Paolo Ricca il libro «Dio. Apologia» presentato a Torre Pellice-
Articolo di Peter CIACCIO
Torre Pellice -21 agosto 2022-Ripartire da Dio, rimettere Dio al centro delle riflessioni e delle vite degli individui e delle chiese: di questo si è parlato alla vigilia dell’Assemblea-Sinodo, sabato 20 agosto, nella Galleria comunale “Filippo Scroppo”, prestigioso sfondo dell’affollata presentazione di «Dio. Apologia», dodicesimo volume della collana “I libri di Paolo Ricca” dell’editrice Claudiana. L’autore è stato introdotto dalla pastora battista Lidia Maggi, che ha presentato il testo come una mano tesa, che racconta sinteticamente il mondo che ha cercato di emanciparsi da Dio e la visione su Dio delle altre religioni. In mezzo c’è una riflessione che guarda all’orizzonte biblico, per recuperare una “grammatica” per parlare di Dio. C’è, infatti, sottolinea Maggi, una sorta di analfabetismo di ritorno sulla Bibbia. Per affrontare la questione di Dio, Ricca ha scelto di impreziosire il libro con una struttura insolita per un saggio di teologia, prevedendo un “preludio”, un “interludio” e un “postludio”, ovvero citazioni da testi importanti della critica al Dio dei cristiani, della risposta della chiesa e della cultura ebraica contemporanea.
«Dio è un artista. Dio è un poeta», così ha esordito Ricca nel suo intervento, lamentando quanto poco consideriamo l’arte, uno dei modi attraverso cui Dio parla. «Il libro nasce da un’impressione: la chiesa non parla più di Dio. Non la Chiesa valdese o la Chiesa cattolica, ma nessuna chiesa. Spero di sbagliarmi». Certo, ma come si fa, quando un tratto fisso, a esempio, dei profeti è l’inadeguatezza e indegnità a parlare di Dio?
Ricca osserva che la chiesa è più occupata a parlare del proprio operare, su ciò che si è fatto e ciò che bisogna fare, ma «Gesù faceva diaconia dalla mattina alla sera e sette giorni su sette; neanche il Sabato si fermava; ma non ne parlava mai. Quando parlava, Gesù parlava del Regno di Dio». Non senza una certa dose di (amara) ironia, l’autore rileva che gli atei parlino con più passione di Dio (pur per screditarne la fede) rispetto ai cristiani, un po’ come «gli omosessuali sono più appassionati del matrimonio rispetto agli eterosessuali».
Ma chi o che cosa intende difendere l’autore con questa “apologia”? Non certamente Dio, che non ha necessità di essere difeso, e che anzi difende gli esseri umani, ma la fede cristiana, che Ricca ritiene essere una cosa buona, da coltivare e trasmettere: «mi fa una pena infinita vedere le chiese vuote. Piango su questa sconfitta. Quando vedo conventi che diventano hotel a cinque stelle, luoghi di preghiera che diventano luoghi di lusso, non posso accettarlo». Per questo il libro è una preghiera rivolta ai credenti a non buttare via un’eredità lunga secoli.
Nel corposo testo di 411 pagine, Ricca dà conto della critica a Dio e alla religione, tratto tipico ed esclusivo dell’Occidente dall’Ottocento in poi. Sono critiche di cui tenere conto, che devono poter essere espresse e che sono il prezzo della libertà. «Perché Salman Rushdie deve morire? Per noi è inaccettabile». Poi l’autore si sofferma su che cosa dice la Bibbia di Dio, convinto che molti abbandonino Dio perché non lo conoscono e, per i cristiani, Dio si conosce attraverso la Scrittura.
In conclusione, Lidia Maggi riflette su una società che è passata dal mito di Prometeo (l’essere umano che ruba il fuoco agli dei, emancipandosene) al mito di Narciso «pronti ad ascoltare solo l’eco di sé stessi: una società dove è difficile capire come farsi ascoltare, anche quando si parla di Dio». La struttura del libro è stata richiamata dall’accompagnamento musicale di Sebastiano Reginato al violino, che durante la serata ha offerto un preludio, un interludio e un postludio.
Foto di Pietro Romeo: Paolo Ricca
Fonte-Riforma.it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Nina G. Jablonski,NELLA PELLE DELL’ALTRO, Saggio edito da Bollati Boringhieri.
Articolo di Esperance H. Ripanti
Nina Jablonski arriva in Italia con un saggio illuminante che aiuta a riflettere su un tema dibattuto ma mai affrontato così a fondo: la pelle. Tra preistoria, vitamina D e pregiudizi.
Quanta importanza ha avuto il colore della pelle negli anni? Quante descrizioni? Quali ruoli? Quante discussioni? Quale valore profondo e decisivo l’essere umano del passato e del presente gli ha attribuito? L’antropologa Nina Jablonski (Hamburg, NY, 1966) dopo anni di docenza presso la Pennsylvania State University e numerose ricerche sulla pigmentazione della pelle umana ha scritto un testo chiaro ed esaustivo sull’argomento. Colore vivo (Bollati Boringhieri, 2020) è stata una gradevole novità sugli scaffali della divulgazione scientifica e sociologica. Un trattato, una guida per incamminarci – privi di preconcetti e diffidenza – nel lungo e complesso cammino all’interno della pelle umana.
Un lavoro accademico che da anni si incrocia con la battaglia di sensibilizzazione verso tematiche fondamentali per il mondo occidentale attuale: la diversità e il razzismo. Con Colore vivo l’antropologa statunitense studia e narra nel dettaglio la storia dell’evoluzione della pigmentazione cutanea. Lo fa attraverso la storia; partendo dalla preistoria studiata sui libri da tutti e seguendo con un filo immaginario, ma sempre preciso e chiaro, le migrazioni e le modifiche delle diverse popolazioni in base ai territori scelti, all’esposizione solare e alle abitudini quotidiane. Un viaggio cronologicamente affascinante ed educativo. La possibilità di riguardarsi indietro e comprendere o riscoprire nozioni non solo biologiche o storiche ma anche sociali, umane.
Come il colore della pelle condiziona tutt’ora la società e i comportamenti tra le diverse popolazioni? Quanto influisce nei rapporti, nelle relazioni e nella quotidianità sempre più “mescolata”? Jablonski riesce a rispondere a queste domande con rigore accademico ma senza mai dimenticare l’idea di divulgazione. Immagini, box di approfondimento e curiosità tengono compagnia il lettore per tutta la durata della lettura. E seppur l’impatto visivo risente leggermente delle immagini in bianco e nero, la scrittura del testo è costantemente efficace e immediata. Si passa dall’aspetto biologico al piano storico con naturalezza, senza mai tralasciare gli aspetti comportamentali e scientifici legati proprio alla questione “colore della pelle” che negli anni sono sfociati poi in vere e proprie discriminazioni razziali.
Un testo accessibile, una lettura che arricchisce e non si dimentica di aiutare il lettore italiano ad entrare in punti di vista lontani e differenti; ragionamenti che da occidentale e in maggioranza portatore di pelle bianca, caucasica non è portato a fare. Nei capitoli “Aspirare al bianco” e “Desiderare il nero” è illuminante l’esercizio che la scrittura e le nozioni riportate dall’antropologa permettono di fare a chi è profondamente convinto di non aver alcun tipo di pregiudizio razziale o di essere vissuto in un ambiente privo da esso. Jablonski con Colore vivo riesce a far entrare il lettore curioso nella pelle dell’altro e ad aumentare la consapevolezza dell’involucro che ci protegge e ospita in tutte le nostre diversità e bellezze.
Colore vivo, Nina G. Jablonski, Bollati Boringhieri, 2020, 352 p., 25 euro
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Carcere. La scrittura come strumento di scavo interiore
Articolo di Alberto Figliolia
Milano Opera
-Nella casa di reclusione di Milano Opera la poetessa Silvana Cerutifondò il Laboratorio di lettura e scrittura creativa –
R come Rabbia, Rimpianto, Rimorso. Potrebbe essere…la sindrome della triplice R. Ma anche R come Riabilitazione, Rinnovellamento, Rinascita. Che cosa prova una persona in carcere? Prigioniera della colpa, la libertà perduta, le relazioni familiari troncate, le conseguenze del reato, con ogni probabilità a devastarti, poiché la coscienza è ineliminabile in ogni individuo – foss’anche per un residuo lumicino; e il tempo che muta in variabile impazzita: infinito e piatto e, nel contempo, un circolo chiuso come un loop senza senso, senza scopo. La detenzione per aver commesso un reato e la successiva sentenza privano l’individuo della libertà – e questa è la pena –: non della dignità né della possibilità del suo pieno recupero come cittadino, come soggetto sociale.
Perché non usare la scrittura come strumento di scavo interiore, di riacquisizione di consapevolezza, di inclusione sociale, di ripristino di un cammino esistenziale non più storto? Questa è l’idea veicolata dal Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo nel Carcere di Opera e fondato 28 anni or sono dalla poetessa Silvana Ceruti. Il Laboratorio, nell’ambito delle sue attività, produce ogni anno con i versi delle persone detenute un Calendario poetico-fotografico a tema: per il 2022 Aria. Acqua. Terra. Fuoco (prefazione di Elena Wullschleger Daldini e immagini di Margherita Lazzati).
Il Calendario rappresenta una riappropriazione virtuosa anche dei propri ricordi (altre “erre” virtuose) ma, oltre che specchio personale, è un osservatorio sul mondo esterno dal quale si è apparentemente esclusi, almeno dal punto di vista fisico (vi sono muri di cemento, ma anche muraglie di pregiudizi). Il pensiero e i sentimenti non possono tuttavia essere fermati da cemento e sbarre, e un tramonto ha sempre tutta la sua sconvolgente bellezza capace di impregnare pure l’anima di chi è in carcere.
Sono stato parte dell’universo/ Sono stato un atomo/ Sono stato terra/ Sono stato acqua/ Sono stato fuoco/ Sono stato luce/ Sono stato un germe/ Sono stato un albero/ Sono stato un animale/ Sono stato un uomo sapiente/ Sono stato un saggio/ Sono stato un uomo/ Sono stato un libero pensatore/ Sono stato membro di una cultura/ Sono stato un fuorilegge/ Sono stato vivo e libero/ Sono stato prigioniero di me stesso/ […] Sono stato un morto/ Sono ritornato alla terra/ Sono stato polvere/ Torno ad essere atomo/ Origine mai definita/ Sono invisibile/ Senza corpo/ Senza cuore/ Ma sempre parte dell’universo/ Scoprendo che è sempre stato in me. Questa poesia, opera di Filippo, apre il Calendario. Filippo è morto, ma ha lasciato con tali versi un testamento spirituale oltremodo commovente, un viatico di speranza per tutti. Nessun uomo è un’isola, è stato scritto. Quanto è vera quest’asserzione!
Ti prego, rondine benedetta, vola, sfreccia nei miei pensieri, non migrare più!/ Chiedimi tutto: sarò cieli esotici, equatoriali; sarò cibo che tu m’insegnerai; sarò trasparente per non incuriosirti, per non intimorirti./ Mi nasconderò in una lacrima di gioia, finta goccia di pioggia nella pioggia; lacrima di stupita emozione nel diadema di perle di rugiada, finta perla di rugiada sulla foglia vanitosa./ Costruisci il tuo nido nell’ombra delle mie malinconie e rallegrale del coro giocoso della tua prole preziosa. È la magnifica prosa lirica di Franco: uno sguardo libero, un sentimento panico, di rara suggestione, incantata meraviglia innanzi alla forza del Creato, della Natura, più grande di noi umani, che talora sembriamo voler uscire dal suo eterno ciclo.
Di tempo che è trascorso, di ricordi/ è pieno il vento/ con i passi dell’amore si avvicina/ e spira il vento/ […] Da qualche parte nasce, da qualche parte muore/ lo osservo e lo catturo in gabbie di pensiero/ lo saturo d’amore e te lo mando come falco messaggero. La chiusa è di Domenico, con il vento che soffia spingendo le caravelle delle nubi nel vasto cielo sotto cui soffriamo e gioiamo o fra le fronde degli alberi traendone impreviste note musicali, ciò che non dovrebbe far dimenticarci il dono della vita che ci è stato dato in sorte.
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Carcere. La scrittura, strumento per lo scavo interiore
di Marta D’Auria-
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
MILANO-28 marzo 2022 Intervista ad Alberto Figliolia, coordinatore del Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo da quasi un trentennio pressi la casa di reclusione di Milano Opera
28 anni fa nella casa di reclusione di Milano-Opera – la più grande delle 208 carceri italiane – la poetessa Silvana Ceruti fondò il Laboratorio di lettura e scrittura creativa ancora oggi attivo. Da 16 anni vi partecipa attivamente Alberto Figliolia, autore, giornalista pubblicista, già collaboratore di svariate testate e quotidiani nazionali.
«L’esperienza è iniziata per caso. Ero stato incaricato da un giornale con il quale collaboravo, di seguire in una libreria di Milano un’iniziativa del Laboratorio di lettura e scrittura creativa che già esisteva ad Opera da una dozzina di anni. Rimasi molto colpito dai contenuti e dall’atmosfera di quell’incontro. Dopo la pubblicazione del mio articolo, fui contattato dalla signora Silvana Ceruti, alla quale dissi che, come autore, avrei volentieri potuto dare un contributo al laboratorio. Così vi andai una prima volta. In quanto giornalista ero già entrato in un carcere, ma fui conquistato dalla capacità di ascolto dei volontari, dalla maniera di proporre la scrittura e la poesia ai detenuti. Vi tornai una seconda, e poi una terza volta. Da allora è cominciata la mia collaborazione che dura da sedici anni. Tanti incontri, tante cose nella vita accadono per caso e poi si rivelano molto fecondi per il proprio panorama esistenziale».
– Cosa avviene durante il Laboratorio di scrittura e lettura creativa?
«Ci incontriamo ogni sabato e durante i nostri incontri ascoltiamo quello che i detenuti hanno scritto durante la settimana, o anche scritti e poesie che noi autori proponiamo; facciamo esercizi di scrittura utilizzando varie metodologie; poi, dopo aver raccogliamo il materiale particolarmente riuscito dal punto di vista formale, produciamo delle antologie con un editore di riferimento che ha sposato il progetto. Sono stati pubblicati due libri di poesie in forma di preghiera, e ogni anno realizziamo un Calendario poetico-fotografico a tema: per il 2022 Aria. Acqua. Terra. Fuoco (prefazione di Elena Wullschleger Daldini e immagini di Margherita Lazzati). Il Calendario rappresenta una riappropriazione virtuosa anche dei propri ricordi, ma, oltre che specchio personale, è un osservatorio sul mondo esterno dal quale si è apparentemente esclusi, almeno dal punto di vista fisico (vi sono muri di cemento, ma anche muraglie di pregiudizi). Il pensiero e i sentimenti non possono tuttavia essere fermati da cemento e sbarre, e un tramonto ha sempre tutta la sua sconvolgente bellezza capace di impregnare pure l’anima di chi è in carcere. È una grande soddisfazione per i detenuti vedersi pubblicati – lo sarebbe per chiunque! –, traspare in loro la sensazione di aver combinato qualcosa di buono e di bello: in una vita magari storta, finita dentro, allontanati dalla società, scoprono di riuscire a scrivere qualcosa che può arrivare al cuore anche di chi è fuori. La scrittura ha la doppia funzione etica ed estetica. Nel laboratorio cerchiamo di insegnare in maniera orizzontale, democratica, di incentivare anche la lettura. Attraverso la scrittura e la lettura i detenuti vivono scampoli di felicità, c’è un recupero di consapevolezza che è veramente importante».
– Quali frutti quest’esperienza ha portato nella sua vita?
«La partecipazione al laboratorio è stata per me fondamentale: mi ha dato una visione più ampia dei fatti e dell’essere umano. Trovarsi in una realtà così dura, pesante per chi la deve vivere o subire, ti costringe a riconsiderare le cose della vita sotto un’ottica diversa, e a capire che ci può essere un’altra via, che per un cristiano può essere il perdono, e che laicamente è il tentativo di restituire alla società queste vite che hanno spezzato vite, relazioni, ma sono state anche spezzate, avendo il reato conseguenze sugli altri ma anche su se stessi. La scrittura allora può essere un grande strumento per lo scavo interiore, per recuperare parti di sé, per rielaborare i sentimenti negativi, distruttivi, o autodistruttivi, per riacquisire consapevolezza, per ripristinare un cammino esistenziale non più storto. Tutto è anche patrimonio degli insegnanti volontari perché quello che avviene durante il Laboratorio è un flusso non univoco ma reciproco che ti consente di avere uno sguardo forse un po’ più acuto sulla realtà, dove non è sempre netta la distinzione tra ciò che è bene e ciò che male, ma dove ci sono le persone con la loro dignità, con il loro vissuto, con i loro errori, persone che possono imparare dai propri errori, non si passa infatti indenni attraverso questo corridoio di dolore che è il carcere. Come essere umano sei costretto a confrontarti con questo universo di sofferenza e impari a sviluppare una vista diversa sulle cose del mondo, impari a discernere, o comunque ad alimentare dubbi, che possono essere fecondi. È importante continuare a porsi domande, soprattutto quando l’opinione pubblica ha risposte facili, preconfezionate, dettate dalle mode o dagli impulsi di pancia. Nelle attività che organizziamo nell’ambito del laboratorio, cerchiamo anche di sondare i pregiudizi che albergano in tanti sulla condizione carceraria e sulle persone che sono recluse. È un’esperienza forte, impegnativa, di responsabilità, che ti succhia anche tante energie dal punto di vista emotivo, ma che è anche estremamente arricchente dal punto di vista umano».
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
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