Brano da MURALES CASTELNUOVESI –di Franco Leggeri-
Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia . Anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi.
Brano dalla raccolta Murales Castelnuovesi di Franco Leggeri
Castelnuovo, Autoesclusione
Autoesclusione
La scrittura creativa in cattività Epicuro(làthe biòsas) dove il riparo è l’humus fertilissimo per la creazione .
Castelnuovo è, per me, una quarantena senza fine dove è possibile solo immaginare il presente .
Si possono cucire i ricordi e indossarli per attraversare Dedalo in cerca della propria identità. La solitudine e l’esilio è interiorizzato come nella Tristia di Ovidio:”Quod tendabat dicere versus erat”.Trasportare e trasformare la cultura materiale ed immateriale radicata nel mio Castelnuovo.
Il Disagio dell’incertezza , la mia epoca più bella,
ha “creato” il mio scrivere e descrivere.
-Poesia per Castelnuovo-
Tu sei la terra madre dei miei sogni.
Castelnuovo si deve ricordare , vedere come un bel quadro .
E’ vero si dovrebbe leggere almeno una poesia al giorno
allora tu Castelnuovo , la tua visione, sei poesia continua
con le tue finestre accese e decorate da tendine ricamate.
Castelnuovo è luogo e la memoria,
Castelnuovo è un tangibile passato , anche se non troppo remoto,
Allora:
“Le turbolenti mutazioni dei tempi migliori
Le mutilazioni, gli scarti di possibilità
e nelle notti avvicinate dalle mie intenzioni strategiche
mi riconosco in Marx in polemica
sui temi “di fondo” di questa mia terra , idea, irrazionale.
Il possibilismo geniale del mio navigare
tra il passato e l’eterno remoto,
non resta che una debole speranza.
Ma adesso è proclamato il giorno del giusto gioco
tra il metafisico filosofico e il forse dei rimpianti ,
dopo, irresistibilmente e meccanicamente, Dio
sarà all’angolo per complesse manovre di avvicinamento”.
Brano dalla raccolta Murales Castelnuovesi di Franco Leggeri
Brano dal libro di Franco Leggeri- “Murales Castelnuovesi”- Disegno di Tatiana Concas
Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti , vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma non il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese”.
Castelnuovo di Farfa (RI) Piccole Storie dal Campo Profughi Granica:
“Irene, baronessa von Oerzen, diabolica avventuriera “
Ricerca a cura di Franco Leggeri- Le foto originali sono dell’Autore-
Castelnuovo di Farfa-1 giugno1947 –Nel campo profughi di Farfa Sabina 450 persone, uomini e donne, di 32 diverse nazionalità attendono dietro un reticolato l’esito di lente pratiche burocratiche.
Campo FARFA SABINA , 1 giugno 1947. Qualche tempo fa la cronaca romana si occupò di una celebre spia internazionale arrestata all’aeroporto al suo arrivo in volo dalla Spagna. Una donna, naturalmente. Può una donna accusata di fare la spia essere altrimenti che bellissima, giovane, inquietante, di nobile famiglia? L’arrestata fu descritta cosi: «Avventuriera, intelligentissima, pericolosissima, dotata di fascino eccezionale, di diabolica scaltrezza, che vive nel mondo equivoco internazionale esercitando lo spionaggio ». (Qualche volta i rapporti di Questura fanno la concorrenza alla prosa di Agatha Christie e di Carolina Invernizio). Poi non se ne seppe più nulla; finché un giorno mi dissero: Vada a Farfa a vedere quel campo di concentramento per stranieri e inclassificabili come è il nostro termine “displaced” persone come dicono gli inglesi; ci troverà la giovane, arrestata all’aeroporto, la baronessa Irene von Oerzen.
« E’ una prigione »
E, si, sono venuto a Farfa e ci ho trovato la baronessina. Non c’è che dire, è carina, è giovanissima, ha il sorriso sereno della giovinezza che può aspettare, che ha tanto tempo davanti a se. Ma prima di tutto il lettore vorrà sapere che cos’è questo campo di Farfa. E allora bisognerà rifare un poco storia.
Ci sono in Italia quasi 600 mila stranieri dispersi; gente che per una ragione o per l’altra non vogliono o non possono tornare in patria, che non hanno documenti, che sono sospetti alla polizia nostra e da quella alleata; disertori, soldati polacchi di Andere che hanno sposato donne italiane, cetnici di Mihailovic, ex soldati tedeschi che hanno sposato anche loro donne italiane e vorrebbero solo ottenere la cittadinanza italiana (questa Italia Miserabile, povera, sgangherata, e pure resta sempre la terra promessa, venirci e viverci e morirci è il sogno di transatlantici e di oltramontani); jugoslavi che scappano dal paradiso di Tito e hanno passato il mare in barchetta, ebrei che si urtano alle chiuse frontiere come mosconi contro al vetro finché trovano lo spiraglio e vengono di qua e, poi, riportati oltre confine ritornano disperati, fanatici. Che fare di tutta questa gente? Se ne occupano le polizie, la nostra e quelle straniere, si cerca di rastrellarli, di dividerli per nazionalità e provenienza in vari campi di concentramento in attesa che per ognuno di essi sia chiarita l’identità, esaminate le condizioni personali, provveduto un foglio di via o un contratto di lavoro; c’è il campo di Alberobello che ospita tutte donne, c’è quello di Eboli per soldati di Mihailovich, ce né uno a Fossoli per i tedeschi; c’è qui a Farfa in Sabina un campo nuovo di zecca.
Sapete dov’è Farfa?
E come no, c’è un celebre monastero più antico di quello di Montecassino, un paesino ricostruito a nuovo dal Conte Volpi di Misurata (quello della Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia) con botteghe artigiane, certe acque benefiche. Bravi i lettori. Ci si arriva per una campagna mossa di umili colli che hanno in cima un vecchio castello o un paesetto dalle mura color dei pane di guerra, vestiti di ulivi, di faggi, di castagni, di campi di grano, che comincia ad imbiondire. Si lascia da parte l’abbazia, si scende in fondo a una valletta trepida di pioppi attorno a verdi sorgenti(Piscine di Granica); e li si trova il campo, le baracche, gli edifici per la direzione e la guardia armata, un campo di passeggio o di giochi, un muraglione tutto attorno coronato di un reticolato , reticolati fra baracca e baracca e doppi cancelli e garitte per le sentinelle, pali con fanali alti che spandono luce tutta la notte. — E’ una prigione — mi dice il direttore del campo, il dottor Currò, un funzionario amabile, paterno, che fa di tutto per addolcire la pena a questa povera gente; — ma è una prigione, che vuole farci? E hanno la razione viveri delle prigioni, io cerco di migliorargliela come posso, lascio fare cucina ai capi baracca, distribuisco latte ai bambini (vi sono cento “nuclei famigliari “, cioè stranieri per lo più tedeschi con moglie italiana e i bambini), chi ha soldi può comperare alla cantina del campo, gli dò tre ore di libera uscita nel prato dei giochi, sempre dentro il reticolato, si capisce; i sessi separati nelle baracche (e doppio reticolato tra una baracca e l’altra), ma durante la libera uscita stiano pure insieme uomini e donne, non possono far nulla di male (ma già alcuni dei reclusi si sono sposati fra loro).
Relitti di 30 nazioni.
Spazzatura relitti di trenta nazioni; ma ci sono fra essi professori, ingegneri, giornalisti e artisti ; come il croato Pietro Svietlosal che ha passato il mare in una barchetta, volendo vedere l’Italia sogno della sua giovinezza, adesso è qui perché lo hanno trovato senza documenti, dipinge tutto il giorno, già vecchio, grigio, ammalato. C’è il legionario fiumano Sgariner tedesco di Croazia, ma fu con D’Annunzio, tira fuori dal portafogli il diploma di legionario fiumano con la firma di D’Annunzio, lo stende a terra, lo legge ad alta voce; poi fa vedere una cicatrice sul petto, ‘”sono iscritto nel libro d’oro di quelli che hanno versato il sangue per l’Italia”, declama. E il calciatore Kovaca che era stato assunto dalla “S.S.Lazio” come mezz’ala e mi fa vedere il contratto che tiene gelosamente nel portafogli anche lui (tutti fanno ressa attorno ed estraggono carte e lettere e tessere e fotografie dai portafogli sono la loro ricchezza, e sola giustificazione di vita); e l’ing. Isa Skabani albanese, che ha studiato in Italia e vorrebbe andare in Argentina, “hanno tanto bisogno di tecnici laggiù”; a un marinaio austriaco che si è fatto tatuare ed Amburgo, chi sa perché, gesta di eroi della libertà Svizzera, e mostra, a richiesta, il torso istoriato come una vecchia pergamena.
Trentadue nazionalità, austriaci – e – atesini, albanesi, bulgari, canadesi, cinesi, danesi, egiziani, estoni, francesi, tedeschi, greci, inglesi a coloniali britannici, jugoslavi, libici, lituani, olandesi, polacchi, romeni, russi, spagnoli, americani degli Stati Uniti, turchi (fra cui un italiano che cercava di imbarcarsi di frodo per la Turchia), svizzeri, ungheresi, cecoslovacchi, un colombiano che è poi un nero con i capelli candidi, un siriano, uno dell’Honduras,un lussemburghese, un birmano dal cognome rubato a una pellicola di quart’ordine, Tarzan Jungleman, che è poi un siciliano di Agrigento di nome Navarra, che naturalmente non sa una parola di birmano, ma gli inglesi hanno dovuto tenerselo tre mesi a Londra al War Office prima di aver un sospetto che birmano non fosse.
Una bella spia-
Poi le donne; molto, giovani, carine, un gruppetto di austriache che sembrano ragazze di una rivista, biondissime con le spalle bruciate dal sole; stanno a prendersi il sole nude sull’erba arida attorno alla baracca (uomini, alle finestre della baracca accanto, separata da due reticolati, frammezzo in cui passeggiano le guardie, se le mangiano con gli occhi) alcune prostitute, in una stanza a parte, scontrose; passano il giorno sdraiate sulle brande, non guardano gli uomini, non civettano. E la baronessina Irene. Un paio di pantaloni turchini, una camicetta bianca lavata di fresco, ben pettinata, solida, biondo-chiaro. Questa è la diabolica avventuriera, la bellezza conturbante. Ma piacevole, un ingenuo sorriso. Parla un buon italiano. E’ nata 28 anni fa a Koenisberg ( e come posso tornare a Koenisberg? Adesso è Russia»); la mamma è una von Buelov. Lei una spia? “ Unsinn, una sciocchezza”. Accenna vagamente ad invidia e gelosie ad amici potenti. “Si, sono stata a Madrid, cosa vuol dire?”. “E’ possibile signorina, che l’abbia vista a Estoril? “ Estoril! che cos’è?”. “Quel posto vicino a Lisbona, c’è un casinò di gioco, c’erano tante belle donne durante la guerra “. ”Impossibile. Oh, si, era una bella vita, a Estoril……”. E’ serena, rassegnata e sicura che i suoi amici la tireranno fuori appena sapranno che è qui.Si sta discretamente , ma comincia a far caldo, c’è già afa di giorno sul praticello e ride “ Non si annoia?”. “Certo, ma c’è la libera uscita , si può fare quattro chiacchiere con uno di quei ragazzi (un grappalo di quattro o cinque a una finestra oltre il reticolato doppio e un altro spiazzo di erba arida ne coglie al volo il sorriso) e platonicamente libera .Così bello, così riposante “.
Ricerca Storica Campo profughi Granica di Castelnuovo di Farfa (Rieti) -A cura di Franco Leggeri-
le foto originali sono di Franco Leggeri
Bibliografia-
Ricerca in Archivi e in Biblioteche pubbliche e private-Ricerca Storica Campo profughi Granica di Castelnuovo di Farfa (Rieti) –L’ordine pp. 88-89,225-L’Italia Libera del 25 settembre 1943.D.Sensi, “pagine partigiane”, in Corriere Sabino del 15 aprile del 1945. G.Allara, “ Dopo Anziao: la battaglia del Monte Tancia”, in Aa.Vv., La guerra partigiana in Italia, Edizioni Civitas, Roma 1984, pp.66 e 67. Musu-Polito, Roma ribelle, pp. 114-115. Bentivegna-De Simone, Operazione via Rasella pp. 89-90., Roma e Lazio 1930-1950 pp.542,545. Piscitelli, Storia della Resistenza pp.325,326,327.Giuseppe Mogavero- La resistenza a Roma-1943-1945-Massari Editore -Campi di internamento fascisti nel Lazio-Associazione Giustizia e Libertà-La Resistenza NonArmata.
La via Aurelia aveva origine dal ponte Emilio (l’attuale Ponte Rotto), e, dopo aver attraversato il quartiere Trastevere, risaliva il Gianicolo per puntare direttamente sui territori etruschi. Probabilmente, ripercorreva, unificandoli, vecchi tracciati lungo la costa tirrenica con funzione di collegamento tra le città poste sul mare.
Strutturata forse da C. Aurelio Cotta, censore nel 241 a.C., la strada si inoltrava nel territorio della vicina Cerveteri, diventando fin da subito l’asse portante del sistema coloniale (Forum Aurelii e Cosa) e della presenza romana fino a Vulci. Nel territorio settentrionale vennero stabilite le praefecturae di Saturnia, divenuta colonia nel 183 a.C., di Statonia e forse la colonia di Heba. Il suo tracciato da Cosa fu prolungato a Luni e, nel 109 a.C., fino a Genova: da qui manteneva il suo nome fino ad Arles in Francia.
La via Aurelia, nel primo tratto subito dopo il ponte Emilio, a causa della depressione del terreno e dei rischi di impaludamento per il vicino fiume, correva sopraelevata su un viadotto realizzato con arcate in opera quadrata di tufo, alto almeno cinque metri ed esplorato, durante moderni scavi nell’area di piazza Sonnino, per almeno una settantina di metri. Subito dopo, il tracciato antico sembra coincidesse con via della Lungaretta e, in direzione del Gianicolo, con via di Porta S. Pancrazio.
All’altezza di S. Maria in Trastevere una diversa arteria si staccava dall’Aurelia per dirigersi, con un percorso oggi ricalcato da via della Lungara, verso l’ager Vaticanus.
La Porta Aurelia (oggi Porta S. Pancrazio) del circuito della mura di Aureliano fu distrutta, assieme al tracciato della mura stesse, da papa Urbano VIII (1628-1644) che decise di rinforzare le difese della città su questo lato, facendo costruire una nuova e diversa cinta muraria, che, partendo al fiume (presso l’attuale Porta Portese) racchiudesse tutta la zona destra del Tevere fino a congiungersi con le mura già esistenti del Vaticano. La porta di età romana, a unico fornice con due torri quadrate ai lati, è rappresentata in piante di Roma nell’epoca antecedente i lavori di papa Urbano VIII. Oltre la Porta S. Pancrazio il percorso della via antica coincide con l’attuale e in punti diversi sono stati rinvenuti resti del suo lastricato.
Nei vecchi itinerari sui cimiteri cristiani posti lungo la via Aurelia, sono elencate almeno cinque località in cui si trovavano altrettanti santuari dedicati ai martiri: il cimitero di S. Pancrazio, di Calepodio, di Processo e Martiniano, dei due Felici e di Basilide. Con l’esclusione di quest’ultimo, posto al XII miglio dell’Aurelia, in località Castel di Guido, gli altri siti sono da ricercare nel primo tratto extraurbano della via. Un ipogeo, visibile in via S. Pancrazio 15, nei pressi del ristorante Scarpone, noto fin dal 1880, è costituito da una galleria centrale, sei cubicoli e due nicchioni laterali. Nato probabilmente come ipogeo privato a carattere familiare, sembra che si sia trovato inserito in una struttura cimiteriale più vasta con modifiche strutturali assai vistose. Sono ancora parzialmente visibili tracce della decorazione pittorica a carattere floreale dell’ipogeo di età più antica.
Il cimitero di Processo e Martiniano, legato secondo la tradizione alle figure dei due presunti carcerieri pentiti di Pietro, è da collocare nell’area di Villa Abamelek, presso l’ingresso della quale è stato visto anche un ipogeo composto da due gallerie e un cubicolo. La notizia della sepoltura di papa Felice I in un cimitero al II miglio della via Aurelia è riportata nel Liber pontificalis ma è in aperto contrasto con altre fonti. Sembra probabile che almeno Felice II, antipapa, fosse stato sepolto dai suoi seguaci, ad latus forma Traiana, in un complesso cimiteriale oggi individuato con una struttura esistente nell’area della ex vigna Pellegrini o piuttosto sulla sinistra della via Aurelia nell’area della ex vigna Farsetti. Di altri gruppi cimiteriali più piccoli abbiamo traccia nell’area compresa tra l’ingresso della Villa Doria Pamphilj e Villa Vecchia ma non possiamo attribuirli con certezza a un preciso complesso. Poco dopo l’Arco di Tiradiavoli, che segna il passaggio dell’acquedotto Paolo, sulla sinistra, si estende la vasta necropoli di Villa Doria Pamphilj. Nel tratto extraurbano il passaggio della via antica, parzialmente rettificata dal tracciato moderno, è segnato dalla presenza di aree di frammenti fittili relativi a insediamenti sia di carattere agricolo sia residenziale. Il percorso antico si diversifica in particolare dall’attuale in località Castel di Guido dove sembra doversi posizionare il praedium imperiale di Lorium.
Nel 1976, al km 18 della moderna Aurelia, che rappresenta la variante rispetto alla direzione di Castel di Guido, in località Colonnacce, è stata scoperta, ed è attualmente in fase di valorizzazione, una sontuosa villa di età imperiale. Nei pressi del casale la Bottaccia si trovano importanti resti di opere idrauliche: cisterne a cunicoli e conserve per la raccolta dell’acqua piovana, di cui una a pianta circolare con un diametro di m 7,40 posta a 500 m circa a sud-est del casale. Nella stessa località è stato scoperto nel 1987 un mitreo databile al II secolo d.C.
A Castel di Guido, sotto la chiesa di S. Spirito, di cui ne costituisce le fondamenta, si trova un mausoleo in laterizio databile al IV secolo d.C., la cui cella, a pianta circolare, è articolata con grandi nicchie, coperte da volte a botte. Nel 1993, al km 19 furono individuate strutture forse pertinenti all’impianto di una villa rustica o alla mansio di Lorium, ricordata negli itinerari antichi al XII miglio della via antica.
Fiorenzo Catalli
dal libro “ROMA ARCHEOLOGICA” II ed., ADN Kronos libri – Roma 2005
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