Roma Municipio XIII-XIV-Ass. Cornelia Antiqua- Narrare il passato
-IL PONTE sul FIUME ARRONE –
Il fiume Arrone
Il vecchio ponte sull’Arrone , oramai in disuso , pavimentato ancora con il suo selciato originale ; incorporato nel parapetto si trova un blasone nobiliare medievale in marmo e poi vi sono ancora installate le vecchie paratie, vera archeologia industriale, le quali servivano per regolare il flusso dell’acqua destinata all’irrigazione della campagna romana circostante.
BREVI NOTIZIE SUL FIUME ARRONE IL CONFINE TRA ROMA E FIUMICINO.
Stemma sul PONTE sul FIUME ARRONE
L’Arrone è un fiume del Lazio; scorre nella provincia di Roma, è lungo 35 chilometri, nasce nella parte sud-orientale del lago di Bracciano ad Anguillara Sabazia e sfocia a Fiumicino nel mar Tirreno tra Maccarese e Fregene. Il bacino misura 125 km² di superficie. Pur configurandosi emissario del lago di Bracciano, il contributo del lago alla portata del fiume è esiguo, e in alcuni mesi dell’anno del tutto nullo. Nell’alto bacino sono presenti le sorgenti dell’Acqua Claudia. Dall’estremità sudorientale del lago, a quota 164 metri slm, il fiume si dirige da Nord Ovest a Sud Est per circa 3 km, poi si dirige a Sud per 12 km e quindi a Sud Ovest fino alla foce. In questo tratto confluisce il Rio Maggiore, affluente di destra. Subito a valle di questa confluenza il bacino dell’Arrone è attraversato dalla Strada Statale Aurelia. Alla foce è presente un prezioso ambiente umido che, insieme a tutta l’area contigua coperta da macchia mediterranea detta Bosco Foce dell’Arrone, fa parte della Riserva naturale Litorale romano.
FIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
TORRE di MACCARESE-nota anche come TORRE PRIMAVERA o di FREGENE
La Torre di Maccarese si trova a circa 500 metri dalla foce dell’Arrone, sulla sponda sinistra. La Torre fu costruita probabilmente . al pari di quella di Palidoro nota come Torre Perla, per difendere la foce del fiume dagli sbarchi dei saraceni.
Il fiume Arrone
CURIOSITA’
“Sulle rive dell’Arrone” è il titolo di una canzone di Daniele Silvestri, contenuta nell’album “Il Latitante” (2007), in cui si parla della prospettiva, raggiungibile dalle rive del fiume, con cui si riescono a vedere diversamente le cose. All’Arrone accenna in tutt’altri termini lo spettacolo teatrale “Storie di scorie” di Ulderico Pesce, in cui si affronta il problema delle scorie nucleari, come quelle stoccate nel deposito nucleare alla Casaccia che avrebbero contaminato in passato anche il fiume, con danni incalcolabili all’ambiente.
Foto originali nota dalla Monografia TORRI SEGNALETICHE e SARACENE della Campagna Romana di Franco Leggeri
Il fiume ArroneFIUME ARRONEFIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre PrimaveraIl fiume ArroneFIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre PrimaveraIl fiume ArroneFIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre PrimaveraIl fiume ArroneIl fiume ArroneIl fiume ArroneCasale Panphilj sito nel Borgo di Testa di Lepre di Sotto in via dell’Arrone
Il Castello di Boccea sorge sul “fundus Bucciea” che domina la valle del fiume Arrone e il fondo denominato anticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea). Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana (Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone,Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria. – articolo e foto di FRANCO LEGGERI
Castello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di Boccea
Roma- Articolo e xilografia del 1883-La nostra Signora ama , si vede, la solitudine e le vie non battute . Sfidando il sol leone , s’è cacciata in mezzo al campo biondeggiante di spighe . Cammina , cammina noncurante. Quanto strazio fanno i suoi piedini crudeli! Quanti gambi scavezzati , quante spighe schiacciate ! Ma ella non ci pensa ; aspira con voluttà l’aria pura dei campi ; gode di un po’ di libertà , lontana dalle noie e dai rumori cittadini; mentre il suo sguardo vaga nei prati verdi , o segue le capricciose curve dei monti lontani , l’orecchio ascolta misteriosi e delicati concerti degli uccelli, e i bisbigli delle aure fra i rami .
LA BONIFICA DI PORTO E MACCARESE- AGRO ROMANO 1934
Rapporto “velina del 1934 –Anno XII E.F.”
Dalla vasta pianura alluvionale in mezzo alla quale scorre per gli ultimi 14 Km. il fiume Tevere, fa parte il comprensorio della bonifica di Porto e Maccarese.
Questo; che fu un tempo di numerosi acquitrini e di boschi pantanosi che coltivavano la delizia dei cacciatori d’ogni parte d’Italia si estende per ettari 10.186 tra la destra del Tevere ed il fosso delle Pagliete o Tre Denari e tra il mare Tirreno e le colline retrostanti la ferrovia Roma-Pisa.
La bonificazione di tale zona fu iniziata a cura diretta dello Stato fin dal ’90-(1890); ma i criteri all’ora adottati nel progettare i lavori erano stati troppo restrittivi perché i risultati potessero essere soddisfacenti.
Nel 1926 in base a nuovi progetti che prevedevano il rifacimento delle vecchie opere e la esecuzione di tante altre fu ripresa con lena Fascista il bonificamento della zona e nello spazio di pochi anni ( dal ’26 al ’30) le opere idrauliche furono ultimate.
Tra le principali opere eseguite dell’anzidetto periodo vanno ricordate: a) l’approfondimento di tre colatori principali delle acque basse, per metri 1,80 sotto il vecchi fondo con conseguente aumento della sezione; b) l’approfondimento di tutti i canali secondari delle acque basse; c) costruzione di una rete di canali terziari; d)ampliamento dello stabilimento idrovoro, con la sostituzione di elettropompe alle vecchie macchine a vapore; e) costruzione dello stabilimento idrovoro della Torre della potenzialità di 300 litri al secondo con n.2 di prevalenza; f) opere stradali; g)impianto irriguo comprendente il sollevamento delle acque del Tevere fino alla prevalenza di m.3.90 e portata di mc.6 al secondo.
La rete di canali di scolo primari e secondari sistemati o escavati ex novo, hanno raggiunto lo sviluppo complessivo di km.123; i canali d’irrigazione Km.63; le strade massicciate Km. 101; i ponti n. 134.
Maccarese -Impianto Idrovore- foto del 1895
P.S.-1934 AGRO ROMANO LA BONIFICA DI PORTO E MACCARESE- AGRO ROMANO 1934
Interessante velina propagandistica, con ogni probabilità proveniente da un’inchiesta del PNF, che riassume nel dettaglio le varie tappe dell’imponente opera di bonifica nell’Agro Romano, con particolare riguardo alla fascia costiera di Porto e Maccarese:
“… Questo, che fu un tempo sede di numerosi acquitrini e di boschi pantanosi che costituivano la delizia dei cacciatori… fu ripreso con lena fascista il bonificamento della zona e nello spazio di pochi anni le opere idrauliche furono ultimate… per opera della Società Maccarese proprietaria di circa metà del comprensorio di bonifica…”.
Ricerca storica e Foto originali sono di FRANCO LEGGERI per WWW.ABCVOX.INFO
Maccarese -Lavori di disboscamento 1925-Maccarese -Località “LE PAGLIETE” prima del 1925Maccarese -Operazione Aratura con trattori del terreno bonifica 1930-Maccarese -Operazione Falciatura con trattori del terreno bonifica 1930-Maccarese -Operazione manuale di livellamento del terreno 1928-Maccarese -Scavo di un Canale 1926-Maccarese -Centri Agricoli della bonifica -Foto aerea del 1930-Canale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESECanale di Bonifica di MACCARESE
Brucia. Brucia il peccato. Brucia il lusso. Brucia il vizio. Brucia il demonio. Brucia la depravazione. Brucia la perdizione.
Brucia la febbre di conquista, nel volto di Girolamo Savonarola (1452-1498): il rivoluzionario, il moralizzatore, il profeta dei Piagnoni.
Le fiamme illuminano i suoi occhi spiritati, quasi in estasi di fronte a quello spettacolo di purificazione.
È il 7 febbraio 1497 e nel grande falò al centro di Piazza della Signoria bruciano migliaia di oggetti: specchi, cosmetici, vestiti di lusso, arpe, bombarde, cetre, chitarre, liuti, ciaramelle, cornamuse, flauti, ghironde, vielle, e ancora dadi, profumi, livree, parrucche, carte da gioco, libri immorali, manoscritti con canzoni profane, dipinti.
Sandro Botticelli ammira i suoi capolavori ardere: errori di gioventù finalmente riparati, opere infamanti che non infangheranno più il suo buon nome.
Dipinti pagani, che ritraggono figure mitologiche e che parlano di sensualità e di passione: Venere, Marte ed Ercole bruciano nel rogo. Brucia il mostruoso Centauro, bruciano i satiri giocherelloni.
Brucia il suo passato di peccato alla corte dei Medici, brucia la vergogna di artista cortigiano foraggiato dalla borghesia fiorentina; brucia per sempre l’epoca in cui dipingeva cicli ispirati al Decameron di Boccaccio e opere piene di allegorie pagane, brucia l’esaltazione del trionfo della vita.
Un-altro-falò-delle-vanità-
Girolamo Savonarola (Fra Bartolomeo, 1498, olio su tavola, Museo nazionale di San Marco, Firenze)
Per anni Sandro aveva prestato la sua arte per celebrare matrimoni e allietare banchetti di vino ed orge.
Poi era arrivato Savonarola ed era morto Lorenzo il Magnifico, e tutto era cambiato. Tutte le vecchie sicurezze si erano infrante, il trionfo della vita aveva lasciato il passo all’annuncio della morte e del giudizio finale e Sandro si era sentito profondamente colpevole per aver dato volto a quel magistero artistico tanto aspramente condannato dal “santo frate”.
Così, in questo martedì grasso che non era mai stato così magro, e terrificante ed esaltante, lo stesso pittore è corso alla sua bottega per fare razzìa delle sue opere e gettarle nel rogo.
Si guarda intorno e percepisce un’eccitazione generale.
È un’antica usanza, a Firenze, quella di accendere il grande falò per l’ultimo giorno di carnevale: tutto il popolo si adopera per portare in piazza legna, frasche e paglia, e poi lasciarsi andare a danze orgiastiche per tutta la notte.
Savonarola ha deciso di rispettare l’usanza anche quest’anno, ma con una piccola differenza: perché oggi saranno proprio le orge a bruciare sul falò: orge di ogni genere. Ogni forma di lascivia e impudicizia è destinata a finire nel grande rogo: che siano statue di uomini e di donne nudi o quadri dei grandi maestri del tempo, o strumenti musicali, o libri, o canzonieri. Ognuno porta ciò che vuole, e gli artisti stessi fanno a gara per purificare le proprie opere.
Baccio della Porta ha portato tutti i suoi disegni di studi sul corpo umano.
Ha 24 anni e in città è molto amato “per la virtù sua – scrive Vasari – assiduo al lavoro, quieto e buono di natura et assai timorato di Dio”. A Bartolomeo piace la vita quieta e fugge le pratiche viziose e molto gli dilettano le predicazioni, e cerca sempre “le pratiche delle persone dotte e posate”. Naturale, quindi che si sia letteralmente invaghito di Savonarola, tanto da essere spesso ospite nel convento dei frati domenicani, con cui ha stretto amicizia al punto che dopo la morte di Girolamo arriverà a farsi egli stesso frate domenicano. Sta anche preparando un ritratto del grande predicatore e ora ammira soddisfatto trasformarsi in cenere i suoi disegni in cui compaiono le figure nude di uomini e donne.
Al suo fianco, Lorenzo Di Credi osserva le fiamme con il sorriso tra le labbra. Allievo di Verrocchio e amico del Perugino e di Leonardo da Vinci, si è fatto conoscere con opere di arte sacra come la Madonna di piazza e L’Annunciazione, ma non aveva disdegnato di accettare committenze profane come il Ritratto di Caterina Sforza e la Venere. Ma il passato è alle fiamme, ormai. E nel suo futuro c’è solo il fervore religioso.
Un altro falò delle vanità (San Domenico e gli Albigensi) è ricordato nel dipinto del pittore spagnolo Pedro Berruguete
È un orgia casta, quella che si consuma attorno al fuoco, un delirio mistico e violento. Non ha convinto tutti, il frate riformatore: i suoi nemici si sono barricati in casa, altri sono venuti in piazza solo per guardare. Altri ancora sono confusi.
Come Cosimo, che osserva Savonarola, ascolta i suoi anatemi parola per parola. Ammira nei suoi occhi quella luce interiore che hanno gli uomini di fede, ammira la forza, ammira il rigore. Ma quando torna a casa e passa per via Tornabuoni, osserva compiaciuto le botteghe degli artisti, i bordelli, i mercati, e deve ammettere di sentirsi a suo agio tra i condannati.
Chi invece non ha alcun dubbio è lui: il nuovo “re di Firenze”, che si è guadagnato il favore del popolo riformando le tasse e abolendo l’usura e dopo aver rovesciato il regime dei Medici ha sfidato nientemeno che il Papa. Al suo fianco ci sono i fedelissimi Domenico da Pescia e Silvestro da Firenze.
Sono passati tredici anni da quando Girolamo ha messo per la prima volta piede in Firenze. Nella capitale del Rinascimento il frate ferrarese aveva trovato una città ricca, vivace, aperta al riso e al gioco; insomma il trionfo dell’immoralità e dell’indecenza. Più che la culla di una nuova civiltà il feretro di una nuova Sodoma.
Girolamo aveva iniziato subito a lanciare i suoi strali: il castigo divino – aveva annunciato – si sarebbe abbattuto sulla città per la corruzione del clero e dei costumi, per la lussuria, l’idolatria, le credenze astrologiche, la sodomia, il lassismo, la simonia. E aveva conquistato subito il cuore del popolo e dei poveri, che vedevano in lui il riscatto promesso dal Vangelo.
Si era scagliato con sempre più ferocia contro i capi della città che sono “superbi e corrotti, sfruttano i poveri, impongono tasse onerose, falsificano la moneta”.
Si era guadagnato così anche il sostegno dei nemici dei Medici. Lorenzo il Magnifico aveva cercato in ogni modo di fermarlo: con le buone e con le cattive. Lo aveva minacciato di confino e Girolamo aveva risposto che non se ne curava e anzi aveva predetto la prossima morte del principe. “Io sono forestiero e lui cittadino e il primo della città; io ho a stare e lui se n’ha a andare: io a stare e non lui”.
Poi Lorenzo gli aveva contrapposto un frate agostiniano, Mariano della Barba, che non era riuscito a reggere minimamente il confronto con il profeta della Rivoluzione.
Quando poi era diventato priore del convento domenicano, Girolamo si era rifiutato di rendere omaggio al principe come il suo nuovo ruolo avrebbe richiesto e come avevano fatto i suoi predecessori, né si era fatto ammansire dai doni e delle elemosine. E la sua cerchia dei fedeli era aumentata a dismisura.
Con la morte di Lorenzo de’ Medici, nell’aprile del 1492, quella Sodoma sembrava giunta finalmente sull’orlo del tracollo e il “Predicatore dei disperati” si era assunto il compito di salvarla dalla dannazione.
Monumento al frate domenicano in Piazza Savonarola a Firenze
Sinistri presagi avevano accompagnato la morte del Magnifico: durante una terribile tempesta un fulmine aveva colpito la cupola di Santa Maria del Fiore, lo stemma dei Medici era finito in mille pezzi e il medico di Lorenzo era stato trovato morto in fondo a un pozzo.
Tutti segnali, aveva spiegato il domenicano giunto da Ferrara, che l’Apocalisse era imminente. Dal pulpito del Duomo aveva lanciato i suoi strali contro l’immoralità dei fiorentini, l’arte rinascimentale, ma anche la ricchezza e il lusso della stessa Chiesa in mano al famigerato Alessandro VI Borgia.
Due anni dopo a suggellare la fine di un’epoca era arrivata l’invasione dell’esercito francese.
Carlo VIII era infatti determinato a prendersi anche la corona del Regno di Napoli che gli spettava – sosteneva – per supposti diritti ereditari.
Messosi in marcia sull’Italia con 30mila soldati di cui 8mila mercenari svizzeri, il 17 novembre 1494 era entrato a Firenze. Girolamo aveva enfatizzato il pericolo di saccheggi e violenze puntando il dito contro l’incapace Piero dei Medici, che prima si era schierato dalla parte degli aragonesi attirandosi l’ostilità del Re di Francia, poi si era arreso clamorosamente asservendosi del tutto al francese. Il popolo si era quindi indignato e ribellato e lo aveva cacciato dalla città proclamando la Repubblica.
Passato Carlo VIII, il potere è passato al governo democratico della Repubblica, ma in realtà è il predicatore domenicano ad aver assunto il pieno controllo della città e a dettare le regole a cui tutti, volenti o nolenti, devono adeguarsi.
Il supplizio di Savonarola – (Francesco di Lorenzo Rosselli, 1498 – Museo di S. Marco, Firenze)
Ora a Firenze non si gioca più in pubblico, le taverne sono serrate e le donne sono state costrette a rinunciare ad abiti troppo scollati e lascivi. La nuova Sodoma è diventata una nuova Gerusalemme, una terra santa dove si sperimenta una nuova forma di democrazia. Morale e popolare. Dove non sono più le regole del tiranno a dettare legge, ma quelle di Dio. O per meglio dire, del suo portavoce in tonaca bianca e mantella nera.
Una nuova democrazia, libera della corruzione dei potenti, ma assoggettata a un padre padrone che non insegue i propri interessi personali, ma decide per il bene della comunità e opera secondo giustizia. Il problema è che è lui il solo a decidere cosa è bene e cosa è giusto.
I gruppi politici si sono divisi in molte fazioni: i Bianchi (repubblicani) i Bigi (favorevoli ai Medici), i Frateschi o Piagnoni (sostenitori di Savonarola) e Arrabbiati o Palleschi (nemici giurati del frate). I Bianchi cercano di farsi valere sui Piagnoni e iniziano le prime frizioni: le proposte di legge di Girolamo per proibire le vesti scollate e le acconciature troppo elaborate vengono bocciate dal governo della città.
Intanto papa Borgia cerca in tutti i modi di liberarsi dell’ingombrante e ribelle frate: ha provato a spedirlo a predicare a Lucca, ma ha dovuto rinunciare per le proteste del popolo fiorentino. Poi lo ha convocato a Roma per interrogarlo, ma Girolamo ha rifiutato adducendo motivi di salute, e ha inviato una memoria scritta.
Lapide in piazza della Signoria a Firenze che ricorda il rogo di Savonarola
In seguito sono arrivate le sospensioni dagli incarichi, divieti di predicare e altri provvedimenti disciplinari, che Borgia ha dovuto puntualmente revocare a causa delle pressioni ricevute dai fiorentini. In compenso il frate non manca di attaccare il papa pubblicamente: “Noi non diciamo se non cose vere, ma sono li vostri peccati che profetano contra di voi, noi conduciamo li uomini alla simplicità e le donne ad onesto vivere, voi li conducete a lussuria e a pompa e a superbia, ché avete guasto il mondo e avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle soddomie e alle spurcizie e fattoli diventare come meretrici”.
L’ultimo tentativo per rabbonirlo è la nomina a cardinale, che Savonarola rifiuta sprezzante: “Io non voglio cappelli, né mitre né grandi né piccole; non voglio se non quello dato ai santi: un cappello rosso, un cappello di sangue, questo desidero”. E sarà accontentato, prima di quanto egli stesso non immagini.
Il falò in piazza della Signoria è l’ultimo grande atto della rivoluzione di Savonarola: dalle infiammate prediche è arrivato finalmente al rogo delle vanità; ma non lo sa, il nuovo padrone di Firenze, che la prossima a bruciare sul rogo – appena quindici mesi dopo, in quella stessa piazza – sarà la sua carne.
Ladispoli- 2 febbraio 2017-La prossima settimana inizierà una seconda fase del restauro e del recupero della fontana del Capitello Piacentini.
Sarà installato l’impianto di depurazione e clorazione che consentirà di avere l’acqua sempre limpida e il capitello esente dalla ricrescita delle alghe. Sarà inoltre rifatta tutta l’impermeabilizzazione della vasca.
I lavori saranno effettuati a cura di sponsor e dureranno circa un mese: la fontana sarà di nuovo aperta prima della Sagra del Carciofo.
Fontane identiche a quelle di Ladispoli sita in piazza della Vittoria esistono in altre 4 città del Lazio: Civitavecchia, Sora, Pontecorvo e Cassino.
Il Medioevo nel XIII Municipio, Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia , noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello attualmente presenta modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”. Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e,quindi, luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai Lancillotti. Attualmente proprietaria del Castello è la Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932. Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che,alla bisogna, veniva calata per impedire assalti ed irruzioni di nemici .Nel giardino del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade. La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano, una simile è nel cortile della Chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la Chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693. Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa Chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono,Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare”la buona ricotta” che Gli veniva offerta. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”. Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime. A seguito delle proteste della Germania,all’epoca maggior produttrice ed esportatrice di suini in Europa, il Papa Sisto IV nel 1481, riaffermò il documento di Avignone di Urbano V. Davanti al Castello, divisa dalle case del Borgo a chiudere la Piazza, c’è la chiesa parrocchiale, costruita negli anni 1950/54, dedicata alle S.s. Rufina e Seconda, martiri della Via Boccea. Come tutti i castelli che si rispettano, anche questo ha il suo fantasma che si aggira nei cunicoli sotterranei inesplorati che si diramano dal Castello nella campagna circostante. Ma alla domanda che rivolgo al Sig. Giovenale se esiste il fantasma egli risponde con un sorriso.
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello- Intervista con il Sig. Giovenale di Franco Leggeri- L’articolo è solo una sintesi di uno studio molto più esaustivo e completo sul Medioevo e i sistemi difensivi di Roma e della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – realizzato da Franco Leggeri
Franco Leggeri-Origini della Diocesi di Porto e Santa Rufina
La Diocesi di Porto con le altre di Ostia, Albano, Palestrina, Frascati e Sabina fa parte delle sedi suburbicarie. Fino al 1120, epoca in cui Callisto II unì alla diocesi di Porto quella delle Sante Rufina e Seconda, le diocesi suburbicarie furono sette. I vescovi suburbicari hanno grado di cardinali ed occupano il primo luogo nel sacro Collegio. La circoscrizione delle diocesi di Porto, dopo l’unione con quella delle Sante Rufina e Seconda, comprendeva i seguenti abitati e tenute: Porto-Maccarese-Palo-Santa Severa-Santa Marinella-Palidoro – Castel di Guido- Cerveteri-Ceri-Sasso- Giuliano- Santa Maria di Galera-Casaccia-Cesano- Isola Farnese-Storta-San Nicola-Olgiata-Vaccareccia-Riano-Primaporta-Bottaccio-Testa di Lepre-Leprignano-Castiglione Ricci-Tragliata-Magliana-Buccea-Porcareccia-Torrimpietra-Pisana-Castelnuovo di Porto. La Diocesi ebbe anche giurisdizione episcopale nel Rione Trastevere, e, dopo la ricordata unione con Santa Rufina, anche nella città Leonina. Sulle origini della sede Vescovile di Selva Candida e delle Ss.Rufina e Seconda il Moroni dà le seguenti notizie:” Nel martirologio di Adone, in Tillemont, T.4,p.5, ed in Bollando, T.3, Julii,p.28, si leggono gli Atti delle Sante Sorelle Rufina e Seconda vergini e martiri. Nate da Asterio ed Aurelia di stirpe romana, illustre e senatoria, furono fidanzate e promesse spose ad Armentario e Verino, i quali apostarono il cristianesimo nel 257 0 260 per la persecuzione di Valeriano e di Gallieno. Rufina e Seconda rigettarono con orrore la proposta che loro fu fatta di abiurare anch’esse la fede di Gesù Cristo. Volendosi rifugiare in una loro terra in Toscana, per delazione de’ due apostati furono inseguite da Archesilavo conte, e arrestate al 14° miglio della via Flaminia. Ricondotte in Roma dinanzi al prefetto Giunio Donato, questi, prima con le lusinghe , poi colle minacce di fieri tormenti, fece battere Rufina alla presenza della sorella per intimorirla, la quale invece si gravò perché a lei non fosse concesso tanto onore di patire per Gesù. Riportate in tetra prigione , ivi fu bruciato letame perché rimanessero , dal puzzo e dal fumo, soffocate, invece comparve splendida luce e si sentì in soave odore. Indispettito il prefetto le fece gettare in ardente bagno, dal quale uscite illese, ordinò che si precipitassero, con grosse pietre al collo, nel Tevere, ove un Angelo le prese , sciolse e condusse a riva. Allora Giunio le consegnò di nuovo ad Archesilavo perché o le facesse morire o le lasciasse libere a sua arbitrio. Ma il crudele conte le fece condurre in una selva folta ed oscura , perché appena vi penetrava il sole, chiamata Selva Nera, nel fondo di Busso o Buxo o Boccea nella via Aurelia o Cornelia, che conduceva a Porto e Civitavecchia, 10 miglia lontano da Roma (circa 8 delle moderne miglia). Ivi fece loro troncare le teste, lasciando i loro corpi insepolti esposti alle fiere. Comparse in visione a Plautilla matrona romana e signora del territorio, sebbene ancor gentile, l’esortarono a farsi cristiana ed a seppellirle. Tutto Plautilla eseguì, e trovati i cadaveri incorrotti diè loro sepoltura in onorevole monumento. Pel concorso de’ fedeli a venerarle , reso chiarissimo il luogo pel martirio più tardi patito anche dai SS.Marcellino e Pietro (V.Chiesa dei SS. Marcellino e Pietro) e pei miracoli da Dio operati, fu denominato Selva Candida, Sylva Candida. Vi fabbricò una magnifica basilica San Giulio I papa del 336, vi ripose i corpi delle dette Sante e Santi (secondo Piazza, che però nell’Emerologio di Roma dice che i corpi dei SS. Marcellino e Pietro furono sepolti nel Cimitero di Tiburzio in sontuoso mausoleo da Sant’Elena), ed in loro onore la dedicò prevalendo il nome delle Sante Rufina e Seconda, chiesa che San Damaso I nel 367 terminò. Frequentando la chiesa i cristiani, a poco a poco si fabbricarono abitazioni e si formò una popolata e nobile città, che meritò la Sede vescovile immediatamente soggetta alla Santa Sede, la seconda delle Suburbicarie dopo quella di Ostia. La città prese il nome delle Sante Rufina e Seconda e di Selva Candida, come vescovato.
Ricerca e trascrizione dal testo originario di Franco Leggeri
Bibbliografia
Papiri Diplomatici, Le origini delle Diocesi in Italia, Sedi Episcopali nell’antico ducato di Roma, Storia dell’Agro Romano.
Diocesi di Porto e Santa Rufina-La Cattedrale consacrata nel 1950 ANNO GIUBILARESs RUFINA e SECONDADiocesi di Porto e Santa Rufina- Papa Pio XII visita la Cattedrale (29 ottobre 1957) ricevuto dal Cardinale TisserantDiocesi di Porto e Santa Rufina-Calici donati da Papa Pio XII in visita alla Cattedrale (29 ottobre 1957)Diocesi di Porto e Santa Rufina-La Cattedrale S.Eccellenza Cardinale EUGENIO TISSERANT benedice la campana (24 marzo 1955)Diocesi di Porto e Santa Rufina-La Cattedrale consacrata nel 1950 ANNO GIUBILARECARTA DIOCESI d’ITALIADiocesi di Porto e Santa RufinaDiocesi di Porto e Santa Rufina-La Cattedrale consacrata nel 1950 ANNO GIUBILARE
Il servizio postale nel Medioevo iniziò come un affare di stato. Risorse, piano piano, dai fasti dell’antica Roma. Dove le cose si facevano in grande e anche la posta funzionava.
L’imperatore Augusto istituì uno dei più imponenti sistemi di comunicazione dell’Antichità. Il “Cursus publicus”, cioè la posta statale, aveva i “cursores”, corrieri che portavano una piuma sul copricapo come simbolo di velocità. Viaggiavano su carri e sostavano in apposite stazioni per il cambio dei cavalli chiamate “statio posita”, ossia “luoghi fissi”, da cui le moderne stazioni di posta. La loro forza era la capillarità della rete stradale. I dati desunti dalla Tavola Peutingeriana, una copia del XII-XIII secolo di una antica carta romana che mostra le vie militari dell’Impero, totalizzano ben 200.000 chilometri di strade.
Roma docet, ma l’uomo è un animale sociale. E la storia della posta nasce, di fatto, insieme alla sua voglia di comunicare. Notizie di scambi di messaggi arrivano dall’antico Egitto, dove il sistema di corrispondenza scritta era ben strutturato e sfruttato anche per il commercio, dalla Cina, ma anche da aztechi, incas, assiri e dalla dinastia indiana dei Maurya.
Nel VI secolo a.C., Ciro Il Grande portò la Persia nel progresso della comunicazione con un efficiente servizio di posta che copriva distanze anche di 150 chilometri al giorno. Erodoto cantava le lodi di questo sistema, quando nelle sue Storie scrisse un commento ora impresso sul Farley Post Office Building di New York: «E non c’è neve, né pioggia, né caldo, né notte, che impediscano mai a un corriere di percorrere, il più velocemente possibile, quel tratto di strada che gli è assegnato».
I greci dedicarono sublimi poemi alle gesta eroiche dei loro corridori, gli emerodromi, a cui veniva spesso affidata la consegna dei messaggi più importanti. Filonide, corriere e ispettore di Alessandro Magno, una volta andò di corsa da Sicione a Elis e coprì 240 chilometri in un giorno solo. E la corrispondenza non era solo di tipo militare. Le famiglie più ricche possedevano scuderie di corridori e all’apice della loro civiltà produssero un ingente volume di corrispondenza sui più svariati, anche frivoli, argomenti.
La Grecia però fu un’eccezione. Il servizio postale dell’Antichità era di norma uno strumento bellico: serviva a controllare il nemico, sistematicamente spiato dai corrieri che poi riferivano le informazioni ottenute.
Il califfo Abu Ja’far al-Mansur, che nell’VIII secolo regnò sull’impero arabo, espresse molto chiaramente l’importanza militare della posta: «Il mio trono poggia su quattro colonne e il mio governo su quattro uomini: un irreprensibile cadi (giudice), un energico capo della polizia, un onesto ministro delle finanze e un fedele direttore della posta, che mi fornisce informazioni vere su tutto». Nell’860, il califfato islamico vantava 930 stazioni di posta. Gli arabi furono anche i primi a introdurre l’uso dei piccioni per la corrispondenza.
Ma in Europa, dopo la decadenza dell’Impero romano la frammentazione politica mandò all’aria parecchie di quelle che noi oggi chiamiamo infrastrutture, tra le quali il servizio postale. E del ben oliato sistema statale di Augusto non restò neanche il ricordo.
Lettere e missive però si scambiavano ugualmente. Carlo Magno (742-814) ad esempio, aveva una fitta rete di corrieri per comunicare con gli ufficiali di tutti i suoi territori, staffette che viaggiavano a piedi e poi a cavallo.
Tutti i governanti del Medioevo si dotarono di messaggeri che in un modo o nell’altro consegnavano informazioni. Gli imperatori, i re e gli eserciti predatori mantennero sistemi di corrispondenza privati e per il resto, in mancanza di una organizzazione centralizzata, ognuno fece per conto suo.
Soltanto la Chiesa cattolica arrivò a possedere una organizzazione paragonabile al servizio impostato nell’antica Roma.
La fitta rete di monasteri che si era costituita con l’impulso di San Benedetto da Norcia (480-547), in origine popolata semplicemente da comunità di religiosi laici, dal IX secolo in poi cominciò a essere strutturata e ad adottare una serie di liturgie ufficiali e un modus vivendi comune. I benedettini svilupparono un vero e proprio servizio di posta.
Anche i monaci degli altri ordini religiosi si tenevano in contatto fra loro grazie ai conversi che si recavano da un monastero all’altro. I loro viaggi potevano durare anche parecchi mesi.
Portavano dei rotoli di pergamena chiamati “rotulae”, una prima rudimentale versione delle mailing list. Uno di questi rotoli poteva partire da un monastero centrale e contenere, per esempio, una semplice lista di confratelli o benefattori morti di cui era opportuno ricordare il nome. In ciascuno dei monasteri in cui faceva tappa veniva aggiunto un supplemento, con un messaggio di avvenuta ricezione da parte dell’abate locale e forse qualche commento o altre notizie. Queste appendici venivano cucite sul fondo dell’originale con «sottili strisce di pergamena avvoltolata, così che il rotolo rimaneva un foglio singolo sempre più lungo», come spiega l’autore finlandese Laurin Zilliacus (From pillar to post, the troubled history of the mail, Heinemann, Londra, 1956).
Una rotula del 1122 misura 8 metri e mezzo di lunghezza e 25 centimetri di larghezza, ed è fittamente scritta su entrambi i lati: contiene una notizia, la morte dell’abate di San Vitale, a cui fanno seguito 206 interventi che gli rendono omaggio, alcuni sotto forma di preghiera, altri di poesia. E la rotula del 1133 che annuncia la morte della figlia di Guglielmo il Conquistatore, la badessa Matilde del convento della Trinità a Caen, passò per 252 monasteri e alla fine del suo percorso misurava circa 20 metri.
Per tutti i lunghi secoli del Medioevo, inoltre, lettere apostoliche e pastorali «divulgavano delibere dottrinali, decisioni dei sinodi episcopali, questioni politiche inerenti il potere temporale», come ha scritto Charles Bazerman, della Università della California.
Altri sistemi postali si svilupparono naturalmente all’interno delle corporazioni dei mestieri e nelle imprese di commercio. Nelle Tavole amalfitane (Capitula et ordinationes Curiae Maritimae nobilis civitatis Amalphe) dell’XI secolo, il più antico statuto marittimo italiano, uno degli articoli parla della paga da corrispondere allo scriba, che riceverà sette grana per ogni giorno in cui sia rimasto a terra per gli interessi della società. Pagato tre soldi in meno del capitano, ma due in più del marinaio, lo scriba doveva essere una figura essenziale all’interno della nave. Che, oltre a far di conto, scriveva e leggeva messaggi per chi da solo non sarebbe stato in grado di farlo.
Nel frattempo, anche i sistemi postali di imperi e reami cominciarono ad aprirsi al pubblico.
In Francia, la prima rete organizzata di postini a cavallo fu quella dei Cavalieri di San Luigi istituita da Luigi IX (1214-1270), che diventò sovrano a dodici anni e che, sebbene sia passato alla storia come Luigi il Santo per il fervore del suo spirito religioso (e per la mania di collezionare reliquie), nei vent’anni in cui regnò fu anche un grande amministratore, promotore di riforme sociali e pubbliche che regolarono e migliorarono la vita dei suoi sudditi.
Un altro importante sistema di scambio di notizie nacque insieme alle università. La prima fu quella di Bologna nel 1088 e dal XII secolo la presenza di atenei in tutta Europa segnò un grande proliferare di servizi postali. Ogni università aveva il suo, che su pagamento trasportava anche lettere di privati e piccoli pacchi.
Una volta stabilito il valore economico dei servizi postali, università, commercianti e sovrani resteranno in concorrenza per molto tempo sul fronte della comunicazione.
Ma per parecchi secoli, solo una famiglia riuscirà a gestire un servizio di corrispondenza privato attivo in gran parte d’Europa: l’impresa familiare dei Tasso. Venivano da Cornello, un borgo medioevale dell’Alta Val Brembana che adesso è conosciuto come Cornello dei Tasso, anche perché il Torquato della “Gerusalemme liberata” fu un illustre membro della famiglia dei grandi imprenditori postali. Il loro impero, nato alla fine del XV secolo grazie a una importante collaborazione con la Repubblica di Venezia, gestì e allacciò legami d’affari con i servizi postali dello Stato Pontificio, dello Stato di Milano e di molte contrade europee. Nei primi del Cinquecento il centro nevralgico della rete era a Bruxelles e raggiungeva per corriere Roma, Napoli, la Spagna, la Germania e la Francia. A tutti gli effetti, l’impresa familiare dei Tasso fu una delle prime multinazionali europee e restò attiva fino al XVIII secolo. Ma questa è un’altra storia. Prof.ssa Giulia Cardini
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