Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore (Cortiglione, 14 novembre 1925 – Roma, 12 settembre 1998)–E’ stato partigiano a diciotto anni in una brigata Garibaldi del Monferrato. Ha esordito nel giornalismo accompagnando una nave turca che dalla costa ligure trasportava ebrei superstiti dell’olocausto in Palestina. Ha vissuto sette rivoluzioni: Egitto, Argentina, Algeria, Ungheria, Spagna, Portogallo e Cina. Poi l’America di Kennedy e l’Unione Sovietica di Breznev. Ha lavorato per la RAI come inviato, gestendo le sedi di Mosca, di Madrid e di Pechino. Ha filmato venticinque documentari, primo dei quali la versione televisiva di un suo libro, “L’Italiano di Ponte Cayumba”. E’ autore di numerosi libri ricevendo numerosi riconoscimenti, dal premio “Marzotto” 1957, all’”Estense 1981” all’ “Assisi” 1989. Tra le sue opere più famose : “Tien An Men”, “Rapporto da Pechino”, “La croce e il drago”, “Il Kennediano”, “La nave di seta”. Morì nel 1998 mentre stava lavorando ad un libro sul tentato furto da parte dei russi dei progetti per il Concorde. Fu sepolto nel cimitero di Castel di Guido a Roma.Riportiamo qui di seguito due poesie inedite dello scrittore, entrambe le poesie sono dedicate alla madre.
(A una madre)
La leggenda di Angiolina.
Sei piccola ma mi sembravi grande
quando piangevo per venirti in braccio.
Il canto della tortora nel bosco
ti guidava fuori verso la luce
dove volevi che il figlio vivesse
lontano dai lupi di una favola
vera per te, azzannata com’eri
stata sui pascoli di Vallescura.
Sognavo di diventare scrittore
per metterti in un romanzo d’amore;
e pittore per dipingerti donna
di grandezza sovrannaturale,
oppure musicista per comporre
la canzone che potesse suonare
parole e note col tuo nome,
una gloria più lunga della vita.
Dicevi che dopo al Bambinello
veniva il tuo orfano di padre;
e non sapevi che tanto amore
rompeva quelle catene antiche
che non fecero volare uomini
tanto degni da essere tuoi figli.
La leggenda (2)
Dolorosa gloria della tua vita
ogni giorno dentro di me risuona;
ombra calda di estati lontane
nell’aia sotto l’albero di alloro;
e la nebbia della sera dei Morti
e la tua voce sicura accanto al fuoco
col requieterna sconfiggeva.
Restituivi certezze al bambino
che avevi voluto nella pena,
per dare gioia all’uomo che moriva
sulla Croce fatta con le doghe
della sua bottega di falegname.
Due pale di quercia ti lasciava
per farti più forte della spada
che l’aveva trafitto a Caporetto.
Frammento di quercia di quella croce
e filo di ferro di quella spada,
mi mandavi per le strade del mondo
a difendere le cause dei giusti.
Fino ad oggi nessuno ha saputo
che ignota vittoria amara
aveva arricchito di dolcezza
il latte succhiato dal tuo seno.
La tomba di Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Opere
Cose viste in Algeria 1956
Ultimo treno per Budapest 1957
Il Kennediano 1964
La campagna d’Italia fotografata dal pentagono 1965
Passaggio a sud-est 1965
Litaliano di ponte Cayumba 1967
Chi ha ucciso Kennedy 1968
Miss America 1969
Laurenti il terribile 1973
Caviale del Volga 1977
Spia del Cremlino 1977
La Spagna è differente 1980
Mal di Cina 1984
L’espresso di Shanghai 1987
Tien An Men 1989
I ragazzi di Tien An Men 1989
California 1989
Rapporto da Pechino 1990
La Croce e il Drago 1991
La nave di seta 1993
La stanza di Kerenskij 1994
L’uomo di Harbin 1996
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ing.Andrea Natile-La fuga di uno dei ragazzi di via Panisperna-
Ottima famiglia, bell’aspetto, grande giocatore di tennis, avrebbe potuto diventare un professionista, appassionato di pesca subacquea e di sci nautico. Amava le automobili veloci, e in quela fuga dovette abbandonare l’ultima, che lasciò nell’officina del suo meccanico di fiducia per non lasciare tracce dietro di se; uno dei suoi rimpianti. Il rimpianto più grande fu sicuramente lasciare Roma, quella città che aveva condiviso con quei ragazzi.
Non aveva ancora quarant’anni, quando scelse di andare a vivere in quel posto freddo, molto diverso da quelli dove era nato, la Versilia, e poi Roma, dove aveva deciso di andare per studiare Fisica.
Perchè? Lo raccontò in un’intervista a Miriam Mafai, quando ormai aveva ottant’anni. Alla domanda della sua amica giornalista: “Bruno, ti sei pentito di quella scelta fatta quarant’anni fa?” Bruno rispose: “Ci ho pensato molto, non puoi immaginare quanto. Ma non riesco a dare una risposta”.
Bruno Pontecorvo era nato a Marina di Pisa, nell’agosto del 1913, in una famiglia bene di origini ebraiche. I suoi primi studi sono di ingegneria all’università a Pisa, ma poi, superato il biennio, aveva pensato che non faceva per lui: voleva fare il ricercatore. Nel 1931, si trasferisce a Roma, dove insegnava il grande Enrico Fermi.
Fermi e Rasetti, gli fanno il colloquio di ammissione al terzo anno della Facoltà di Fisica. Fu così che entrò a far parte di quel gruppo “i ragazzi di via Panisperna”; aveva solo diciotto anni e per questo lo soprannominarono “cucciolo”. Nel 1934 c’era, quando scoprirono gli “elettroni lenti”: quel cucciolo era entrato nella storia della Fisica che conta.
Nel 1936, era a Parigi con una borsa di studio per studiare con Frédéric Joliot e Irène Curie, che l’anno dopo vinsero il Nobel per la scoperta della radioattività artificiale.
A Parigi Bruno incontrò Marianne, una giovane svedese che divenne poco tempo sua moglie e che gli diede il suo primo figlio Gil.
Era scoppiata la guerra in Spagna e cominciò a interessarsi di politica. Gran parte dei suoi colleghi erano di sinistra, anche Irène e Frédéric Joliot; lui attivo comunista, era membro del governo di Léon Blum.
Nella capitale francese era presente anche suo cugino Emilio Sereni, dirigente del PCI, esule, in Francia, perchè perseguitato dai fascisti. Grazie a lui Bruno stabilì rapporti d’amicizia con gli intellettuali emigrati a Parigi per la politica: si iscrisse al partito.
Dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938 lui, ebreo e comunista, era dovuto restare in Francia. Poi le cose cominciarono a precipitare: nel settembre del ‘39 scoppiò la guerra e nel giugno del ‘40 ci fu l’invasione di Parigi da parte dei tedeschi.
Per gente come lui non c’era più posto nel Vecchio Continente. Con Marianne, decise di lasciare la Francia; scapparono, prima in bicicletta per la Spagna, poi in nave per gli Stati Uniti.
Nell’agosto del 1940, dopo una visita al suo maestro Fermi che era alla Columbia di New York, trovò lavoro in una compagnia petrolifera. Aveva messo a punto una tecnica di introspezione di nuovi pozzi petroliferi, con il tracciamento dei neutroni lenti.
Poco dopo, anche gli Stati uniti entrarono in guerra; era partito il Progetto Manhattan per la costruzione dell’atomica, ma lui non fu coinvolto, probabilmente a causa delle sue idee comuniste.
Nel ‘43 si trasferisce in Canada; lavora a ricerche teoriche nel campo dei raggi cosmici, delle particelle elementari ad alta energia, e aspetta la fine della guerra.
Nel ’47, riprendendo studi condotti anni prima dall’amico Ettore, portò avanti importanti ricerche sulla fisica di quella particella strana, il neutrino di Majorana. Diventò uno dei più grandi esperti del settore.
Nel 1948, su invito di John Cockcroft (Nobel per la Fisica nel ‘51) si trasferì nei pressi di Oxford in Inghilterra e lì prese anche la cittadinanza. Lavorava nell’Atomic Energy Research Establishment, il principale centro di ricerche nucleari voluto dal governo inglese.
Partecipò solo marginalmente al progetto per la costruzione dell’atomica inglese, i suoi studi principali, erano sempre sui raggi cosmici.
In occasione delle sue trasferte scientifiche, aveva conosciuto Klaus Fuchs, il fisico che poco dopo fu condannato per spionaggio in favore dell’Unione Sovietica. Si era nel periodo di “caccia alle streghe” ed è lì che forse maturò la sua scelta di campo.
Nell’estate del 1950 lasciò la sua casa vicino Oxford, senza avvertire nessuno; con la sua famiglia raggiunse l’Italia. Dopo un breve periodo Roma, abbandonò la amata macchina. L’intera famiglia prese un aereo con destinazione Stoccolma e da lì si imbarcò per Helsinki; destinazione Leningrado.
Nascosti nel bagagliaio di due auto i Pontecorvo attraversarono la cortina di ferro. Entrati in Unione Sovietica e giunti a Mosca, furono sistemati in un comodo appartamento in via Gorkij. I sovietici erano gentili, ma inflessibili sulla segretezza: per alcuni mesi furono costretti al più completo isolamento.
Trasferiti a Dubna, a un centinaio di chilometri dalla capitale, dove c’era l’aristocrazia della Fisica sovietica, gli diedero la direzione di una divisione sperimentale di Fisica Nucleare, libero di condurre le sue ricerche.
Nel 1959, per primo dimostrò per via teorica l’esistenza di diversi tipi di neutrini come già aveva ipotizzato nel ‘47. Stava nascendo la fisica dell’alta energia, anche in Russia, ma, con l’acceleratore di particelle di Dubna, troppo poco potente, non riuscì a provare le sue ipotesi per via sperimentale.
Soltanto agli inizi degli anni Sessanta, gli americani Leon Ledermann, Melvin Schwartz e Jack Steinberger confermarono la scoperta del fisico italiano. Questa scoperta valse ai tre fisici il premio Nobel nel 1988. L’esclusione dal premio di colui che per primo aveva l’aveva prevista suscitò lo scalpore di buona parte della comunità scientifica internazionale.
Inammissibile darlo ad un cittadino italiano, scappato dall’Inghilterra, per di più diventato cittadino sovietico dal 1952, che aveva ricevuto il Premio Stalin e faceva parte dell’Accademia sovietica delle scienze.
Per molti anni non poté lasciare l’URSS e riuscì a ritornare la prima volta in Italia solo nel 1978 in occasione del settantesimo compleanno di Edoardo Amaldi. In quello stesso anno comparvero i primi sintomi del morbo di Parkinson che progressivamente, senza mai togliergli lucidità, limiterà i suoi movimenti.
Poi nel ‘93 a Dubna, a causa di quel maledetto male, cadde bruscamente dalla bicicletta e come conseguenza di una brutta fattura morì 24 settembre 1993
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Fjodor Savintsev fotografo: Come in un romanzo, viaggio nelle autentiche dacie russe di campagna.
Il fotografo Fjodor Savintsev ci apre le porte delle casette in legno del villaggio di Kratovo, vicino Mosca, per raccontare e immortalare un patrimonio architettonico fragile e bellissimo. I suoi scatti serviranno a promuovere una fondazione per la tutela delle antiche dacie private che caratterizzano la campagna russa. Sembrano uscite da un film di Nikita Mikhalkov. O da un racconto di Anton Chekhov. Sono le dacie russe di campagna. Casette in legno, solitarie e circondate dal bosco, immerse in un silenzio che sembra irreale. Le dacie russe sono ora al centro di un interessante progetto realizzato dal fotografo Fjodor Savintsev, conosciuto per aver pubblicato i propri scatti su importanti riviste internazionali.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
La pandemia come forma di ispirazione
Il progetto è nato durante i difficili momenti della pandemia; quando la gente era costretta a stare chiusa in casa, o a cercare rifugio nelle proprie dacie di campagna, lontano dalle folle delle città. “Il progetto ‘Le dacie di Kratovo’ prende il nome da un villaggio di periferia vicino a Mosca – racconta il fotografo -. Tutto è iniziato quando sono tornato a casa dei miei genitori per aiutarli nel momenti difficili della pandemia. E così ho iniziato a raccogliere immagini documentarie delle vecchie dacie della periferia di Mosca”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Un viaggio affascinante nel passato. Un passato inciso nelle assi di legno, nelle cornici intagliate delle finestre, nei tetti spioventi che disegnano geometrie fantasiose, spesso frutto del gusto personale degli abitanti che le hanno costruite. Queste casette, infatti, il più delle volte sono state realizzate dalla gente comune, che in passato non si affidava ad architetti e costruttori. Il risultato è un “patchwork” unico di forme e colori.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Mi sono visto come un archivista che raccoglie informazioni e documenti – spiega Fjodor Savintsev -. In teoria, questo lavoro dovrebbe essere fatto da professionisti dell’architettura. Ma ho creato una tendenza affascinante che si è diffusa in diverse città. E noto un interesse crescente nello studio delle dacie a livello storico”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
L’evoluzione dei suoi lavori
Nel corso degli anni l’attenzione di Savintsev si è spostata dai soggetti umani agli oggetti immobili. Un passaggio “fluido”, come lo ha definito lui stesso, mosso dal desiderio di raccontare l’architettura come se fosse un ritratto.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“In generale nella mia carriera hanno prevalso i soggetti umani sull’architettura, ma adesso guardo anche le case attraverso la forma del ritratto. Faccio ritratti di case”, dice Savintsev, che ha sviluppato il suo progetto con un metodo di ricerca molto preciso, percorrendo strada per strada, viuzza per viuzza, alla ricerca di casette in legno da fotografare. Spesso si è messo sulle orme dei proprietari, per raccogliere testimonianze e informazioni sulla storia delle case, da poter poi condividere insieme alle immagini.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Trovare i proprietari non è sempre stato facile: Savintsev si è rivolto al suo vasto pubblico di Instagram chiedendo se qualcuno conoscesse la storia di una particolare casa o dei suoi proprietari.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Instagram è uno strumento mediatico che mi permette non solo di condividere le mie foto con il pubblico, ma anche di costruire legami significativi, dando la possibilità alla gente di contattarmi direttamente. Più di qualche volta infatti sono stato contattato dai proprietari”, spiega.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Per il fotografo documentarista, ottenere l’accesso alle case è di fondamentale importanza; ma spesso la gente si sente in soggezione davanti a obiettivi e macchine fotografiche, perciò Savintsev scatta le sue immagini sempre con lo smartphone.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Viviamo in un’epoca in cui le persone sono morbosamente a disagio quando vedono attrezzature professionali e credono che violino i loro confini privati. L’iPhone non provoca una tale reazione”, racconta Savintsev.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Al momento Savintsev sta aiutando a restaurare cinque case e ha in programma di creare una fondazione per aiutare il recupero delle dacie private. “L’obiettivo è preservare il patrimonio dell’architettura in legno – spiega -. Lo Stato non stanzia fondi per mantenere gli immobili privati, e spesso case come queste finiscono in rovina. Ma sono molto interessanti dal punto di vista del nostro patrimonio culturale, anche se sono di proprietà privata. Quindi, l’idea della fondazione è di aiutare a preservare l’aspetto autentico e originale di queste dacie, anche se private”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
SERGEI ESENIN (1895-1925)-Poeta russo (n. nel distretto di Rjazan´ 1895 – m. Leningrado 1925).Fece parte dapprima a Pietroburgo del gruppo dei poeti contadini e poi dell’immaginismo, una scuola poetica nata a Mosca dopo la Rivoluzione. I suoi primi versi, raccolti nel volume intitolato al rito di commemorazione dei defunti, Radunica (1916), cantano con sommesso lirismo e con toni di umiltà religiosa la campagna attorno a Rjazan´. Esenin accolse la Rivoluzione con entusiasmo, esaltandola in poemi declamatorî e barocchi, quali Preobraženie (“Trasfigurazione”) e Inonija (“Altra terra”) del 1919. Ma ben presto la delusione provata di fronte al dilagare del progresso industriale, che trasformava la primitiva campagna, lo spinse a una vita disordinata di cui è un riflesso nel poema Ispoved´ chuligana (“Confessione d’un teppista”, 1921) e nel ciclo Moskva kabackaja (“Mosca delle bettole”, 1924) che contiene versi allucinati. Invano egli tentò di accostarsi a temi di argomento sovietico; l’alcolismo, la solitudine e la disperazione lo spinsero al suicidio. Egli è in sostanza un continuatore della tradizione di A. Blok, sia per la fluidità musicale dei versi, sia per il gusto della romanza zigana, sia per la sovrapposizione e per il connubio di vita e letteratura.
È inverno-
E improvvisamente,
la neve,
caduta all’insaputa nella notte.
Il mattino comincia con i corvi
in fuga tra i rami tutti bianchi.
È inverno,
inverno a perdita d’occhio.
Così la stagione muta
d’un tratto
e sotto la terra, laboriosa
e fiera, la vita prosegue.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Amo in te
Amo in te
l’avventura della nave che va verso il polo
amo in te
l’audacia dei giocatori delle grandi scoperte
amo in te le cose lontane
amo in te l’impossibile
entro nei tuoi occhi come in un bosco
pieno di sole
e sudato affamato infuriato
ho la passione del cacciatore
per mordere nella tua carne.
amo in te l’impossibile
ma non la disperazione.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Anima mia
Anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà
anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Angina pectoris
Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.
È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris…
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.
Nazim Hikmet- Poeta turco
I tuoi occhi
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che tu venga all’ospedale o in prigione
nei tuoi occhi porti sempre il sole.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya,
sono così, le spighe, di primo mattino;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
quante volte hanno pianto davanti a me
son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi,
nudi e immensi come gli occhi di un bimbo
ma non un giorno han perso il loro sole;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi
gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:
allora saprò far echeggiare il mondo
del mio amore.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
così sono d’autunno i castagneti di Bursa
le foglie dopo la pioggia
e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
verrà un giorno, mia rosa, verrà un giorno
che gli uomini si guarderanno l’un l’altro
fraternamente
con i tuoi occhi, amor mio,
si guarderanno con i tuoi occhi.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Ho sognato della mia bella
Ho sognato della mia bella
m’è apparsa sopra i rami
passava sopra la luna
tra una nuvola e l’altra
andava e io la seguivi
mi fermavo e lei si fermava
la guardavo e lei mi guardava
e tutto è finito qui
Nazim Hikmet- Poeta turco
L’uomo
Le piante, da quelle di seta fino alle più arruffate
gli animali, da quelli a pelo fino a quelli a scaglie
le case, dalle tende di crine fino al cemento armato
le macchine, dagli aeroplani al rasoio elettrico
e poi gli oceani e poi l’acqua nel bicchiere
le stelle
il sonno delle montagne
dappertutto mescolato a tutto l’uomo
ossia il sudore della fronte
la luce nei libri
la verità e la menzogna
l’amico e il nemico
la nostalgia la gioia il dolore
sono passato attraverso la folla
insieme alla folla che passa.
Nazim Hikmet- Poeta turco
.
Ti sei stancata di portare il mio peso
Ti sei stancata di portare il mio peso
delle mie mani
dei miei occhi, della mia ombra
le mie parole erano incendi
le mie parole eran pozzi profondi
verrà un giorno un giorno improvvisamente
sentirai dentro di te
le orme dei miei passi
che si allontanano
e quel peso sarà il più grave.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro-
Nazim Hikmet- Poeta turco
Nazim Hikmet: la poetica libera da ogni reclusione.
E’ il 1902 a Salonicco, quando viene al mondo Nazim Hikmet, in una famiglia aristocratica e privilegiata. Sua madre, un’appassionata pittrice, è una grande amante della poesia francese, specialmente di Baudelaire e Lamartine. Suo padre è un diplomatico, ma anche lui di tanto in tanto butta giù qualche verso e qualche testo in prosa. L’interesse magnetico per la parola, scorre nel DNA della famiglia: persino il nonno di Hikmet ne subisce il fascino e di professione è filologo.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Una vita turbolenta
La vita di Nazim Hikmet è tutt’altro che serena e lineare. Da adolescente frequenta l’Accademia di Marina a Istanbul, che ben presto lascia, trovando la sua strada altrove. La vera svolta arriva quando decide di intraprendere gli studi di sociologia in Russia. All’università di Mosca ha modo di studiare e fare propri i principi di Karl Marx. Inizia a frequentare quelli che saranno i grandi nomi della storia, tra i quali Lenin e Majakovskij e si consacra definitivamente al partito comunista.
Insieme alle sue scelte politiche, arriva anche la definizione di uno dei suoi maggiori nemici per tutta la vita: il governo turco. Le condanne non tardano ad arrivare e caratterizzano lunghi anni della vita di Hikmet, condannandolo a terribili torture e lunghi anni di reclusione in condizioni indegne.
Nazim Hikmet- Poeta turco
Nazim Hikmet e gli anni di reclusione
La prima volta nel 1928 viene arrestato per affissione irregolare di manifesti politici. Dopo dieci anni, torna ancora una volta in carcere con l’accusa di propaganda comunista e complotto contro il governo. Nei dodici anni di reclusione, la vita di Hikmet si alterna tra momenti di febbrile produzione poetica e pesanti tentativi di protesta.
Il più importante è un lungo sciopero della fame, dopo il quale sviluppa i problemi cardiaci che lo porteranno alla morte. Nonostante la reclusione, Nazim Hikmet scrive dei versi memorabili, come il suo capolavoro Poesie d’amore, che inizia in carcere e porta avanti pressoché fino alla sua morte, che coincide con la data di pubblicazione dell’opera stessa.
Nazim Hikmet- Poeta turco
La poetica di Nazim Hikmet
L’amore per la patria e la malinconia per il passato si permeano di un estremo attaccamento alla vita. La presenza costante della speranza, rende la sua opera un inno alla libertà, al rispetto della dignità umana e al suo immenso valore. Attraverso un lessico non troppo ricercato, l’autore delinea dei sentimenti con una delicatezza sbalorditiva, se si pensa alla durezza degli eventi che lo toccano.
Con uno stile eterogeneo, caratterizzato da una visione quasi mistica e al ritmo incalzante della scrittura di avanguardia francese, Nazim Hikmet può essere considerato il più grande poeta turco del secolo scorso.
Gli ultimi anni
Nel 1950 esce dal carcere, grazie all’intervento di una commissione internazionale d’eccellenza formata tra gli altri da Picasso, Tzara e Neruda. Ma dopo i dodici anni di reclusione, il governo continua a opprimere Hikmet, organizzandogli due attentati e costringendolo a un lungo esilio itinerante.
Nazim Hikmet si spegne nel 1963, dopo aver visto i suoi scritti tradotti in molte lingue, tranne la sua. Solo nel 2002, in occasione del centenario della sua nascita, il governo turco gli restituirà la tanto agognata cittadinanza.
Poesie di Achmatova Andreevna Anna- Poetessa russa
Achmatova Andreevna Anna
È flebile la mia voce
È flebile la mia voce, ma non s’affievolisce la volontà.
Sono perfino alleggerita senza amore.
È alto il cielo, spira un vento montano,
e sono casti i miei pensieri.
L’insonnia-infermiera è andata da altri, non languisco sulla grigia cenere,
e la lancetta curva sull’ orologio della torre non mi pare una stele mortale.
Così il passato perde potere sul cuore.
La liberazione è vicina. Io perdono tutto,
seguendo il raggio che di corsa sale e scende sull’umida edera di primavera.
note: (1912) traduzione di Paolo Galvagni
Achmatova Andreevna Anna
A molti
Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,
il riflesso del vostro volto,
i vani palpiti di vane ali…
fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.
Ecco perché amate così cúpidi
me, nel mio peccato e nel mio male,
perché affidaste a me ciecamente
il migliore dei vostri figli;
perché nemmeno chiedeste di lui,
mai, e la mia casa vuota per sempre
velaste di fumose lodi.
E dicono: non ci si può fondere più strettamente,
non si può amare più perdutamente…
Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo,
come vuole la carne separarsi dall’anima,
così io adesso voglio essere scordata.
da “Anno Domini” (1922)
Achmatova Andreevna Anna
C’è nell’intimità degli uomini un confine-
C’è nell’intimità degli uomini un confine
che né l’amore, né la passione possono osare:
le labbra si fondono nel terribile silenzio
e il cuore si spezza per amore.
Anche l’amicizia qui è impotente, e gli anni
pieni di felicità alta infiammata,
quando l’anima è libera e distratta
dal lento languore della voluttà.
Pazzo è colui che vi si appresta,
raggiungerlo è morire d’angoscia…
Ora puoi capire perché non batte
il mio cuore sotto la tua mano.
San Pietroburgo, maggio 1915, tratta da ” Stormo Bianco”
Achmatova Andreevna Anna
Ultimo brindisi
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.
traduzione di Michele Colucci tratta da “Il giunco” (1934)
La musa
Quando la notte attendo il suo arrivo,
la vita sembra sia appesa a un filo.
Che cosa sono onori, libertà, giovinezza
di fronte all’ospite dolce
col flauto nella mano? Ed ecco è entrata.
Levato il velo, mi guarda attentamente.
Le chiedo: “Dettasti a Dante tu
le pagine dell’Inferno?” Risponde: “Io”.
Il salice
Io crebbi in un silenzio arabescato,
in un’ariosa stanza del nuovo secolo.
Non mi era cara la voce dell’uomo
ma comprendevo quella del vento.
Amavo la lappola e l’ortica,
e più di ogni altro un salice d’argento.
Riconoscente, lui visse con me
la vita intera, alitando di sogni
con i rami piangenti la mia insonnia.
Strana cosa, ora gli sopravvivo.
Lì sporge il ceppo, e con voci estranee
parlano di qualcosa gli altri salici
sotto quel cielo, sotto il nostro cielo.
Io taccio….come se fosse morto un fratello.
Tratta da “Il salice” (1940)
Notte del ventuno. Lunedì.
Notte del ventuno. Lunedì.
La città è immersa nel buio.
Un qualche burlone ha scritto
che c’è amore sulla terra.
E per pigrizia o per tristezza
tutti ci hanno creduto. E così vivono:
anelano incontri, temono i distacchi,
cantano amorose canzoni.
Ma diverso si rivela il mistero
e il silenzio calerà su ognuno…
Anch’io mi ci sono imbattuta per caso
e d’allora sono sempre come ammalata.
Achmatova Andreevna Anna
tratta da “Requiem”
Non ho chiuso le tendine
Non ho chiuso le tendine,
guarda dritto nella stanza.
Perché non puoi fuggire
oggi sono così allegra.
Dimmi pure svergognata,
scagliami i tuoi sarcasmi:
sono stata la tua insonnia,
la tua angoscia sono stata.
(1916)
Ogni giorno
Ogni giorno reca con sé
un’ora torbida e tesa.
Parlo con la mia pena a voce alta,
senza aprire gli occhi assonnati.
Ed essa batte come il sangue,
riscalda come il respiro,
come l’amore felice
è giudiziosa e cattiva.
da “La corsa del tempo”, (1917)
Nè mistero nè dolore
Né mistero né dolore
né volontà sapiente del destino:
sempre quell’incontrarci ci lasciava
l’impressione di una lotta.
Ed io, indovinato dal mattino
l’attimo del tuo arrivo,
percepivo nei palmi socchiusi
il morso leggero di un tremito.
Con dita arse sgualcivo
la variopinta tovaglia del tavolo…
Capivo fin da allora
quanto è angusta questa terra.
C’è in me un ricordo
C’è in me un ricordo come un sasso
che biancheggia nel fondo del pozzo.
Né più voglio e non posso lottare:
quel sasso è il dolore,
quel sasso è l’amore.
Se guardi da vicino i miei occhi
subito lo scorgi: ti fai grave e pensoso
come per un triste racconto.
Sento che gli dei han mutato
gli uomini in cose, senza uccidere
la loro imprevidenza, affinché vivano
eterni stupendi dolori. Tu sei diventato
il mio ricordo.
Strinsi le mani sotto il velo oscuro
Strinsi le mani sotto il velo oscuro…
“Perché oggi sei pallida?”
Perché d’agra tristezza
l’ho abbeverato sino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore…
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui sino al portone.
Soffocando, gridai: “E’ stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai”.
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: “Non startene al vento”.
da “Sera” (1911)
La corsa del tempo
Ogni giorno reca con sé
un’ora torbida e tesa.
Parlo con la mia pena a voce alta,
senza aprire gli occhi assonnati.
Ed essa batte come il sangue,
riscalda come il respiro,
come l’amore felice
è giudiziosa e cattiva.
Achmatova Andreevna Anna
“La corsa del tempo” (1917)
Ah, tu pensavi che anch’io fossi una
Ah, tu pensavi che anch’io fossi una
che si possa dimenticare
e che si butti, pregando e piangendo,
sotto gli zoccoli di un baio.
O prenda a chiedere alle maghe
radichette nell’acqua incantata,
e ti invii il regalo terribile
di un fazzoletto odoroso e fatale.
Sii maledetto. Non sfiorerò con gemiti
o sguardi l’anima dannata,
ma ti giuro sul paradiso,
sull’icona miracolosa
e sull’ebbrezza delle nostre notti ardenti:
mai più tornerò da te.
“Anno domini” (1921)
Non è il tuo amore
Non è il tuo amore che domando.
Si trova adesso in un luogo conveniente.
Stanne pur certo, lettere gelose
non scriverò alla tua fidanzata.
Però accetta dei saggi consigli:
dalle da leggere i miei versi,
dalle da custodire i miei ritratti,
sono così cortesi i fidanzati!
E conta più per queste scioccherelle
assaporare a fondo una vittoria
che luminose parole di amicizia,
e il ricordo dei primi, dolci giorni…
Ma allorché con la diletta amica
avrai vissuto spiccioli di gioia
e all’anima già sazia d’improvviso
tutto parrà un peso,
non accostarti alla mia notte trionfale.
Non ti conosco.
E in cosa potrei esserti d’aiuto?
Dalla felicità io non guarisco.
traduzione di Michele Colucci
Le rose di Modigliani
Non berremo dallo stesso bicchiere
l’acqua o il dolce vino,
al mattino non ci daremo baci,
e a sera non guarderemo dalla finestra.
Tu il sole respiri,
io la luna,
ma siamo vivi dello stesso amore.
Con te è sempre la tua gaia compagna,
con me il fedele,
mio tenero amico,
ma vedo lo sgomento di grigi occhi,
e del mio male sei colpevole tu.
Lasciamo radi i nostri brevi incontri.
Così ci è serbata la pace dalla sorte.
La tua voce soltanto canta nei miei versi,
in quelli tuoi spira il mio respiro.
Oh, esiste un fuoco che non osa
toccare né oblio né paura…
e se sapessi come mi son care
ora le tue rosse, aride labbra.
Achmatova Andreevna Anna
Le rose di Modigliani / Anna Achmatova ; a cura di Eridano Bazzarelli. – Milano : Il saggiatore, 1982.
Anna Andreevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966), è stata una poeta russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.
Martha Argerich puoi conoscerla attraverso la sua biografia scritta da Olivier Bellamy: un libro interessante, intrigante e ricco di aneddoti, corredato di cronologia, premi, galleria fotografica, repertorio, discografia e videografia, documentari, indici dei nomi, delle etichette, delle opere citate, dei musicisti, dei cantanti, dei cori, dei luoghi, delle orchestre e degli ensemble che hanno collaborato con la grande pianista argentina.
MARTHA ARGERICH
Olivier Bellamy
MARTHA ARGERICH- L’enfant et les sortilèges-
Presentazione di Carlo Piccardi
pagine XII+356 – formato cm. 17×24 – illustrato
Collana “Personaggi della Musica”, 19 – euro 25,00
Genio del pianoforte”, “miracolo della natura”, “ciclone argentino”, o ancora “leonessa della tastiera”: non mancano certo le definizioni per evocare la dirompente personalità di Martha Argerich. Nata nel 1941, la leggendaria pianista argentina, applaudita sulle scene internazionali da decenni, affascina per la potenza delle sue esecuzioni e per il mistero della sua personalità. Il suo temperamento indomabile, il carattere libero e indipendente ne fanno un personaggio davvero atipico nel mondo della musica classica. In una narrazione costellata di aneddoti inediti e di sorprendenti rivelazioni, Olivier Bellamy dipana le fila di una vita ricca di eventi e di sviluppi imprevedibili: dall’infanzia in Argentina, quand’era bambina prodigio a Buenos Aires, passando per gli studi di perfezionamento dapprima a Vienna con Friedrich Gulda e quindi ad Arezzo e Moncalieri con Arturo Benedetti Michelangeli, per arrivare alle decisive affermazioni del Premio Busoni di Bolzano e del Concorso di Ginevra e all’apoteosi dello “Chopin” di Varsavia, fino agli anni più recenti, caratterizzati anche da momenti di profonda crisi, da rinunce ai concerti e ancora da trionfali ritorni… Di città in città (Buenos Aires, Vienna, Bolzano, Amburgo, New York, Ginevra, Bruxelles, Londra, Rio de Janeiro, Mosca…), attraverso i suoi colleghi musicisti, gli amori, le amicizie, il libro delinea il ritratto intimo di un’artista dalla profonda umanità.
MARTHA ARGERICH
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Virginia Woolf-Pensieri di pace durante un’incursione aerea (agosto 1940)
TOMMASO MONTANARI
TOMMASO MONTANARI:” Nadia Fusini ha tradotto in questi giorni questo testo struggente, e lo ha fatto come atto di resistenza alla guerra: a questa sporca guerra di conquista nazionalista, e ad ogni altra guerra. Pubblicarlo qui oggi è il nostro modo di essere vicini alle donne ucraine sotto le bombe russe, e alle donne russe le cui vite sono ora diversamente distrutte. Nessuno come Virginia Woolf ha saputo esprimere la radicale alterità delle donne rispetto alla guerra: eterno “gioco” bestiale dei maschi, frutto della loro (della nostra) puerile e omicida volontà di potenza. Se qualcuno avesse ancora un dubbio sul fatto che liberarsi dal dominio maschile (nei pensieri, nelle parole, nelle opere) non è un obiettivo (solo) delle donne, ma di tutta l’umanità, questo drammatico 8 marzo di guerra serve a toglierselo una volta per tutte”. (Tomaso Montanari)
Adeline Virginia Woolf
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) –I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa. Cerchiamo di pensare che cosa si può fare per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre in collina i cannoni sparano e i fari tastano le nuvole, e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? Fabbricando armi, oppure vestiti o cibo. Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà senza armi; possiamo combattere con la mente. Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel Times; era una donna che diceva: “Le donne non hanno voce nelle questioni politiche”. Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? Ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari e ai tavoli delle conferenze. Ma rinunciando al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché ci sembra inutile, non priviamo il giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile? Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone magari all’insulto, al disprezzo? “Non cesserò di conbattere con la mente” scrive Blake. Combattere con la mente significa pensare contro la corrente, e non a favore.
La corrente scorre veloce e violenta. Straripa a parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero, che combatte per difendere la libertà. Questa è la corrente che ha trasportato il giovane aviatore fino in cielo, e lo tiene lì, tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas a portata di mano, è nostro compito bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti e due prigionieri stasera: lui imprigionato nella sua macchina con un’arma a portata di mano, noi sdraiate nel buio con una maschera antigas a portata di mano. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o a teatro, o seduti alla finestra a parlare. Che cosa ce lo impedisce? “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero. Va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro rimbombo comincia. “Le donne capaci” così diceva Lady Astor nel Times di stamani, “vengono frenate, ostacolate, sottomesse per via dell’inconscio hitlerismo nel cuore degli uomini”. È vero, noi siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti egualmente prigionieri: gli uomini inglesi negli aerei, le donne inglesi nei letti. Ma se lui smette di pensare, può essere ucciso; e lo stesso vale per noi. E allora pensiamo per lui. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime. È il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e schiavizzare. Perfino nel buio delle tenebre lo si può vedere chiaramente. Vediamo vetrine di negozi che brillano, e donne che guardano, donne truccate, donne vestite di tutto punto ‒ donne con le labbra rosse, le unghie rosse. Sono schiave che cercano di fare schiavi. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, libereremmo anche gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. I vetri della finestra tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, in cima al colle, sotto una rete fatta di pezzi di stoffa verde e marrone, che imitano i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: “Quarantaquattro aerei nemici sono stati abbattuti nella notte, dieci dal fuoco antiaereo”. E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, dev’essere il disarmo. Non ci dovranno essere mai più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani uomini non saranno più addestrati a combattere con le armi. Il che sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello ‒ un’altra citazione: “Combattere contro un nemico reale, guadagnare onore immortale e la gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo della speranza… A questo era stata dedicata finora tutta la mia vita, la mia educazione, la mia formazione, tutto…”.
Queste sono le parole di un giovane uomo inglese che ha combattuto nell’ultima guerra. Davanti alle quali, gli attuali pensatori possono onestamente credere che scrivendo “disarmo” su un pezzo di carta in una conferenza dei ministri avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non farà più il suo mestiere, ma sarà sempre Otello. Il giovane aviatore su in cielo non è guidato soltanto dalle voci degli altoparlanti; è guidato da voci che ha dentro di sé ‒ antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Lo dobbiamo biasimare per questo? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, al comando di un gruppo di politici seduti intorno al tavolo? Facciamo conto che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: “Fare figli sarà ristretto a una piccolissima classe di donne accuratamente selezionate” ‒ lo accetteremmo? O non dovremmo dire: “L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”. Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che la maternità venisse controllata, e l’istinto materno messo a tacere, le donne ci proverebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Le onorerebbero per il loro rifiuto di fare figli. Offrirebbero altre possibilità alla loro potenza creativa. Anche questo deve far parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto. Verso un punto che sta esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei… passano i secondi. La bomba non cade. Ma durante i secondi di attesa, il pensiero si blocca. Anche il sentire si blocca, tranne la sensazione opaca della paura. Un chiodo crocefigge l’essere tutto contro un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è sterile, non fertile. Non appena la paura passa, la mente si riprende e d’istinto rivive e cerca di creare. Siccome la stanza è al buio, creare può soltanto grazie alla memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti ‒ a Bayreuth, a sentire aWagner; a Roma, a passeggiare per la campagna romana; a Londra. Riaffiorano le voci degli amici. Frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, è assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane uomo della perdita della gloria e delle armi, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori accesi sulla pianura hanno finalmente scovato l’aereo. Dalla finestra si vede un piccolo insetto argentato che si gira e rigira alla luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’incursore è stato colpito dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti è atterrato sano e salvo in un campo qui vicino. In un buon inglese, ha detto a chi l’ha catturato: “Come sono contento che il combattimento è finito!”. Al che un uomo inglese gli ha dato una sigaretta, e una donna inglese gli ha dato una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. I riflettori si sono tutti spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo bubbola, volando da un albero all’altro. E mi viene in mente una frase quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese: “Si svegliano i cacciatori in America…”. Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono appena alzati in America, a uomini e donne, il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, nella fede e nella speranza che ci pensino, e generosamente e caritatevolmente le trasformino in qualcosa di utile. E ora, in questa buia metà del mondo, a nanna.
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) è stata una scrittice, saggista e attivista inglese. Tra le principali esponenti della letteratura del XX secolo, è stata attivamente impegnata nella lotta per la parità di diritti tra i sessi.
FONTE-sito web “VOLERE LA LUNA”
– Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche-Tomaso Montanari-
Valeria Arnaldi -“TINA MODOTTI HERMANA” Edizioni Red Star Press
Passione, scandalo, rivoluzione
Tina Modotti: icona, attrice, fotografa, amante e rivoluzionaria.
Nata a Udine nel 1896, operaia in fabbrica, emigrata negli Stati Uniti con il primo marito, il pittore francese Roubaix “Robo” de l’Abrie Richey.
Un promettente esordio a Hollywood nel film The Tiger’s Coat (1920) dove la critica ne esalta il fascino esotico.
Nel 1921 l’incontro fatale con il grande fotografo Edward Weston, di cui diviene la modella prediletta, poi l’amante e infine l’assistente.
Dopo la Los Angeles del cinema c’è il Messico della Rivoluzione.
Assieme a Weston frequenta i circoli dei muralisti, entra in contatto con Diego Rivera prima, e con Frida Kahlo poi, con la quale consuma una relazione scandalosa e appassionata.
Nel 1929 inaugura una sua personale a Città del Messico che viene definita «la prima mostra fotografica rivoluzionaria».
Poi è tempo di altri amori, di altre passioni: finisce a Mosca, viene arruolata dai servizi segreti russi.
Corre a combattere in Spagna a sostegno della Repubblica, con il suo nuovo amante, Vittorio Vidali.
Conclusa l’esperienza spagnola torna in Messico, si fa il suo nome in relazione all’assassinio di Lev Trockij.
Gli avvenimenti storici iniziano a farsi confusi, la vita accelera nella corsa al traguardo.
Il corpo senza vita viene ritrovato il 5 gennaio 1942. Aveva 46 anni.
Sulla sua lapide una poesia composta per l’occasione da Pablo Neruda inizia così: Tina Modotti hermana…
Pagine 272-Formato 13×20 cm, oltre 100 immagini-Collana Bizzarro Books- ISBN 9788867181315
Arnaldi Valeria
L’Autore-Valeria Arnaldi- Giornalista professionista, critica d’arte e scrittrice, collabora con testate italiane e straniere e organizza mostre d’arte contemporanea.
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
00147 Roma, Italia
Tel: 391 1060 090
E-mail: info@redstarpress.it
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