MILANO (ITALPRESS) – Descrizione del libro di Roberto Fiorentini –“I dimenticati”- Nel Maggio 1940. Ai circa 25 mila italiani residenti in Libia, tra Tripoli, Bengasi e la Cirenaica, è notificata una circolare delle autorità locali. Invita le famiglie, con figli dai 5 ai 10 anni, a inviarli in Italia dove sarebbero stati accolti, per tutto il periodo estivo, nelle colonie marine costruite del Regime Fascista. Il 3 giugno 3000 bambini, partono così dal porto di Tripoli, a bordo della nave ‘Augustus’ Il giorno successivo per il porto di Napoli. Trasferiti nelle colonie del regime chi sul mar Adriatico, chi sulla riviera ligure di Ponente, chi in zone montane. Non torneranno mai più nelle loro famiglie.
Racconta tutta questa incredibile odissea il nuovo libro del giornalista Roberto Fiorentini dal titolo ‘I dimenticatì (Ronca Editore). Lo fa con la voce di una delle sopravvissute: Silvia Napoletano, ora 92enne e che vive nel piacentino. Una storia oscura e drammatica del regime fascista quasi mai raccontata e rimasta solo nella memoria personale dei pochi sopravvissuti.
La narrazione parte proprio dalle terre libiche e da quel terribile viaggio in nave dove 3000 bambini erano stati ammassati ‘come pecorè (così racconta Silvia) per raggiungere il porto di Napoli, sempre controllati dalle ‘educatricì e dalle ‘camice nerè. La voce della protagonista narra la sua odissea. Prima nelle colonie estive della Romagna; poi in quelle in collina sull’appennino tosco romagnolo. Vita da caserma per quei bimbi e quelle bimbe.
“Alla caduta del regime la vita diventa un vero inferno”, racconta Silvia. Cibo finito. Vestiti spariti. Scarpe inesistenti. Notti da brividi e da paura in mezzo alle sparatorie tra i partigiani, uomini allo sbando del fascismo e truppe tedesche in ritirata. A pranzo e a cena solo l’erba che, di giorno, quelle bambine raccoglievano nei campi a combattimenti sospesi.
Fiorentini traccia anche una vera mappa di questi luoghi soprattutto nell’Italia del Nord che dovevano essere di villeggiatura ma che, con il passare del tempo, si sono trasformati in grandi carceri da cui non potere più uscire. Ricostruisce l’indottrinamento a cui erano sottoposti. Lettere, canzoni, disegni : tutto era utile per far celebrare ai bimbi le ‘progressive sortì del regime.
Un viaggio nell’orrore troppo velocemente dimenticato dalla memoria collettiva del Paese. “Ho voluto dar voce a questi bambini – dice Fiorentini – perchè i bimbi, ieri come oggi, sono le principali vittime di ogni conflitto bellico. I più indifesi. I più deboli. E per questo i più ‘Dimenticatì”.
– Foto: Fiorentini –
(ITALPRESS).
Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana.
Editore Einaudi
Descrizione del libro Gli uomini di Mussolini-Al termine della Seconda guerra mondiale molti tra i più alti vertici dell’esercito o degli apparati di forza del fascismo furono accusati di omicidi e torture, ma nessuno venne mai processato o epurato. Nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da un tribunale internazionale. Diversi di loro furono invece coscientemente reintegrati nei loro posti di responsabilità, dando corpo a quella «continuità dello Stato» che rappresentò una pesante ipoteca sull’Italia repubblicana. Attraverso l’analisi di una gran mole di documenti, Conti ricostruisce le vicende personali e i profili militari di alcuni dei principali funzionari del regime di Mussolini e illumina uno dei passaggi più appassionanti e controversi della nostra storia.
Mussolini-Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.
Marco Mondini- Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita
Editore Il Mulino
Descrizione del libro di Marco Mondini-Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita «I fascisti erano ossessionati dal potere, e dalla possibilità di redimere la nazione e di trasformare gli italiani, anche a costo di eliminare tutti quelli che non erano d’accordo con loro. […] Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione.» L’ascesa al potere del fascismo e il suo atto culminante, la cosiddetta marcia su Roma, possono essere capiti solo all’interno di un quadro più vasto, quello di un’Europa incapace di chiudere i conti con la Grande guerra. E se furono soprattutto i paesi sconfitti a scoprire che uscire dalla cultura dell’odio e della violenza quotidiana non era facile, frustrazione, scontento e desiderio di rivalsa si impossessarono anche degli italiani che pure – almeno formalmente – la guerra l’avevano vinta. Marco Mondini compone la storia corale e implacabile di un’Italia in cui la lotta politica si trasforma in guerra civile e che scivola via via verso il lungo ventennio della dittatura fascista.
Breve biografia di Marco Mondini-Storico
Si è laureato all’Università di Pisa in storia militare nel marzo 1998, e nel novembre dello stesso anno si è diplomato alla Scuola Normale Superiore in discipline storiche. Ha conseguito il perfezionamento (dottorato) in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore nel 2003[1]. Tra 1999 e 2000 ha prestato servizio nell’Esercito Italiano come ufficiale di complemento, prima alla Brigata “Tridentina” e poi, come ufficiale incaricato della pubblica informazione, presso il Comando Truppe Alpine.
Dal 2003 al 2005 è stato borsista di post-doc all’Università di Padova. Nel 2006 è stato borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Dal 2006 al 2010 assegnista di ricerca in Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore. Dal 2011 al 2017 è stato ricercatore all’Istituto storico italo Germanico-FBK di Trento, dove ha diretto il gruppo di ricerca “1914-1918” (FBK – Università di Trento), e dove dal 2017 è affiliated fellow.[2] Negli stessi anni è stato anche visiting fellow all’ENS di Parigi, all’università di Lille “Charles De Gaulle”, all’università di Paris 7 “Diderot”, all’Oberlin College (USA) e allo US Army War College di Carlisle (Pennsylvania, USA) ed è stato nominato chercheur associé al CNRS e all’Università di Paris-Sorbonne[3]. Dal 2017 è diventato prima ricercatore e poi professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova, dove insegna History of conflicts e Storia contemporanea e dove, dal 2023, è Delegato alla comunicazione e alla terza missione [3]. Dal 2019 è membro del Comité directeur del Centre International de Recherche dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne.
Durante il Centenario della Grande Guerra, ha fatto parte come consulente della Struttura di missione anniversari nazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.[4] Collabora con Il Corriere della Sera, con Il Foglio e con Rai Storia, per la quale ha scritto e condotto diversi documentari e le trasmissioni “Archivi. Miniere di Storia” (2018-2019) e dal 2020 al 2024, quando il rapporto tra i due si è interrotto, insieme a Michela Ponzani, “Storie Contemporanee”.[5] Dalla sua prima stagione, è ripetutamente ospite della trasmissione Passato e Presente condotto da Paolo Mieli (Rai 3 – Rai Storia) [6]Nella stagione 2023/2024 e 2024/2025 ha collaborato con Aldo Cazzullo per alcune puntate della trasmissione Una giornata particolare(La7).[7] Nel 2023 ha partecipato al documentario “La caduta”, condotto da Ezio Mauro per La7, sul 25 luglio 1943.[8] Nel 2024 è consulente e tra le voci narranti del documentario “I survived the Holocaust” diretto da Sanela Prašović Gadžo, presentato al Sarajevo Film Festival e allo Stockolm Film Festival.[9]
Gli sono stati attribuiti diversi riconoscimenti tra cui il premio nazionale “Friuli Storia” (2017) per la biografia di Luigi CadornaIl Capo, e il premio “Acqui Storia. Storico in TV” (2022) per il documentario L’ultimo eroe. Viaggio nell’Italia del Milite Ignoto (RAI Storia[10]), scritto e condotto insieme a Nicola Maranesi e Fabrizio Marini.
Opere
Veneto in armi. Tra mito della nazione e piccola patria 1866-1918, Collana Le guerre, Gorizia, LEG, 2002, ISBN 978-88-869-2853-3.
Armi e potere. Militari e politica nel primo Dopoguerra, Quaderni della Fondazione Luigi Salvator, Roma, Aracne, 2006, ISBN978-88-548-0745-7.
La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito italiano nell’avvento del fascismo, Collana Quadrante, Roma-Bari, Laterza, 2006, ISBN 978-88-420-7804-3.
Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, con Guri Schwarz, Collana Nord-Est. Nuova serie, Verona, Cierre, 2008, ISBN 978-88-831-4439-4.
Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza, 2008, ISBN 978-88-420-8652-9.
Venezia, Treviso e Padova nella grande guerra, con Lisa Bregantin e Livio Fantina, Collana 900 Veneto. La Grande Guerra, Istresco, 2008, ISBN978-88-888-8039-6.
Fiume! Scene, volti, parole di una rivoluzione immaginata 1919-1920, con Alessio Quercioli e Fabrizio Rasera, Museo Storico Italiano della Guerra, 2010, ISBN 978-88-322-6612-2.
Generazioni intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946), Edizioni della Normale, Pisa, 2011, ISBN 978-88-764-2405-2.
La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2014, ISBN 978-88-152-51633.
De Gasperi e la Prima guerra mondiale, con Maurizio Cau, FBK Press, 2015, ISBN978-88-989-8923-2.
Andare per i luoghi della grande guerra, Collana Ritrovare l’Italia, Bologna, Il Mulino, 2015, ISBN 978-88-152-5794-9.
Il capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna, Biblioteca Storica, Bologna, Il Mulino, 2017, ISBN 978-88-152-7284-3. [Audiolibro letto da Ezio Bianchi, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2017], traduzione in tedesco: Der Feldherr. Luigi Cadorna im Grossen Krieg 1915-1918, Berlino / Boston, De Gruyter 2022 ISBN 978-3-11-069342-3
Fiume 1919. Una guerra civile italiana, Collana Aculei, Roma, Salerno Editrice, 2019, ISBN978-88-697-3364-2. – Collana Itinerari nella storia n.24, Milano, RCS MediaGroup, 2024.
Tutti giovani sui vent’anni. Una storia di alpini dal 1872 a oggi, Collezione Le Scie. Nuova serie, Milano, Mondadori, 2019, ISBN 978-88-047-1224-4.
Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2022, ISBN 978-88-152-9927-7.
Il ritorno della guerra, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2024, ISBN978-88-153-8810-0.
Curatele
Armi e politica. Esercito e società nell’Europa contemporanea, con J.F. Chanet, D. Ceschin, H. Kuprian, C. Jahr, A. Argenio, numero monografico di “Memoria e Ricerca”, 2008, 28.
Narrating War. Early Modern and Contemporary Perspectives, con M. Rospocher, Duncker&Humblot – Il Mulino, Berlino-Bologna, 2013.
Descrizione del libro di Lorenzo Tibaldo-Nato in una famiglia di minatori di tradizioni repubblicane e antifascista convinto, Jacopo Lombardini (Gragnana, 1892-Mauthausen, 1945) ha dedicato la sua vita alla causa della libertà, rappresentando la parte migliore della storia dell’Italia, quella democratica e repubblicana che si esprime nella Costituzione. Alimentate dalla fede evangelica, cui Lombardini si converte nel 1924, le sue idee –– che trovano la loro radice in Mazzini, Garibaldi e nell’epopea risorgimentale – si riaffermano in seguito nella lotta partigiana contro il nazifascismo. Una coerenza di scelte di vita che lo porta alla morte nel campo di sterminio di Mauthausen, dove viene gasato il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Il libro in pillole
La cultura come madre della responsabilità e del senso del dovere
L’anelito verso la libertà e la giustizia
Il rapporto tra coscienza religiosa e libertà politica
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo
studioso di storia dell’Ottocento e Novecento, in particolare delle organizzazioni del movimento dei lavoratori e della Resistenza. Per Claudiana ha pubblicato Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), (Torino, 2005); Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Torino, 2008).Lorenzo Tibaldo ci propone questo suo secondo libro su un martire evangelico della Resistenza1 in un momento particolar- mente difficile della vita nazionale: da una parte il Paese attra- versa una fase di crisi economica, politica, morale (e spirituale), dall’altra parte molti italiani sono ben disposti a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia anche se qualcuno contesta il Risorgi- mento, e soprattutto quel secondo Risorgimento che è stata la Resistenza.
Prefazione di Giorgio Bouchard
Orbene, la bella e tragica vicenda di Jacopo Lombardini ci presenta un prezioso filo conduttore tra i due Risorgimenti; e questo filo è la fede evangelica: una fede scoperta a trent’anni e poi collaudata in mezzo alle più orride vicende del «secolo della menzogna», il Novecento.
1 Il primo è stato Lorenzo Tibaldo, Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), Torino, Claudiana, 2005. È invece dedicato a due «martiri laici» il volume L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacro e Bartolomeo Vanzetti, Torino, Claudiana, 2008.
Ma andiamo con ordine: Lombardini, per così dire, «nasce mazziniano»: figlio di poverissimi cavatori delle Apuane, non milita nelle file degli anarchici così numerosi (e perseguitati) a Carrara e dintorni, ma appunto nelle file dei repubblicani. Il motivo di questa scelta sta in un fatto molto semplice: suo padre è stato garibaldino, e costituisce per lui una sorta di “cordone ombelicale” con la stagione del Risorgimento: fin da ragazzo, Jacopo si trova così perfettamente a suo agio con le idee di Giu- seppe Mazzini, con la sua passione democratica e con il suo af- flato morale, anzi, spirituale: giustamente, Tibaldo, sulla scorta di studi recenti, mette in rilievo il versante religioso del messag- gio mazziniano2: un messaggio che spinge alla lotta politica ma non preclude nessuno sviluppo interiore e spirituale.
Così, Jacopo sarà un militante politico per tutta la vita, ma non sarà mai vittima di quelle tentazioni immanentistiche che hanno compromesso e indebolito la causa per cui lottavano tan- ti generosi rivoluzionari del Novecento.
Con la consueta discrezione, Tibaldo ci suggerisce una pista di riflessione che ci permette di capire la personalità poliedri- ca di Lombardini: povero maestro licenziato (e bastonato), ri- dotto a vivere di lezioni private, Jacopo è in realtà soprattutto uno scrittore, alla pari di quel Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che gli fu tanto amico: torniamo così a rileggere con emozione quei romanzi che avevamo scoperto settant’anni fa nelle aule del Collegio valdese, ma soprattutto leggiamo per la prima vol- ta i suoi brevi articoli pubblicati su “La Luce” e su “L’Eco delle Valli Valdesi” a cui si affiancano le indimenticabili predicazioni dell’epoca partigiana.
In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pen- sati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia. La fede è arrivata nella vita di Jacopo, molto pro-
2 Vedi in part. M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. A parte il titolo francamente infelice (ma quan- do smetteremo di mimare quel grande intellettuale liberal-protestante che fu Ugo Grozio?), si tratta di un saggio pieno di idee che ci stimolano e ci costrin- gono a una risposta.
testanticamente, attraverso la predicazione: un sermone del pastore valdese Seiffredo Colucci casualmente (casualmente?) ascoltato nella chiesa metodista di Carrara3. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni: «predicatore lo- cale», evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscrimi- nata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali.
La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impe- gnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi. Tibaldo riporta due testi in cui Lombardini esprime il suo amore stu- pefatto per quelle Valli4. Idealizza un po’ quei tenaci montana- ri, ma nella sostanza non sbaglia: di lì effettivamente è passata molta storia della testimonianza evangelica in Italia e ha lasciato tracce indelebili. Quando scrive quelle righe commosse, Jacopo non sa che toccherà proprio a lui scrivere una nuova pagina di quella storia, e la scriverà con i suoi sermoni, con la sua cultura, e infine con il dono della sua vita: un dono sereno e generoso, com’era lui.
Un grosso merito di questo libro è che Tibaldo fa spesso parlare i testimoni oculari: valorosi partigiani che a diciott’an- ni proprio da Jacopo furono spinti alla militanza; compagni di sventura a Mauthausen; semplici conoscenti.
In qualche caso si tratta di documenti scritti dai protagonisti, ma in altri casi si tratta di apposite interviste: a dire il vero, esse sono i testi che leggiamo con maggiore emozione.
3 Seiffredo Colucci ha dialogato con Lombardini nei momenti cruciali della sua vita: la conversione e la Resistenza. Le testimonianze scritte del pastore Co- lucci sono di grande valore per una piena comprensione dell’animus di Jacopo.
4 Questo amore traspare anche in alcuni romanzi di Lombardini: soprat- tutto ne La croce ugonotta (Torre Pellice, 1943). Ma chi è stato suo allievo non dimenticherà mai il “tono” con cui Jacopo accompagnava gli studenti a visitare i «luoghi storici valdesi»: Pradeltorno, Chanforan, la Ghieisa d’la tana, la Gia- navella, Sibaud.
Il libro di Tibaldo ha però anche un altro versante: inqua- dra la vicenda di Lombardini nel contesto del valdismo «anni Trenta», esponendo ampiamente le tesi del Viallet5. Apparten- go al gruppo di responsabili che ha approvato la pubblicazione di questo libro, e non me ne pento. A distanza di 25 anni mi permetto tuttavia qualche nota marginale, che aggiungo alle ri- serve critiche espresse da Tibaldo: è vero, i valdesi (e gli altri evangelici) non sono stati proprio coraggiosi come gli amici di Daniele nella fornace ardente6, ma vivevano in un momento in cui autorevoli osservatori dichiaravano che quella fornace non era poi tanto calda, oppure la trovavano addirittura interessan- te: tali erano per esempio Bernard Shaw, secondo il quale «l’one- sta dittatura fascista è meglio dell’ipocrita democrazia inglese», ed Emmanuel Mounier che tornava entusiasta da un congresso di giovani fascisti tenuto a Roma. A questi sublimi ingegni mi permetto di contrapporre Enrico Tron, pastore di San Germano Chisone e membro della Tavola valdese: Pietro Arca “appunta- to” dei carabinieri, aveva l’incarico di chiacchierare spesso con il pastore per farlo “cantare”. Tron aveva infatti fama di antifasci- sta filoinglese e aveva tenuto ostinatamente chiusa la sua chie- sa il giorno della proclamazione dell’impero fascista (9 maggio 1936). In paese c’era però un’altra chiesa, che aveva accolto il corteo dei labari fascisti… sfavillante di luci. Ma il pastore non “cantò” e invece l’appuntato Arca sposò un’evangelica e divenne poi, con la sua famiglia, membro fedele della chiesa valdese di Ivrea. La storia, come la vita, è infatti piena di imprevisti che non è il caso di trascurare.
Condivido invece una tesi che Viallet riprende da Mastro- giovanni ed è l’aperto antifascismo del giovane teologo Vittorio Subilia: il suo coraggio è stato confermato da recenti pubblica-
5 J.P. VialleT, La chiesa valdese di fronte allo Stato fascista, Torino, Claudiana, 1985.
6 Daniele 3,1-30.
zioni7 e rimane un monito per noi che viviamo in tempi quasi egualmente difficili.
Quest’anno corre il centesimo anniversario della nascita di Subilia: quando ricorderemo la sua (fondamentale) attività di pastore e di teologo, cercheremo di ricordarci anche del suo co- raggio civile.
Ringraziamenti
Si ringraziano Giorgio Bouchard, Sergio Coalova, Donatella Gay Rochat e Giulio Giordano per i suggerimenti dati alla stesura del libro.
Per la documentazione iconografica il nostro ringraziamento va a Sergio Benecchio, Marcella Gay, Anna Pennisi della Biblioteca comu- nale di Carrara, e Letizia Tomassone, pastora della Chiesa evangelica di Carrara.
INDICE
Prefazione di Giorgio Bouchard 7
La pietra della miseria 17
Con Garibaldi e Mazzini 33
L’immensità della fede 51
Una fede concreta 61
Le Valli della libertà 83
La fragilità dell’anima 99
Uno sperone roccioso 115
La collina della morte 137
La memoria dei giusti 155
Bibliografia essenziale 175
Indice dei nomi 179
SCHEDA. Jacopo Lombardini (1892-1945)
Di Agenzia NEV
Jacopo Lombardini nasce il 13 dicembre 1892 a Gragnana, frazione di Carrara, e viene ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen il 25 aprile 1945, in una camera a gas, insieme ad altri giovani deportati, partigiani ed ebrei.
Figlio di Francesco Lombardini e Assunta Mussetti, Jacopo cresce in una famiglia poverissima di cavatori di marmo. Finite le elementari, Lombardini vuole continuare gli studi, che poi è costretto a interrompere, riuscendo tuttavia a ottenere la licenza magistrale. Studia inoltre per alcuni anni alla Facoltà di teologia di Roma, che abbandona nel 1924.
Dotato di una memoria prodigiosa, Lombardini è il maestro per antonomasia. La sua passione di educatore lo accompagnerà sempre, insieme alla sua straordinaria preparazione letteraria e storica. Il suo primo volume in rime esce quando Lombardini ha 16 anni, è quindi letterato, poeta, predicatore, scrittore. Scrive Giorgio Bouchard nella prefazione alla biografia “Il viandante della libertà“, curata da Lorenzo Tibaldo per Claudiana: “In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pensati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia”.
La fede, anzi la “conversione” come da lui stesso definita, è arrivata nella vita di Lombardini con un sermone ascoltato nella chiesa metodista di Carrara. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni. Il sermone è del pastore valdese Seiffredo Colucci, che quel giorno sostituisce il pastore titolare.
Del metodismo, prosegue Bouchard, il Lombardini “predicatore locale, evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscriminata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali. La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impegnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi”.
La sua figura “rimane nel nostro cuore – come in quello di centinaia di partigiani, lavoratori, di studenti – come la parabola di una dialettica coniugazione tra fede evangelica e responsabilità politica, tra pietà e razionalità, tra fragilità dell’uomo e forza delle idee, tra sconfitta personale ed efficacia storica, in una parola: una vita vissuta unicamente per grazia, la vita di un discepolo di Gesù Cristo” scrive, sempre Bouchard, nella prefazione al volume “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Claudiana). In questo libro, ormai fuori catalogo, sono raccolte anche le trascrizioni di parti dei “Quaderni” di Lombardini. Tre “diari”, uno probabilmente affidato al defunto professore Samuele Tron, pubblicato dopo la guerra. Il secondo, rimasto sepolto sotto terra per molti mesi, poi restaurato dalla Biblioteca nazionale di Torino. Il terzo trovato addosso a Lombardini il giorno della cattura, usato dai suoi aguzzini per gli interrogatori e poi ritrovato a Pinerolo dai partigiani della divisione Val Chisone dopo la Liberazione. I Quaderni presentano e raccontano la Banda partigiana, gli aforismi, le storie, gli attacchi, le spedizioni, i bombardamenti, i compagni e le compagne di lotta.
9 aprile 1928, Bocca di Magra. Jacopo Lombardini fra i soci dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA). Immagine tratta dal libro “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Ed. Claudiana).
Nel 1915 Lombardini si iscrive al Partito repubblicano. Mazziniano convinto (in casa si affianca la croce al ritratto di Mazzini), scoppiata la Prima guerra mondiale, Lombardini inizialmente si dichiara interventista. Pronto ad affrontare anche la morte, viene riformato più volte e poi arruolato in fanteria. A giugno 1918, in virtù delle sue doti intellettuali, viene nominato propagandista e trattenuto al comando, praticamente senza mai entrare in trincea. A seguito della morte improvvisa del padre, rientra a Carrara poco prima della fine della guerra. Gli anni ’20 sono per Lombardini gli anni della conversione, ma anche quelli in cui il fascismo lo estromette dall’insegnamento per via delle sue opinioni politiche. Nel 1940 si trasferisce a Torino, diventa membro della Chiesa valdese e viene assunto come maestro nel Convitto valdese. Nel 1943 aderisce al Partito d’Azione e si unisce poi alla lotta partigiana. Partigiano disarmato, con il nome in codice di “Professore”, la sua lotta di Resistenza si esprime come commissario politico, continuando sia la predicazione evangelica sia la contro-informazione antifascista. Viene catturato nel rastrellamento del 24 marzo 1944 in Val Germanasca, dalle SS tedesche e da fascisti italiani. Lombardini è brutalmente torturato insieme a Giancarlo Levi, Emanuele Artom, Silvio Rivoir, Mariano Palmery e altri. Da Bobbio Pellice viene trasferito al carcere di Torino, poi a Fossoli, a Bolzano e il 5 agosto viene deportato al Campo di concentramento di Mauthausen, dove sopravvive per diversi mesi. Viene ucciso il 25 aprile 1945, proprio nel giorno della Liberazione.
Nel dopoguerra viene conferita la Medaglia d’argento alla memoria di Jacopo Lombardini, “Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio, animatore infaticabile della lotta di liberazione in Val Pellice e in Val Germanasca, conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà ed alla Patria. Caduto in mani tedesche nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva contegno elevato ed esemplare affrontando sempre con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.”
Il 21 aprile 2023, su iniziativa di una classe del Liceo valdese di Torre Pellice e in collaborazione con altre realtà e istituzioni, viene scoperta una pietra d’inciampo in sua memoria.
A Lombardini sono state intitolate, fra l’altro, una scuola e il Centro Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo, prima “comune“, poi centro promotore di attività educative, culturali e di integrazione.
Romana Bogliaccino-Scuola negata-Le leggi razziali 1938-Come e perché nel 1938 anche nel migliore liceo della Capitale 58 studenti e un’insegnante furono espulsi solo perché ebreiIl caso del liceo “Ennio Quirino Visconti” di Roma assume caratteristiche paradigmatiche nel quadro generale dell’impatto delle “leggi razziali” sulla scuola italiana. Frequentato fin dalla sua fondazione nel 1870 da molti ebrei della comunità romana, finalmente emancipati, il liceo registrò nel 1938 un numero molto elevato di studenti espulsi, ben 58, oltre a una docente. Il libro ricostruisce tutto ciò, attraverso uno studio approfondito di numerosi archivi, per primo quello del liceo “Visconti”, intrecciato con le testimonianze delle famiglie, con le storie degli espulsi, e permette di capire, nel vero senso della parola, cosa sia stato il fascismo e cosa sia stata la persecuzione degli ebrei a Roma dal 1938 al 1944. Perché al di là dei numeri, delle statistiche, dei meri dati, sono le vite delle persone che raccontano la storia, la vera storia del fascismo e delle sue vittime.
Romana Bogliaccino ha insegnato Storia e Filosofia presso il Liceo Classico Statale “Ennio Quirino Visconti” di Roma per più di vent’anni. Impegnata in studi e iniziative didattiche sulla memoria della Shoah, ha ideato e diretto dal 2013 il progetto L’Archivio del Visconti e la Storia, nell’ambito del quale ha promosso la Rete Scuola e Memoria – Gli Archivi scolastici italiani. Ha conseguito il Master Internazionale in Didattica della Shoah presso l’Università Roma Tre ed è tra i soci fondatori dell’associazione ETNHOS (European Teachers Network on Holocaust Studies).
Il 5 febbraio 2004 all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerra come pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che da partigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e a raccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente. Questo articolo riflette su una parte della sua eredità.
Sono rimasto sull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se in quel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.
Non ero mai stato prima nella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede della fondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisa con l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongono l’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invece trasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazione d’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.
Se una persona l’hai conosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certo effetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questa ragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tanti libri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodo fisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovuto scrivere: la guerra, in tutte le sue forme.
Rimango lì, a quella che ritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto
Revelli è stato prima un ufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in anni di fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dalla ritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 è diventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa” per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosia tutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la sua scrittura – più che vocazione o vezzo – è stato uno strumento, l’unico, con cui provare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un «pagherò»: «Ricorda – mi dicevo – ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
I creditori di Nuto erano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani in battaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizie nelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo così si può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui racconta la guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a un certo punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerra inedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischio un’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto si poteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce e assicurando «un nome e un cognome ai testimoni».
Duecentosettanta storie di vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornare per sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma sempre presente.
E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda Marco Revelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta e tutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio ad ascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i fine settimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «la scatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneese battute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tutte le caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i due conflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazione e l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree più marginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territori abbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.
Era facile nel 1977 quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora, liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempi andati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e le storie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria di per sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupato dall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monocultura economica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita dai diserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era che si dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima che fosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole e masche
Prima erano serviti i fucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in fila le une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versi molto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo di ragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale di una brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come in esilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlare con testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebbero romanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente, garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale al forestiero non si confessava alcunché.
Non è eccessivo raccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma di resistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà dei consumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza di un’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano le argomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dello sviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Una tendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo di autonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o la chiesa erano riusciti a minare.
Il mondo dei vinti di Revelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta di questo processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni e il rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciole e delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”, dai letterati, dai “colti”».
Anche per questo Nuto predilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata. Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trova in realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadini emerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, di fatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamente rispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessità che per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità di quel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.
E poi il dialetto, di cui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perché simbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlare con me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella lingua rappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propria rappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certo era anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese è straniero».
Ci ha pensato la «modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sino quasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi, vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).
La diserzione
Nuto Revelli aveva paura che il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisse considerato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, ed è, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono solo per farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuove consapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione», con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alle destre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere i garanti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forze della sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano o fingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la sua parte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello di sviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come le forze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividere in quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivo l’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo in declino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero via da quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamo che una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostri discorsi non facevano breccia».
In un’intervista a «Nuova Società», Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggi anche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certi problemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarme non sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno della sinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per la discussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in un dialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordone ombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr) collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se il sindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima della fabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poi stupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono. […] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte della Michelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sia notte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sono rimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordano quelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta il fenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa di destra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventa difficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistra la subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dello sviluppo» dal proprio popolo?
È tutta qui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti e insieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuove consapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere in discussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lenti dell’operaio della “grande fabbrica”.
Una lezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistra l’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quella difficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo una tara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietari terrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati per ingrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemica intercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini, testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi del mondo contadino.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quando era militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione del gruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempre di cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli, avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancora povera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Un’eredità senza testimoni?
Viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di un popolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo ci sono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibri sociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienza ambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comune affiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere sia qualcosa di irrazionale.
D’altra parte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel bel mezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoi protagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È la riscossa dei «vinti»?
Chissà cosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbriche contadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe, forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e propri mediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario” di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra i contadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, e di nuove vite.
Più che un inedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a un processo di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anche se c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei propri nonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversa possibilità.
C’è da chiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni dei suoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsi di sviluppo alternativi. C’è che da chiedersi, insomma, se quel popolo c’è ancora. O se forse «manca».
Un’autonomia e una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, gli elementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quel mestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. E servirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico, valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge in controluce nelle testimonianze dei vinti.
Ci vorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, come quel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensione del luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascosta nelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano a forza di far macchine, che cosa succederà?»
Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Simone Belladonna “Gas in Etiopia” -NERI POZZA EDITORE
«La guerra d’Etiopia non è stata soltanto la più grande campagna coloniale della Storia contemporanea, ma anche, probabilmente, la miccia che ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale. Mussolini cominciò a prepararla…
SINOSSI-
Dall’introduzione di Angelo Del Boca: «La guerra d’Etiopia non è stata soltanto la più grande campagna coloniale della Storia contemporanea, ma anche, probabilmente, la miccia che ha fatto scoppiare la seconda guerra mondiale. Mussolini cominciò a prepararla sin dal 1925 e volle che fosse una guerra rapida, micidiale, assolutamente distruttiva. Per questa ragione mandò in Africa orientale mezzo milione di uomini armati alla perfezione, tanti aeroplani da oscurare il cielo, carri armati e cannoni in numero tale da sguarnire le riserve della madrepatria. E per essere sicuro della vittoria, autorizzò anche l’uso di un’arma proibita, l’arma chimica, sulla quale l’autore in questo libro ha raccolto con grande perizia tutte le informazioni possibili.
Per cominciare, ha esplorato, per primo, gli archivi americani del FRUS, dove sono raccolti i dispacci degli alti funzionari degli Stati Uniti sulla preparazione della campagna fascista contro l’Etiopia. Si tratta di documenti di estrema importanza, perché rivelano le mosse del fascismo in armi e ne analizzano, giorno dopo giorno, la pericolosità per la pace nel mondo.
Poiché il libro costituisce, in primis, la denuncia dell’impiego dei gas velenosi e mortali e di tutti gli inganni perpetrati negli anni per nascondere quei crimini, l’autore non ha trascurato dati accurati che offrissero un quadro completo dei diversi gas utilizzati, dei sistemi per utilizzarli, dei risultati ottenuti. Si tratta di migliaia di tonnellate di iprite e di fosgene scaricate soprattutto dagli aeroplani sui combattenti etiopici e sulle popolazioni indifese […].
Gli orrendi crimini del fascismo vennero, come è noto, cancellati dalla propaganda del regime, rimossi dai documenti e dai moltissimi libri pubblicati dai massimi protagonisti della guerra, come Badoglio, Graziani, Lessona, De Bono, dai gerarchi, dai giornalisti e da semplici gregari. Questa sconcertante autoassoluzione proseguì anche nel dopoguerra e nei decenni a seguire, mentre ogni tentativo di ristabilire la verità veniva prontamente ostacolato […].
Perché l’Italia venga a conoscere la verità su quei tremendi crimini bisognerà attendere il 1996, quando il ministro della Difesa, Domenico Corcione, farà alcune parziali ammissioni. Inutilmente, il governo imperiale etiopico ha cercato di trascinare Badoglio, Graziani e altre centinaia di criminali di guerra sul banco degli imputati. Tanto Londra che Washington hanno esercitato sull’imperatore Hailé Selassié ogni sorta di pressioni per dissuaderlo dall’istituire, come era giusto e legittimo, una Norimberga africana». Dall’introduzione di Angelo Del Boca
L’Autore-
Simone Belladonna è laureato in Scienze Internazionali e Studi Europei. È da sempre appassionato di politica e storia. Fa parte del consiglio di redazione di Rivista Europae e lavora come Account Strategist a Google, in Irlanda. Gas in Etiopia è il suo primo libro.
Hannah Arendt, La banalità del male : Eichmann a Gerusalemme
Tradotto da Piero Bernardini- Prefazione di Ezio Mauro-
Feltrinelli Editore
Descrizione- Sono passati sessant’anni da quando questo libro di Hannah Arendt uscì per la prima volta. Il resoconto del processo a Eichmann, con la sua analisi di come lo sterminio di gran parte degli ebrei d’Europa – una delle più terribili manifestazioni del Male – si fosse concretizzata a opera di uomini normalissimi, non ha perso nulla della rilevanza che aveva nel 1963. Anzi, se possibile, il suo valore si è andato accrescendo, suffragato da numerosi drammatici esempi di crudeltà e massacri perpetrati da organizzazioni e Stati che fondavano (e fondano) il perseguimento dei crimini più atroci su individui come Eichmann: persone sprovviste di qualsiasi tipo di eccezionalità, semplicemente concentrate sulla corretta esecuzione del compito loro assegnato dall’autorità. Il Male che Eichmann incarna, infatti, appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano. È una verità che ciascuno è chiamato a tenere presente, specialmente in un’epoca di rinnovate tensioni, guerre e atrocità, come quella che stiamo vivendo. L’onestà intellettuale che Arendt mette in campo in questo libro, e che le valse anche diversi attacchi dallo stesso mondo ebraico, è l’unica arma che ci permette di riconoscere il Male, anche nelle sue forme più banali, quelle che potrebbero allignare in ciascuno di noi.
Biografia di Hannah Arendt – Hannover 1906 – New York 1975–nasce da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari fu costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici. Si rifugiò prima in Francia e poi si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove continuò l’attività di ricerca fino alla morte . Cominciò la sua ricerca con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant’Agostino, pubblicata nel 1929. Tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe una relazione sentimentale Husserl. L’opera che la renderà famosa in tutto il mondo fu il saggio del 1951, intitolato “Le origini del totalitarismo”, a cui nel 1958 seguirà “La condizione umana”, titolo voluto dall’editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di “Vita Activa”, conservato nella traduzione italiana del libro del 1964.
-Donne africane nella narrativa imperialista. Fascismo e romanzi-
-Editore Aracne -Genzano di Roma-
DESCRIZIONE
Africa, terra d’elezione del piacere; donne africane, “carne da maschi” alla mercé del conquistatore. Il saggio analizza i dispositivi lessicali e metaforici del mito imperiale fascista, espressi in una dozzina di romanzi coloniali scelti con cura, per poi focalizzare l’attenzione sulla rappresentazione letteraria dei corpi femminili colonizzati e sul loro rapporto di sudditanza verso militari e coloni di stanza in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia. Romanzi in cui abbondano i richiami sessuali e che offrono una casistica completa di comportamenti, ripetitivi ma con sfumature diverse. Aprendo a nuove prospettive di studio testuale e stilistico, il saggio è uno spaccato insieme storico e letterario, documento sia della retorica parodistica che della smaniosa velleità imperialista del regime fascista.
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