-‘La paga del sabato’, forse il libro più moderno di Fenoglio-
Recensione di Giacomo VERRI-
Con cent’anni e un mezzo scaffale di capolavori postumi, oggi si scrive Beppe Fenoglio tra i nomi grossi della letteratura italiana. In vita però ancora non era il gigante sulle cui spalle ambiamo salire, il punto di riferimento per chi voglia cimentarsi con le cose di Resistenza; quand’era attorno ai trent’anni e spediva dattiloscritti all’Einaudi, era un uomo alle prese con rifiuti e tirate d’orecchi.
Vittorini fu per lui un giudice severo e lapidario. Calvino, l’amico diplomatico – nel senso migliore –, temperava le sentenze del burbero siciliano e suggeriva al ragazzo di Alba le mosse per non farsi travolgere nella partita a scacchi col mondo dell’editoria. Se con Vittorini era questione di età e di esperienze – quattordici anni li separavano e una risma di libri – con Calvino non c’entravano l’anno di nascita o l’educazione sentimentale e politica; Beppe e Italo uscivano dalla stessa esperienza di giovanissimi combattenti per la libertà ed erano quasi coetanei – anzi, Calvino era più giovane di tre anni. Solo che il ligure s’era inserito prima e meglio nel mondo della carta stampata mentre Beppe faceva l’outsider per orgoglio e per amore della sua terra. Nessuno lo avrebbe strappato alle Langhe perché nessuna grande città gli era necessaria per diventare un grande scrittore. Di questo era persuaso.
Ed era bravo a incassare batoste. Tralasciamo il cicchetto messo nero su bianco da Vittorini sul risvolto della Malora, nel 1954; lì, nell’accettare e pubblicare il secondo libro di Fenoglio (e nel dire quanto casa Einaudi puntasse sull’autore), sbandierava al pubblico quelli che a suo avviso erano i limiti del testo (e, pericolosamente, i timori sulla piega presa dal ragazzo): proprio i “più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile” – scriveva Vittorini – vanno avvertiti che, se lontani dalle “cose sperimentate personalmente”, corrono il rischio “di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena”; entrambi peraltro esponenti della periferia letteraria, come Fenoglio (l’uno di quella scapigliatura piemontese teorizzata da Gianfranco Contini, l’altro nato a Torino ma attivo in area ligure).
Insomma, l’autore del Partigiano Johnny è forse morto con l’idea di non disporre dei numeri per fare un romanzo come si deve – “Le posso dire sin d’ora che il mio secondo libro sarà ancora di racconti (molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanziere)”, scriveva nel giugno del 1953 –, anche perché la sua prima prova di romanzo, La paga del sabato, fu messa in pausa da Calvino e bocciata poi da Vittorini.
Ecco allora Calvino a Fenoglio nel novembre del 1950:
Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto – specie nelle scene amorose – e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti.
Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che sembra davvero rara, I rapporti di Ettore con la madre e con il padre, quei litigi, quei desinare in famiglia, e anche i rapporti con Vanda, e tutto il personaggio di Ettore; e certe cose della rivalità Ettore-Palmo: lì non sbagli mai la botta, hai coraggio, hai idee chiare su quello che fa e che pensa la gente, e lo dici. Idee fin troppo chiare: evidentemente tu hai l’orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui. È questo spesso a forzarti la mano e a farti scrivere pagine che mi sembrano un po’ irritanti, specialmente – come ti dicevo – nella storia di Vanda. Intendiamoci: tutto vero, anche lì non sbagli un colpo, e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti. […] Ma molte cose sono buone nel tuo racconto e sono molto contento d’averlo letto. Non ultimo merito è quello di documento della storia di una generazione; l’aver parlato per la prima volta con rigorosa chiarezza del problema morale di tanti giovani ex-partigiani.
Dunque il lavoro giunto in casa Einaudi a Calvino piace con qualche riserva. Vorrebbe vederlo pubblicato. I punti forti e quelli deboli li ripete a Vittorini nel passargli il dattiloscritto (è “di un certo Beppe Fenoglio, di Alba”) dopo aver incassato il parere favorevole di Natalia Ginzburg: il narratore è robusto, “fuori da ogni compiacimento letterario, con un sacco di cose da dire”, il libro è molto bello, la storia pure, così il tema degli ex partigiani che mal si adattano alla vita in tempo di pace; ma “ha molti difetti di lingua e di gusto”, scrive, “in certi punti rasenta la pornografia”, aggiunge; inoltre, “quando non è alle prese con una situazione psicologia, fa del cinema, ma del buon cinema, credo di quello che tu definisci ‘secco’”. E va detto che quest’ultima annotazione è davvero generosa e cerca di intercettare la benevolenza di Vittorini, edulcorando ciò che invece più brutalmente aveva scritto a Fenoglio: “Le storie dei banditi non sono la cosa migliore del racconto: c’è dietro molto di già scritto, molto cinematografo; il personaggio di Palmo ha tutto un albero genealogico di gangster cretini che gli ha insegnato come deve parlare e come deve muoversi”.
Eppure il libro piace anche all’editore Giulio Einaudi e questi lo ribadisce a Vittorini.
Ma i “difetti di gusto”, la trascuratezza del linguaggio e soprattutto il sapore di cinematografo pesano tanto da precludere alla Paga del sabato la via verso la pubblicazione (Vittorini, a fine lettura, scrive a Calvino: «L’ultima parte del Fenoglio mi persuade meno. Diventa film sempre di più, e non sa essere altro che film»). O meglio, Fenoglio ci riprova, rimaneggia il testo e lo consegna nel febbraio dell’anno successivo ma niente, Vittorini lo affossa di più ancora. Così Fenoglio – sebbene da casa Einaudi lo consiglino a dirottare il romanzo verso altri editori – decide di lasciar perdere, contentandosi di trarne un paio di racconti, Ettore va al lavoro – un condensato dei primi capitoli – e Nove lune, che confluiranno nei Ventitre giorni della città di Alba, il primo suo libro.
Un giudizio quindi severo che, sottotraccia, deve pesare ancora oggi, e non si sa il perché; è un fatto tuttavia che La paga del sabato abbia mancato appuntamenti importanti, come la presenza nel volume dell’opera omnia curato da Dante Isella per Einaudi-Gallimard (Biblioteca della Pléiade) nel 1992; per fortuna viene però riproposto quest’anno, per il centenario, in una nuova veste editoriale, con la bellissima copertina disegnata da Andrea Serio, come avviene per tutti gli altri titoli fenogliani.
Dunque vediamo più da vicino questi difetti. Il primo che Calvino gli ascrive è la trascuratezza del linguaggio; certo quello della Paga del sabato non è il leggendario “fenglese” del Partigiano Johnny, la miscela d’italiano neologizzante e di inglese impuro che troveremo nel Fenoglio rizomatico e labirintico dei lavori più tardi; è un italiano, questo primo, sintatticamente sporco di osteria e di terra eppure potente e scattante nella presa sul reale. A leggerlo sembra fresco, pare di essere lì dove stanno i personaggi ma, alla prova dei fatti, risulta difficilissimo da riprodurre, a volte inimitabile. Modernissimo e arcaico allo stesso tempo.
Qualche esempio: la battuta di un dialogo; parla la madre del protagonista, Ettore, e dice che lei sola può dare dello stupido all’uomo che ha sposato:
Io posso dire di tuo padre cosa voglio, tutto quel che mi sento, sono l’unica che può. Tuo padre è uno stupido, è cieco e tu lo incanti come vuoi e per questo tu non ce l’hai mai con lui. Ma ce l’hai sempre con me perché io non sono stupida, io tu non m’incanti [il corsivo è mio], perché io so quel che vuoi dire prima che tu parli, perché a me non la fai e per questo ce l’hai sempre con me!
Poi una splendida descrizione nelle ultime pagine del libro, prima del tragico epilogo:
Tornava a casa, senza trovarci nessun senso in quel rincasare, andava curvo come se avesse commesso una vigliaccheria nota a tutti e per la quale non avrebbe mai più potuto sentirsi lui, la luna era un mostro di giallore, di grossezza e di vicinanza, ai suoi raggi le maniglie d’ottone delle porte brillavano velenosamente.
La sintassi non sempre è corretta ma nello scarto dalla norma schiude una singolare unicità e un’esemplare aderenza alle cose. Fenoglio, fin d’ora, manifesta il proprio specialissimo idioletto, portato poi alle estreme conseguenze nel Partigiano Johnny, ma qui colto all’alba; e – mi azzardo a dire – in questa versione aurorale è addirittura attualissimo, un archetipo di lingua che partecipa del minimalismo d’oltreoceano trapiantato in Langa e di un residuo di lirismo spigoloso e avaro come una saponetta crepata dal sole.
Ci sono poi le questioni che Calvino dice urtano il gusto, le scene di amore, di sesso, di sguardi fruganti in quel guazzabuglio di impeti che affondano tra i sensi e il pudore. Che dire? Anche queste, a un orecchio del XXI secolo, suonano attualissime e ormai più che sdoganate.
Ettore ha una morosa diciottenne di nome Vanda. I loro sono convegni perlopiù fugaci in cui il rapporto carnale, gioioso ma sferzante, va di pari passo con un dialogo in bilico tra passione e scontrosità imperiosa. Prendiamo a titolo d’esempio la prima apparizione della ragazza, che è pure il primo incontro tra i due a cui il lettore assiste, e il primo andare su per la collina, in quel “casotto rustico” a mezza costa dove sono soliti avvenire i loro rendez-vous d’amore. È sera e i due hanno fretta perché lei deve farsi trovare fuori del cinema alle undici. Camminano, quasi corrono; lei sta davanti e promana sensualità perché sa “che lui ora non staccava gli occhi dal movimento svelto delle sue gambe sotto la gonna scodinzolante”. L’eccitazione però s’accavalla all’inquietudine di Ettore, al suo precorrere il futuro, il disagio per l’indomani in cui avrebbe iniziato il lavoro alla “fabbrica della cioccolata”. Lui la raggiunge, la stringe fortissimo, le fa paura; e poi riprendono la marcia e lei sfreccia incalzata dal desiderio di accoppiarsi sebbene lui creda che la premura stia sciupando tutto quanto. “Non correre così – le dice –, arrivi affannata e così non è più bello, dovremo perdere tempo perché tu ti calmi”. Finché poi, neppure mezza pagina oltre, si consuma l’amplesso, felice e brutale (con deviazioni espressionistiche: “le gambe di lei si agitarono per aria come le braccia di uno che annega”), durante il quale Vanda grida tanto, nel silenzio della collina, da spaventare Ettore.
I loro incontri appaiono tutti di questa risma; veloci, frenetici, quasi violenti; in lei sono esplosioni di godimento anche un po’ servile, mentre precipitano lui in una dimensione di felice rabbiosità e di irrazionale e morbosa attrazione verso la morte, probabile residuo della brutalità depositatagli dalla guerra (durante un precedente incontro, rievocato in flashback, era accaduto che Ettore avesse condotta Vanda in riva al fiume, che si fossero coricati quasi a sfioro dell’acqua e che Ettore avesse detto: “facciamo l’amore che ci vedano tutti gli spiriti degli annegati”; e che poi, di fronte alla ritrosia della ragazza, lui l’avesse picchiata).
Ci sono dunque in quest’uomo ruvidità, un’inquietudine distorta e addirittura sadica; sempre lungo il fiume, in un nuovo convegno, lei dice di non poter fare nulla con lui perché ha le mestruazioni ed Ettore, non è chiaro se per volontà di controllo oppure per cinico o perverso godimento, resta “abbasso ad aspettare che lei si sedesse e così poté vederle la macchia rossa al centro delle mutandine bianche”; fatto sta che la passione autoritaria, venata di scontento, che Ettore mostra nel rapporto erotico apre la via ad altre chiose sulla natura morale del protagonista e, legate ad esse, ad ulteriori considerazioni sui difetti che vennero accollati alla Paga del sabato.
S’è detto dell’eccessiva presenza del cinema; in una nota anonima custodita negli archivi Einaudi e che Luca Bufano ha con tutta sicurezza attribuito a Vittorini si legge: “I difetti del romanzo mi sembra che risultino confermati nella seconda versione. Il cartonaccio del cinematografo non lo leva più nessuno di là dentro”. Ciò risulta evidente nelle parti dedicate all’incontro tra Ettore e Bianco, come lui ex-partigiano, e negli episodi che vedono Ettore affiliarsi a quest’ultimo in una serie di attività illecite, come l’estorsione di denaro ai danni di ex-fascisti (tentativo di ribaltare i precedenti rapporti di potere), e il contrabbando di cocaina.
Ma che tipo di cinematografo è quello che l’orecchio di Vittorini e di Calvino sentivano suonare tra le righe? Una prima emblematica risposta la ricaviamo dalla pellicola che Ettore stesso va a vedere poche ore prima di inaugurare la sua vita da fuorilegge. È pomeriggio e vuole far venire le sei perché l’appuntamento con Bianco è per dopo cena. Al cinema danno Sfida infernale (titolo originale My Darling Clementine), western di culto del 1946, ma uscito in Italia nel 1948, interpretato da Henry Fonda e diretto da John Ford. È proprio il tipo di film che a Ettore piace, così sta lì a guardarselo per due volte di seguito; parla di uomini in banda che rubano mandrie, di pistoleri spacconi dalla pellaccia dura, di cowboys ubriacati da un senso dell’onore assoluto, di furfanti e assassini; è inoltre la prima pellicola cinematografica che epicizza la sfida all’O.K. Corral, la sparatoria più celebre dell’epopea western poi resa immortale dall’omonimo film del 1957, diretto da John Sturges, e interpretato da due giganti come Kirk Douglas e Burt Lancaster. Ciò che ha dunque in testa Ettore è il cinema americano, quello delle sfide tra uomini con la pistola facile, la polvere appiccicata al sudore, il whiskey nel bicchiere e un branco di donne asservite ai loro desideri. E questo, se vogliamo, fa oggi un po’ sorridere. Ma credo vadano fatte almeno due ulteriori considerazioni; la prima, la cui paternità va attribuita a Philip Cooke, che ha studiato la presenza filmica nella Paga del sabato, ci dice che così come Johnny interpreta la realtà attraverso il filtro della letteratura, così Ettore lo fa per mezzo del cinema, che è strumento di comprensione e orizzonte ideale entro cui sistemare la propria esistenza:
la matrice, il contorno dentro cui le decisioni di Ettore sono prese, così come la sua percezione del mondo esterno, contengono elementi cinematografici. Il cinema struttura la natura della sua comprensione del mondo. Questo tipo di idea appare anche ne Il partigiano Johnny, quando Johnny reagisce agli estremi della guerra partigiana evocando inconsciamente testi letterari, soprattutto lavori epici, in modo da capire un po’ del caos e del disordine che lo circondano. Davvero ad un certo punto egli si sente il protagonista di una serie di racconti brevi, dal momento che preferirebbe vivere la vita come se fosse in un romanzo. L’eroe de Il partigiano Johnny è ossessionato dalla letteratura, il protagonista della Paga del sabato dal cinema.
Epperò l’ossessione che Ettore dimostra per il cinema, specialmente americano, oltre ad invaderne i sogni e la realtà quotidiana (americane non sono solo le pellicole di cui si nutre, ma americani sono i cocktail che beve al bar, le canzoni che ascolta, la gestualità a tratti caricaturale che contraddistingue lui e gli uomini suoi compari, e americani sono i princìpi a cui informano le loro gesta, molto recitate, da fuorilegge), risulta il sintomo più evidente del malessere che lo divora. Il secondo rilievo si lega infatti alla disposizione psicologica di coloro che, ex-partigiani, faticano a rimettere gli abiti civili. Il reducismo può essere un dramma, e per Ettore lo è di sicuro. Il centro del romanzo ruota attorno al rabbioso malcontento di un ragazzo fatto uomo che non vuole accettare di andare sotto padrone ed essere destinato a un’esistenza mediocre, socialmente ed economicamente, quando qualche anno prima, in piena guerra partigiana, era lui a comandare venti persone. Nella scena che apre il terzo capitolo Ettore s’avvia al grande portone metallico della fabbrica della cioccolata dove inizierebbe il mestiere di impiegato compilatore di lettere di vettura. Ma lui proprio non ci sta, così si nasconde in un orinatoio e da quella ironica e misera specola osserva la strana umanità con cui aborrisce di mischiarsi:
Io non sarò mai dei vostri, qualunque altra cosa debba fare, mai dei vostri. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e viceversa. Io avrò un destino diverso dal vostro, non dico più bello o più brutto, ma diverso. […] Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie.
In tale prospettiva il cinema non è più solo modello di vita ma vocabolario dello scontento e disegno di evasione. Di fronte a una realtà deludente e opaca la risposta è il miraggio di qualcosa che è tanto lontano e tanto diverso da risultare non solo irraggiungibile ma addirittura marcatamente e dozzinalmente grottesco. Avevano ragione, in questo senso, Vittorini e Calvino quando lamentavano nelle scene cinematografiche una certa mancanza di gusto e di originalità, perché il cinema che insegue Ettore è una chimera disperata e rancorosa, una stizzita evasione, un cliché adottato in mancanza d’altro, non un ideale di perfezione come quello epico sospirato dal partigiano Johnny.
La vita è deludente e pure le pellicole in cui Ettore si nasconde e che mima nella vita reale lo sono, sebbene abbiano le parvenze di un mondo migliore. Ma non c’è mondo migliore. Tanto che i suoi sogni e le sue aspirazioni, anche quando deciderà di lasciare la vita da gangster per aprirsi una pompa di benzina in proprio (un’altra favola americana?) sono tutte deluse e grottescamente sommerse dal prosaico ma fatale epilogo. E ancora una volta la Paga del sabato è davvero il più moderno tra i romanzi fenogliani; il cinema che lo pervade assomiglia agli schermi dietro e dentro i quali ci tuffiamo oggi, alla ricerca di un anestetico che eluda e allevi un’esperienza del reale sempre più monotona e insignificante. Ma non è quella la soluzione.
E neppure ne offre una Fenoglio per il suo antieroe, fragile, seppure tutto d’un pezzo, così travagliato, di certo meno integro moralmente e psicologicamente del suo successore Johnny. La solitudine di Ettore non è incrollabile, muscolosa né nobilitante come quella del più celebre tra i partigiani di Fenoglio, quello che “partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”; la dimensione umana di Ettore non è grande né immobile nella conquista di una perfezione; è una dimensione guasta, in frantumi ma tenuta insieme dal fantasma del cinema.
Perché il reducismo che Fenoglio racconta tanto bene è un essere rimasti a mezza via, reduci non solo dalla guerra ma da un’esistenza piena, prigionieri di una terra di nessuno – tra la guerra e la pace, tra la vita e la morte –, sporcati dallo splendido mistero dell’urlo di libertà che era stata la guerra di Liberazione, ma che infine deposita in Ettore i segni duraturi di una febbre inesauribile, di un disadattamento sociale e psichico, di un’irriducibilità alle convenzioni e di un dispetto incurabile, che fa di lui un eroe (o un antieroe) attualissimo.
Articolo di Giacomo Verri
Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia (VC), dove vive e insegna lettere nella scuola media. Ha esordito con il romanzo Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), con cui era stato finalista al Premio Calvino, e ha pubblicato la raccolta Racconti partigiani (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2015). Nel 2019 ha pubblicato per Nutrimenti Un altro candore.
Fonte-Giacomo Verri Libri –il blog di chi ama i libri e la buona musica-
Castello di ORVINIO(Rieti)- Fotoreportage in B/N del 1935
Orvinio è un comune italiano di 387 abitanti della provincia di Rieti, in Lazio, che si erge su un colle attorno al suo imponente Castello appartenente al Casato dei Marchesi Malvezzi Campeggi.Orvinio fa parte del club dei borghi più belli d’Italia
-Comirias De Albroit e le Foto del settembre del 1928 –
Comirias De Albroit la critica alle foto di Eva Barret, Carlo Maselli di Torino, Helders di Vancuver, N.Y. Summona Vitrginia Wates, Erich Augenendt di Dortemud, Vernon di Londra,Francesco Agosti di Torino, P Dubreuil di Lilla ,pubblicate sulla Rivista :
“IL CORRIERE FOTOGRAFICO” numero di settembre 1928
Sullo sfondo di una città in guerra Ellen, una ragazzina per metà ebrea, fa amicizia con un gruppo di coetanei «con i nonni sbagliati». Tra giochi, paure, sogni, desiderio di fuga e addii, Ellen e i suoi compagni fanno esperienza della crudele realtà della persecuzione razziale e della minaccia costante della deportazione e della morte, affrontando un mondo assurdo e incomprensibile. La speranza iniziale di una fuga possibile, al di là dell’oceano, sembra destinata a svanire entro gli angusti e invalicabili confini della città assediata, ma si trasforma in una speranza più grande – forse meno terrena della prima, ma non per questo meno tangibile – che dischiude la possibilità di raggiungere la terra promessa, «dove tutto diventa azzurro». Un viaggio in dieci stazioni nelle pieghe profonde dell’esistenza e di una Vienna ferita, raccontato dalla voce corale dei perseguitati, sul crinale di una quotidianità che sconfina nella dimensione del sogno. Il romanzo di Ilse Aichinger è un coraggioso atto di resistenza al nulla esistenziale, un gesto di interrogazione del mondo e della lingua volto a restituire alla realtà devastata dalla guerra un senso nuovo, e a indicare, come fa la stella di David con Ellen, una strada da seguire.
L’autore-Ilse Aichinger
Ilse Aichinger è nata a Vienna il 1° novembre 1921 da un’insegnante austriaca e da un medico di origine ebraica. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Vienna insieme alla madre, mentre la sorella gemella, la pittrice Helga Michie (1921-2018), riesce a emigrare in Inghilterra. Nel 1942 gran parte della famiglia materna viene deportata e uccisa nel campo di sterminio di Malyj Trostenec. Uscito nel 1948, La speranza più grande è il primo e unico romanzo di Ilse Aichinger. Autrice di numerosi racconti, radiodrammi, poesie, aforismi e diari, Aichinger partecipa agli incontri del Gruppo 47, vincendo il premio nel 1952 con il racconto Spiegelgeschichte (Storia allo specchio). Nel 1953 sposa il poeta e drammaturgo tedesco Günter Eich. Insignita di molti e prestigiosi premi, nel 1995 riceve il Großer Österreichischer Staatspreis, premio di Stato austriaco per la letteratura. Muore a Vienna l’11 novembre 2016
Ilse Aichinger-La speranza più grande
Traduzione di Ervino Pocar A cura di Matteo Iacovella
Songs, Film, Painting, and Sculpture in Dylan’s Universe
A cura di: Carrera Alessandro, Fantuzzi Fabio, Stefanelli Maria Anita
Bob Dylan and the Artsè un dialogo tra voci che, da prospettive transdisciplinari, si sono occupate del genio di Bob Dylan. L’opera di Dylan, che ha il suo centro nella forma della canzone, si estende dalla poesia alla performance, dalla pittura alla scultura, dalla radio al cinema. Gli artisti, critici, docenti e musicisti qui convenuti hanno esplorato, ognuno da un diverso punto di vista, l’inesauribile creatività dylaniana. Le loro indagini conducono il lettore a scoprire non solo le molte facce della sua Musa, ma anche l’influenza su Dylan di Norman Raeben, poco noto maestro di pittura newyorchese, finalmente indagato in tutta la sua rilevanza. Bob Dylan and the Arts propone un Dylan dalle molte maschere ma dall’ispirazione fortemente unitaria, un impulso al fare arte che, nelle sue molteplici sperimentazioni e declinazioni, si muove entro un processo creativo che non ammette confini.
Pagine viii-260
ISBN 9788893593977
Anno 2020
Numero in collana 35
Collana: Biblioteca di Studi Americani
Argomenti: letteratura americana
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Giuseppe LANZA-All’albergo del sole- Solaria Editore-Firenze -1932
Articolo scritto da Sergio SOLMI per la Rivista PEGASO diretta da Ugo OJETTI
Giuseppe Lanza (Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Qualche giorno fa ho incontrato, a Roma, Marino Festuccia, fotografo classe 1984, originario di Rieti, che collabora con studi d’arte ed è molto richiesto per l’ottima qualità del suo lavoro. È un fotografo autodidatta che, nel corso degli anni, ha frequentato altri fotografi e numerosi studi d’arte attingendo a idee nuove e a nuove ispirazioni, imparando direttamente sul campo. Ha trovato particolarmente stimolante, edificante e creativo lavorare con i nudi, partire da essi e “costruire” su di essi, storie, momenti e situazioni.
D: Ciao Marino, vorrei subito chiederti qual è il tuo punto di partenza o di riferimento.
R: La mia base di partenza è il nudo, inteso come una tela bianca dalla quale partire per costruire qualcosa che abbia un’identità specifica e contraddistingua il soggetto fotografato senza alternarne le sue caratteristiche.
D:Perché ritieni il nudo una tela bianca?
R: Perché come in una tela bianca posso aggiungere i miei “colori” che sono accessori ed abiti che parlano della persona che li indossa.
D: Hai mai trovato delle difficoltà in questo senso?
R: Sì, spesso questa “tela bianca” ha bisogno di un aiuto, a volte incontro difficoltà a tirare fuori l’essenza del soggetto dal dettaglio e, in questi casi, supplisco con l’aiuto dell’ambiente. Uno sfondo può dire tanto e quanto un dettaglio, è un asso nella manica che, a volte, utilizzo anche quando ho pochissimo tempo o subentrano altre problematiche.
D: Possiamo quindi dire che il tuo è un lavoro di addizione?
R: Sì, ma è anche di sottrazione e, forse, parto proprio da questo. Io spoglio il corpo e dal nulla incomincio ad aggiungere dettagli chiarificatori che diano identità al soggetto ed evidenzino le sue caratteristiche. Non è un lavoro semplice, lavoro solo con le immagini, e quindi necessito di un processo di rielaborazione completo che parli da sé senza usare le parole. In un immagine si nasconde un gran lavoro sia estetico che meditativo.
D: In questo periodo sei alle prese con un nuovo progetto fotografico. Puoi dirci qualcosa?
R: Certamente. Il progetto è anche visitabile su Instagram alla pagina https://www.instagram.com/younalogue/ che è anche il nome del progetto (Younalogue), nato da poco e che, per la prima volta, nasce direttamente dal nulla ed è il mio primo progetto personale che attraverso il nudo sonda la percezione umana del proprio corpo. Realizzo le foto con pellicole da 35 mm scadute, poiché l’emulsione sulla pellicola diventa instabile e non hai il controllo totale sul risultato, cosa che invece conosci con pellicole normali e non ancora scadute.
D: Chi sono i soggetti scelti per “Younalogue”? Cerchi soggetti con caratteristiche in particolare?
R: No, e forse è questa la particolarità del progetto. Io, per natura, sono una persona molto empatica e la gente, spesso, si apre con me, mi racconta cose private, cerca il confronto. Partendo da questo, e da persone che avevano visto già delle foto, in modo spontaneo e naturale molti soggetti chiedono di poter posare sfidando, a volte, l’imbarazzo della nudità.
D: Puoi spiegarmi meglio questo passaggio?
R: Come ho già detto amo stare in mezzo alla gente, mi piace confrontarmi e dialogare con le persone. Voglio che mi conoscano e voglio conoscerle. A volte il raccontarsi fa crollare delle barriere e infonde coraggio soprattutto in chi non ha un’autostima del proprio corpo. E’ questa la parte più difficile del progetto: entrare in relazione con queste persone e portarle piano piano verso questa esperienza. La maggior parte delle persone mostra un atteggiamento conflittuale con il proprio corpo, vuoi per delle cicatrice, vuoi perché non risponde agli standard che il mondo sembra richiedere. A questo, però, le persone associano un rapporto emotivo con la foto che le fa avvicinare a quest’idea che sto portando avanti. Loro sanno che le foto non sono modificate e, nonostante questo, si spogliano concretamente dei vestiti e metaforicamente delle loro paure. Mostrano i loro inestetismi come segni di battaglie vinte, di periodi bui, diventano i simboli di decine di sfide personali che queste persone hanno affrontato. Vengono fotografati per quello che sono, persone comuni, non cerco modelli. Voglio cogliere quell’imperfezione che unisce tutti gli esseri umani. Con questi scatti, attuano un superamento della loro vergogna e la cicatrice o qualunque altro inestetismo simboleggia una sofferenza relegata al passato.
D: E’ un progetto, quindi, che ha una finalità sociale?
R: No! L’idea è nata come un progetto estetico che, però, con il tempo, ha acquisito moltissime sfumature e questa cosa mi ha dato nuova linfa per continuare allargando il mio raggio d’azione. Se a Roma io come spazio utilizzo lo studio fotografico La Loggia Bianca di Roma Est, sto iniziando a ricevere sempre più richieste da altre regioni d’Italia e, pertanto, sto pensando a dei punti di raccolta in alcune città come Milano, Olbia, Bologna, Firenze, Torino e Napoli, alcune delle quali ancora da definire meglio. Ho fatto questa scelta anche per permettere a chi è più lontano di avere, comunque, la possibilità di far parte di questo progetto che stupisce anche me giorno dopo giorno.
D: Come si avvicinano i potenziali soggetti al progetto?
R: Attraverso la circolazione delle sito e della pagina Instagram molti possono venire a contatto con questo mio lavoro. Ricevo molte telefonate e gli incontri non sono subito finalizzati allo scatto. A volte, delle persone possono incontrarmi più di una volta e solo in un secondo momento, in totale autonomia, decidono di spogliarsi. Io non lo chiedo mai, attendo silenziosamente che la cosa parta da loro, ritenendo questo aspetto fondamentale ed interpretato come un momento di fiducia che loro mi concedono.
D: Come procedi?
R: La base di partenza è un nudo integrale, poi loro in modo spontaneo decidono come posizionarsi. Preferisco che la cosa sia assolutamente spontanea affinché loro si sentano sempre a loro agio. Lo scatto avviene mentre parliamo, raccontiamo storie, aneddoti, o ascoltiamo della musica che fa da sfondo al momento. Poi, però, mi focalizzo su dei dettagli, su scorci del corpo che parlino da sé. E quando sento dire che le foto parlano da sole, nonostante il piccolo dettaglio, sento di aver raggiunto quell’obiettivo di dialogo totale con chi ha posato per me.
D: Questo ti permetterà di fare nuove conoscenze e allargare i tuoi orizzonti.
R: Decisamente sì. Come già detto amo stare tra la gente e poterlo fare mi fa sentire un privilegiato, ringrazio le persone che vengono da me e si aprono, anche se poco alla volta. Grazie a questo progetto sto conoscendo anche una nuova parte di me stesso, il confrontarmi con gli altri mi permette di acquisire nuova esperienza e nuove sfumature. Il mio ulteriore obiettivo è quello di arrivare a spogliami io, sia in senso fisico che emotivo ma, per farlo sento che devo ancora nutrirmi delle esperienze altrui.
D: Prima hai detto che questo è il tuo primo vero progetto. Prima non avevi mai fatto una cosa simile?
R: No, ho lavorato tantissimo con artisti, musicisti, modelle e ho acquisito esperienza. Grazie all’incoraggiamento di alcune persone a me molto vicine ho intrapreso questo viaggio più consapevole dei miei mezzi e contento di creare qualcosa che porti la mia impronta. Ho capito che era arrivato il momento di fare qualcosa di assolutamente personale, una ricerca che andasse al di là della finalità commerciale o lavorativa. L’idea tecnica del progetto è di realizzare 1000 scatti, ovviamente selezionati, per realizzare un’esposizione e poi, magari, un libro.
D: Bene Marino, grazie per il tempo che mi hai dedicato. Devo dire che il tuo progetto ha delle idee davvero interessanti e ti auguro buona fortuna per tutto!
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz mecenate cilena e leader del modernismo a Parigi-
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz (15 settembre 1860 – 1951)è stata una mecenate cilena del modernismo e un leader dello stile di Parigi dal 1880 al XX secolo, che ha aperto la strada all’estetica minimalista modernista che sarebbe stata ripresa di moda da Coco Chanel . La sua cerchia di amici e protetti comprendeva Pablo Picasso, Igor Stravinsky, Jean Cocteau e il poeta Blaise Cendrars. Era di origine basca.
Eugenia era famosa fin dalla tenera età per la sua bellezza; Le suore francesi hanno supervisionato l’educazione della ragazza. La giovane donna accrebbe la sua eredità nella miniera d’argento sposando José Tomás Errázuriz; un giovane e facoltoso paesaggista di una nota famiglia di produttori di vino.
La coppia si stabilì a Parigi, dove Eugenia attirò un seguito di alto profilo. Nell’autunno di quell’anno, incontrarono John Singer Sargent mentre erano in visita a Venezia, forse in luna di miele, e vedevano il fratello di José che aveva preso uno studio con Sargent a Palazzo Rezzonico. Descritta come una bellezza straordinaria, con un naso sottile e capelli corvini, è stata dipinta da Sargent che divenne molto affezionato a Madame Errázuriz e l’avrebbe dipinta diverse volte. Oltre a Sargent, è stata dipinta anche da Jacques-Emile Blanche (pittore francese 1861-1942), Giovanni Boldini, Paul Helleu, Augustus John, Ambrose McEvoy e Pablo Picasso.
Dopo che gli Errázuriz si stabilirono a Parigi, divennero amici di molti nella stessa cerchia dei Subercaseaux (Juan Subercaseaux Errázuriz, Pietro Suber, Tora Suber, Luis Subercaseaux, “Esuberanza”.) : l’ereditiera americana Winnareta Singer; il compositore francese Gabriel Fauré; I pittori francesi Joseph Roger-Jourdain, Ernest Duez e Paul Helleu; e l’artista italiano Giovanni Boldini.
Eugenia era un’appassionata sostenitrice delle arti e cercò artisti, sostenendo sia Stravinsky che Diaghilev a un certo punto, e stabilendo amicizie con scrittori e musicisti famosi come W. R. Sickert, Baron de Meyer, Jean Cocteau e Cecil Beaton.
La sua villa, La Mimoseraie, era il laboratorio di design in cui elevava la semplicità a forma d’arte. Nel 1910, scriveva Richardson, “si distingueva già per la scarsità non convenzionale delle sue stanze, per il suo disprezzo per i pouf e le palme in vaso e per la troppa passamaneria …. Apprezzava le cose molto belle e semplici, soprattutto i tessuti di lino cotone, arredi in abete o pietra, la cui qualità migliorava con il lavaggio o lo sbiadimento, lo strofinamento o la lucidatura. Ha curato il più piccolo dettaglio nella sua casa “. Per lei Elegance significa eliminazione. Errazuriz ha appeso tende di lino sfoderato e ha imbiancato le pareti come una casa di contadini – un approccio di decorazione scioccante nel 1914. Amo la mia casa perché sembra molto pulita e umile! lei si vantava di questo.
Cecil Beaton notò i pavimenti di piastrelle rosse che erano privi di moquette ma perfettamente puliti. Ha anche scritto di lei in The Glass of Fashion: Il suo effetto sul gusto degli ultimi cinquant’anni è stato così enorme che l’intera estetica della moderna decorazione d’interni, e molti dei concetti di semplicità … generalmente riconosciuti oggi, possono essere a fronte della sua straordinaria sobria eleganza. Il suo tavolo da tè offriva piatti semplici (niente torte “volgari”), secondo Beaton, che notò che il suo toast “era un’opera d’arte”. Sua nipote era entusiasta, tutto in casa di zia Eugenia aveva un odore così buono. È stato riferito che gli asciugamani odoravano di lavanda e che si è lavata i capelli con l’acqua piovana. Errazuriz detestava i set di mobili, soprammobili e cimeli abbinati. Spietata in materia di disordine, anche nei cassetti dell’ufficio, ha ordinato: gettando via e continuando. Questa era un’estensione della sua convinzione nella necessità di un cambiamento costante: una casa che non cambia, amava dire, è una casa morta. Errazuriz ha proiettato il suo stile purista in ogni angolo della sua vita. Se la cucina non è ben tenuta come il salone. . . non puoi avere una bella casa, ha dichiarato.
Il designer Jean-Michel Frank è diventato il suo discepolo più dotato. Jean Cocteau le presentò Blaise Cendrars, che si dimostrò un mecenate solidale, anche se a volte possessivo. Intorno al 1918 visitò la sua casa e fu così preso dalla semplicità degli arredi, fu ispirato a scrivere la sequenza di poesie D’Oultremer à Indigo (From Ultramarine to Indigo). Alloggia con Eugenia nella sua casa di Biarritz, in una stanza decorata con murales di Pablo Picasso.
Una delle amicizie più importanti e durature di Eugenia è stata con il pittore americano espatriato John Singer Sargent a un passaggio nelle memorie del pianista Arthur Rubinstein che ha ricordato l’alta lode di Sargent per Eugenia:
“Non ho mai conosciuto nessuno con il gusto immancabile e misterioso di questa donna. Che si tratti di arte, musica, letteratura o decorazione d’interni, vede, sente, odora, il vero valore, la vera bellezza.”
In tarda età, Eugenia Errázuriz divenne una francescana terziaria (una suora laica), vestita con un semplice abito nero disegnato da un altro minimalista, Coco Chanel. Un ambiente adatto per questo guardaroba non è mai stato costruito. Sebbene Le Corbusier sia stato incaricato di progettare la sua casa sulla spiaggia in Cile, lasciò scadere il progetto prima di morire a Santiago nel 1951, investita da un’auto mentre attraversava una strada all’età di 91 anni. Villa Eugenia, fu infine costruita in Giappone.
TRAMA-E se un giorno un politico cominciasse a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità? Il politico in questione si chiama Michele Spagnolo, un nome forte, di quelli che comandano, ed ha tre figli: Riccardo, medico integerrimo e socialmente impegnato; Susanna, attrice di fiction senza alcun talento; Valerio, un buonannulla in carriera che deve tutto al padre. In oltre trent’anni di onorata carriera Michele ha sempre anteposto i suoi interessi personali a quelli della collettività ed è passato indenne attraverso i mille scandali che hanno flagellato il nostro paese. L’ultima cosa al mondo che dovrebbe succedere ad un uomo del genere è dire la verità…Eppure, dopo una notte trascorsa con una “promettente” soubrette televisiva, Michele viene colto da un malore, si salva, ma non senza conseguenze. L’apoplessia ha colpito proprio la parte del cervello che controlla i freni inibitori ed ora il politico dice tutto ciò che gli passa per la testa, fa tutto quello che gli va e non ha la minima cognizione della gravità delle sue azioni.
• ANNO: 2012
• REGIA: Massimiliano Bruno
• SCENEGGIATURA: Massimiliano Bruno, Edoardo Falcone
• ATTORI: Raoul Bova, Michele Placido, Rocco Papaleo, Ambra Angiolini, Alessandro Gassmann, Edoardo Leo, Maurizio Mattioli, Sarah Felberbaum, Isa Barzizza, Rolando Ravello, Imma Piro, Camilla Filippi, Barbara Folchitto, Nicola Pistoia, Valerio Aprea, Ninni Bruschetta, Stefano Fresi, Sergio Fiorentini, Remo Remotti
• • FOTOGRAFIA: Alessandro Pesci
• MONTAGGIO: Patrizio Marone
• MUSICHE: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
• PRODUZIONE: Italian International Film
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