzandosi appena, ripescando in un immaginario arcaico che arrancando si affaccia alla modernità, e aiutandosi con le fotografie dell’inizio del ventesimo secolo. Tutte le porte aperte, le sedie tarlate a ridosso del muro pericolante a incassare il vento e il gelo e il bel tempo del fine settimana, quando il cielo lo regalava – le giornate che iniziano con il buio e finiscono che c’è ancora un po’ di chiarore, per chi riesce a tornare a casa a dormire. Oggi è diverso, ma di quel vecchio borgo si intravedono le tracce, tra i muri ridipinti a nuovo e orientandosi tra le vie con i vecchi nomi e le numerazioni nel frattempo scalate.
Lorenzo viveva a circa un chilometro da dove è stata scattata la prima di queste fotografie, e a pochi metri da dove è stata scattata la seconda, e per la precisione in via Michelini 4 e 6, che oggi corrisponde al civico 12: tre stanze per otto persone, una per stracci e ferri vecchi, e una per il mulo e per il carretto, come avrebbe raccontato Carole Angier, biografa di Levi che un quarto di secolo fa ebbe modo di intervistare tre suoi parenti, tra cui lo stesso Beppe. La notte gli uomini allevavano anguille per mezzo delle dighe e pescavano a Stura con reti e filari; all’alba le donne caricavano quel ben di dio sui carretti e vendevano il frutto del duro lavoro a povera gente come loro. “Si faceva quel che si poteva, si vendeva quel che si faceva”, si cercava di stare alla larga dai guai, salvo qualche rissa di tanto in tanto per assaporare la propria mortalità, forse, o per scordar la fame. Nel Burgué, ancora lo ricorda novant’anni dopo, con malcelata nostalgia, la gente del posto, gli uomini erano tutti pescatori, o lattonieri, o muratori come Lorenzo e Giovanni, e tornavano nel Burgué a dormire in una Fossano che solo nel 1936 avrebbe visto asfaltate le principali strade cittadine. Quando passavano loro due tra le case dove all’epoca non si vedeva mai il sole, oscurato dalla caserma Umberto I che ora non c’è più, lo sguardo sulla polvere o sul fango che sempre accompagna chi non ha, qualcuno si scostava dicendo “Eccoli, i giganti”, così mi racconta Beppe. “Eccoli, i Tacca”.
Lorenzo era il secondo, i genitori – Giuseppe e Giovanna Tallone, sposati nel 1901 – vivevano di ferri vecchi e stracci, anche se i loro mestieri ufficiali erano “muratore” e “operaia”. Aveva altri due fratelli lattonieri: Michele, il padre di Beppe, e Secondo, che era in realtà l’ultimo e il quarto tra i maschi; e due sorelle di nome Giovanna e Caterina, rimasta “da sposare”, che avrebbe poi vissuto con lui e Giovanni, barba Giuanin. E tutti li chiamavano Tacca, nel borgo vecchio dei pescatori di Fossano, probabilmente per via del fatto che erano degli attaccabrighe, anche se si sa che poi i soprannomi – detti “stranomi”, da quelle parti – prendono la loro strada e ci si dimentica perché, soprattutto nelle parabole familiari che fanno di tutto per passare inosservate, agli occhi di chi registra ciò che è degno di essere raccontato, con le fisiologiche dispersioni della storia. Il primo a vedersi affibbiato questo stranome dovrebbe essere Giuseppe, ma forse la storia è più antica.
Tutti i maschi della famiglia, anche Tacca el tulè bel, Michele “il lattoniere bello”, parlavano poco, ed era una caratteristica che avevano preso dal padre, “chiuso in se stesso e preda di oscure depressioni” secondo Angier. Il ritratto fotografico che campeggia ancora oggi sulla sua tomba esibisce uno sguardo arcigno: le sopracciglia visibilmente corrucciate, i baffi curati appena, gli occhi gelidi – difficile immaginare un sorriso uscire da quel volto.
Giuseppe era un genitore “brutale e tirannico, litigioso e violento quando si ubriacava”, un padre padrone, e l’infanzia di Lorenzo, Giovanni e di tutti gli altri della nidiata era stata accompagnata dalle valanghe di botte che avevano preso a casa e poi, in maniera del tutto naturale, da quelle che avevano dato fuori dal “Pigher” – l’osteria “Pigrizia” dei pescatori e dei muratori all’incrocio tra via Don Bosco e via Garibaldi, a pochi passi da casa loro, chiusa da anni. Ora l’edificio in cui stava non ha più neanche vagamente l’aspetto dell’epoca: il palazzo è dipinto di rosso argilla, e le quattro arcate che ospitavano Lorenzo e quell’umanità rocciosa e rissosa sono state tirate a lucido; persino la targa “Terziere del Borgo Vecchio – Via Del Borgo Vecchio” sull’angolo quasi luccica, ad abbellire l’immagine di un’epoca antica più arrotondata di quanto in realtà non fosse. Lo scorrere del tempo a volte parla a gran voce; altre mette tutto a tacere. La famiglia di Luisa Mellano, presidentessa dell’Anpi di Fossano e pronipote del mitico partigiano Piero Cosa, all’epoca abitava davanti al “Pigher”, e il suo bisnonno pescatore, come decine d’altri, passava la sua vita lì a bere, mi racconta lei; d’inverno gli uomini, allora usava, indossavano le mantelline. Sono da immaginare piegati sui loro fegati, in serate interminabili condite da mugugni e bestemmie, in quei luoghi dove prende fiato chi nel corso della giornata va a essere spremuto per potersi permettere un pasto caldo o due; talvolta tra loro c’erano persino dei preti. Immagino che questi uomini tarchiati con la mantellina dicessero, magari citando testualmente una canzone popolare fossanese del 1870, I Mônarca: “Sôma busse ’n po’ ’d barbera”, andiamo a berci un po’ di Barbera, e la ciucca generale – “una ciôca general”– era assicurata.
I “Tacca” stavano per lo più zitti forse anche in ragione di tutto quello che scolavano, Lorenzo e Giovanni che marciava con lui su per i monti, bruciando suole e confini. Dio se bevevano, quei due, probabilmente fin da quand’erano ragazzini, sebbene per legge fosse già vietato. Tutti loro padre; anche se il loro vero padre era il bisogno, familiare quanto il colore nero acre del vino che scandiva le loro stagioni.
Per quanto ne sappiamo, Lorenzo tirava a campare in molti modi: il pensiero che scacciava gli altri era sempre, o quasi, andare avanti, e si comprava e vendeva di tutto, all’epoca, con una cifra sussurrata e una stretta di mano – “se truciavu la man, ’l cuntrat era fat”, come racconta un contadino ne Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Sulle orme del padre da ragazzino Lorenzo, sempre con barba Giuanin, s’improvvisava feramiù, robivecchi: staccava il pezzo inferiore delle grondaie, che era di ghisa, e poi si affacciava alla finestra di casa sua al piano terra a venderla a chi passava. Come Bartolomeo Vanzetti, l’anarchico assassinato negli Stati Uniti nel 1927 di una dozzina d’anni più vecchio e nato e cresciuto a dieci chilometri da Fossano, che a quindici anni già scriveva che alla sera, “dopo diciotto ore di lavoro […] mi pare di avere i piedi nella brace tanto mi bruciano”, anche Lorenzo era vissuto “col sudore della [sua] fronte fin da bambino”. E ci voleva una costante, e rinnovata, inventiva – naturalmente non si può escludere che questo accadesse anche ai margini della legalità.
Era nato “Perone” (con una “r”) in via Ospizio 28 alle “undici antimeridiane” di domenica 11 settembre 1904, quando lo stomaco comincia a fartela sentire, la fame: forse anche per questo era sempre lei che guidava lui. La notizia, naturalmente, non ebbe alcuna rilevanza sui giornali locali, se non sul piano statistico: Lorenzo era uno tra gli otto maschi e le cinque femmine fossanesi nati in quella settimana. All’Ufficio di stato civile il padre Giuseppe – “di anni ventisette, muratore” – il giorno successivo aveva portato tra i testimoni il fratello Lorenzo “di anni ventitré, operaio”, ed entrambi si erano firmati “Perrone” con due “r”; probabilmente è per via dell’inflessione dialettale data al cognome “Perùn” che gli analfabeti e i semianalfabeti marcavano la “r” al punto da raddoppiarla; vedremo che per delle zie di Levi il cognome “vero” era senza ombra di dubbio “Prùn”.
Anche Lorenzo, omonimo del nonno materno e dello zio, suo padrino al battesimo il giorno successivo, sarebbe incorso nello stesso errore – era un errore? – firmandosi “Perrone”: non era andato oltre la terza elementare, come certifica il suo libretto di lavoro intestato a Lorenzo “Perone”. Pur battezzato, non era religioso né conosceva il Vangelo secondo Levi; scriveva a fatica ma camminava molto, e aveva iniziato a lavorare a dieci anni, come avrebbero testimoniato i suoi parenti per la pratica dello Yad Vashem, presumo nei mesi del 1914 in cui scoppiava la Grande guerra: non ho però idea di che aspetto avesse durante la sua infanzia.
Suo fratello Secondo – quello arrivato per ultimo – avrebbe raccontato a un altro biografo di Levi, Ian Thomson, che Lorenzo era un “pessimista nato”, ma è evidente come si sia influenzati dal senno del poi, nel tentativo di ricostruirne la vita, considerando che una delle ultime immagini che possiamo reperire di lui è quella raccolta dallo stesso Thomson, grazie a un’intervista del 1993 all’ex parroco di Fossano, don Carlo Lenta: negli ultimi anni di vita Lorenzo vendeva rottami nella neve, “senza giacca e con il viso livido”. Perché non ha mai saputo come si dimentica, lui, questa è una certezza; ma se già a dieci anni covasse rabbia e rancore non lo possiamo sapere.
Coltelli, bestemmie
Il primo ritratto fotografico di Lorenzo che mi risulti, come peraltro il secondo che già abbiamo visto, non ha niente di fiabesco; è anzi austero. È quello del suo servizio militare del 1924-25, iniziato a diciannove anni, numero di matricola 29439, bersagliere con il 7° Reggimento di Brescia, da poco trasformato in Reggimento ciclisti e oggi di stanza in Puglia. Arruolato (“Perone” con una “r” sola) il 25 aprile del 1924, venne ricoverato meno di tre mesi dopo: fu congedato infine a ottobre del 1925, e tornò a casa. “Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà e onore”, dichiarò il suo capitano.
La sua Fossano in quei due decenni era cambiata profondamente: sotto l’amministrazione degli avvocati Antonio Della Torre e Luigi Dompé, che avevano diretto la vita cittadina dal 1899 al 1914, si era arrivati alla luce elettrica, alla tanto agognata distribuzione dell’acqua potabile ai cittadini e alla prima pietra del nuovo edificio scolastico, mentre la storica industria cartaia e la forte presenza dell’industria serica sul territorio erano state affiancate da quella metallurgica, potenziata a partire dal 1907, anno in cui si erano fatte sentire le prime agitazioni sociali per il miglioramento delle condizioni lavorative e della retribuzione, e per il riconoscimento di una rappresentanza sindacale. Dopo la Grande guerra e i suoi 312 morti fossanesi, l’espansione economica aveva vissuto oltretutto una drammatica contrazione, come rilevava il giornale locale “Il Fossanese” il 7 settembre 1918, quando Lorenzo aveva quattordici anni: “La vita cittadina è una vita di vera indolenza generale […] Si dirà: ma nelle osterie e nei caffè vi è sempre gente! […] Date invece uno sguardo al lavoro, alle industrie: l’arte muraria si può dire morta e sepolta, tanto [è] vero che i muratori han dovuto cambiare mestiere; e la crisi muraria la risentono di conseguenza fabbri, falegnami, lattonieri, verniciatori etc. Delle altre professioni non parliamone: magrezza più o meno eguale”.
È in questo contesto che si sarebbe imposta la marea montante del fascismo, nel “biennio nero” che nella percezione dei contemporanei corrispose a uno stato di guerra civile: l’offensiva contro le classi lavoratrici, presto sostenuta dall’azione reazionaria dello Stato liberale, da industriali, da latifondisti e dalla borghesia, e infine dalla monarchia, si sarebbe rivelata letale. Tra le altre cose, nel primo semestre del 1921 i fascisti operarono una distruzione sistematica di Camere del Lavoro, circoli di sinistra, Case del popolo, sedi di sindacati e così via – 49 azioni nel solo Piemonte, come ricostruito in presa diretta da Angelo Tasca – e il 4 maggio e il 3 giugno del 1921 nelle vicine Mondovì e Dronero vennero assassinati quattro e due socialisti dalle squadre d’azione fasciste. Il barbiere fossanese Angelo Suetta, classe 1901 (tre anni più vecchio di Lorenzo), avrebbe ricordato che al 1° maggio del 1921, festa dei lavoratori, era salito “dal Borgo [Vecchio] verso piazza Castello, dove c’era la sede alla Camera del lavoro, per prendere parte al corteo… Ma la città sembrava quasi assediata: fascisti, carabinieri e guardie regie da ogni parte, armati fino ai denti”; c’erano già stati subbugli e tumulti e lui si era precipitato alla Camera del lavoro per nascondere il registro degli operai iscritti al sindacato. Questa cronica violenza politica, che secondo le stime dell’epoca e successive lasciò 3.000 morti sul terreno in tutta la penisola, non può essere passata inosservata agli occhi di Lorenzo. Con la presa del potere del fascismo si sarebbe proceduto alla “normalizzazione”, particolarmente evidente a Fossano dopo l’allontanamento del militante socialista Giovanni Germanetto alla fine del 1922, e il suo arresto nella primavera del 1923. Come scrive lo storico Livio Berardo, già negli anni precedenti il carcere Santa Caterina di Fossano aveva ospitato oltre venti tra comunisti, socialisti e anarchici, e il direttore all’inizio degli anni Trenta “pur avendo indagato con la ‘massima diligenza’, non riuscì a scovare negli elenchi neppure un detenuto che avesse avuto precedenti squadristici”. Non è difficile ipotizzare quello che Lorenzo, all’epoca della marcia su Roma diciottenne, possa aver pensato della sua comunità cittadina, nella quale gli oppositori e i contestatori finivano in galera, i fascisti giravano impuniti, e lo Stato non interveniva a placare la violenza sistemica su operai e contadini. A scanso di equivoci non risulta che avesse la tessera del Partito nazionale fascista, né che abbia mai manifestato alcun tipo di adesione al regime. Sebbene non sarebbero stati solo i poteri locali e i borghesi a farsi attrarre dal fascismo, ma anche contadini e operai, tra le classi lavoratrici e in particolare tra i frontalieri serpeggiava un’ostinata avversione al regime – spesso si migrava anche perché era divenuto sempre più difficile trovare lavoro in una città fascista –, non ci sono riscontri documentari per poter ipotizzare che Lorenzo abbia avuto dei guai per la sua eventuale opposizione politica ai fascisti o al notabilato locale. Né compare tra i 670 antifascisti finiti nel Santa Caterina di Fossano durante il ventennio, fra i quali troviamo detenuti “illustri” come l’operaio comunista Remo Scappini, poi protagonista dell’insurrezione di Genova, al quale si sarebbe arreso un generale tedesco ad aprile del 1945. Questo non significa che Lorenzo, che viveva a meno di duecento metri dal Santa Caterina, non desse rogne alla sua comunità, anzi.
Pugni e pedate Lorenzo, e con ogni probabilità relativamente spesso, ne dava: ma soprattutto al “Pigher”, a quanto si sussurra ancora adesso in quel che rimane del Burgué, o quando riteneva si fosse ampiamente superata la sua capacità di sopportare. Oscuro rimane il modo in cui faceva a botte, che a quanto si percepisce incalzando in superficie la labile memoria della comunità cittadina forse era una delle sue attività principali, o comunque più evidenti, prima della sua partenza per Auschwitz; ma non riesco ad accedere ad alcun tipo di fonte che ci permetta di inquadrare uno di questi momenti, e non saprei come fare, se non scandagliando il suo flebile ma arroccato ricordo tra chi inloco ha indagato la sua storia o fonti e ricostruzioni che ci avvicinano al contesto in cui visse.
“L’essere in conflitto con qualcuno […] era una sorta di stato d’animo, un modus vivendi che esprimeva una certa normalità di rapporti, sia tra singoli che tra comunità”, ha scritto la studiosa Alessandra Demichelis in un saggio intitolato “Il buon tempo antico”. Cronache criminali dalle campagne cuneesi nel Novecento, che ci aiuta a colmare in parte questo vuoto documentario. In quella provincia e all’epoca dilagava “l’uso smodato di vino”, considerato un “nettare riparatore”, e favoriva furibondi litigi in cui non mancavano le bastonate, i coltelli e i coltellacci, i cutlass – i tajun de Il mondo dei vinti –; a partire dalla fine della Grande guerra fecero la loro apparizione, sempre più spesso, anche le armi da fuoco. In quel mondo rurale essere “pronto” significava essere “reattivo alla lite”, e le retate nelle osterie erano uno spettacolo frequente. Lesioni personali, diffamazioni, ingiurie, e la stessa ubriachezza erano tra i delitti più ricorrenti già all’inizio del Novecento: era un mondo, questo, “percorso da accattoni, ubriachi, folli, ciarlatani, truffatori e in cui i più deboli erano destinati a soccombere. Ogni villaggio aveva il suo ‘scemo’, deriso e maltrattato perché malato di mente o semplicemente ‘strano’, fuori binario”. Come ebbe modo di scrivere Nuto Revelli, “nell’arco delle nostre valli si contano a centinaia i ‘fragili di nervi’, gli alcolizzati, i misantropi: un mondo che i sani ignorano o temono o disprezzano”. Un mondo violento, brutale, dove l’uomo è il lupo dell’uomo: con o senza coltello e con o senza bastone – mi sento di escludere che Lorenzo possedesse un’arma da fuoco –, ci si doveva proteggere. E a volte, come recita l’adagio popolare, la miglior difesa è l’attacco.
Come scriveva il “Corriere Subalpino” nel 1914 (Lorenzo aveva dieci anni), “Fino a qualche anno fa buona parte del volgo in buona fede credeva che non potesse celebrarsi una festa campestre senza che la sagra fosse commemorata dalla distribuzione di qualche sacco di legnate…”: nelle risse a calci, pugni, morsi e bastonate per le quali non erano necessari neanche particolari pretesti talora, però, in questa “litigiosità diffusa a tutti i livelli” per la quale “ogni oggetto a portata di mano poteva trasformarsi in arma” (una bottiglia, una pietra, un falcetto, un bastone), “scappava” il morto. È ancora Demichelis che ne scrive:
L’alcol e il suo abuso […] era presentissimo sulle pagine dei giornali e nelle aule dei tribunali. Non c’era festa laica o religiosa, cerimonia o convivio che non si concludesse con colossali bevute cui seguivano, spesso, fatti delittuosi. L’osteria era il luogo del conforto e dello svago dove si cantava, si giocava a carte o alla morra, si discuteva. Sempre bevendo. I verbali delle forze dell’ordine forniscono conteggi sul quantitativo di vino consumato ed erano sempre litri “pro capite”. Bastava quindi una parola di troppo, chiamarsi a mò di scherno con nomignoli appiccicati e mal tollerati, bastava un disaccordo su un soldo non pagato.
“Oh Duro”, uno dice in un’osteria di Limone, e l’altro risponde “Oh Ver”, e si scatena una rissa furibonda a colpi di calci, pugni e coltellate. I delitti si consumavano dentro l’osteria ma soprattutto fuori, appena usciti o nelle ore successive. Non più lucidi e senza freni la rabbia esplodeva anche contro chi magari fino a pochi minuti prima stava seduto allo stesso tavolo.
[…] Le notizie su risse finite in tragedia sono così numerose che non si riesce a contarle, moltissime provocate dall’uso di armi bianche, specie coltelli con lame di lunghezza non consentita. Compagno inseparabile, quasi un prolungamento della mano dell’agricoltore, del pastore, dell’artigiano, il coltello era così diffuso che a più riprese si tentò di regolamentarne il possesso e l’utilizzo, vista la facilità con cui veniva sfoderato.
Nel saggio Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, un lavoro fondamentale dello storico Cesare Bermani, tra i pionieri di un uso sistematico della storia orale e “dal basso” in Italia e che ci sarà di notevole aiuto, si possono intercettare nudi dati e testimonianze che corroborano l’ipotesi che questo modusvivendi fosse stato spesso, com’è prevedibile, semplicemente esportato. Se l’amministratore di una fattoria nei pressi di Zossen nel 1941 avrebbe notato che gli italiani lavoravano “avendo sempre un randello a portata di mano”, che erano “indisciplinati e sfacciati” e che un sorvegliante era stato assalito e preso a pugni in faccia tre volte in un solo giorno; l’emigrato italiano Gino Vermicelli, che dalla Francia andò in Germania, avrebbe raccontato a Bermani che “questa gente che parte è sempre la più avventurosa e spregiudicata, quindi anche la più combattiva”:
Spesso sono anche delle “teppe”, nel senso che è gente che se ne fotte, di solito sono i timorati di Dio a starsene a casa, ed è naturalmente quella che ti pianta più grane, che fa borsa nera ecc. Questo è comunque il tipo di umanità che emigra allora, e che poi naturalmente può essere in parte simpatica e in parte no. Perché in queste emigrazioni tiri fuori la schiuma.
O ancora: non fosse che stentiamo a pensarlo così rumoroso e loquace, in una sorta di testacoda che ci porta dai primi decenni del Novecento al momento del “ritorno”, verrebbe da affiancare a Lorenzo l’immagine del Moro di Verona che Levi avrebbe incontrato ne La tregua, l’anziano compagno di camerata “di maggior formato” con un “petto profondo [che] si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta”. Ecco l’istantanea di un momento del suo picaresco viaggio di ritorno:
Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani. Aveva più di settant’anni, e li dimostrava tutti: era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari come cani feroci in fondo alle loro tane.
Nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il suo destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie. Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva.
Sono suggestioni che percorrono le campagne mediterranee ed europee dove erano di casa vino, imprecazioni, coltelli, bastoni; brandelli di esistenze strappati al contesto in cui Lorenzo nacque e crebbe, a quello in cui imparò a fare a botte con la vita e al luogo da cui fu capace in qualche modo di uscire, e non da solo; ma sono immagini che appartengono in parte alla storia, in parte alla cronaca e in parte al mito ribilanciato del “buon tempo antico”, appunto. Questi spunti fugaci eppur concreti, accostabili ma fino a un certo punto alla biografia di Lorenzo, possono farcelo intravedere, il muradur di Fossano? Possono riempire i decenni di silenzio – chissà, forse condito di bestemmie – che ci ha lasciato in eredità?
Sebbene negli anni del fascismo – tra la violenza degli esordi e la “normalizzazione” del regime – Fossano avesse visto impiantarsi l’industria casearia e rafforzarsi anche quella dei concimi chimici, e sebbene negli anni Trenta fosse aumentata la produzione agricola del territorio circostante anche in virtù di imperiosi diktat del regime, questo non aveva scalfito se non in superficie l’imponente flusso migratorio, onnipresente da secoli ma intensificatosi nel tardo Ottocento prevalentemente come movimento stagionale, e diventato via via più definitivo nel periodo tra le due guerre mondiali. Quella che tra gli anni Venti e Trenta accalcava le frontiere tra il nord-ovest dell’Italia e il sud-est della Francia era un’umanità vivace e sofferente: da decenni quel confine poroso era percorso da pastori e colportueurs – gli ambulanti –, da mendicanti che nelle fiere facevano ballare le marmotte, dai cavié che commerciavano capelli femminili per i fabbricanti di parrucche parigini, da venditori di botti, maglie di lana, tele. Il legame che unisce “La Granda” – la provincia di Cuneo di cui Fossano fa parte – e la Francia mediterranea e alpina è antico e radicato in profondità; e nel primo scorcio di Novecento era emersa sempre più chiara la disparità di bisogni e possibilità, dal momento che in Italia mancava il pane, e alla Francia servivano braccia. Anche l’annata agricola era complementare: da novembre a marzo sul territorio francese servivano sempre uomini per il raccolto – delle olive, dei fiori, delle primizie –, per i grandi alberghi della Costa Azzurra e per i lavori di scasso e preparazione dei terreni. E così, ha scritto la storica Renata Allio, “braccianti, terrazzieri, spaccapietre, portuali, facchini”, e con loro molte donne che andavano a fare le domestiche, le cameriere o a raccogliere fiori o olive, quando arrivava il freddo “scendevano” in Francia e lo facevano per lo più in clandestinità. L’emigrazione temporanea dei cuneesi della montagna e di quelli della pianura li portava a condurre una vita di stenti pur di risparmiare qualcosa, e a infittire le fila dei “giavanesi”, come erano definiti in generale i migranti di mezzo mondo che affollavano la Provenza degli anni Trenta rendendola un’isola di Giava, “sprofondata in un concerto tutto suo di voci bisbetiche, di bestemmie e di mugugni” nella vivida descrizione dell’omonimo romanzo del 1939 dell’ebreo polacco Jan Malacki, che adottò lo pseudonimo Jean Malaquais. Gli italiani in particolare erano agli occhi di molti locali dei “rospi” – babi –, come a Marsiglia, o dei veri e propri nemici, come l’eccidio del villaggio occitano di Aigues-Mortes del 1893 già aveva dimostrato. Come sempre accade, chiusure e rifiuti si accompagnavano a contaminazioni virtuose: il romanzo xenofobo di inizio Novecento L’Invasion del prolifico autore ultranazionalista Louis Bertrand, ambientato proprio a Marsiglia – a poco più di duecento chilometri da Embrun –, pur trasudando disprezzo per gli immigrati italiani ammetteva che i provenzali si capivano “a metà” con i piemontesi, ormai parecchie migliaia da decenni, da quando era terminata la Grande Migrazione.
Stiamo parlando di un rigagnolo all’interno di una vera e propria emorragia inarrestabile: tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana il fenomeno migratorio interessò ogni anno almeno l’1% dei piemontesi, e tra il 1916 e il 1926 i numeri ufficiali parlano di 402.079 piemontesi e valdostani che emigrarono, andandosi a sommare al milione e mezzo abbondante di persone partite dalle medesime regioni nei quarant’anni precedenti. Molte di loro andavano nel sud della Francia, e in alcune regioni nel primo decennio del dopoguerra gli arrivi si impennarono addirittura fino a quasi quaranta volte tanto, come ammoniva un articolo allarmista uscito su “Le Matin” nel 1928, quando Lorenzo di anni ne aveva ormai ventitré e aveva da poco terminato la naia.
Negli anni Venti e Trenta l’immigrazione clandestina in Francia era diventata un fenomeno di massa, e il regime fascista aveva tentato di porle un freno, stimolando esclusivamente l’emigrazione temporanea e reprimendo poi quella irregolare: le leggi fasciste che dal 1927 puntavano a restringere le maglie dell’emigrazione endemica, pur inceppando in parte il meccanismo dei frontalieri, avevano però ottenuto l’effetto opposto a quello auspicato. Molti migranti, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, avevano infatti scelto di radicarsi stabilmente in Francia. Nonostante le tensioni inevitabili in presenza di cospicui flussi, però, come ha rilevato ancora Allio, “l’assimilazione fu rapida e oggi i nipoti degli immigrati piemontesi sono perfettamente integrati e indistinguibili dalla popolazione autoctona. Spesso abitano ancora nella casa costruita dai nonni. Percorrendo la periferia collinare di Nizza, Cannes, Vallauris o la piana di Grasse, sulle targhette dei campanelli delle case mono-famigliari con giardino si leggono tuttora in prevalenza cognomi piemontesi e per la maggior parte cuneesi”.
E venne la notte
Lorenzo “Il Tacca”, insomma, non era certo l’unico che stava più di là che di qua, non era l’unica vita randagia che partiva d’inverno e tornava in primavera, e molti stavano e basta e forse erano più francesi che altro, ormai. Alla metà degli anni Quaranta c’erano 437.000 lavoratori italiani in Francia, 120.000 dei quali erano edili (muratori e manovali in particolare), e se si calcolano le famiglie e i molti naturalizzati francesi – non meno di 150.000 agli inizi del decennio secondo l’ambasciatore Raffaele Guariglia – ci si avvicina al milione di presenze su suolo transalpino. È difficilmente ipotizzabile che questa popolazione per lo più di estrazione popolare fosse fascista. In primis perché – l’ho accennato – non di rado ci si spostava proprio in ragione del fatto che la vita era divenuta più complicata a causa del proprio atteggiamento tiepido o maldisposto nei confronti del regime; un cappellano tra i lavoratori agricoli italiani in Alta Slesia e poi in Austria avrebbe detto a Bermani che “chi va via, spesso lo fa perché non è riuscito a farsi assumere, e le ragioni possono essere varie, anche politiche”. In secondo luogo perché la presenza di antifascisti nella comunità italo-francese era imponente: insistendo sulla difficoltà di distinguere gli uni dagli altri, Bermani arriva a sostenere che “quasi tutti gli italiani in Francia [fossero] quindi in posizione critica od ostile verso il fascismo”, considerato anche il fatto che i “fuoriusciti” politici – pur non essendo dotati di un organismo di propaganda unitario – erano in larghissima parte lavoratori.
Resta un fatto che nel 1940 gli italiani e gli italo-francesi, a prescindere dalle loro convinzioni più o meno marcate, divennero ufficialmente nemici: il loro paese d’origine aveva attaccato la Francia attraversando l’arco alpino occidentale per la pugnalata alle spalle, le coup de poignard dans le dos, in seguito all’offensiva dell’alleato nazista. È ancora l’emigrato Vermicelli, all’epoca in Francia da dieci anni, a raccontare:
Arriva la guerra, la Francia è in guerra con la Germania, tu sei un operaio originario di un paese neutrale e fai il tuo lavoro. Non appena la radio ha comunicato che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia – io lavoravo alla fabbrica Licorne, faceva dei fuoristrada per l’esercito francese – mi ha chiamato il caporeparto: “Vai in ufficio”. M’han dato i miei quattro soldi e m’han mandato a casa. E così han fatto con tutti gli altri italiani che lavoravano lì, perché ovviamente non era possibile che in una fabbrica militare lavorasse un cittadino di un paese nemico. Arrivato a casa, mi collego con gli antifascisti che conoscevo e la direttiva che viene è questa. “Andiamo tutti ad arruolarci nell’esercito”. Si sapeva benissimo che non ci avrebbero mai chiamati a fare il soldato. Ma si sapeva anche che ci poteva essere un qualche stupido prefetto che ti mandava in campo di concentramento. Infatti i francesi, subito dopo la dichiarazione di guerra, avevano messo qualche decina di migliaia di italiani in campo di concentramento.
Un’altra guerra mondiale, una seconda, iniziava così per quei poveracci come Lorenzo che avrebbero dovuto far grande l’Italia, nelle intenzioni di chi mandava gli uomini a uccidere e a morire in Francia, e poi in Grecia, in Jugoslavia, in Unione sovietica. Da Fossano, e anche dal Burgué, erano partiti in centinaia, a fare le guerre del duce: l’elenco dei caduti lo si trova ancora oggi dietro al monumento nei pressi del Bastione del Salice, il residuo della cinta bastionata del XVI secolo. Risulterebbe invece (di nuovo) titanica – un ago in decine di pagliai – l’impresa di rintracciare la presenza di Lorenzo nel 1940 in un triangolo immaginario tra Nizza, Tolone e Embrun (Levi in un’intervista uscita postuma avrebbe parlato anche di Lione e Tolosa, ammettendo di non ricordare); un percorso di quasi 400 chilometri considerando solo il perimetro. Ma lui era una di quelle migliaia di persone – non meno di 8.500 –, stando a quanto ricostruito da Levi e da Angier, che erano state imprigionate: quando il colpo di pugnale era stato metaforicamente sferrato, i francesi si erano difesi come lo si fa nel momento in cui il nemico varca la soglia di quella che percepisci come “casa” e si diffida di ciascuno, in base al nome che porta, al luogo in cui ha cominciato a faticare. Mentre gli italiani subivano una delle battute d’arresto più umilianti della loro storia militare, Lorenzo aveva tirato il fiato. In gabbia gli uomini con i calli alle mani e ai piedi sopravvivono quasi sempre – almeno così credeva anche lui, prima di “Suiss” – e si mangia pure meglio che fuori, ma era durata solo qualche giorno, la tregua dal tanto andare chini. Perché quando i nazisti, anche per conto degli italiani inchiodati a ridosso delle frontiere dopo qualche passo, avevano annientato la Francia e avevano preso Parigi, il 14 giugno, Lorenzo era stato liberato, e con lui tanti compagni, braccia necessarie all’economia dell’Asse; a inizio luglio era certamente già a Fossano, all’ufficio di collocamento, a chiedere un sussidio di disoccupazione. Lavorare di nuovo in Francia sarebbe stato più ostico, di lì in avanti.
In quella regione di contaminazioni e contatti il vicino e lo straniero, l’italiano, aveva infatti ormai acquisito anche agli occhi della gente comune lo status di nemico: in seguito a una meticolosa preparazione, la frontiera si era irrigidita, trasformandosi letteralmente in un fronte. Gli italiani come Lorenzo, anche se avversi al fascismo, erano nati nella patria dei futuri dominatori, che negli anni seguenti avrebbero occupato un’ampia area del sud della Francia, in buona parte corrispondente proprio alle zone in cui lui si recava a lavorare. L’Asse voleva conquistare il mondo, si partiva dall’Europa che si sarebbe ridotta in macerie, nella quale si sarebbe comunque trovato di che campare; e come Primo Levi fa sostenere al suo alter ego Libertino Faussone ne La chiave a stella, “a dire di no a un lavoro uno impara tardi”. E ce ne sarebbe stato, da marciare, con o senza una divisa. Non posso sapere quante volte Lorenzo sia tornato in Francia irregolarmente nei primi anni Quaranta: anche se mi sento di escluderlo, potrebbe essere addirittura partito da lì attraverso un canale – inizialmente volontario, poi sempre più forzato – che portava migliaia di lavoratori italiani in Germania direttamente dal territorio francese; a nulla sarebbero valse, ad esempio, le pressioni del governo fascista perché gli operai italiani venissero rimpatriati prima di essere inviati nel Terzo Reich. In qualunque dei tre territori uno fosse impiegato, c’è da dire, lavorava comunque per l’Asse; tornare in Italia oltretutto poteva essere rischioso, e in effetti la sua classe di leva venne mobilitata. Una parte dei 178.674 lavoratori rientrati dalla Francia in Italia tra il 1937 e il 1942, in ogni caso, ripartì verso la Germania con dei contratti collettivi a termine: ritengo che Lorenzo fosse tra questi. Come certifica il suo libretto di lavoro, riprodotto parzialmente anche nel fascicolo di Yad Vashem, il muratore di Fossano ad Auschwitz ci arrivò infatti con la ditta italiana “G. Beotti”, purtroppo sempre sprovvista di altri estremi che aiuterebbero a individuarla, e questo dovrebbe essere accaduto tramite uno zio che lo fece chiamare a Embrun, oppure tramite suo fratello Giovanni, barba Giuanin. Primo Levi era stato più vago, scrivendo in Lilìt e altri racconti che “la sua scelta era stata ben poco volontaria” (tornerò su questo aspetto), perché quando i tedeschi erano arrivati in Francia, dopo il suo breve internamento, “avevano ricostituito l’impresa e l’avevano trasferita in blocco in Alta Slesia”. Non è da escludere che sia andata in effetti così, naturalmente, ma il libretto di lavoro di Lorenzo rivela come impiego immediatamente precedente alla partenza per “Suiss” oltre un mese presso una ditta di Tradate, comune del Varesotto, in un cantiere a Levaldigi, frazione di Savigliano ancora oggi nota per l’omonimo aeroporto, che proprio in quei mesi si stava ampliando massicciamente a uso militare, espropriando diverse proprietà del circondario: la committenza infatti era l’aeronautica, come rivela l’archivio storico della ditta.
Le parole di Levi lasciano aperta una pista: sembrano suggerire che Lorenzo avesse intrapreso il percorso più rapido, risparmiandosi perlomeno qualche decina di chilometri a piedi. Lui, che tanto marciava: tolti i continui andirivieni da frontaliero sappiamo con certezza che Lorenzo di chilometri ne avrebbe fatti millequattrocentododici in quattro – o più probabilmente cinque – mesi, seguendo la ferrovia, nel 1945. Ma questo è il capolinea di questa storia, o quasi, e per capirla serve mettere ordine e imparare a conoscere Lorenzo anche e innanzitutto come è stato dato in sorte a Primo.
“Se un capomastro gli faceva un’osservazione, anche con il migliore dei modi, lui non rispondeva, si metteva il cappello e se ne andava”: Levi avrebbe ricordato così gli anni che precedettero il suo incontro con Lorenzo; suppongo che si tratti di un’immagine ricavata di prima mano da lui stesso, o forse per altre vie, a partire dai suoi familiari che avrebbero confermato queste informazioni ad Angier. La scena è ampiamente verosimile, dato il noto carattere irascibile di Lorenzo, sebbene ammantata da un’aura ieratica forse mitizzante, e dalla formulazione scelta da Levi deduco con cautela che questo fosse accaduto più di una volta tra la metà degli anni Trenta e il 17 aprile del 1942, quando infine il muradur di Fossano giunse ai margini di Auschwitz, dove avrebbe lavorato alla “Buna”, fondata nell’ottobre di quell’anno con l’obiettivo di produrre gomma sintetica – la “buna”, per l’appunto, acronimo di Butadien-Natrium-Prozess – e benzina sintetica e coloranti e altri sottoprodotti del carbone.
Marco Mondini- Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita
Editore Il Mulino
Descrizione del libro di Marco Mondini-Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita «I fascisti erano ossessionati dal potere, e dalla possibilità di redimere la nazione e di trasformare gli italiani, anche a costo di eliminare tutti quelli che non erano d’accordo con loro. […] Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione.» L’ascesa al potere del fascismo e il suo atto culminante, la cosiddetta marcia su Roma, possono essere capiti solo all’interno di un quadro più vasto, quello di un’Europa incapace di chiudere i conti con la Grande guerra. E se furono soprattutto i paesi sconfitti a scoprire che uscire dalla cultura dell’odio e della violenza quotidiana non era facile, frustrazione, scontento e desiderio di rivalsa si impossessarono anche degli italiani che pure – almeno formalmente – la guerra l’avevano vinta. Marco Mondini compone la storia corale e implacabile di un’Italia in cui la lotta politica si trasforma in guerra civile e che scivola via via verso il lungo ventennio della dittatura fascista.
Breve biografia di Marco Mondini-Storico
Marco Mondini al Giffoni Film Festival 2024
Si è laureato all’Università di Pisa in storia militare nel marzo 1998, e nel novembre dello stesso anno si è diplomato alla Scuola Normale Superiore in discipline storiche. Ha conseguito il perfezionamento (dottorato) in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore nel 2003[1]. Tra 1999 e 2000 ha prestato servizio nell’Esercito Italiano come ufficiale di complemento, prima alla Brigata “Tridentina” e poi, come ufficiale incaricato della pubblica informazione, presso il Comando Truppe Alpine.
Dal 2003 al 2005 è stato borsista di post-doc all’Università di Padova. Nel 2006 è stato borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Dal 2006 al 2010 assegnista di ricerca in Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore. Dal 2011 al 2017 è stato ricercatore all’Istituto storico italo Germanico-FBK di Trento, dove ha diretto il gruppo di ricerca “1914-1918” (FBK – Università di Trento), e dove dal 2017 è affiliated fellow.[2] Negli stessi anni è stato anche visiting fellow all’ENS di Parigi, all’università di Lille “Charles De Gaulle”, all’università di Paris 7 “Diderot”, all’Oberlin College (USA) e allo US Army War College di Carlisle (Pennsylvania, USA) ed è stato nominato chercheur associé al CNRS e all’Università di Paris-Sorbonne[3]. Dal 2017 è diventato prima ricercatore e poi professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova, dove insegna History of conflicts e Storia contemporanea e dove, dal 2023, è Delegato alla comunicazione e alla terza missione [3]. Dal 2019 è membro del Comité directeur del Centre International de Recherche dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne.
Durante il Centenario della Grande Guerra, ha fatto parte come consulente della Struttura di missione anniversari nazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.[4] Collabora con Il Corriere della Sera, con Il Foglio e con Rai Storia, per la quale ha scritto e condotto diversi documentari e le trasmissioni “Archivi. Miniere di Storia” (2018-2019) e dal 2020 al 2024, quando il rapporto tra i due si è interrotto, insieme a Michela Ponzani, “Storie Contemporanee”.[5] Dalla sua prima stagione, è ripetutamente ospite della trasmissione Passato e Presente condotto da Paolo Mieli (Rai 3 – Rai Storia) [6]Nella stagione 2023/2024 e 2024/2025 ha collaborato con Aldo Cazzullo per alcune puntate della trasmissione Una giornata particolare(La7).[7] Nel 2023 ha partecipato al documentario “La caduta”, condotto da Ezio Mauro per La7, sul 25 luglio 1943.[8] Nel 2024 è consulente e tra le voci narranti del documentario “I survived the Holocaust” diretto da Sanela Prašović Gadžo, presentato al Sarajevo Film Festival e allo Stockolm Film Festival.[9]
Gli sono stati attribuiti diversi riconoscimenti tra cui il premio nazionale “Friuli Storia” (2017) per la biografia di Luigi CadornaIl Capo, e il premio “Acqui Storia. Storico in TV” (2022) per il documentario L’ultimo eroe. Viaggio nell’Italia del Milite Ignoto (RAI Storia[10]), scritto e condotto insieme a Nicola Maranesi e Fabrizio Marini.
Opere
Veneto in armi. Tra mito della nazione e piccola patria 1866-1918, Collana Le guerre, Gorizia, LEG, 2002, ISBN 978-88-869-2853-3.
Armi e potere. Militari e politica nel primo Dopoguerra, Quaderni della Fondazione Luigi Salvator, Roma, Aracne, 2006, ISBN978-88-548-0745-7.
La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito italiano nell’avvento del fascismo, Collana Quadrante, Roma-Bari, Laterza, 2006, ISBN 978-88-420-7804-3.
Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, con Guri Schwarz, Collana Nord-Est. Nuova serie, Verona, Cierre, 2008, ISBN 978-88-831-4439-4.
Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza, 2008, ISBN 978-88-420-8652-9.
Venezia, Treviso e Padova nella grande guerra, con Lisa Bregantin e Livio Fantina, Collana 900 Veneto. La Grande Guerra, Istresco, 2008, ISBN978-88-888-8039-6.
Fiume! Scene, volti, parole di una rivoluzione immaginata 1919-1920, con Alessio Quercioli e Fabrizio Rasera, Museo Storico Italiano della Guerra, 2010, ISBN 978-88-322-6612-2.
Generazioni intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946), Edizioni della Normale, Pisa, 2011, ISBN 978-88-764-2405-2.
La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2014, ISBN 978-88-152-51633.
De Gasperi e la Prima guerra mondiale, con Maurizio Cau, FBK Press, 2015, ISBN978-88-989-8923-2.
Andare per i luoghi della grande guerra, Collana Ritrovare l’Italia, Bologna, Il Mulino, 2015, ISBN 978-88-152-5794-9.
Il capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna, Biblioteca Storica, Bologna, Il Mulino, 2017, ISBN 978-88-152-7284-3. [Audiolibro letto da Ezio Bianchi, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2017], traduzione in tedesco: Der Feldherr. Luigi Cadorna im Grossen Krieg 1915-1918, Berlino / Boston, De Gruyter 2022 ISBN 978-3-11-069342-3
Fiume 1919. Una guerra civile italiana, Collana Aculei, Roma, Salerno Editrice, 2019, ISBN978-88-697-3364-2. – Collana Itinerari nella storia n.24, Milano, RCS MediaGroup, 2024.
Tutti giovani sui vent’anni. Una storia di alpini dal 1872 a oggi, Collezione Le Scie. Nuova serie, Milano, Mondadori, 2019, ISBN 978-88-047-1224-4.
Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2022, ISBN 978-88-152-9927-7.
Il ritorno della guerra, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2024, ISBN978-88-153-8810-0.
Curatele
Armi e politica. Esercito e società nell’Europa contemporanea, con J.F. Chanet, D. Ceschin, H. Kuprian, C. Jahr, A. Argenio, numero monografico di “Memoria e Ricerca”, 2008, 28.
Narrating War. Early Modern and Contemporary Perspectives, con M. Rospocher, Duncker&Humblot – Il Mulino, Berlino-Bologna, 2013.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Virginia Woolf-Pensieri di pace durante un’incursione aerea (agosto 1940)
TOMMASO MONTANARI
TOMMASO MONTANARI:” Nadia Fusini ha tradotto in questi giorni questo testo struggente, e lo ha fatto come atto di resistenza alla guerra: a questa sporca guerra di conquista nazionalista, e ad ogni altra guerra. Pubblicarlo qui oggi è il nostro modo di essere vicini alle donne ucraine sotto le bombe russe, e alle donne russe le cui vite sono ora diversamente distrutte. Nessuno come Virginia Woolf ha saputo esprimere la radicale alterità delle donne rispetto alla guerra: eterno “gioco” bestiale dei maschi, frutto della loro (della nostra) puerile e omicida volontà di potenza. Se qualcuno avesse ancora un dubbio sul fatto che liberarsi dal dominio maschile (nei pensieri, nelle parole, nelle opere) non è un obiettivo (solo) delle donne, ma di tutta l’umanità, questo drammatico 8 marzo di guerra serve a toglierselo una volta per tutte”. (Tomaso Montanari)
Adeline Virginia Woolf
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) –I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa. Cerchiamo di pensare che cosa si può fare per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre in collina i cannoni sparano e i fari tastano le nuvole, e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? Fabbricando armi, oppure vestiti o cibo. Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà senza armi; possiamo combattere con la mente. Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel Times; era una donna che diceva: “Le donne non hanno voce nelle questioni politiche”. Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? Ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari e ai tavoli delle conferenze. Ma rinunciando al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché ci sembra inutile, non priviamo il giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile? Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone magari all’insulto, al disprezzo? “Non cesserò di conbattere con la mente” scrive Blake. Combattere con la mente significa pensare contro la corrente, e non a favore.
La corrente scorre veloce e violenta. Straripa a parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero, che combatte per difendere la libertà. Questa è la corrente che ha trasportato il giovane aviatore fino in cielo, e lo tiene lì, tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas a portata di mano, è nostro compito bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti e due prigionieri stasera: lui imprigionato nella sua macchina con un’arma a portata di mano, noi sdraiate nel buio con una maschera antigas a portata di mano. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o a teatro, o seduti alla finestra a parlare. Che cosa ce lo impedisce? “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero. Va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro rimbombo comincia. “Le donne capaci” così diceva Lady Astor nel Times di stamani, “vengono frenate, ostacolate, sottomesse per via dell’inconscio hitlerismo nel cuore degli uomini”. È vero, noi siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti egualmente prigionieri: gli uomini inglesi negli aerei, le donne inglesi nei letti. Ma se lui smette di pensare, può essere ucciso; e lo stesso vale per noi. E allora pensiamo per lui. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime. È il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e schiavizzare. Perfino nel buio delle tenebre lo si può vedere chiaramente. Vediamo vetrine di negozi che brillano, e donne che guardano, donne truccate, donne vestite di tutto punto ‒ donne con le labbra rosse, le unghie rosse. Sono schiave che cercano di fare schiavi. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, libereremmo anche gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. I vetri della finestra tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, in cima al colle, sotto una rete fatta di pezzi di stoffa verde e marrone, che imitano i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: “Quarantaquattro aerei nemici sono stati abbattuti nella notte, dieci dal fuoco antiaereo”. E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, dev’essere il disarmo. Non ci dovranno essere mai più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani uomini non saranno più addestrati a combattere con le armi. Il che sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello ‒ un’altra citazione: “Combattere contro un nemico reale, guadagnare onore immortale e la gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo della speranza… A questo era stata dedicata finora tutta la mia vita, la mia educazione, la mia formazione, tutto…”.
Queste sono le parole di un giovane uomo inglese che ha combattuto nell’ultima guerra. Davanti alle quali, gli attuali pensatori possono onestamente credere che scrivendo “disarmo” su un pezzo di carta in una conferenza dei ministri avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non farà più il suo mestiere, ma sarà sempre Otello. Il giovane aviatore su in cielo non è guidato soltanto dalle voci degli altoparlanti; è guidato da voci che ha dentro di sé ‒ antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Lo dobbiamo biasimare per questo? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, al comando di un gruppo di politici seduti intorno al tavolo? Facciamo conto che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: “Fare figli sarà ristretto a una piccolissima classe di donne accuratamente selezionate” ‒ lo accetteremmo? O non dovremmo dire: “L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”. Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che la maternità venisse controllata, e l’istinto materno messo a tacere, le donne ci proverebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Le onorerebbero per il loro rifiuto di fare figli. Offrirebbero altre possibilità alla loro potenza creativa. Anche questo deve far parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto. Verso un punto che sta esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei… passano i secondi. La bomba non cade. Ma durante i secondi di attesa, il pensiero si blocca. Anche il sentire si blocca, tranne la sensazione opaca della paura. Un chiodo crocefigge l’essere tutto contro un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è sterile, non fertile. Non appena la paura passa, la mente si riprende e d’istinto rivive e cerca di creare. Siccome la stanza è al buio, creare può soltanto grazie alla memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti ‒ a Bayreuth, a sentire aWagner; a Roma, a passeggiare per la campagna romana; a Londra. Riaffiorano le voci degli amici. Frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, è assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane uomo della perdita della gloria e delle armi, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori accesi sulla pianura hanno finalmente scovato l’aereo. Dalla finestra si vede un piccolo insetto argentato che si gira e rigira alla luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’incursore è stato colpito dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti è atterrato sano e salvo in un campo qui vicino. In un buon inglese, ha detto a chi l’ha catturato: “Come sono contento che il combattimento è finito!”. Al che un uomo inglese gli ha dato una sigaretta, e una donna inglese gli ha dato una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. I riflettori si sono tutti spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo bubbola, volando da un albero all’altro. E mi viene in mente una frase quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese: “Si svegliano i cacciatori in America…”. Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono appena alzati in America, a uomini e donne, il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, nella fede e nella speranza che ci pensino, e generosamente e caritatevolmente le trasformino in qualcosa di utile. E ora, in questa buia metà del mondo, a nanna.
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) è stata una scrittice, saggista e attivista inglese. Tra le principali esponenti della letteratura del XX secolo, è stata attivamente impegnata nella lotta per la parità di diritti tra i sessi.
FONTE-sito web “VOLERE LA LUNA”
– Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche-Tomaso Montanari-
Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45)
Giulio Einaudi editore
Il libro di Michela Ponzani «Avevo combattuto una guerra senza bombe e senza panni militari e ciò che rimaneva di me non si leggeva su uno stato di servizio […]. La guerra aveva risparmiato le nostre vite ma cancellato l’identità, l’anima; quella di prima era sepolta per sempre».
Queste le parole che Annamaria L. ha voluto scrivere in una giornata di primavera del 1990, ormai rimasta sola e anziana, nella sua casa romana, a ricordare i terribili giorni del secondo conflitto mondiale.
Riannodando i fili della memoria sepolta per anni nell’oblio delle coscienze, il libro ricostruisce le molteplici, eterogenee e compenetranti storie di guerra di quelle donne anonime, non colte, lontane dalla partecipazione attiva nella politica, che subiscono passivamente le sofferenti ricadute della guerra totale, fatta di rastrellamenti, bombardamenti, stragi e stupri di massa.
Le pagine che seguono raccontano anche le motivazioni ideali che stanno dietro alla scelta orgogliosa, per nulla scontata e mai rinnegata, di chi volle resistere: è la «guerra privata» di donne che smettono improvvisamente di sentirsi soltanto madri o figlie, che decidono di lottare non solo contro l’occupante tedesco o i militi fascisti della Repubblica Sociale; la «loro guerra» è anzitutto un conflitto per la liberazione di se stesse, anche dal pregiudizio morale e dalla discriminazione sociale imposta dalla cultura maschile.
***
Per secoli bottino degli eserciti invasori, tra il 1940 e il 1945 le donne si ribellano alla cultura di guerra che usa lo stupro per umiliare il nemico sconfitto. Attraverso le lettere private del fondo Rai – La mia guerra e dell’Archivio della memoria delle donne di Bologna, il libro di Michela Ponzani ricostruisce la resistenza delle donne che vollero combattere la «guerra totale». Dietro la retorica del martire antifascista, la lotta armata al nazismo e al fascismo di Salò è per le partigiane un momento attraversato da tormenti interiori, da incertezze e paure. Ma è anche una guerra privata per l’emancipazione femminile, una sfida ai pregiudizi della società italiana e degli stessi compagni di banda. Oltre questo piccolo esercito che sceglie con coscienza la lotta antifascista, il libro ricostruisce le tattiche di sopravvivenza delle vittime della «guerra ai civili»: sole con i mariti inviati al fronte, dispersi o deportati, le donne rompono il muro del silenzio sugli stupri di massa, commessi dalle truppe occupanti tedesche e dai marocchini nel Basso Lazio. Ma la guerra è fatta anche di «contatti tra nemici»: molte donne s’innamorano del «tedesco invasore », da cui avranno anche dei figli. Considerate nel dopoguerra le «amanti del nemico», la loro storia sarà cancellata dalla memoria nazionale in nome del mito dell’eroina e madre, simbolo della nuova Italia democratica.
Breve biografia di Michela Ponzani –(Roma 1978) insegna Storia contemporanea all’Università degli studi di Roma «Tor Vergata». Autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è stata borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino e consulente dell’Archivio storico del Senato della Repubblica. Già Visiting Fellow presso il Remarque Institute della New York University, ha fatto parte del gruppo di ricerca della Commissione storica bilaterale italo-tedesca. Fra le sue pubblicazioni: Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-48 (Laterza 2015) e, con Massimiliano Griner, Donne di Roma. La lunga strada dell’emancipazione femminile nella città eterna (Rizzoli 2017). Per Einaudi ha pubblicato, con Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtú, (2011), Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» (1940-45) (2012 e 2021) e Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022 (2023).
Michela Ponzani
Verso il 25 aprile: la Resistenza delle donne, di ieri e di oggi, per continuare a essere libere-
Articolo di Michela Ponzani
Michela Ponzani, storica, autrice e conduttrice televisiva, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di “Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45)”. In questo contributo, scritto per A Parole Nostre, ci spiega perché il coraggio, il sacrificio e la lotta di quelle protagoniste della Seconda guerra siano valori ancor più attuali adesso, soprattutto per le nuove generazioni
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Si avvicina il 25 aprile e a dispetto del linguaggio bellico utilizzato nell’ultimo anno di pandemia (cominciò l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri quando disse che il Covid aveva fatto più morti in Lombardia che i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale), forse vale la pena ricordare che la Resistenza non è stata solo un affare maschile-militare.
Bersagli strategici dei nazisti e dei militi della Repubblica sociale, sono le donne a scontare con maggiore crudeltà una strategia terroristica fatta di stragi e rastrellamenti, di incendi a paesi e villaggi; di fucilazioni e torture sui corpi dei prigionieri politici.
Ma nella disperata lotta per la sopravvivenza, le donne decidono di non essere più vittime. E si ribellano a quella cultura di guerra che usa lo stupro come arma per umiliare il nemico sconfitto, riducendo il corpo femminile a bottino e preda degli eserciti (occupanti o liberatori).
Le memorie taciute delle donne raccontano storie di coraggio e di rivolta. E come ho ricordato in Guerra alle donne (Einaudi), ciò vale soprattutto per gli stupri di massa, compiuti dalle truppe marocchine e algerine nella primavera-estate del 1944 e le violenze subite dalle donne costrette a prostituirsi nei campi bordello, costruiti dall’esercito tedesco dietro la linea Gotica. Veri e propri tabù nella memoria nazionale e nel senso comune dell’Italia del dopoguerra.
La lotta partigiana delle donne è quindi una guerra di liberazione anzitutto contro la criminale violenza nazifascista; ma è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. Per le donne, la Resistenza è un atto di disobbedienza radicale; uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna ad essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare”. Che non permette d’iscriversi alle facoltà scientifiche e considera irrazionale la mente femminile, perché “il genio è maschio”.
Ma perché oggi una ragazza dovrebbe appassionarsi a vicende che hanno più 70 anni?
Al di là di discorsi ingessati o retorico-celebrativi, forse la risposta sta nel fatto che quelle storie – con le emozioni, le paure, i tormenti che segnano la scelta partigiana, dolorosa e carica di responsabilità – continuano a parlare al nostro presente.
Perché se oggi il destino delle donne non è più quello di stare a casa e di lasciare tutto il mondo agli uomini, è grazie alle ragazze che hanno combattuto la dittatura fascista, rinunciando alla spensieratezza della gioventù.
E che nel dopoguerra hanno continuato a battersi, affrontando discriminazioni insopportabili.
“Donna partigiana, donna puttana” si sentì dire Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, durante un dibattito alla Camera da alcuni deputati della destra postfascista, con tanto di inequivocabili gesti osceni. E Marisa Rodano (che ha da poco festeggiato i 100 anni) ha raccontato che “negli anni ’50 le carceri erano piene di adultere”. Il marito poteva spedire la moglie in galera, se questa aveva una relazione con un altro uomo.
Fortissime erano poi le disparità nella sfera domestica e professionale: le donne non potevano divorziare o interrompere una gravidanza, né diventare giudici o poliziotte perché troppo fragili.
Persino ucciderle non era così grave: la legge, concedeva le attenuanti se un uomo, per ragioni di onore, uccideva la moglie, la sorella o la figlia (il delitto d’onore sarà abrogato solo nel 1981). Altre norme permettevano di picchiare la moglie per correggerne il carattere e giustificavano lo stupro se seguito da un matrimonio riparatore (solo nel 1996 diverrà reato contro la persona e non contro la morale). Le ragazze della Resistenza lasciano dunque il testimone alle generazioni future. Non scorderò mai quella studentessa di liceo che trovò il coraggio di parlare delle violenze subite in famiglia, dopo aver letto il diario di una partigiana. Le venne il desiderio di diventare una donna libera (disse proprio così). Grazie al movimento #MeToo, abbiamo squarciato il velo d’ipocrisia sugli abusi e le molestie sessuali (non solo nel mondo dello spettacolo) e abbiamo più coraggio nel denunciare gesti e parole di offesa, urlate o allusive. E possiamo dichiarare, senza il timore di essere considerate pazze o esagerate, di non sopportare più allusioni sessuali non richieste (in ufficio, a un colloquio di lavoro o all’università), o di vederci sminuite nella nostra professione; come quando la dottoressa che ti visita in ospedale viene definita signorina.
Ma l’emergenza Covid-19, che ci ha rintanate in casa, ha visto aumentare i femminicidi. Perché quando si è fragili e abbandonate a una vita di isolamento e degrado, è proprio la famiglia a trasformarsi in un’orrenda prigione. E ci arrivano come macigni le notizie di uomini che odiano e ammazzano le donne: “buoni padri di famiglia” che uccidono per “troppo amore”; uomini “per bene” travolti da un raptus perché “lei voleva lasciarlo”. E allora festeggiamo questo 25 aprile con le parole che Marisa Ombra, staffetta nelle brigate Garibaldi ha dedicato a tutte noi. “Siate partigiane, per essere libere sempre”.
*Storica, autrice e conduttrice televisiva di programmi culturali per Rai Storia, è tornata da pochi giorni in libreria con una nuova edizione di Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (1940-45) (Einaudi, pp. 384, € 14,00)
Andrea Ricciardi- Ferruccio Parri. Dalla genesi dell’antifascismo alla guida del governo-
Biblion Edizioni-Milano
Descrizione del libro-Andrea Ricciardi- Ferruccio Parri. Dalla genesi dell’antifascismo alla guida del governo-Il volume tratteggia, basandosi anche su carte d’archivio inedite, il percorso politico-culturale e umano di Ferruccio Parri a partire dagli anni Venti. Attivo nel contesto degli ex combattenti della Grande guerra, in seguito al delitto Matteotti Parri prese una posizione radicalmente antifascista che lo condusse in carcere e al confino, anche perché contribuì all’espatrio di Filippo Turati nel 1926. Alla fine degli anni Venti, con la nascita di Giustizia e Libertà fondata dall’amico Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani e Gaetano Salvemini, Parri iniziò la sua militanza attiva nel movimento, lavorando contemporaneamente presso la Edison dal 1933. Sebbene fosse di origine piemontese, Parri, sposato e con un figlio, visse a lungo a Milano. Qui, nel 1942, all’atto della fondazione, aderì al Partito d’Azione divenendone uno dei più prestigiosi dirigenti al fianco di Leo Valiani e Vittorio Foa, oltre che capo del Comitato militare del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Incarcerato dai nazisti all’inizio del 1944, fu liberato dopo una trattativa con gli Alleati e tornò ad essere protagonista della Resistenza a capo del Corpo Volontari della Libertà (CVL) fino alla sconfitta del nazifascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1945 presiedette il primo governo di coalizione dopo la Liberazione: l’esperienza durò meno di sei mesi e si configura come il punto d’arrivo del libro, al quale è direttamente connessa l’appendice documentaria, cui l’autore ha lavorato con Alice Leone. Completa il libro la prefazione di Luca Aniasi, presidente FIAP ‒ Federazione Italiana Associazioni Partigiane.
AUTORE
Andrea Ricciardi, storico contemporaneista, è socio della Fondazione Rossi-Salvemini e Direttore Scientifico della FIAP. Ha collaborato a lungo con l’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, è stato assegnista e docente. Si occupa di storia politica e culturale del Novecento, con particolare attenzione per vicende e figure dell’antifascismo e del movimento operaio. Tra le sue pubblicazioni, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica (Milano, FrancoAngeli, 2007), Paolo Treves. Biografia di un socialista diffidente (Milano, FrancoAngeli, 2018), Sinistra per l’Alternativa. Storia di una corrente del PSI 1976-1984 (Milano, Biblion, 2021) e, con Claudia Fredella, I saperi essenziali di storia (Milano, Giunti, 2021).
Biblion Edizioni
via Giuseppe Govone, 70 – 20155 Milano
Ilse Koch -Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald” Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Appendice e nota di redazione
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e vi trascorse quasi tutta la vita, esclusi i mesi del servizio militare a Roma. L’8 settembre ritorna sulle Langhe, dove combatterà tutta la guerra partigiana, sino alla Liberazione. Si era fatto una profonda cultura letteraria sui poeti e sugli scrittori inglesi, e sulla civiltà anglosassone nel suo complesso, che ammirava come antidoto e rivalsa sulla meschina realtà provinciale del fascismo. Dopo la guerra si impiegò in una ditta vinicola di Alba, per cui tenne la corrispondenza estera. Nell’estate 1962 fu colto dal male inguaribile che lo spense a Torino il 18 febbraio 1963, e che sopportò con stoica fermezza.
Esordí nel 1952 con I ventitre giorni della città di Alba (Einaudi) cui seguí nel 1954 La malora (Einaudi). Nel 1959 apparve il romanzo Primavera di bellezza, diretto riflesso della sua esperienza nell’esercito italiano. Il partigiano Johnny, la grande «cronaca» della guerriglia apparsa postuma da Einaudi nel 1968 ne costituisce il seguito cronologico. Postumi sono apparsi anche il volume di racconti Un giorno di fuoco (che comprende anche il romanzo Una questione privata, Garzanti, 1963) e il romanzo giovanile La paga del sabato (Einaudi, 1969).
Di Beppe Fenoglio Einaudi ha pubblicato: I ventitre giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, L’affare dell’anima e altri racconti, Primavera di bellezza, Una questione privata, Un giorno di fuoco, L’imboscata, Appunti partigiani ’44-’45, Diciotto racconti, Quaderno di traduzioni, Lettere 1940-1962, Una crociera agli antipodi, Epigrammi, Tutti i racconti, Teatro, La favola delle due galline e Il libro di Johnny. Nel 2012, negli ET Biblioteca, è uscita la raccolta Tutti i romanzi.
Beppe Fenoglio-
Nota di Noemi Cuffia-Beppe Fenoglio è uno degli scrittori italiani più grandi, liberi, monumentali e innovatori del Novecento. Uno degli autori di più ampio e solido respiro di tutta la nostra letteratura. Fenoglio è lo scrittore schivo, appartato, stroncato in giovane età, a soli quarant’anni, che però ha rivoluzionato il linguaggio, lo spirito, l’epica e il sentire di più generazioni di lettori. Scriveva e pensava in inglese e poi traduceva. Aveva imparato l’italiano sui libri, perché la lingua madre era il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà.
Fenoglio Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1° marzo 1922. Cresce in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio) e frequenta le scuole. Si iscrive poi alla Facoltà di Lettere di Torino ma nel gennaio 1943 è chiamato alle armi. Nel 1944 si unisce alle prime formazioni partigiane. Pubblicherà solo alcuni suoi lavori di scrittore, poi soccombe alla malattia. Muore il 18 febbraio 1963.
Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno –
-Alle origini della Resistenza armata nel Vicentino. Settembre 1943-aprile 1944
Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno-Cierre Edizioni-Biblioteca DEA SABINA
Descrizione del libro di Giancarlo Zorzanello e Giorgio Fin-Con le armi in pugno-Tra i giovani (soprattutto militari) che dopo l’8 settembre 1943 vollero sottrarsi all’invio in Germania o all’arruolamento nell’esercito della Rsi, diversi decisero di opporsi a tedeschi e fascisti “con le armi in pugno”. Il volume analizza le convinzioni che li animavano e le organizzazioni e i partiti che li sostenevano; come e dove si riunirono i primi partigiani e in particolare il gruppo di Malga Silvagno; la nascita e lo sviluppo del gruppo di Malga Campetto, che mise in atto la “guerriglia di movimento” contribuendo a diffondere la lotta armata; i rapporti conflittuali tra i partigiani di diversa ispirazione e la formazione del battaglione “Danton” di Giuseppe Marozin; la costituzione, verso la fine di aprile del 1944, delle principali formazioni partigiane del Vicentino, che più tardi estesero la loro azione anche nelle province limitrofe. Più che di strategie e tattiche, si parla di storie di persone e luoghi che evidenziano come la Resistenza armata abbia trovato terreno fertile nei giovani contadini e montanari, nella gente delle contrade, nell’ambiente operaio delle fabbriche, in buona parte del clero e degli intellettuali e persino tra le autorità civili e militari-
Cierre Edizioni
Cierre edizioni, nata nel 1990 e con oltre mille titoli in catalogo, si occupa prevalentemente di territorio. A partire dal Nordest, ma con uno sguardo aperto oltre i confini, perché gli orizzonti più affascinanti sono quelli che si stendono a perdita d’occhio. I nostri volumi indagano il paesaggio, naturale e antropico, fisico o immaginato, attraverso la fotografia, la storia, la memoria e la narrazione. Siamo convinti che la conoscenza sia indispensabile per migliorare la qualità della vita e preservare gli equilibri ambientali con la necessaria consapevolezza che comporta ogni patrimonio comune. E crediamo che l’antica forma del libro sia ancora fra le più adatte a promuoverla, per la cura che è necessaria nel produrli e la riflessione che ne richiede la lettura. Cierre edizioni, con la propria autonomia culturale e progettuale orientata a un’editoria di qualità, coltiva da sempre una feconda rete di relazioni fatta di intensi rapporti di collaborazione con centri accademici e di ricerca, istituti culturali e altri attori del mondo editoriale, di cui sono testimonianza periodici come «Venetica», pubblicata dalla rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Veneto e «Terra e storia». Fra gli enti con cui abbiamo collaborato ricordiamo in particolare Unesco, Regione Veneto, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Fondazione Giorgio Cini e numerosi Parchi naturali. Cierre edizioni aderisce a due associazioni di categoria, Associazione Italiana Editori e Associazione Editori Veneti, e in quanto cooperativa è inoltre associata a Legacoop Veneto. Alla storiografia, con incursioni nell’antropologia e nell’analisi linguistica e culturale, è dedicata “Nordest”, ora “Nordest nuova serie”. Una collana di storia a tutto campo ma con un occhio di riguardo alla storia contemporanea, soprattutto per quanto riguarda il regime fascista, l’antifascismo e la Resistenza. Con lo sviluppo dell’interesse verso la storia narrativa, la memorialistica e il resoconto di viaggio sono poi nati i “Percorsi della memoria”, che ospitano il bestseller di Cierre edizioni, Sulla pelle viva di Tina Merlin (1926-1991), il testo più noto sulla tragedia del Vajont. In un ambito di ricerca a cavallo tra culture materiali e immaginario popolare si situa poi la riedizione dei lavori di Dino Coltro (1929-2009), prolifico studioso veronese “sul campo”, di cui Cierre ha pubblicato fra l’altro due grandi opere riccamente illustrate (Mondo contadino e La terra e l’uomo)
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