La riflessione in forma di Poesia sulla guerra di Bertolt Brecht
Dopo l’incendio del Reichstag da parte dei nazisti, il 28 febbraio 1933, Brecht decise di fuggire dalla Germania e recarsi in Danimarca con la famiglia. Aveva previsto la catastrofe imminente che l’ascesa del nazismo avrebbe portato con sé.
Anche in esilio Bertolt Brecht tuttavia non smise di denunciare con forza, attraverso la poesia, ogni tipo di oppressione e disuguaglianza. Non dimenticò la sua causa sociale e dedicò le sue poesie contro la guerra al popolo, che in silenzio è costretto a patire le decisioni prese dai potenti.
Agli occhi dell’intellettuale tedesco la guerra non è altro che una delle massime espressioni degli interessi capitalistici praticata ai danni dei più umili.
I suoi versi verranno raccolti nel 1939 nella celebre silloge Poesie di Svendborg, considerata la summa poetica dell’impegno antinazista di Brecht.
Oggi quella raccolta appare come una drammatica profezia della Seconda guerra mondiale, al pari del quadro Guernica di Pablo Picasso che denunciava l’opera di distruzione messa in atto dalla Germania di Hitler.
Brecht assistette alla drammatica escalation che portò a una delle guerre più drammatiche della storia e raccontò quel tragico sviluppo storico tramite il climax ascendente dettato dai suoi versi.
Scopriamo le poesie contro la guerra di Bertolt Brecht che oggi sono un invito a riflettere su quanto sta accadendo in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.
Generale di Bertolt Brecht-
Generale, il tuo carro armato
è una macchina potente
Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
Quando la guerra comincia di Bertolt Brecht
Forse i vostri fratelli si trasformeranno
e i loro volti saranno irriconoscibili.
Ma voi dovete rimanere eguali.
Andranno in guerra, non
come ad un massacro,
ad un serio lavoro. Tutto
avranno dimenticato.
Ma voi nulla dovete dimenticare.
Vi verseranno grappa nella gola
come a tutti gli altri.
Ma voi dovete rimanere lucidi.
Chi sta in alto dice pace e guerra di Bertolt Brecht
Sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.
La guerra che verrà di Bertolt Brecht
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
Faceva la fame. Fra i vincitori
Faceva la fame la povera gente egualmente.
Quelli che stanno in alto di Bertolt Brecht
Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
Mio fratello aviatore di Bertolt Brecht
Mio fratello era aviatore
Un giorno ricevette la cartolina.
Fece i bagagli, e andò via,
Lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
Di spazio. E prendersi terre su terre,
Da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che si è conquistato
È sui monti del Guadarrama.
È lungo un metro e ottanta
E di profondità uno e cinquanta…
Al momento di marciare di Bertolt Brecht
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
Quando chi sta in alto parla di pace di Bertolt Brecht
Quando chi sta in alto parla di pace
la gente comune sa
che ci sarà la guerra.
Quando chi sta in alto maledice la guerra
le cartoline precetto sono già compilate.
Sul muro c’era scritto col gesso di Bertolt Brecht
Sul muro c’era scritto col gesso:
vogliono la guerra.
Chi l’ha scritto
è già caduto
Lontane dal disastro di questi giorni, le fotografie di Tano D’Amico dalla Palestina
ci raccontano la quotidianità e la bellezza di un territorio martoriato.
DESCRIZIONE
Demonizzati, “diversi” perché espatriati, rinchiusi in lembi di terra martoriata. Agli occhi degli occidentali i palestinesi sono sempre apparsi nel tumulto degli eventi, in una dimensione di lotta, di resistenza attiva, se non di vera e propria guerra.Questo movimento convulso, però, si quieta nelle fotografie di Tano D’Amico che ne ritrae l’esistenza di tutti i giorni. Mentre da fuori incalza rabbiosa la storia, si ha l’impressione che i momenti di vita, catturati dagli scatti di Tano, possano durare l’attimo di un sospiro. Accompagnate da poesie di autori palestinesi, le foto che qui vengono proposte ci parlano della quotidianità, della bellezza e del dolore di un territorio senza pace.
L’Autore
Tano D’Amico, è uno dei più grandi fotografi italiani viventi.Ha realizzato, tra gli altri, reportage in Palestina, Grecia, Irlanda, Germania, Svizzera, Spagna e Portogallo. Con Mimesis ha pubblicato Fotografia e destino (2020), Misericordia e tradimento (2021), Orfani del vento (2022).“Lo strazio della Palestina è la cicatrice impresentabile che unisce i due secoli. Una cicatrice che ci attraversa, che ci chiede conto, che chiama la stessa sete di giustizia di quando eravamo bambini.”
“La Palestina oggi non ha più immagini che la difendano perché ha vinto in ogni ambito l’immagine senza vita, senza astrattezza, senza musica, senza voce. L’immagine morta; l’immagine cosa. Che si può usare a piacimento, che si può riassemblare come si vuole.”
“Un premio Nobel per la letteratura, vero padre nobile del muro che ruba ai palestinesi ancora più terra, ancora più acqua, ancora più vita, ancora più dignità, ancora più felicità, sostiene che le parole in Palestina sono pericolose perché hanno molti significati.
Bisogna stare attenti a pronunciarle; sono di parte. Anche la parola pace è di parte, mi spiegava la direttrice di una delle più grandi agenzie giornalistiche del mondo. È di parte perché con la pace uno dei due popoli ha tutto da guadagnare; l’altro tutto da perdere.”
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
DESCRIZIONE
«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
Proseguiamo con le tradizionali classifiche dell’anno appena trascorso, occupandoci dei film e delle serie televisive più sopravvalutati e, perciò, maggiormente deludenti. Articolo di RENATO CAPUTO–Ass. La Città Futura
ROMA-21-gennaio 2022-Collective, regia di Alexander Nanau (Romania), drammatico, Francia e Lussemburgo 2019, nomination a miglior film internazionale e a miglior documentario ai premi Oscar 2021, oltre a diversi altri premi, voto 5-; film di denuncia sulla devastante situazione presente in Romania con la piena affermazione del modo di produzione capitalistico, in cui l’unica cosa che conta sono i profitti immediati privati, ai quali tutto è sacrificato. D’altra parte il film è decisamente sopravvalutato avendo un impianto naturalistico che lo rende piuttosto noioso e pesante. Si tratta di una scelta stilistica postmoderna, del tutto fine a sé stessa e tipica di una produzione non ancora industriale come quella statunitense, in cui ha ancora spazio il soggettivismo romantico – nella peggiore accezione del termine – dell’“autore”. Inoltre questa impostazione di fondo minimal-qualunquista si ferma, naturalmente, sempre agli effetti immediati della controrivoluzione e non fa il minimo sforzo per risalire alla causa reale, cioè l’abbandono del tentativo abortito di transizione al socialismo.
La ferrovia sotterranea è una serie televisiva statunitense del 2021 creata da Barry Jenkins, distribuita sulla piattaforma Prime Video, che ha vinto diversi premi, voto: 4,5. Sin dal primo episodio la serie tratteggia molto bene lo stato di oppressione degli afroamericani e, al contempo, la loro volontà di riscatto. Interessante anche l’uso del Nuovo testamento da parte del raffinato e sanguinario schiavista per divinizzare ed eternizzare la schiavitù. Significativa anche la pena spaventosamente sanguinaria che era prevista per uno schiavo che fosse in grado di leggere e scrivere.
Il secondo e il terzo episodio sono davvero esemplari nella serrata e appassionata denuncia di pagine davvero buie e sconosciute della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver denunciato in modo realistico la spaventosa sorte degli schiavi in Georgia e dopo aver accennato alle differenze con la Virginia, emergono gli spaventosi sistemi, quasi sempre occultati, presenti nel Sud e Nord Carolina. Nel primo caso, dietro a un’apparente integrazione degli afroamericani, si celano forme di violenza occulte terribili, con le donne sistematicamente sterilizzate e gli uomini avvelenati con medicine funzionali a svolgere esperimenti atti a sondare fino a dove era possibile spingersi nel far patire il corpo umano. Nel Nord Carolina, invece, il puritanesimo vuole una società fondamentalista religiosa purificata dalla presenza degli afroamericani anche nella condizione di schiavitù, così i malcapitati afro discendenti vengono paragonati e sgozzati come maiali. Al loro posto vengono asserviti gli irlandesi che, per difendere il loro status e accecati dall’ignoranza e dal fondamentalismo religioso, talvolta si accaniscono contro gli afroamericani e con chi li tollera. Peraltro si denuncia come lo schiavismo abbia degli esiti davvero infausti, antiliberali e antidemocratici, per la stessa popolazione caucasica, che rischia gravi multe se insegna a leggere e scrivere agli afroamericani e, addirittura, la condanna al rogo per stregoneria per chi li nasconde in Nord Carolina.
Il quarto episodio rappresenta una notevolissima caduta di tono, di interesse e di sostanzialità delle vicende narrate, rispetto agli episodi precedenti. Si tratta di un episodio sostanzialmente insignificante, che non aggiunge nulla di significativo e che sembra fatto esclusivamente per annacquare il brodo. Anche il quinto episodio è alquanto deludente e finisce con l’annoiare, non avendo nulla di sostanziale da aggiungere. Le grandi dinamiche storiche tendono a scomparire dietro rapporti fra individui, che lasciano ben poco su cui riflettere allo spettatore. Nel sesto episodio emerge in modo sempre più evidente il formalismo che anima il regista e principale ideatore della serie, ovvero l’ideologia dominante degli apologeti indiretti del modo di produzione capitalistico. Nel settimo episodio tale tendenza a un formalismo fine a se stesso diviene assolutamente dominante, con il risultato di accrescere la noia per un nuovo e gratuito annacquamento del brodo, sempre più insipido.
L’ottavo episodio, dopo un inizio naturalista, precipita improvvisamente in un surrealismo postmoderno, sostanzialmente fine a se stesso. È davvero un peccato che una serie tanto promettente dilapidi completamente la credibilità che si era conquistata. Il nono episodio cerca di riprendere in extremis il tema fondamentale della serie, la ferrovia sotterranea, ma lo fa in modo poco verosimile e convincente. Nel decimo episodio il film torna a un lentissimo flashback che ci narra, con dovizie di particolari tendenzialmente e gratuitamente splatter, la tragedia priva di catarsi della madre della protagonista.
Nomadland di Chloé Zhao, drammatico, Usa 2020, voto: 4,5; film, non a caso, premiato con il Leone d’oro al festival di Venezia, può essere considerato un caso esemplare di cinema naturalistico, da non confondere con il grande cinema realista di un Ken Loach. Il cinema naturalista si limita a un rispecchiamentofenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. Un film naturalista è, perciò, astratto in quanto mira a riprodurre ciò che è medio in un determinato ambiente, mentre il cinema realista è concreto in quanto rappresenta il tipico di un insieme sociale, facendo emergere le differenze interne che lo caratterizzano. La vera opera d’arte è solo quella realista, in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti tipi sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico.
Spencer di Pablo Larraín, biografico, Usa 2021, voto: 4+, il film ha ottenuto una candidatura a Golden Globes, 5 candidature a Satellite Awards, 2 candidature a Critics Choice Award; film senza infamia né lode, assurdamente candidato persino a miglior film drammatico. Certo la produzione dell’industria culturale a stelle e strisce limita la mania postmoderna del regista e rende il film tollerabile, anche se decisamente soporifero. Per il resto il contenuto è al solito squallido. Si riprende, senza un briciolo di senso critico, il mito piccolo-borghese di Diana Spencer. La parvenue incapace di adattarsi alle regole bizantine della corte inglese, diviene la martire ribelle che cerca invano, dopo aver sposato l’erede al trono del Regno Unito, di riconquistare la “mitica” libertà del plebeo, sfuggendo alla ricercata e salutista cucina reale, attraverso il gesto trasgressivo di portare i figli ad avvelenarsi in un McDonald’s. Larraín si conferma, ancora una volta, fra i registi più sopravvalutati di questa triste epoca, altrettanto sopravvalutata si dimostra la protagonista Kristen Stewart capace di impersonarsi, senza un briciolo di spirito critico, nel mito di cartapesta di Lady Diana.
Over the Moon – Il fantastico mondodi Lunaria di Glen Keane, animazione, Usa, Cina 2020, voto: 4+; ancora un film di animazione sino-statunitense, che dimostra, una volta di più, come non ci sia una significativa differenza ideologica tra le opere prodotte nella Repubblica popolare cinese e quelle dell’industria culturale a stelle e strisce. Al di là della prima parte piuttosto riuscita, il film si rivela, ben presto, una merce piuttosto mediocre dell’industria culturale ormai transnazionale. Il film ha ottenuto, nonostante ciò, diverse nomination e premi come miglior film di animazione: 1 candidatura ai premi Oscar, 1 candidatura ai Golden Globes, 2 candidature a Satellite Awards, 1 candidatura a Producers Guild, 2 candidature a Critics Choice Super.
Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, miglior film e miglior regia agli European Film Awards 2021, drammatico Bosnia-Erzegovina, Austria, Romania, Francia, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Norvegia, Turchia 2020, voto: 4. Fra i film più sopravvalutati dell’anno, premiatissimo, in particolare ha vinto i principali premi degli Oscar europei, che si dimostrano ancora una volta estremamente ideologici nel senso peggiore del termine. Il film può essere anche ben fatto dal punto di vista tecnico-formale, può apparire persino realista e verosimile, ma mediando un contenuto completamente rovescista questi aspetti non possono venir considerati a suo favore. Il regista si propone un imperativo puramente ipotetico, che non ha proprio nulla di morale e razionale. Si ritaglia, in effetti, della grande storia soltanto un frammento, ponendo al centro al solito la retorica delle povere vittime innocenti civili e si omette tutto il resto, ovvero il contesto storico, economico, politico e sociale. Così si mistifica, magari anche in modo non del tutto consapevole, la realtà. Di quest’ultima si dà una interpretazione del tutto ideologica e manichea, per cui i serbi bosniaci sarebbero il male assoluto, i bosniaci mussulmani sarebbero invece il classico agnello condotto al macello, mentre le colpe dell’Onu consisterebbero nel non aver fatto tutto il possibile per scatenare i bombardamenti della Nato, veri potenziali supereroi, contro i super cattivi serbi. Naturalmente di questi ultimi si mostrano solo gli aspetti più deteriori, mentre i musulmani sono presentati come vittime civili. Peraltro eroina del film è un personaggio davvero poco esemplare dal punto di vista morale, in quanto dinanzi a una tragedia di quella portata pensa quasi esclusivamente a salvare – con raccomandazioni e altri mezzucci, per di più completamente fallimentari – esclusivamente i membri della propria famiglia. Anche in questo caso questa triste vicenda e questa tragica attitudine potrebbero essere in sé anche verosimili, se fossero presentate in modo critico, con un po’ di sano effetto di straniamento. Al contrario nel film si fa di tutto per far impersonare l’inconsapevole spettatore con questo personaggio individualista ed egoista. Spingendo la parte peggiore del pubblico a far emergere il proprio lato più cattivo, per potersi così pienamente identificare in questa davvero intollerabile eroina. Certo, bisognerebbe comunque considerare ben più colpevoli di chi ha realizzato questo davvero nefasto film coloro che lo hanno, del tutto acriticamente, osannato addirittura come miglior film europeo dell’anno. Per quanto possa essere nefasta la produzione cinematografica dell’imperialismo europeo, un film così fondamentalmente rovescista avrebbe dovuto essere decisamente criticato e non incondizionatamente esaltato.
Yes-People di Gísli Darri Halldórsson, cortometraggio di animazione, Islanda 2020, voto: 4; certamente deludente per essere stato candidato ai premi Oscar. Per quanto breve, il documentario non ha nulla di sostanziale da comunicare, se non la totale mancanza di connessione sentimentale degli intellettuali che lo hanno realizzato con le masse popolari del loro stesso paese. Sugli elementi più arretrati delle quali si fa una ironia a buon mercato, da un punto di vista marcatamente elitario.
Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, drammatico, Italia 2020, voto: 4; film esaltato in modo davvero aberrante dalla critica della sinistra radicale cinefila, che dimostra ancora una volta di essere completamente egemonizzata dagli aspetti più irrazionalistici ed estremi dell’ideologia dominante fra gli “intellettuali tradizionali continentali”, ossia il postmodernismo. Nel caso specifico abbiamo finalmente un contenuto davvero sostanziale, ossia il selvaggio sfruttamento – strumentalizzando l’immigrazione clandestina – dei braccianti agricoli nel nostro paese e i relativi conflitti sociali che ne derivano, utilizzato come una ulteriore esibizione della propria subalternità all’ideologia che più fa comodo ai fautori dello status quo. Ecco allora che questi temi, estremizzati fino a renderli inverosimili, vengono strumentalizzati per rimestare ancora una volta nel torbido, riducendo la potenziale complessità della questione socio-economica affrontata all’unica interpretazione che sono in grado di darne questi intellettuali ultra decadentisti, cioè mirando a farne emergere esclusivamente gli aspetti più grotteschi.
Normal Peopleè una miniserie televisiva irlandese in dodici episodi prodotta da Element Pictures per Bbc Three e Hulu, voto: 4. Il primo episodio sembra introdurre a una serie avvincente e godibile, sulla falsariga statunitense, ma più profonda e malinconica, ovvero tipicamente europea. La serie sembra, dunque, sintetizzare gli aspetti migliori delle serie americane ed europee, evitandone gli aspetti peggiori, il postmoderno continentale e l’ingenuità anglosassone. D’altra parte la storia è priva di elementi sostanziali, resta completamente ripiegata nella sfera immediata e naturale dell’eticitàdella famiglia e sembra una tarda ripresa del romanticismo. Peraltro, con tutte le nomination ricevute, era lecito aspettarsi decisamente di più.
Come spesso accade il secondo episodio vanifica gli spunti significativi presenti nell’episodio pilota e ne accentua gli aspetti più deboli. Innanzitutto il non avere nulla di sostanziale da comunicare, se non una banalissima storia d’amore fra un ragazzo e una ragazza. Sembra, dunque, il consueto episodio per allungare inutilmente il brodo. La serie appare come una mera merce di evasione, di mediocre qualità, dell’industria culturale, incapace di interessarsi alle problematiche storiche, geopolitiche, sociali, economiche, etiche etc. Dopo un episodio del genere è difficile che una persona intelligente abbia interesse a continuarne la visione.
Il terzo episodio è un minimo più movimentato in quanto la protagonista non accetta l’ennesimo sopruso del ragazzo. Detto questo anche l’unica vicenda di cui si occupa la serie, ovvero il rapporto “d’amore” fra i due protagonisti è del tutto irrealistico e inverosimile, dal momento che è il ragazzo che si vergogna davanti alla società della sua relazione, sebbene sia il figlio della donna delle pulizie della famiglia ricca e aristocratica della sua ragazza. A questo punto non ci resta che consigliare di seguire il nostro esempio e di smettere di continuare a vedere questa mediocre serie.
Padrenostro di Claudio Noce, drammatico, Italia 2020, il film ha ottenuto 3 candidature ai Nastri d’Argento, 1 candidatura a David di Donatello, Il film è stato premiato al Festival di Venezia, voto: 4. Padre Nostro è un film decisamente sopravvalutato. Pur essendo in teoria incentrato su una questione sostanziale come i conflitti sociali negli anni settanta e la deriva avventurista terrorista, il film si occupa esclusivamente dei risvolti che questa tragedia storica ha su un bambino, il cui padre è stato ferito in un conflitto a fuoco. In tal modo non vi è nessun approfondimento sull’evento e l’epoca storica e il film finisce con l’essere decisamente soporifero, non avendo nulla di realmente significativo da offrire alla riflessione dello spettatore.
Petite maman di Céline Sciamma, drammatico, Francia 2021, distribuzione Teodora Film, ottobre 2021, vincitrice del premio miglior film Alice nella Città 2021 al festival di Roma, voto: 4; ennesimo film assurdamente sopravvalutato, di impronta minimal-qualunquista, non ha nulla di sostanziale su cui far riflettere lo spettatore, né è in grado di offrire un soddisfacente godimento estetico.
Falling – Storia di un padre di Viggo Mortensen, drammatico, Usa 2020, distribuito da Bim, voto: 4-; il film, pur offrendo una rappresentazione realistica del fascismo quotidiano americano, molto diffuso dell’elettorato repubblicano, è davvero troppo noioso, non avendo niente altro di significativo da comunicare. Peraltro le alternative offerte al fascismo sono le solite prospettive postmoderne, davvero inefficaci – con la loro rivendicazione della differenza in quanto tale – ad aprire una prospettiva di superamento al davvero intollerabile identitarismo tradizionalista.
Estate ’85 di François Ozon, drammatico, Francia 2020, voto: 4-; ennesimo film sopravvalutato, assurdamente vincitore del festival del cinema di Roma. Un film decisamente inutile, del tutto privo di aspetti sostanziali. La solita storia d’amore romantica, con l’unica specificità, di avere come protagonisti due ragazzi.
Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, drammatico, Netflix, Canada 2020, voto: 4-; film noiosissimo di cui non si capisce davvero la ragione di essere. Di un naturalismo esasperato, di fondo postmoderno per la quasi totale assenza di questioni sostanziali e di reali motivi di interesse, quantomeno, non essendo di produzione europea, mantiene il decisivo elemento catartico tipico del cinema nordamericano. Mantiene però, al contempo, l’altrettanto tipico snobismo del cinema europeo realizzato da intellettuali tradizionali cinefili per intellettuali tradizionali cosmopoliti, incapace di stabilire una qualche forma di connessione sentimentale con il popolo.
Heimat è uno spazio nel tempo di Thomas Heise, Germania 2019, voto: 4-; realizzato su misura per i cinefili snob, generalmente della a-sinistra, che non possono non considerare un capolavoro un film ideato per impedire ogni connessione sentimentale con le masse popolari. Tutto ciò in nome di uno sperimentalismo fine a se stesso, che vorrebbe rivendicare la sua assoluta particolarità – come se fosse un bene in sé – ma in realtà non fa che prender parte a quella distruzione della ragione, anche nello specifico filmico, così caratteristica del decadentismo dell’Europa continentale.
Undine – Un amore per sempre di Christian Petzold, drammatico, Germania e Francia 2020, voto: 4-: fra i film più sopravvalutati dell’anno, opera di un regista altrettanto insensatamente sopravvalutato, Undine è un’opera senza nessuna qualità. Il film non solo non ricostruisce in nessun modo un mondo storico, ma ne dà soltanto la pessima interpretazione classista dell’ideologia dominante e non presenta un solo personaggio tipico. Il film è del tutto irrealistico, inverosimile e con cadute piuttosto pesanti nell’irrazionale. Alla base vi è una concezione del tutto irrazionale, romantica (nel peggior senso del termine) dell’amore a cui tutto il resto è sacrificato. Il film è decisamente noioso e non lascia nulla di significativo su cui riflettere allo spettatore.
A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, horror, Italia 2021, voto: 4-; film del tutto sopravvalutato dalla presunta critica cinefila sedicente di sinistra, è anche un’opera assurdamente pretenziosa. In realtà non ha nulla di sostanziale o significativo da comunicare e rappresentare, se non la spocchia dell’intellettuale privo di qualsiasi connessione sentimentale con il popolo. Quest’ultimo è rappresentato come morbosamente attratto dai fatti di cronaca violenti e – per quanto concerne la componente meridionale e, in particolare, calabrese – come se fosse composto da dei caproni selvaggi del tutto soggiogati alla malavita organizzata.
Emily in Paris1×10, serie tv Usa, fra le più ingiustamente premiate dell’anno, voto: 3,5; prodotto ben confezionato d’evasione dell’industria culturale statunitense. Certamente piacevole, anche se pieno di luoghi comuni alquanto scontati. Emerge, in maniera significativa, come i francesi temano i lavoratori statunitensi che, con la loro logica calvinista e neoliberista, favoriscono l’auto sfruttamento e l’aumento di orari e ritmi di lavoro. In altri termini, il messaggio che viene trasmesso è che gli statunitensi vivrebbero per lavorare e si realizzerebbero attraverso il lavoro – naturalmente astraendo da tutte le problematiche dell’alienazione del lavoro salariato – mentre i francesi lavorerebbero per vivere e per godersi la vita, al di fuori dell’estraneazione del lavoro salariato. Inoltre i francesi avrebbero decisamente più buon gusto e gli statunitensi maggiore spirito imprenditoriale.
Il secondo episodio prosegue sulla falsariga del primo, discreto prodotto meramente culinario, gradevole, ma non bello, senza acuti né cadute, se non l’intollerabile concezione apologetica dello statunitense, priva di sfaccettature e decisamente inverosimile. Tali perplessità non possono che aumentare nel terzo episodio, in cui la giovane statunitense viene rappresentata come un modello di sensibilità dinanzi alla presunta rozzezza dei parigini. Così, dai luoghi comuni siamo passati a una rappresentazione decisamente rovescista. Il quarto episodio non aggiunge nulla di significativo, la serie pare aver già esaurito il poco che aveva da offrire.
Il quinto episodio rende sempre più surreale una serie che ha come protagonista una laureata in marketing, che adora il suo lavoro e che ha come principale obiettivo quello di far comprendere al suo dirigente – che la bistratta continuamente – che starebbero dalla stessa parte. Aspetto comune ad altre serie comiche statunitensi è quello di presentare, senza un briciolo di effetto di straniamento, lavoratori sfruttati e bistrattati dai loro dirigenti, che non ambiscono ad altro che entrare nelle loro grazie e sono disposti, a tale scopo, anche ai più umilianti sacrifici.
Sesto e settimo episodio sono alquanto anonimi e servono quasi esclusivamente ad allungare il brodo. La serie apparentemente puramente culinaria e di evasione mira, in realtà, a far introiettare quanto c’è di peggio nell’ideologia neoliberista. Così l’eroina, con cui si tende a identificarsi, non essendoci naturalmente nemmeno un minimo di effetto di straniamento, ha due scopi fondamentali nella vita: far fare profitti a una ditta che pubblicizza beni di lusso e conquistarsi il proprio dirigente con ogni forma, anche la più umiliante, di captatio benevolentiae. Così l’americana a Parigi da una parte fa la moralista puritana davanti ai francesi, che sarebbero tutti, secondo i più scontati luoghi comuni statunitensi, dei mezzi pervertiti, dall’altra normalizza e naturalizza gli aspetti peggiori del pensiero unico dominante.
L’ottavo episodio è sostanzialmente anonimo, al solito gradevole, ma ideologicamente micidiale. Nella serie i rappresentanti degli aspetti più rozzi del capitalismo – secondo il consueto luogo comune – sarebbero incarnati dai cinesi, mentre l’eroina statunitense si presenta come una donna che si è fatta da sola, grazie all’amore e l’assoluta deduzione per il proprio lavoro. Emily rappresenta in pieno la banalità del male, visto che non si interroga mai criticamente sul lavoro che svolge, sul suo (non) senso, sui suoi fini.
Nel nono episodio scopriamo un’altra perla di “saggezza” neoliberista, ovvero che un uomo ricco e di bell’aspetto sarebbe un ottimo partito per una donna, del tutto a prescindere dal fatto che sia un impresario laido, snob e del tutto privo di contenuti sostanziali, in ciò in perfetta consonanza con la serie. La decima puntata mostra, senza volerlo, tutta l’ipocrisia del moralismo pietista statunitense. La protagonista procede tranquillamente sulla duplice staffa dei due amanti, sfruttando la crisi nel rapporto d’amore della sua migliore amica francese. Dunque, sarebbe lecito tradire le amiche, appena possibile, mentre al padrone si dovrebbero fare costantemente tutti i possibili salamelecchi, rinunciando a qualsiasi residuo di dignità del lavoratore. Penoso anche il luogo comune per cui, a causa della burocrazia, non sarebbe possibile in Francia licenziare “liberamente” i lavoratori salariati, anche da parte di proprietari di imprese private.
Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, commedia,Francia 2001, nomination Oscar 2002 miglior film straniero, sceneggiatura, scenografia, fotografia e suono, film cult, voto: 3; difficile individuare un film così stupidamente sopravvalutato. Il favoloso mondo di Amelie è una vera e propria ode all’ideologia dominante dell’imperialismo europeo: il postmodernismo, degno erede della distruzione della ragione portata alle estreme conseguenze dal nazionalsocialismo. Non è un caso che tale opera programmaticamente ideologica abbia avuto successo anche negli Usa, dal momento che gli intellettuali della sinistra borghese statunitense si atteggiano a intellettuali postmoderni europei. D’altra parte l’irrazionalismo è frenato dalla stessa industria culturale, la quale deve comunque vendere dei prodotti che, se fossero eccessivamente ideologici, non avrebbero che un mercato di nicchia.
Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude, drammatico, Romania, Repubblica ceca, Lussemburgo e Croazia 2021, voto: 3; film insostenibile, ultraideologico dal punto di vista formale, essendo completamente improntato all’ideologia dominante continentale postmoderna, mentre dal punto di vista del contenuto considera rivoluzionari i controrivoluzionari del 1989 che hanno aperto la strada alla transizione al capitalismo nella sua forma più selvaggia.
Anche se nel film lo si vorrebbe addirittura interpretare, in modo rovescista, come conseguenza del socialismo, colpisce il livello davvero barbaro prodotto dalla controrivoluzione capitalista. Vediamo, così, una società povera, dove tutto è ridotto a merce e domina l’individualismo e la conseguente asocialità più sfrenata. La assoluta insostenibilità dei film prodotti nei paesi in cui si è affermata la controrivoluzione, lasciano molto da riflettere sul ruolo svolto dallo Stato durante l’abortita transizione al socialismo, quando il settore pubblico interveniva, cercando di dare un indirizzo alle produzioni, completamente finanziate dalla collettività. Se in quel sistema vi erano evidenti limiti, l’attuale neoliberismo non è certamente preferibile. Inoltre il film, fra i più sopravvalutati dell’anno, mostra ancora una volta come lo spirito del mondo abbia da tempo abbandonato il continente europeo. La cinematografia europea – a partire dai film presentati e premiati dai festival ed esaltati dalla dominante critica cinefila – è completamente imbevuta dell’intollerabile pensiero unico postmoderno, imperante nell’Europa continentale. Ancora una volta il festival di Berlino manifesta attraverso i suoi premi quanto sia reazionario l’imperialismo tedesco.
Il buco di Michelangelo Frammartino, voto: 2+; uno dei film decisamente più sopravvalutati dell’anno. Il buco dimostra il solito snobismo dell’intellettuale tradizionale cui piace rimirarsi la lingua e mantenere la massima distanza verso il proprio stesso popolo, nei confronti del quale non ha alcuna connessione sentimentale. Anche il grande tema della questione meridionale è del tutto sacrificato al formalismo e alla piena e convinta adesione all’ideologia postmoderna, dominante al di fuori del mondo anglosassone.
Un altro giro di Thomas Vinterberg, Danimarca 2020, voto: 2+; film del tutto insostenibile, sebbene sia stato considerato il miglior film europeo dell’anno. Un altro giro fornisce una pessima e del tutto inverosimile immagine degli insegnanti che, per poter riuscire a interessare gli studenti e non cadere nella depressione, si impongono di bere quantità sempre maggiori di alcolici. Paradossalmente gli insegnanti troverebbero così il successo nel luogo di lavoro e nella famiglia. Anche se l’aumento eccessivo di alcolici rischia di farli divenire alcolizzati, con conseguenze negative sul lavoro e in famiglia. Tanto che uno dei quattro sperimentatori muore, ma gli altri tre sembrano non solo avere successo, ma paiono suggerire agli stessi studenti in difficoltà di bere alcolici per superare con profitto la paura dell’esame.
Le sorelleMacaluso di Emma Dante, commedia, Italia 2020, voto: 2-; film assolutamente insostenibile, improntato al più bieco e ideologico postmodernismo all’amatriciana, noiosissimo in quanto tutto è dipinto con il solo colore del grottesco. Per quanto alcuni critici abbiano avuto il coraggio di cercare di salvare il film, mettendo in evidenza come la regista ami sempre indagare la vita delle masse popolari, in realtà non vi è nessuna consonanza spirituale con il proprio popolo, di cui si è in grado di cogliere i soli aspetti grotteschi. Anzi, film come questo mirano a voler cancellare dalla coscienza delle masse popolari anche quel residuo barlume del principio speranza e dello spirito dell’utopia, naturalizzando, per eternizzarla, la misera condizione dei subalterni.
Non mi uccidere di Andrea De Sica, drammatico, Italia 2021, distribuito da Warner Bros, nomination miglior film, montaggio, fotografia e colonna sonora ai Nastri d’Argento 2021, voto: 1,5; film decisamente insostenibile, senza capo né coda, si limita a mescolare nel modo più insensato una serie di luoghi comuni dei generi più diversi. Abbiamo, inoltre, la solita rovescista riabilitazione dell’irrazionalismo, come se costituisse, in quanto tale, un elemento sovversivo. È davvero assurdo come sia possibile continuare a sprecare risorse pubbliche e, più in generale umane, per prodotti così scadenti e diseducativi.
Titane di Julia Ducournau, drammatico, Francia, Belgio, 2021, miglior film al festival di Cannes e nomination miglior film e regia agli European Film Awards 2021, oltre a diversi altri premi, voto: 1. È veramente arduo trovare un film assolutamente insostenibile come questo, che ha ottenuto un numero così elevato di riconoscimenti nel modo più assoluto a tal punto immotivati. Per quanto si intenda assumere la posa da snob, per quanto si intenda distinguere la propria individualità dalle disprezzate masse popolari, non si capisce proprio come sia possibile giungere a un livello di così completa incapacità di formulare un giudizio estetico nei confronti di un film così palesemente ripugnante.
Oldboy di Park Chan-wook, drammatico, Corea del Sud 2003, voto 0,5; film assolutamente indecente. Fino a poco tempo fa la riproposizione dei classici del cinema marcava una decisa discontinuità rispetto alle tante, troppe misere opere prodotte nei nostri tempi. Purtroppo questi ultimi stanno sempre più prendendo il sopravvento anche nella selezione di sedicenti classici da ripresentare nelle sale, film che sono delle pure e semplici odi alla distruzione della ragione. Resta incredibile come abbia mantenuto un minimo di credibilità quella “critica” cinefila che oggi, come allora, considera questi pessimi saggi dell’ideologia postmoderna – nella sua fase di putrefazione – come se fossero dei veri e propri capolavori dell’arte cinematografica.
Articolo di RENATO CAPUTO–Fonte-Ass. La Città Futura
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