Lontane dal disastro di questi giorni, le fotografie di Tano D’Amico dalla Palestina
ci raccontano la quotidianità e la bellezza di un territorio martoriato.
DESCRIZIONE
Demonizzati, “diversi” perché espatriati, rinchiusi in lembi di terra martoriata. Agli occhi degli occidentali i palestinesi sono sempre apparsi nel tumulto degli eventi, in una dimensione di lotta, di resistenza attiva, se non di vera e propria guerra.Questo movimento convulso, però, si quieta nelle fotografie di Tano D’Amico che ne ritrae l’esistenza di tutti i giorni. Mentre da fuori incalza rabbiosa la storia, si ha l’impressione che i momenti di vita, catturati dagli scatti di Tano, possano durare l’attimo di un sospiro. Accompagnate da poesie di autori palestinesi, le foto che qui vengono proposte ci parlano della quotidianità, della bellezza e del dolore di un territorio senza pace.
L’Autore
Tano D’Amico, è uno dei più grandi fotografi italiani viventi.Ha realizzato, tra gli altri, reportage in Palestina, Grecia, Irlanda, Germania, Svizzera, Spagna e Portogallo. Con Mimesis ha pubblicato Fotografia e destino (2020), Misericordia e tradimento (2021), Orfani del vento (2022).“Lo strazio della Palestina è la cicatrice impresentabile che unisce i due secoli. Una cicatrice che ci attraversa, che ci chiede conto, che chiama la stessa sete di giustizia di quando eravamo bambini.”
“La Palestina oggi non ha più immagini che la difendano perché ha vinto in ogni ambito l’immagine senza vita, senza astrattezza, senza musica, senza voce. L’immagine morta; l’immagine cosa. Che si può usare a piacimento, che si può riassemblare come si vuole.”
“Un premio Nobel per la letteratura, vero padre nobile del muro che ruba ai palestinesi ancora più terra, ancora più acqua, ancora più vita, ancora più dignità, ancora più felicità, sostiene che le parole in Palestina sono pericolose perché hanno molti significati.
Bisogna stare attenti a pronunciarle; sono di parte. Anche la parola pace è di parte, mi spiegava la direttrice di una delle più grandi agenzie giornalistiche del mondo. È di parte perché con la pace uno dei due popoli ha tutto da guadagnare; l’altro tutto da perdere.”
“Gli dei della Grecia” di Friedrich Schiller, da “Poesie filosofiche”
Poesia pubblicata dalla rivista“il Chaos”
Quando vostro era il regno e bello il mondo,
genti beate guidavate ancora
con le redini lievi della gioia,
esseri belli del mondo delle fiabe!
Quando il culto gioioso ancor splendeva,
tutto diverso, era diverso allora!
Quando di fiori si ornavano i tuoi templi,
o Venere Amatusia!
Quando la verità leggiadro avvolgeva ancora,
forza letale fluiva nel creato,
e ciò che mai sentirà sentiva.
Per stringerla al seno dell’amore
più alta nobiltà si diede alla natura;
indicava agli sguardi d’iniziati
tutto l’orma di un dio.
Dove ora, dicono i nostri saggi,
gira una sfera di fuoco senza vita,
guidava allora il suo carro dorato
Elio, in serena maestà.
Oreadi popolavan queste cime,
una Driade quell’albero abitava,
dalle urne di dolci Naiadi usciva
dei fumi la spuma d’argento.
Quel lauro si volse un dì chiedendo aiuto,
la Tantalide tace in questa pietra,
da quella canna s’udì il pianto di Siringa,
di Filomela il dolor da questo bosco.
Quel ruscello le lacrime accolse
per Persefone piante da Demetra,
e da questo poggio chiamò invano
Citera il suo bell’amato.
Tra la stirpe di Deucalione ai tempi
discendevano i celesti ancora,
di Pirra per conquistar le belle figlie
fece il pastore il figlio di Latona.
Tra uomini, divinità ed eroi
strinse amore un nodo di bellezza;
rendevano mortali, dèi ed eroi
omaggio in Amatunte.
La cupa gravità e triste rinuncia
eran bandite dal vostro gaio culto,
felici dovean battere tutti i cuori,
poiché l’uomo felice a voi era affine.
Nulla era sacro allora come il bello,
nessuna gioia era vergogna al dio,
dove arrossiva pudica la Camèna,
dove Grazia regnava.
Come palazzi eran ridenti i templi,
vi onoravano i giochi degli eroi
nelle Istmiche splendide di alloro,
ed i carri rombavano alla meta.
In bell’intreccio andavano animate
le danze intorno allo sfarzoso altare.
Le vostre tempie ornavan serti di vittoria
e corone le chiome profumate.
L’evoè degli invasati con il tirso
e lo splendido giogo di pantere
annunciavano il gran rallegratore;
fauno e satiro precedono malfermi,
folli Menadi lo attorniano saltando,
le loro danza lodano il suo vino
e le gote brunite dell’oste
gaie invitano al bere.
Non compariva allora orrendo scheletro
davanti al letto del morente. Un bacio
toglieva al labbro l’ultimo respiro,
un genio soffocava la sua fiamma.
Fin la bilancia severa del giudizio
reggeva all’Orco progenie di mortale
e i lamenti accorati del Trace
commossero le Erinni.
Di nuovo incontrò l’ombra felice
nei boschi dell’Eliso la sua gioia,
vero amore trovò il fedele sposo
e la sua strada chi portava il carro;
la lira di Lino suonava i canti usati,
tra le braccia di Alcesti cade Admeto,
Oreste riconosce il proprio amico
e le sue frecce Filottete.
Premi più alti davan forza al lottatore
sulla laboriosa via della virtù,
splendidi artefici di azioni grandi
ascendevano al rango dei beati.
Muta a colui che reclamava i morti
s’inchinava la schiera degli dèi,
facevan luce al pilota tra le onde dall’Olimpo i Dioscuri.
Mondo bello, dove sei? Ritorna,
della natura soave primavera!
Solo nella terra fatata dei canti
la tua traccia fiabesca vive ancora.
Senza vita, in lutto è la campagna,
al mio sguardo non si offre nessun dio,
di quella calda immagine di vita
solo l’ombra è rimasta!
Abbattuti son tutti quei fiori
per il tempestar da Settentrione.
E per favorirne uno su tutti
questo mondo di dèi dové sparire.
Triste indago la volta di stelle
ma, Selene, non ti trovò più,
per i boschi chiamo e per le onde,
vuoti mi riecheggiano.
Ignara delle gioie che essa dona,
mai sedotta dal proprio splendore,
mai conscia che lo spirito la guida,
né di mia felicità felice,
sorda pure alla gloria del suo autore
come un morto rintocco d’orgoglio,
la legge di gravità serve da schiava
la natura senza dèi.
Per nascere domani nuovamente
scava oggi la sua propria tomba,
e da sé allo stesso eterno fuso
si avvolgono e si svolgono le lune.
Son tornati alla terra dei poeti
gli dèi, oziosi, inutili ad un mondo
che, sfuggito alle lor briglie, si regge
sul suo proprio oscillare.
Sono tornati a casa, sì, ed il bello
e ciò che è alto, tutto si son presi,
tutti i colori e i suoni della vita,
sol la parola esamine a noi resta.
Strappati ai flutti del tempo, stan sospesi
al sicuro, lassù in cima al Pindo.
Quel che eterno deve vivere nel canto
nella vita ha da perire.
– Poesia tratta dalla raccolta “Poesie filosofiche”; composta e poi modificata tra il 1788 ed il 1800. Friedrich Schiller riflette sull’antico, sul rapporto tra sensibilità e ragione, sul ruolo del poeta nell’universo cristiano. Classicismo e cristianesimo si contrappongono e ne nasce un ideale di perfezione realizzato dall’armonia delle diverse parti: Uomo, Natura e Divinità. L’uomo moderno al contrario vive in una dimensione in cui la teologia pecca di astrattismo e la natura viene annientata, rendendo impossibile il raggiungimento di tale armonia.
Fonte “il Chaos” è una Rivista online di Arte e Cultura.
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