Mario LUZI-Poesie

Biblioteca DEA SABINA

Poesie di Mario LUZI

Mario Luzi
Mario Luzi

 

Da “Avvento Notturno”

Avorio

 

Parla il cipresso equinoziale, oscuro

e montuoso esulta il capriolo,

dentro le fonti rosse le criniere

dai baci adagio lavan le cavalle.

Giù da foreste vaporose immensi

alle eccelse città battono i fiumi

lungamente, si muovono in un sogno

affettuose vele verso Olimpia.

Correranno le intense vie d’Oriente

ventilate fanciulle e dai mercati

salmastri guarderanno ilari il mondo.

Ma dove attingerò io la mia vita

ora che il tremebondo amore è morto?

Violavano le rose l’orizzonte,

esitanti città stavano in cielo

asperse di giardini tormentosi,

la sua voce nell’aria era una roccia

deserta e incolmabile di fiori.

 

 

(Se musica è la donna amata)

 

Ma tu continua e perditi, mia vita,

per le rosse città dei cani afosi

convessi sopra i fiumi arsi dal vento.

Le danzatrici scuotono l’oriente

appassionato, effondono i metalli

del sole le veementi baiadere.

Un passero profondo si dispiuma

sul golfo ov’io sognai la Georgia:

dal mare (una viola trafelata

nella memoria bianca di vestigia)

un vento desolato s’appoggiava

ai tuoi vetri con una piuma grigia

e se volevi accoglierlo una bruna

solitudine offesa la tua mano

premeva nei suoi limbi odorosi

d’inattuate rose di lontano.

 

Da “Poesie sparse”

Nulla di ciò che accade e non ha volto

 

Nulla di ciò che accade e non ha volto

e nulla che precipiti puro, immune da traccia,

percettibile solo alla pietà

come te mi significa la morte.

Il vento ricco oscilla corrugato

sui vetri, finge estatiche presenze

e un oriente bianco s’esala

nei quadrivi di febbre lastricati.

Dalla pioggia alle candide schiarite

si levano allo sguardo variopinto

blocchi d’aria in festevoli distanze.

Apparire e sparire è una chimera.

E’ questa l’ora tua, è l’ora di quei re

sismici il cui trono è il movimento,

insensibili se non al freddo di morte

che lasciano nel sangue all’improvviso.

Loro sede fulminea è qualche specchio

assorto nella sera, ivi s’incontrano,

ivi si riconoscono in un battito.

Sei certa ed ingannevole, è vano ch’io ti cerchi,

ti persegua di là dai fortilizi,

dalle guglie riflesse negli asfalti,

nei luoghi ove l’amore non può giungere

né la dimenticanza di se stessi.

 

Da “Monologo”

I

 

Vita che non osai chiedere e fu,

mite, incredula d’essere sgorgata

dal sasso impenetrabile del tempo,

sorpresa, poi sicura della terra,

tu vita ininterrotta nelle fibre

vibranti, tese al vento della notte…

 

Era, donde scendesse, un salto d’acque

silenziose, frenetiche, affluenti

da una febbrile trasparenza d’astri

ove di giorno ero travolto in giorno,

da me profondamente entro di me

e l’angoscia d’esistere tra rocce

perdevo e ritrovavo sempre intatta.

 

Tempo di consentire sei venuto,

giorno in cui mi maturo, ripetevo,

e mormora la crescita del grano,

ronza il miele futuro. Senza pausa

una ventilazione oscura errava

tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;

correva, ove tendesse, vento astrale,

deserto tra le prime fredde foglie,

portava una germinazione oscura

negli alberi, turbava pietre e stelle.

 

Con lo sgomento d’una porta

che s’apra sotto un peso ignoto, entrava

nel cuore una vertigine d’eventi,

moveva il delirio e la pietà.

Le immagini possibili di me,

passi uditi nel sogno ed inseguiti,

svanivano, con che tremenda forza

ti fu dato di cogliere, dicevo,

tra le vane la forma destinata!

Quest’ora ti edifica e ti schianta.

L’uno ancora implacato, l’altro urgeva –

con insulto di linfa chiusa i giorni

vorticosi nascevano da me,

rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,

senza riparo n’ero trascinato.

Fosti, quanto puoi chiedere, reale,

la contesa col nulla era finita,

spirava un tempo lucido e furente,

senza fine perivi e rinascevi,

ne sentivi la forza e la paura.

Una disperazione antica usciva

dagli alberi, passava sulle tempie.

Vita, ne misuravi la pienezza,

 

 

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni

 

Che speri, che ti riprometti, amica,

se torni per così cupo viaggio

fin qua dove nel sole le burrasche

hanno una voce altissima abbrunata,

di gelsomino odorano e di frane?

 

Mi trovo qui a questa età che sai,

né giovane né vecchio, attendo, guardo

questa vicissitudine sospesa;

non so più quel che volli o mi fu imposto,

entri nei miei pensieri e n’esci illesa.

 

Tutto l’altro che deve essere è ancora,

il fiume scorre, la campagna varia,

grandina, spiove, qualche cane latra

esce la luna, niente si riscuote,

niente dal lungo sonno avventuroso.

 

Da “Onore del vero”

Uccelli

 

il vento è un’aspra voce che ammonisce

per noi stuolo che a volte trova pace

e asilo sopra questi rami secchi.

E la schiera ripiglia il triste volo,

migra nel cuore dei monti, viola

scavato nel viola inesauribile,

miniera senza fondo dello spazio.

Il volo è lento, penetra a fatica

nell’azzurro che s’apre oltre l’azzurro,

nel tempo ch’è di là dal tempo; alcuni

mandano grida acute che precipitano

e nessuna parete ripercuote.

Che ci somiglia è il moto delle cime

nell’ora – quasi non si può pensare

né dire – quando su steli invisibili

tutt’intorno una primavera strana

fiorisce in nuvole rade che il vento

pasce in un cielo o umido o bruciato

e la sorte della giornata è varia,

la grandine, la pioggia, la schiarita.

 

Questa felicità

 

Questa felicità promessa o data

m’è dolore, dolore senza causa

o la causa se esiste è questo brivido

che sommuove il molteplice nell’unico

come il liquido scosso nella sfera

di vetro che interpreta il fachiro.

Eppure dico: salva anche per oggi.

Torno torno le fanno guerra cose

e immagini su cui cala o si leva

o la notte o la neve

uniforme del ricordo.

 

A mia madre dalla sua casa

 

M’accoglie la tua vecchia, grigia casa

steso supino sopra un letto angusto,

forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,

conto le ore lentissime a passare,

più lente per le nuvole che solcano

queste notti d’agosto in terre avare.

 

Uno che torna a notte alta dai campi

scambia un cenno a fatica con i simili,

infila l’erta, il vicolo, scompare

dietro la porta del tugurio. L’afa

dello scirocco agita i riposi,

fa smaniare gli infermi ed i reclusi.

 

Non dormo, seguo il passo del nottambulo

sia demente sia giovane tarato

mentre risuona sopra pietre e ciottoli;

lascio e prendo il mio carico servile

e scendo, scendo più che già non sia

profondo in questo tempo, in questo popolo.

 

 

La notte lava la mente

 

La notte lava la mente.

 

Poco dopo si è qui come sai bene,

file d’anime lungo la cornice,

chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

 

Qualcuno sulla pagina del mare

traccia un segno di vita, figge un punto.

Raramente qualche gabbiano appare.

 

Il Giudice

“Credi che il tuo sia vero amore? Esamina

a fondo il tuo passato” insiste lui

saettando ben addentro

la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.

E aspetta. Mentre io guardo lontano

ed altro non mi viene in mente

che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani

sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,

dove una terra nuda si fa ombra

con le sue gobbe o un’altra preparata a semina

si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.

“Certo, posso aver molto peccato”

rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,

sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.

“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”

riprende la sua voce con un fischio

di raffica sopra quella landa passando alta.

L’ascolto e neppure mi domando

perché sia lui e non io di là da questo banco

occupato a giudicare i mali del mondo.

“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,

mentre la via s’accende scaglia a scaglia

e qui nel bar il giorno ancora pieno

sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio

per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio

indossa la gabbana bianca e viene

verso di noi con due bicchieri colmi,

freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.

 

L’India

Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,

(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)

mentre mostra a lungo lo schermo

sul selciato una moltitudine

stecchita in una posa tra sonno e morte

levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell’alba.

Né forse la colpisce il primo aspetto

ma un altro più recondito, e vede

una giustizia di diverso stampo

in quella sofferenza di paria

orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.

 

“Avere o non avere la sua parte in questa vita”

riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo.

E io ne tiro a me quella frangia

ansioso mi confidi tutto l’altro,

attento non mi rubi niente

di lei, neppure l’amarezza, ed attendo.

S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India

e nel loro riverbero le colgo

un sorriso estremo tra di vittima e di bimba

quasi mi lasci quella grazia in pegno

di lei mentre si eclissa nella sua pena

e l’idea di se stessa le muore dentro.

 

“Perché porti quel giogo, perché non insorgi”

mi trattengo appena dal gridarle,

soffrendo perché soffre, certo,

ma più ancora perché lascia la presa

della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;

“Ascoltami” comincio a mormorarle

e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor

e a lei che sul punto di partire

mi guarda da dietro la lampada

della sua solitudine tenuta alzata di fronte.

 

“Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora

levi come una spada, buona a che?,

lo sdegno per le cose che ti resistono.

Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,

negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”

e indulge a una smorfia fine di scherno

per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.

 

“Davvero vorrei tu avessi vinto”

le dico con affetto incontenibile, più tardi,

mentre scorre in un brusio d’api, nel film senza commento, l’India.

 

Per mare

Nel più alto punto

dove scienza è oblìo d’ogni sapere

e certezza, mi dicono,

certezza irrefutabile venuta incontro

o nel tempo appeso a un filo

d’un riacquisto d’infanzia,

tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa,

dove c’è e non c’è opera nostra voluta e scelta.

 

“La salute della mente

è là” dice una voce

con cui contendo da anni,

una voce che ora è di sirena.

 

Si naviga tra Sardegna e Corsica.

C’è un po’ di mare

e la barca appruata scarricchia.

L’equipaggio dorme. Ma due

vegliano nella mezzaluce della plancia.

E’ passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi.

E’ una notte viva.

Viva più di questa notte,

viva tanto da serrarmi la gola

è la muta confidenza

di quelli che riposano

si curi in mano d’altri

e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo

 

mentre pregano per i loro uomini in mare

da un punto oscuro della costa, mentre arriva

dalla parte del Rodano qualche raffica.

 

Da “Al fuoco della controversia”

Ridotto a me stesso?

 

Ridotto a me stesso?

Morto l’interlocutore?

O morto io,

l’altro su di me

padrone del campo, l’altro,

universo, parificatore…

o no,

niente di questo:

il silenzio raggiante

dell’amore pieno,

della piena incarnazione

anticipato da un lampo? –

penso

se è pensare questo

e non opera di sonno

nella pausa solare

del tumulto di adesso…

 

Natura

La terra e a lei concorde il mare

e sopra ovunque un mare più giocondo

per la veloce fiamma dei passeri

e la via

della riposante luna e del sonno

dei dolci corpi socchiusi alla vita

e alla morte su un campo;

e per quelle voci che scendono

sfuggendo a misteriose porte e balzano

sopra noi come uccelli folli di tornare

sopra le isole originali cantando:

qui si prepara

un giaciglio di porpora e un canto che culla

per chi non ha potuto dormire

sì dura era la pietra,

sì acuminato l’amore.

 

Mario Luzi
Mario Luzi

Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.

FonteScuolissima.com – appunti di scuola online-