Articolo di Oscar Nicodemo-Se non avete ancora letto “Il Maestro e Margherita”, opera postuma di Michail Bulgakov, è venuto il momento di farlo! Rendetevi disponibili, prego, per una lettura intensa quanto sorprendente e assurda. Diversamente, nel caso lo aveste già letto, spero che le mie parole, qui, in questo confidenziale e prezioso spazio, vi rimandino alla sua rilettura. A me è capitato di riprenderlo tra le mani dopo vent’anni dalla prima volta, chiedendomi cosa, esattamente, avessi letto, giacché non era del tutto svanito il ricordo di essere stato letteralmente rapito dall’esposizione di quelle pagine, così ben lavorate da raccordarsi con il genio dei grandi maestri dello spirito russo. Tradotto e pubblicato da Einaudi, nel 1968, a vent’otto anni dalla morte dell’autore, il libro viene recensito sul “Corriere della Sera” da Eugenio Montale, che definisce il romanzo “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”.
Il poeta italiano scrive: “Un romanzo-poema o, se volete, uno show in cui intervengono numerosissimi personaggi, un libro in cui un realismo quasi crudele si fonde o si mescola col più alto dei possibili temi – quello della Passione – non poteva essere concepito e svolto che da un cervello poeticamente allucinato. È qui che il poco noto Bulgakov si congiunge con la più profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol’ e di Dostoesvkij e in quel pazzo di Dio che è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo.”
Cosa dovremmo sapere, dunque, di un’opera che quasi tutti gli esperti metterebbero nella lista dei migliori libri di sempre? Non possiamo ignorare, per esempio, che Bulgakov iniziò a scriverla nel 1928 e che ne distrusse la prima versione, lavorando in seguito a diverse altre, fino ad arrivare, aiutato dalla moglie Elena, a quella definitiva del 1940, portata al termine poco prima di lasciare questo mondo.
Il tema della distruzione del romanzo viene ripreso anche dalla testimonianza della storia d’amore tra il Maestro e Margherita, un punto di forza irrinunciabile dell’intera vicenda narrata, ma non il solo. Cosa ci fa, infatti, il Diavolo a Mosca, nelle vesti di Woland, accompagnato da personaggi memorabili, tra cui il maggiordomo stravagante, Korov’ev, e il clownesco gatto sovrappeso, Begemont? Certamente, insieme, daranno luogo a un esilarante e sconvolgente mulinello di accadimenti che vi terranno fermi alle pagine mediante un racconto che procede su due piani: in uno si narrano le vicende che si susseguono a Mosca, nell’altro si sviluppa il romanzo scritto dal Maestro, ambientato durante la Pasqua, ai tempi di Ponzio Pilato e Gesù.
E qui il tema tra il bene e il male si complica a tal punto che la stessa distinzione tra buoni e cattivi non è affatto netta. Satana appare quasi benevolo e si prende gioco della mediocrità e della vacuità delle persone. Mentre, Margherita, nella sua grazia e bellezza, mostra il suo lato oscuro e distruttivo. Quanto, a Ponzio Pilato, lavandosi le mani non dissolve la sua fragilità e la solitudine.
Il testo sfoglia con maestria elementi bizzarri e surreali, che si mescolano con la denuncia politica e sociale, con la religione, la giustizia, l’amore, l’illusione e il potere. E come ogni grande classico, il capolavoro di Bulgakov ci lascia alle nostre domande e riflessioni, magari aprendoci la strada a qualche dubbio, ma nella certezza di aver letto un’opera intramontabile e senza tempo, che avrà sempre qualcosa da insegnare a ogni nuova generazione.
I lettori di ogni epoca potranno considerare come difronte a tanta sofferenza e ai diritti negati, i protagonisti di questa grande opera letteraria abbiano ancora voglia di fare cose folli e innamorarsi del rischio. Margherita è desiderosa di vita e avventura e non è al corrente dei particolari del suo viaggio: sa solo che quando arriverà alla meta, potrà finalmente chiedere pace e redenzione per lei e per l’uomo che ama. Pertanto, la donna si lancia nuda, in volo, fluttuando come in un quadro di Chagall, sulla città di Mosca e i suoi dintorni, tra boschi e un paesaggio lacustre.
Vasco Pratolini , scrittore di grande prestigio e insieme di umilissime origini.
Vasco Pratolini Nacque a Firenze, nel 1913, in via de’ Magazzini, uno di quei vecchi quartieri simili a formicai, all’epoca ancora isolati dal contesto del centro storico, brulicanti di operai e artigiani.Il padre era un cameriere e la madre una sartina. Vasco Pratolini rimase orfano a neanche cinque anni di vita, quando la madre morì poco dopo aver dato alla luce il secondo figlio. Questo evento segnò a lungo, negli anni, l’animo dell’autore e si sviluppò nelle pagine di Cronaca familiare.
Quando il padre si risposa, Vasco va a vivere con la nonna materna; si allontana precocemente, suo malgrado, dalle figure genitoriali, per frequentare i coetanei, dediti a scorribande e bravate. L’atmosfera e lo spirito di questo periodo è ben espressa in uno dei suoi racconti più compiuti, Una giornata memorabile, contenuto in Diario sentimentale, del 1947 (Mondadori, 1962 e seguenti).
Imparò a leggere quasi da solo, impratichendosi con le lapidi delle vecchie case fiorentine e le tabelle stradali.
Erano marmi con incise terzine dantesche, una vera folgorazione per un ragazzo del popolo. Leggere Dante divenne un passaggio naturale: dalle note della Commedia si debordava nella Storia, si raggiungevano i biografi, si approfondivano i cronisti e i critici.
In casa del pittore Ottone Rosai ebbe modo di affinare le sue letture: Dickens, London, Dostoevskij, Manzoni e Tozzi.
La passione per la lettura e un forte processo di identificazione con i suoi autori di riferimento («Döblin era ciò che avrei voluto essere. Scambiavo Berlin – Alexanderplatz per Piazza Vittorio a Firenze») lo indussero a scrivere racconti: «Scrivevo racconti congestionati, di sommosse, di grandi prostitute, e così via, mettendoci dentro tutte le cose che conoscevo allo stato embrionale, per averle vissute, o come supponevo di viverle, e attraverso una fantasia piuttosto esaltata».
Pratolini si accorse ben presto di mancare di una struttura, di una formazione scolastica, perciò di giorno fece i lavori più diversi, dal vice portiere in un albergo al tipografo, o il rappresentante di commercio, e la sera si mise a studiare con metodo, fino a diplomarsi in lingua francese. In seguito frequentò sporadicamente l’Università, come uditore.
Si manteneva – e nel frattempo stava facendo la sua gavetta di scrittore – compilando tesi di laurea per studenti pigri.
Era una vita intensa e stressante, senza riposo, e finì per minare il suo stato di salute, tanto che nel 1935 venne dato per spacciato, a causa di una malattia polmonare.
Si ricoverò di sua volontà a Villa Bellaria, ad Arco di Trento. Il luogo era placido e suggestivo, circondato dalle montagne e con un lago; vi era nato il pittore Segantini, un grande dell’Ottocento. A villa Bellaria, Vasco vive una vita tranquilla, scandita da lunghe passeggiate e da letture ordinate i cui frutti si concretizzeranno nelle sue prime produzioni.
È importante sottolineare quanto Pratolini fosse un carattere fiero e impulsivo.
La sua spavalderia e tutti i suoi atteggiamenti irruenti e dispersivi si ridimensionano, ad Arco, a contatto con la sofferenza e la pacatezza del luogo, che favorisce anche un ripensamento della sua infanzia.
Dimesso da villa Bellaria, rientra a Firenze e incappa in uno degli incontri più cruciali della sua vita, quello con Elio Vittorini.
Fu Vittorini a cercarlo, come spiega lui stesso raccontandosi a Ferdinando Camon.
Vittorini aveva un fiuto per il talento e introduce Pratolini nel mondo letterario.
Dal 1935 al 1938 il nostro diviene redattore, con lo stesso Vittorini e Romano Bilenchi, del periodico «Il Bargello», organo della Federazione dei Fasci di Combattimento di Firenze.
Gli articoli della rivista erano ispirati a una partecipe ma confusa interpretazione populista e rivoluzionaria del fascismo.
Il sodalizio fra i tre autori si rinforzò, prodigo di idee letterarie e politiche che forgiarono il giovane Pratolini.
A seguito della guerra di Spagna i giovani più critici e sensibili cominciarono ad aprire gli occhi sulle nefandezze del regime: «Ad esser fascisti di sinistra come noi, s’era nell’imbroglio. La Spagna chiarì che eravamo contro gli operai e la cultura, ci percosse come una realtà fisica. Non fu la via di Damasco, ma la controprova dei nostri dubbi». Furono anni di persecuzione degli agitatori socialisti e comunisti; ogni incontro o intesa con le masse popolari era soffocato sul nascere dal regime, e l’anelito alla democrazia era espresso da una parte della borghesia ancora vitale ma incapace di organizzarsi, arroccata nella speculazione letteraria.
Nel 1938 Pratolini ebbe un secondo incontro decisivo nella sua vita, quello con Alfonso Gatto, arrivato a Firenze dopo la persecuzione subita a Milano.
Con Gatto, Pratolini fonda la rivista «Campo di Marte», dove ha modo di rinsaldare le sue convinzioni politiche e maturare la sua vocazione letteraria, con interventi filosofici, con recensioni, corsivi e diari.
All’inizio degli anni ’40 si trasferisce a Roma, dove per qualche tempo lavora al Ministero per l’Educazione Nazionale, nell’ufficio per l’arte contemporanea, accanto a compagni di lavoro come Manlio Cancogni e Antonio Giolitti.
Le sue mansioni dovevano essere mortificanti, e l’ambiente squallido, nonostante il nome altisonante.
Pratolini cercava di leggere e studiare; trascorreva molte notti insonne, a scrivere.
Lo scrittore esordisce con una silloge di racconti, Il tappeto verde (1941, ristampata nel 1981), dove compaiono le figure della madre, della nonna, di suo padre e della matrigna, ma anche i compagni di gioco e di risse, a recuperare un’infanzia ferita. Anche il suo secondo libro, Via de’ magazzini (1941) è imperniato sulla sua vicenda personale e tratta della sua infanzia e della scoperta del mondo, della convivenza non gradita con la matrigna Matilde, della morte del nonno e del ricordo trasognato e struggente della madre perduta.
Seguiranno Le amiche, del 1943, una raccolta di racconti che altro non sono che ritratti di ragazze, più o meno amate, ricordate con fervore e passione dalla voce narrante.
In La prima avventura, uno dei racconti, il giovane fugge di casa e procede nella sua scoperta della notte, immerso in una Firenze lunare: il duomo bianco, l’incontro con una prostituta sul lungofiume e una conversazione nel parco, portandosi dietro una pesante valigia con pochi indumenti, un libro di Dostoevskij, uno di London e la grammatica francese delle edizioni Sonzogno.
Se nei primi libri gli spunti narrativi di Pratolini sono per lo più dettati dalla quotidianità e dalla rievocazione autobiografica, con Il quartiere (1943) si ampliano le tematiche: fanno capolino il motivo dell’amicizia, della solidarietà e dell’amore come un sentimento che richiede impegno, altruismo e pazienza.
Il “quartiere” diviene il punto di convergenza di tutte le attività umane; il romanzo è un evento corale e un’esaltazione lirica ed eroica della sofferenza in tempo di guerra.
Pratolini ha la capacità di ordire le sue narrazioni in tempi brevissimi, e anche il libro successivo, Cronaca familiare (1947), viene imbastito in poco più di una settimana.
In una nota anteposta al romanzo l’autore stesso avverte che non si tratta di un’opera di fantasia ma del suo colloquio con il fratello morto, per depurarsi l’animo, in una sorta di catarsi, riavvicinandosi al fratello (causa della morte prematura della madre) in punto di morte, cercando motivi di condivisione laddove, negli anni, lo aveva percepito così remoto e diverso da sé.
In contemporanea lavora a Cronache di poveri amanti, dove la necessità interiore è quella di rappresentare la vita nel dettaglio, vissuta ora per ora, del popolo fiorentino tra il 1925 e il 1926.
Il romanzo si apre con una visione d’insieme di via del Corno; di primo mattino escono sulla scena Ugo, Maciste il maniscalco, Osvaldo Liverani, rappresentante di commercio, Peppino e Antonio terrazziere.
E questo è solo l’inizio di una galleria di personaggi che viene arricchendosi pagina dopo pagina.
La politica entra con prepotenza nel romanzo: Ugo riferisce a Maciste che ci sarà una spedizione punitiva; i fascisti hanno organizzato dei tribunali rivoluzionari e molti popolani ne faranno le spese, nel sonno.
Maciste parte con la moto per avvertire gli sventurati e la sua corsa diverrà uno degli episodi più alti per stile e scrittura sui quali si impernia il libro.
I migliori di via del Corno cadono sotto i colpi fascisti, la strada è una scena fissa, una rappresentazione che brilla per i dialoghi, per la stratificazione degli episodi e per un’epoca che fluisce per mezzo loro.
La partecipazione di Pratolini alla Resistenza fu il bisogno spontaneo e sincero di essere il cronista di un evento irripetibile.
La sua presenza di autore, dopo il riconoscimento del premio Libera Stampa conferito a Cronache di poveri amanti, si avvicenda a quella di collaboratore della stampa di sinistra: da «Milano Sera» al «Nuovo Corriere» (diretto dal suo vecchio amico Bilenchi) a «Paese Sera».
Il libro successivo, Un eroe del nostro tempo (1949) è, con tutta probabilità, uno dei suoi libri meno convincenti.
Racconta la storia di una giovane vedova, Virginia, che ha subito un’educazione autoritaria e repressiva. La donna si trasferisce in un quartiere di Firenze dove non conosce nessuno e, data la sua vulnerabilità, diviene la facile preda di Sandrino, un fascista sedicenne che abita con la madre in un appartamento stipato di sfollati. Sandrino circuisce la donna, ne diviene l’amante e poi fugge a Milano con tutti i suoi averi, per costituire un gruppo di azione fascista.
Quando rientra a casa, dopo varie peripezie, Virginia gli rivela di aspettare un figlio suo.
Il finale è una spirale di violenza; l’autore sviscera il male e condanna chi fa violenza a se stesso e agli altri.
Alberto Asor Rosa bolla il romanzo come una prova di mestiere che deriva da un’elaborazione esterna, da Moravia e gli americani. Siamo negli anni di piena affermazione del neorealismo, corrente alla quale Pratolini fu molto vicino e che pensava potesse portare a una presa di coscienza storico-collettiva.
Le ragazze di San Frediano (1952) è invece improntato a un registro burlesco, una sorta di balletto di ragazze attorno alla figura di un dongiovanni, Bob, prima conteso da tutte e in seguito esposto al pubblico ludibrio della contrada, mortificato in quegli attributi per i quali era stato in un primo tempo tanto ricercato.
Tutto il racconto sembra convergere, fin dall’inizio, sulla punizione da impartire al Bob «dalle belle ciglia».
Ogni incontro, dialogo e appuntamento del libro non fanno che progredire verso l’esplosione di collera, rancori e gelosie ma anche di gioia liberatrice ch’è la vendetta delle ragazze.
Ma Pratolini non riesce a essere spietato con gli ultimi, e anche se Bob è stato l’emblema della vergogna, in una pagina finale un po’ sbrigativa, dopo il sospetto di impotenza, vi è il perdono e la riabilitazione da parte di tutto il quartiere.
Della vasta e successiva produzione pratoliniana va senza dubbio ricordata la trilogia di Una storia italiana, iniziata con Metello (1955), col quale l’autore vinse il premio Viareggio.
L’idea era di programmare quello che lo stesso Pratolini definì «uno specchio in tre tempi della storia dell’uomo. […] di fare un lungo esame di coscienza a partire dal 1875 ed arrivare a oggi […]».
Metello Salani è un orfano allevato da contadini, che si trasferisce ancor ragazzo a Firenze, per trovare lavoro.
Nonostante l’intento programmatico dell’opera il romanzo è colmo di pagine felici e convincenti. La presa di coscienza del giovane Metello, come lavoratore e come militante nelle fila del partito operaio, è la storia di Pratolini, scrittore di umile estrazione, autodidatta, che si riscatta con fatica e con perseveranza dalla miseria.
Del secondo romanzo,Lo scialo (1960), colpiscono la lunghezza e lo sfilacciamento degli episodi e dei micro-temi che reggono la narrazione. «La vita è questo scialo di triti fatti» scrive Montale, e Pratolini lo erige a titolo di un racconto che vuole essere un affresco globale dell’ingiustizia della vita, del male e della corruzione che imperversava in particolare nella piccola borghesia italiana arrivista e amorale tra il 1919 e il 1926.
Il testo è costituito da un alternarsi di monologo interiore e di forma diaristica; gli scioperi al Pignone e l’ambiente rurale sono invece descritti in uno stile più tradizionale.
Il libro successivo, La costanza della ragione (1963), sospende il ciclo dei tre libri sulla “storia italiana”, e nelle dichiarazioni dello scrittore appare come un romanzo anticipato, una risposta agli interrogativi rimasti aperti sulle pagine dei due libri precedenti.
Il titolo deriva dalla Vita Nova dantesca, ed è una storia di giovani e della loro scoperta delle virtù e delle colpe dei padri, sulla scorta del recupero di un passato condiviso, dove si definisce per gradi la realtà contemporanea al momento della stesura, che ha per fondale Firenze. I fatti privati si stagliano sulle prospettive aperte a un possibile futuro anche sociale, di lavoro e di affetti.
C’è un riavvicinamento ai temi di Cronaca familiare e Il quartiere, ma mentre là c’era la reticenza e il pudore delle emozioni e dei sentimenti, qui trabocca la carica ideologica.
Le oltre 600 pagine di Allegoria e derisione (1966), il “terzo capitolo” di Una storia italiana, sono ancora all’insegna della memoria: Valerio, il protagonista, assomiglia a Vasco Pratolini ancor più del suo omonimo di Via de’ Magazzini e de Il quartiere. I riferimenti autobiografici sono davvero molti, e vi prevale l’indagine della realtà, sopra ogni accento sentimentale e lirico.
Allegoria e derisione è la storia di un intellettuale e delle sue traversie esistenziali per affermarsi come uno scrittore di prestigio. In una tavolozza variegata di registri e tecniche narrative, che comprendono l’apologo, le epistole, il diario e il monologo interiore sono diversi i passaggi improntati a una critica polemica della controversia sorta tra le due guerre a proposito dell’impegno in letteratura.
Pur inviso a una certa fazione della critica di professione, che non ha mancato di puntualizzarne gli aspetti più pretestuosi e ideologici, la maggior parte dei recensori concordò, fin dall’apparire delle prime opere, che la prosa più valida di Pratolini fosse quella ancorata al mondo noto e familiare dell’autore.
La realtà del quartiere è una realtà cruda, di continuo rielaborata e filtrata, ma non è il singolo a essere colpevole: i deboli, coloro che sbagliano, sono travolti dagli eventi della Storia e vengono sempre giustificati con una superiore pietas, attraverso l’indagine psicologica e d’ambiente.
La memoria che scava nel privato non è mai, in Pratolini, un’operazione sterile, bensì una sincera passione che travalica il particolare per divenire ricerca del passato e condizione della società.
In questo Vasco Pratolini, a 30 anni dalla scomparsa, rimane un pregiato cantore della cronaca del quotidiano, degli episodi famigliari e dei fantasmi dell’auto- finzione.
Se l’Italia cestina i suoi poeti: il caso Piero Bigongiari
Proprio così. In questo Paese i poeti, come Piero Bigongiari, all’improvviso, affogano nelle sabbie mobili. Senza mobilitazioni popolari, i poeti scompaiono dall’orizzonte editoriale, e chi se li ricorda più. Uno dopo l’altro, assistiamo a una lenta, inesorabile, macelleria dei nostri ‘grandi’. Questa volta a soffocare in soffitta è finito Piero Bigongiari. Morto a Firenze il 7 ottobre del 1997, nessun giornale ‘nazionale’ ha rammentato i vent’anni dalla scomparsa di “uno dei più grandi poeti del Novecento” (così la didascalia di uno dei suoi libri, afferrato a casaccio). Insomma, hanno scavato la fossa a Bigongiari e non lo tirano fuori nemmeno per far finta di onorare la ricorrenza. Peccato. Peccato perché Bigongiari è stato un grande poeta, certo, ma soprattutto un poeta anomalo, inquieto, proteiforme. Nato a Navacchio, in provincia di Pisa, Bigongiari fa l’Università a Firenze, dove fa amicizia con i grandi di allora, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi. Esordio poetico nel 1942, con La figlia di Babilonia, subito eletto, insieme a Mario Luzi, il più talentuoso e risolto tra gli ‘ermetici’, Bigongiari ha scritto tanto, ha tradotto tanto, è stato un raffinato prof e un acuto studioso di cose d’arte. La sua arguta generosità ha sedotto una generazione: Roberto Carifi, Paolo Roberto Iacuzzi e Alessandro Ceni sono, diversamente, suoi allievi. Già, ma dove lo leggiamo, oggi, Bigongiari, poeta sempre in cerca di sé, audacemente filosofo, impenitente narratore? Non possiamo leggerlo, semplice. La raccolta Dove finiscono le tracce (1958-1996) edita da Le Lettere si trova in biblioteca, idem per le poesie ultime, raccolte come Il silenzio del poema (Marietti, 2003). Il resto, è disperso in piccoli editori, per piccole, amorevoli, iniziative. Di fatto, di Bigongiari, uno dei grandi poeti del secolo, oggi, vent’anni dopo, in libreria, c’è nulla. Figuriamoci allestire un ‘Meridiano’ Mondadori – l’han fatto a Eugenio Scalfari e ad Andrea ‘Montalbano’ Camilleri – a chi importa della parola poetica, l’unica importante? Per capire la grana lirica di questo poeta immenso cercate qualcosa in rete. Una poesia tra le più belle si chiama Daffodils, è tra le ultime, scritte nel gennaio del 1997. Per Bigongiari la poesia è un diario perpetuo, è dissezionare il mondo con il bisturi della propria anima.
I cammini del senso sono strani
deviano spesso misericordiosi
in altri, e vani, i suoi significati,
daffodils chiamammo per il resto
del viaggio il mistero oculare
di una felicità che non ha nome
se non nella più ampia identità
sfuggente a ogni sguardo. Tu ricordi
come si chiama ciò che non si sa?
E il tuo sorriso rispondeva: Daffo-
dils, mi pare daffodils. Forse
fu quella la definizione più
precisa, che incisa su un sorriso,
pietrificò l’enigma e lo smentì
in uno scoppio improvviso di risa.
Questa è una stanza di Daffodils. I daffodils sono una variante del narciso, che il poeta scopre a South Kensington. Il riferimento letterario dotto (“seppi che ne aveva parlato anche Wordsworth”) aumenta, chissà, il sentore di enigma. Il fiore, ad ogni modo, diventa figura di ciò che è inesprimibile. E la poesia è di una bellezza che dobbiamo solo tatuarcela nel cuore.
Quest’anno, poi, inoltre, scocca un altro anniversario che riguarda Bigongiari. Settant’anni fa, nel 1947, Bigongiari ospita nella sua casa fiorentina Dylan Thomas, il poeta gallese che è già leggenda – e che per fortuna nostra viene ancora pubblicato e letto. In Dylan Thomas (biografia tradotta in italiano nel 2008 per Mattioli) Paul Ferris ricostruisce il viaggio italiano del poeta – naturalmente, per eccesso di anglocentrismo, dimenticando di citare Bigongiari. “I Thomas si recarono in Italia in aprile”: prima attraccano a San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo, meta prediletta di Ezra Pound e di William B. Yeats, poi arrivano a Firenze, patria dell’intelligenza italiana. Bigongiari porta Thomas, che ha già pubblicato le poesie più belle, alle Giubbe Rosse, mitico bar fiorentino. Da lì il gallese verga una delle sue lettera strappalacrime indirizzate alla moglie (giocavano, entrambi, a fare i fedifraghi): “Caitlin mia cara, cara, cara: ti scrivo questa inutile lettera a un tavolino delle Giubbe Rosse dove, dopo averti vista salire su un tram, mi sono recato, più triste di chiunque al mondo, a sedermi ad aspettare. Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso”. Thomas rimpiangeva la nebbia di Londra, le praterie gallesi, i bar d’Albione. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava il vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita”. Solo Bigongiari era ammesso nell’arco rapido dell’amicizia di Dylan Thomas. Bigongiari andò in brodo per Thomas, che influì sulla sua ricerca poetica, fatta di divagazioni liriche, di esplosioni linguistiche. Lo tradusse, pure. Una delle poesie più celebrate di Thomas, And death shall have no dominion, diventa, “E morte non regnerà/ E morte non regnerà./ I morti nudi saranno una cosa sola/ Con l’uomo nel vento e la luna occidentale”. Magnifico. Il dialogo tra i vivi e i morti è continuo, una fioriera di sorprese. Invece, in Italia, ci ostiniamo a dimenticare i nostri grandi, una volta ficcati nella bara. Sia lode, ora, a Bigongiari.
È considerato uno degli autori che furono alla base dell'”avanguardia non codificata”, come lui stesso definiva l’ermetismo.[1] Con i poeti Luzi e Parronchi costituì quella che Carlo Bo definì la “triade dei poeti ermetici toscani”.[2] Come esponente austero e rigoroso dell’ermetismo purista, ne accentuò la tendenza metafisica con una trattazione predominante del tema dell’assenza, accompagnata da un forte anelito religioso.[3] In un secondo tempo, indicativamente dai primi anni settanta, la sua poesia raggiunse maggiore consapevolezza ed equilibrio tra il richiamo della realtà e la sua trasfigurazione simbolica.[1]
La giovinezza
Piero Bigongiari nacque il 15 ottobre 1914 a Navacchio, in provincia di Pisa, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1911 da Livorno. Era il quarto dei cinque figli di Alfredo Bigongiari, ferroviere, e di Elvira Noccioli.[4]
A Pistoia conobbe Roberto Carifi: vivevano a pochi metri di distanza ed ebbero importanti momenti di scambio intellettuale.
Nel 1936 si laureò con il professor Attilio Momigliano, discutendo una tesi su Leopardi, “L’elaborazione della lirica leopardiana”, pubblicata pochi mesi dopo dall’editore Le Monnier.
Nel 1941 Bigongiari sposò Donatella Carena, figlia del pittore Felice Carena, e si trasferì a Firenze, in Piazza dei Cavalleggeri 2, zona Santa Croce, dove vivrà fino alla morte. Ebbero un figlio, Lorenzo, ma il matrimonio naufragò quasi subito e si arrivò addirittura alla dichiarazione di nullità.[4]
Nel 1942 pubblicò il suo primo volume di poesie, “La figlia di Babilonia”. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti, solitamente considerato l’ispiratore e il primo vero poeta dell’ermetismo.
Nel 1948 conobbe Elena Ajazzi Mancini, la donna che diventerà la sua seconda moglie e dalla quale avrà un secondo figlio, Luca, nato nel 1952. Con Elena il poeta condivise, fino agli ultimi giorni, l’esistenza, le amicizie e le passioni, soprattutto quelle per l’arte (in particolare per il “Seicento fiorentino”, di cui furono grandi collezionisti e di cui Bigongiari fu anche esperto critico) e per la cultura francese.[4]
Negli anni cinquanta iniziò la collaborazione ai programmi radiofonici della RAI“L’Approdo” e “L’Approdo letterario” e, su invito dell’amico Romano Bilenchi, iniziò a fornire il suo contributo ai quotidiani Il Nuovo Corriere e, in un secondo momento, La Nazione. Nel 1951 iniziò la traduzione e la cura dell’opera completa di Joseph Conrad (che completerà nel 1966, in ventiquattro volumi) e diventò redattore della rivista Paragone, appena fondata dallo storico dell’arte Roberto Longhi (incarico che manterrà per circa dieci anni e che abbandonerà nel 1960 in polemica con Giorgio Bassani[4]).
Benché si definisse «un sedentario che si sposta»[10], Bigongiari, soprattutto nei primi anni cinquanta, compì una serie di viaggi in Francia e in Medio Oriente, e lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto con l’amico Giovanni Battista Angioletti, e con il giornalista Sergio Zavoli, traendone suggestivi reportage, poi pubblicati con i titoli “Testimone in Grecia” (1954) e “Testimone in Egitto” (1958).[10] Nel 1952 uscì il suo secondo libro di versi “Rogo”, seguito tre anni dopo da “Il corvo bianco” (1955) e, dopo altri tre anni, da “Le mura di Pistoia” (1958). Sulla rivista La Palatina comparve il suo primo importante saggio d’arte contemporanea, su Jackson Pollock.
La maturità e l’ultimo periodo
Nel 1965 vinse il concorso per la cattedra universitaria in Letteratura italiana moderna e contemporanea e cominciò a insegnare alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, incarico che mantenne fino al 1989. Nel 1977 dette vita alla rivista di “studi e testi” Paradigma, pubblicata internamente alla Facoltà di Magistero, chiamando a collaborarvi i suoi assistenti e allievi dell’Istituto di Letteratura italiana moderna e contemporanea.[4]
Dal punto di vista dell’attività letteraria, il periodo che va dai primi anni sessanta fino alla sua morte, vide Bigongiari impegnato in un’incessante ed eterogenea produzione, che mette in luce la molteplicità dei suoi interessi e la sua versatilità.
Tra le principali opere poetiche di questo periodo si segnalano le raccolte “La torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Diario americano” (1987), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Nel 1985 pubblicò anche la selezione antologica “Autoritratto poetico”.[7] Nel 1994, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi fu pubblicato il primo volume (poesie del 1933–1963) della raccolta antologica‘Tutte le poesie’ , ed insieme la raccolta inedita degli anni 1933-1942, con il titolo “L’arca”. Come ultime opere poetiche di Bigongiari sono da considerare le due raccolte “Dove finiscono le tracce” e “Nel giardino di Armida” (entrambe uscite nel 1996).
fu sempre affiancata da quella di traduttore, che riguardò testi di Rainer Maria Rilke, dei francesi René Char e Francis Ponge (“Poesia francese del Novecento”, 1968), oltre ai già citati Joseph Conrad e Dylan Thomas. Fu anche autore di importanti studi critici, tra i quali “Poesia italiana del Novecento” (1960), “Leopardi” (1962), in cui riunì tutti i suoi saggi scritti fino a quel momento sul poeta di Recanati, “La poesia come funzione simbolica del linguaggio” (1972), “Visibile invisibile” (1985) e “L’evento immobile” (1987).[4]
Collezionista e studioso di pittura, nel 1975 pubblicò il testo d’arte “Il Seicento fiorentino”. I suoi numerosi saggi brevi su temi artistici furono riuniti nel 1980 in “Dal Barocco all’Informale”, che è la testimonianza del suo costante interesse per la pittura contemporanea (da Paul Klee a Giorgio Morandi, da Max Ernst a Ennio Morlotti, da Jackson Pollock a Balthus).[4]
La vedova Elena Ajazzi Mancini donò, con lascito testamentario alla sua morte, la biblioteca (oltre 6.000 volumi) alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove la maggior parte dei volumi sono conservati in una saletta intitolata al poeta.[12][13]
Sempre a Pistoia, presso i Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi,[14] è conservata la collezione dei quadri del Seicento Fiorentino, messa insieme negli anni dai coniugi Bigongiari e acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia alla morte della signora Ajazzi Mancini.
«Con la sua parola calma, discreta, impastata in quel silenzio da dove provengono le parole vere, Bigongiari raccontava la sua poesia. Poche esperienze poetiche e di pensiero di questo secolo sembrano al pari di quella di Bigongiari, la parola donata nella comune memoria del Bene. Un cammino in cui la poesia, nota che accomuna maestro e discepolo, è un luogo dove nessuno sarà mai a tal punto straniero da non potervi trovare l’accoglienza.»
Archivio
Il fondo Piero Bigongiari[16] è stato donato nel 2007 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in base alle disposizioni testamentarie di Elena Ajazzi Mancini, vedova di Piero Bigongiari. Il versamento è stato curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, curatore delle opere di Bigongiari, che si è occupato anche dell’ordinamento del fondo e ha redatto un Inventario topografico. L’archivio contiene materiale relativo a Bigongiari poeta, traduttore e narratore, traduttore e scrittore: autografi, dattiloscritti, minute, materiali preparatori, bozze manoscritte e dattiloscritte, fogli volanti, pubblicazioni in riviste ed opuscoli, suddivisi a seconda dei libri pubblicati e in cartolari cronologici di inediti dal 1972 al 1997.
Opere
Poesie
La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1942
Rogo, Ed. della Meridiana, Milano, 1952
Il corvo bianco, Ed. della Meridiana, Milano, 1955
Le mura di Pistoia (1955-1958), Mondadori, Milano, 1958
Il caso e il caos, Ediz. Salentina, Lecce, 1960
Antimateria, Mondadori, Milano, 1972
Moses, Mondadori, Milano, 1979
Autoritratto poetico, Sansoni, Firenze, 1985
Col dito in terra, Mondadori, Milano, 1986
Diario americano, Amadeus, Montebelluna, 1987
Nel delta del poema, Mondadori, Milano, 1989
La legge e la leggenda, Mondadori, Milano, 1992
L’arca, Le Lettere, Firenze, 1994
Dove finiscono le tracce (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996
Nel giardino di Armida, Le Lettere, Firenze, 1996
Tra splendore e incandescenza, Pezzini Editore, Viareggio 1996
Saggi
L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze, 1937
Il senso della lirica italiana e altri studi, Sansoni, Firenze, 1952
Poesia italiana del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1960
Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1962
Torre di Arnolfo, Mondadori, Milano, 1964
Capitoli di una storia della poesia italiana, Ediz. Felice Le Monnier, Firenze, 1968
La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972
Descrizione-Questo libro di Roberto Gigliucci prende in esame una tradizione poetica che confluisce e trionfa nella lirica di Montale ma che ha radici lontane, nell’alba della modernità. Si tratta di una poesia che parte dalla realtà, che riscopre il reale nelle sue dimensioni di individualità empirica e imperfezione, per trascenderlo poi in direzione sublimante e metafisica. Una poesia in opposizione quindi alla linea petrarchesca che sfocia nella poesia “pura”. Il cigno di Baudelaire contro il cigno di Mallarmè, per fare due esempi celeberrimi. Il saggio interroga i versi di Montale, ma sempre inserendoli in una storia precedente di lunga durata, secondo una metodologia che preferisce non schiacciare il Novecento su se stesso ma articolarne i sensi e gli strati in retrospettive fondanti.
L’Autore-Roberto Gigliucci(1962) è saggista e scrittore. Ha pubblicato volumi di analisi letteraria di ambito moderno e rinascimentale, edizioni di testi, articoli su riviste specializzate (“Lettere Italiane”, “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, “Critica Letteraria” e molte altre); collabora all’ “Indice dei Libri” e alle pagine culturali di “Liberazione”. Insegna Letteratura italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma
Editori Riuniti-Roma
Realismo metafisico e Montale
Autore: Roberto Gigliucci
ISBN13: 9788835959199
Anno pubblicazione: 2007
€18.00
Biografia di Eugenio MONTALE
, Poeta italiano (Genova 1896 – Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una ‘poetica dell’oggetto’: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un’evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza.
Vita e opere
Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un’intensa attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d’informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).
Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il “male di vivere” discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell’epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un’evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.
Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di “correlativo oggettivo” e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all’origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un’imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell’enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l’aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e “parlato” si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L’ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l’avvio da Satura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un’ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest’ultima già anticipata nell’ed. critica complessiva, L’opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.
Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l’esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l’ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l’aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai “bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe” riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l’altro il “lancio” italiano di Svevo (sulla rivistaL’esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell’epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un’ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).
Ovunque tu sia,
ovunque tu, immeritatamente,
mi guardi,
ovunque tu stabilisca
io abbia una casa,
fosse pure una prigione grigia,
io so che da qualsiasi pietra
tu puoi far scaturire un fiore
nel perimetro della mia mente.
Tra le tue braccia
Tra le tue braccia
C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.
Amami
finchè sentirai il calore
di una fiamma tremula
che sempre arde,
difendendosi dai venti di scogliera.
Sono un pensiero
che non vuole mai
legare le tue mani
libere nel mondo,
anche se vorrei
che fossero solo mie.
Amami
ora che non ho parole
per farti innamorare
dei miei silenzi
pieni di gioia,
che non potrai vedere.
Amami ancora,
saranno solo gli occhi
a dirti la mia passione
e le mie labbra,
a raccontarti
cose difficili da dire.
Saremo noi,
un giorno forse
ad abbracciare solo i profumi
dei nostri corpi
senza paura
che l’assenza diventi una cosa vera.
Ieri sera era amore (A Ettore)
“Ieri sera era amore, io e te nella vita fuggitivi e fuggiaschi con un bacio e una bocca come in un quadro astratto: io e te innamorati stupendamente accanto. Io ti ho gemmato e l’ho detto: ma questa mia emozione si è spenta nelle parole”.
Perché t’amo
Perché t’amo e mi sfuggi,
pesce rosso di vita
umido dentro l’erba
palpitante nel sole?
Perché non ho parola
dura come la pietra
che ti ferisca a morte?
Così ti fermerei,
e potrei disegnarti
un arabesco sul cuore.
Sogno d’amore
Se dovessi inventarmi il sogno
del mio amore per te
penserei a un saluto
di baci focosi
alla veduta di un orizzonte spaccato
e a un cane
che si lecca le ferite
sotto il tavolo.
Non vedo niente però
nel nostro amore
che sia l’assoluto di un abbraccio gioioso.
Alla tua salute, Amore mio!
Sono folle di te, amore
che vieni a rintracciare
nei miei trascorsi
questi giocattoli rotti delle mie parole.
Ti faccio dono di tutto
se vuoi,
tanto io sono solo una fanciulla
piena di poesia
e coperta di lacrime salate,
io voglio solo addormentarmi
sulla ripa del cielo stellato
e diventare un dolce vento.
Ti aspetto
Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.
Accarezzami
Accarezzami, amore
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.
Ho conosciuto in te le meraviglie
Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.
Fotoreportage Campagna Romana in forma di Poesia-La Storia Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Il paesaggio-Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
le Poesie sono di:Ada Negri,Antonia Pozzi, Rocco Scodellaro,Lalla Romano,Ernest Hemingway,Sara Teasdale,Eugenio Montale,Umberto Saba.
Ada Negri – Estate
«Nei mesi estivi il solleone
rende i muri così abbaglianti
che a fissarli vien sonno:
tende gialle e rosse
si abbassano sui negozi;
il nastro di cielo
che s’allunga fra due strisce
parallele di tetti
è una lamina di metallo rovente.
Dolce è non far niente,
accucciati sulle pietre roventi,
respirando il caldo.»
ANTONIA POZZI- ODORE DI FIENO
Chissà da dove esala
quest’odore di fieno:
ha la pesantezza di un’ala
che giunga da troppo lontano.
Si affloscia, si lascia piombare
su me, con abbandono insano,
come l’alito di una creatura
che non sappia più continuare.
Tutte le lagrime di questo ignoto interrotto cammino
tremolano nella mia anima impura,
come il tintinnio roco di quel grillo,
in giardino,
che rode la solitudine oscura.
Milano, I giugno 1929
ANTONIA POZZI
Rocco Scodellaro-RESEDA, ODORE RITROVATO E PERSO
*
Avevi tutti gli odori dei giardini
seppelliti nei fossi attorno le case;
tu sei, reseda selvaggia, che mi nutri
l’amore che cerco, che mi fa sperare.
E come l’onda non la puoi fermare,
non puoi chiudere la bocca ai germogli,
non serrare le persiane a questo sole,
io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso,
amica del caso, scoperta del cuore
che deve colmare la sua sera.
(Rimini, maggio 1948)
Lalla Romano-L’Estate
Già impallidivano i grani. Ferma era la mente rappresa sotto l’inverno. Dei papaveri fatui già era acceso il delirio.
Ernest Hemingway-L’INESPRIMIBILE
*
Quando in giugno svolazzavano moscerini
intorno al lampione
all’angolo
gettando ombre guizzanti sulla strada;
Quando tu passeggiavi a piedi nudi
in una calda e buia sera di giugno
con l’erba che ti bagnava i piedi di rugiada;
Quando sentivi strimpellare un banjo
sulla veranda della casa di fronte,
e dal parco ti giungeva il profumo dei lillà
c’era qualcosa che lottava, in te,
che non riuscivi a mettere in parole…
Eri viva poesia, nel buio, là!
Oak Park, 1917
Sara Teasdale-NOTTE DI GIUGNO
*
Oh Terra, quanto sei cara stanotte,
Come posso dormire mentre intorno
Aleggia odore di pioggia e lontano
La voce dell’oceano parla alla spiaggia.
Terra, mi hai dato tutto quel che ho,
Ti amo, ti amo, oh che cosa ho
Io che possa darti in cambio — se non
Il mio corpo dopo che sarò morta?
Eugenio Montale-Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
m entre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Umberto Saba – Meriggio d’estate
Silenzio! Hanno chiuso le verdi
persiane delle case.
Non vogliono essere invase.
Troppe le fiamme
della tua gloria, o sole!
Bisbigliano appena
gli uccelli, poi tacciono, vinti
dal sonno. Sembrano estinti
gli uomini, tanto è ora pace
e silenzio… Quand’ecco da tutti
gli alberi un suono s’accorda,
un sibilo lungo che assorda,
che solo è così: le cicale.
Articolo scritto per la Rivista PEGASO N°8 del 1932 diretta da Ugo OJETTI
Biografia completa è in fondo – Diego VARERI- – Nacque il 25 gennaio 1887 a Piove di Sacco (Padova)- da Abbondio e da Giovanna Fontana, ultimo di tre figli, dopo Silvio e Ugo-Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Biografia di Diego VARERI- – Nacque il 25 gennaio 1887 a Piove di Sacco (Padova)-da Abbondio e da Giovanna Fontana, ultimo di tre figli, dopo Silvio e Ugo-Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Nonostante le condizioni agiate della famiglia, l’infanzia del piccolo Diego fu turbata dalla separazione dei genitori, avvenuta poco dopo la sua nascita, in seguito alla quale la madre si trasferì a Padova portandolo con sé. Presenza discontinua, ma molto influente sulla formazione di Valeri, fu quella del fratello Ugo, pittore e illustratore dalle qualità notevoli, morto nel 1911 a Venezia, cadendo (o forse gettandosi) da una finestra della galleria Ca’ Pesaro: ne restò a Valeri un dolore insanabile.
L’origine della vocazione poetica fu sempre, nel ricordo di Valeri, associata, oltre che a un sentimento malinconico generato quasi dal contatto con una pianura che egli percepiva galleggiante sull’acqua, all’arte del fratello, al mondo inventato dai suoi segni e colori, alle novità artistiche che Ugo riportava dalla Biennale di Venezia. Sempre grazie al fratello, il giovane Diego pubblicò due sue liriche nella rivista Poesia (IV (dicembre 1908-gennaio 1909), 11-12) diretta da Filippo Tommaso Marinetti.
Dopo aver frequentato il liceo classico Tito Livio di Padova, nella locale università conseguì la laurea in lettere nel 1908 discutendo una tesi su L’efficacia del teatro francese sul teatro di Paolo Ferrari (pubblicata in Rivista d’Italia, XII (1909), 2, pp. 257-328), orientandosi di lì in poi a studi di francesistica e italianistica. All’università conobbe la futura moglie, sposata nel 1911: Maria Minozzi, vicentina, dedicataria della sua prima silloge di versi, Monodia d’amore (Padova 1908), in seguito rifiutata dall’autore. Laureato, intraprese l’insegnamento nelle scuole tecniche e poi nei licei, con numerosi cambiamenti di sede (Fermo, Castiglione delle Stiviere, Monza, Pinerolo, Ravenna, Voghera, Rovigo, Cremona), prima del definitivo approdo a Venezia (1926), dove si stabilì nella casa (in fondamenta dei Cereri) che divenne sua dimora stabile. Il disagio dei trasferimenti fu d’altra parte bilanciato da frequentazioni con importanti personalità del mondo dell’arte e della letteratura (Filippo De Pisis, Marino Moretti, Clemente Rebora, per esempio).
Nel 1912-13, unico intervallo tra gli insegnamenti scolastici, Valeri fu a Parigi con una borsa di perfezionamento in letteratura francese; lì ricevette la notizia della morte dell’amata madre. Per motivi di salute evitò l’arruolamento e la partenza per la guerra ma non poté evitare, sulle prime, lo scontro con il fascismo. Era a Cremona con la famiglia, accresciuta delle due figlie (Giovanna, nata nel 1913, e Marina, nata nel 1915), quando, insegnante e conferenziere stimato, oltre che poeta dalla crescente notorietà, firmò sul quotidiano La Giustizia (9 luglio 1924) un appello di protesta per la scomparsa di Giacomo Matteotti. Ne ebbe una dura reprimenda, alla quale conseguì il trasferimento da Cremona a Venezia, dove comunque continuò a essere, se non attaccato (come accadde almeno in un’occasione, nel novembre del 1926), ostacolato dalla federazione del fascio locale, presso il quale cercò a più riprese, ma invano, di tesserarsi. Intimamente incompatibile con il fascismo per ragioni umane ed estetiche, oltre che per le idee socialiste, Valeri non si espose più in aperte contestazioni, e tuttavia, privo della tessera del Partito nazionale fascista, dovette abbandonare nel 1931 l’insegnamento al liceo Marco Polo per assumere una posizione più defilata, da funzionario delle belle arti, alla soprintendenza di Venezia. Manteneva nel frattempo, come libero docente, l’incarico per il corso di letteratura francese all’Università di Padova, che ebbe dal 1924 al 1934, quando gli fu sospeso per la mancanza della tessera, e che tuttavia riottenne dal 1939, per intercessione di Ugo Ojetti presso il ministro Giuseppe Bottai.
Grazie alla stima e alla protezione di personaggi eminenti dell’establishment politico-culturale italiano (godeva anche dell’appoggio del rettore padovano Carlo Anti), Valeri, che pure era ostacolato dai federali veneziani, ottenne dall’Accademia d’Italia prestigiosi premi (nel 1931, 1939, 1943) per la sua poesia. Incontrò un successo abbastanza largo, anche di pubblico, a partire dalla pubblicazione dell’autoantologia Poesie vecchie e nuove (Milano 1930), che selezionava i testi delle raccolte precedenti – Le gaie tristezze (Milano-Palermo-Napoli 1913), Umana (Ferrara 1915); Crisalide (Ferrara 1919); Ariele (Milano-Roma 1924) – con l’aggiunta di altri più recenti, che mostravano come dall’iniziale impronta pascoliana e simbolista Valeri andasse mettendo a fuoco il proprio postsimbolismo di fondo su forme e atmosfere meno evanescenti, più salde. Raggiunse l’apice della fama nel decennio 1930-40, quando, con la sua lirica cantabile, malinconica e sensuale, formalmente legata alla tradizione, ma sempre più individuabile nella sua originalità, poté contendere notorietà e favore critico alle posizioni più innovative di Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. Fu inoltre conferenziere e pubblicista richiesto e apprezzato (v. la scelta di articoli del 1925-35 riuniti in Saggi e note di letteratura francese moderna, Firenze 1941).
Dopo il 25 luglio 1943 Valeri, vicino al Partito d’azione, assunse la direzione del giornale Il Gazzettino, incarico che, quando tedeschi e fascisti ripresero il potere nel Nord Italia, gli costò una condanna a trent’anni di carcere; nel frattempo, però, era riuscito a entrare in Svizzera e a trovare riparo a Mürren. Tornato in Italia, ottenne la revisione dei concorsi da cui era stato escluso per motivi politici e quindi, alla fine del 1948, il ruolo di professore di letteratura francese all’Università di Padova, dove lavorò, anche con affidamenti di letteratura italiana contemporanea, fino al 1962.
Valeri si impegnò attivamente in politica, presentandosi nelle liste del Movimento di unità popolare nelle elezioni del 1953 (per la Camera) e come candidato sindaco dei socialisti alle amministrative di Venezia del 1956.
L’ampio successo professionale e istituzionale arrivò per Valeri in tempi meno adatti alla ricezione della sua poesia e del suo gusto rispetto a quando, negli anni Trenta, si era affermato: in confronto alle nuove tendenze, sia nella lirica sia nella critica, poteva sembrare ad alcuni attardato se non superato. Testimonianze autorevoli degli ultimi allievi ricordano però che, libero da costrizioni metodologiche, Valeri continuava a esercitare il suo magistero incantando l’uditorio per il modo «cordiale e umanissimo» e al tempo stesso «elegante, aristocratico» di avvicinare i testi letterari (Mengaldo, 2000).
Giorgio Caproni e Andrea Zanzotto (che era stato suo alunno a Padova negli anni Trenta) hanno inoltre riconosciuto un affinamento e un approfondimento introspettivo nella fase tarda (da Metamorfosi dell’angelo, Milano 1957) ed estrema della poesia di Valeri, che culmina nelle raccolte Verità di uno (Milano 1970) e Calle del vento (Milano 1975), non incluse per motivi cronologici nell’autoantologia definitiva delle Poesie (Milano 1962 e 1967), che ci ha dato della sua lirica un’immagine più classica, tradizionale e impressionistica (in senso pittorico), nondimeno rappresentativa del suo collocarsi al di fuori delle linee portanti dell’evoluzione della lirica novecentesca (Baldacci, 1972, 1974).
Largamente condiviso dalla critica è il giudizio positivo delle traduzioni di Valeri, che fin dal 1912 si esercitò su autori prevalentemente francesi ma anche tedeschi: si ricordino almeno i due volumi antologici Lirici tedeschi (Milano 1959) e Lirici francesi (Milano 1960). Interessante e originale la sua scrittura saggistica, riflessiva e nitidamente comunicativa, che si muove a partire da momenti della vita interiore o da sollecitazioni della poesia (Tempo e poesia, Milano 1962) e dell’arte (Scritti sull’arte, a cura di G. Tomasella, Venezia 2005). Importanti, e attualmente ancora fortunate in termini editoriali (lo stesso non si può dire delle poesie, mai più riedite dal 1977), le prose di Valeri dedicate all’amata città d’adozione: Fantasie veneziane (Milano 1934; Bagno a Ripoli 2016) e Guida sentimentale di Venezia (Padova 1942; Bagno a Ripoli 2009); ma va ricordato anche il volume Padova città materna, scritto e pubblicato nel mezzo della guerra civile (Padova 1944 e 1995). Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Opere. Mentre si attende una ripubblicazione complessiva delle poesie (imminente presso Il Ponte del sale di Rovigo l’edizione di un’ampia antologia, a cura di C. Londero, dal titolo Il mio nome nel vento. Poesie 1910-1977), ci si può rifare, per la prima fase, alla riedizione di Umana (a cura di M. Giancotti, Genova 2008); per il resto, alle singole raccolte su cui Valeri operò selezioni compilando i volumi antologici Poesie vecchie e nuove (cit.), Terzo tempo (Milano 1950), Poesie (cit.), meglio che alla scarna cernita delle Poesie scelte 1910-1975 (a cura di C. Della Corte, Milano 1977). Da segnalare, inoltre, le poesie per bambini: Il campanellino (Torino 1928) e Poesie piccole (Milano 1965). I più importanti saggi sulla letteratura italiana sono raccolti in Conversazioni italiane (Firenze 1968). Esaustiva, fino al 1960, la bibliografia degli scritti curata da C. Cordiè in Studi in onore di Vittorio Lugli e D. V., I, Venezia 1961, pp. LI-LXXVIII.
Fonti e Bibl.: Lettere a Valeri di corrispondenti vari sono conservate a Venezia, presso il Fondo Diego Valeri della Fondazione Giorgio Cini (catal. consultabile sul sito www.diegovaleri.it e nel volume Fondo D. V. della Fondazione Giorgio Cini. Inventario della corrispondenza. Album fotografico, a cura di A. Venturini – R. Zannato, introduzione di G. Manghetti, Piove di Sacco 2010). Una biografia basata sulle fonti archivistiche, oltre che sugli imprescindibili contributi di L. Montobbio (La giovinezza di D. V., in Una precisa forma. Studi e testimonianze per D. V. Atti del Convegno internazionale… 1987, Padova 1991, pp. 141-165) e G. Manghetti (So la tua magia: è la poesia, Milano 1994), è in M. Giancotti, D. V., Padova 2013.
Per la critica si vedano, fra gli atti: Omaggio a D. V. Atti del Congresso…, Venezia … 1977, a cura di U. Fasolo, Firenze 1979; Una precisa forma… Atti del Convegno internazionale…, cit.; L’opera di D. V. Atti del Convegno nazionale di studi… 1996, a cura di G. Manghetti, Piove di Sacco 1998; D. V. e il Novecento. Atti del Convegno di studi nel 30° anniversario della morte del poeta, Piove di Sacco… 2006, a cura di G. Manghetti, presentazione di P.V. Mengaldo, Padova 2007. Fra gli altri contributi: P. Pancrazi, Poesie vecchie e nuove di D. V. (1930), in Id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, II, Milano-Napoli 1967, pp. 369-373; A. Zanzotto, Il maestro universitario, in La Fiera letteraria, 3 marzo 1957, p. 3; L. Baldacci, Per un’antologietta di D. V. (1972), in Id., Libretti d’opera e altri saggi, Firenze 1974, pp. 108-129; F. Fortini, I poeti del Novecento (1977), Roma-Bari 1988, p. 43; Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano 1978, pp. 353-356; Dal simbolismo al Déco. Antologia poetica cronologicamente disposta per cura di Glauco Viazzi, II, Torino 1981, pp. 433 s.; P.V. Mengaldo, Ricordo di D. V. (1996), in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino 2000, pp. 44 s.; A. Zanzotto, Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, I, Fantasie di avvicinamento, Milano 2001 (in partic. V. italiano e francese [1957], pp. 47-52; Nella «Calle del vento» [1976], pp. 53-55); G. Caproni, «Il flauto a due canne» di V., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, pp. 1073-1077.
ENCICLOPEDIA TRECCANI-LODOVICI, Cesare Vico. – Nacque a Carrara, il 18 dic. 1885, da Egisto, industriale del marmo, e da Clementina Baldacci. Completò gli studi giuridici a Roma e negli anni immediatamente successivi alla laurea iniziò la pratica da avvocato. Nel 1911 lasciò la capitale trasferendosi a Lugano dove collaborò alla rivista Coenobium, nella quale, tra i primi, presentò al pubblico italiano l’opera di P. Claudel (Il teatro di Paul Claudel, 1914). Negli anni successivi visse a Milano, dove prese parte ai movimenti d’avanguardia che animavano la vita culturale della città. Il debutto del L. come autore teatrale avvenne a Pavia, nel 1912, con l’atto unico L’eroica.
È la vicenda di una famiglia borghese che, in una villa “isolata e solitaria fra l’alpe Apuana e il mare”, attende la nascita di un bambino fra interessi egoistici e morbose aspettative di guadagno.
Nel 1912, un’altra pièce, intitolata significativamente La patria, andò in scena al teatro Diana di Milano (29 maggio), con mediocre successo; stessa sorte toccò al lavoro successivo, L’idiota (ibid., 17 sett. 1915), rappresentato dalla compagnia Talli-Melato.
Allo scoppio della prima guerra mondiale il L. si arruolò volontario e, dal 1915 al 1917, combatté al fronte, dove fu ferito e due volte decorato. Nel 1917 fu fatto prigioniero dagli Austriaci e trasferito nei campi di prigionia di Mauthausen e poi di Theresienstadt; qui il L. fu animatore del “teatrino dei prigionieri” (nel 1917 vi venne rappresentato un suo atto unico: Per scherzo) e portò a termine la prima stesura de La donna di nessuno, completata subito dopo il suo rientro dalla prigionia e destinata a rivelarlo all’attenzione della critica come una fra le voci più innovative del teatro italiano contemporaneo. Fu un successo non immediato, destinato inizialmente più agli addetti ai lavori che al grande pubblico, se è vero che la commedia, rappresentata per la prima volta al teatro dei Filodrammatici di Milano il 22 dic. 1919 (compagnia Borelli-Bertramo), rimase in cartellone non più di tre serate; le repliche non furono numerose neppure due anni più tardi, quando fu ripresa dalla compagnia di Emma Gramatica che ne fu protagonista. Eppure i tre atti scritti dal L. non passarono inosservati. Anzi, furono immediatamente accolti anche all’estero: tradotta in inglese da P. Sombart e pubblicata nell’autunno del 1922 nella rivista Poet Lore di Boston, La donna di nessuno giunse nei primi anni Venti anche in Francia, soprattutto grazie al significativo interessamento di J.-J. Bernard – a sua volta autore di un “teatro del silenzio” o “dell’inespresso” – e di sua moglie Georgette.
Protagonista de La donna di nessuno è la giovane pittrice Anna, circondata da quattro uomini: il fratello Dino, il pignolo e ombroso Cusano, Giampietro, “non intelligente ma abile”, e Giovannino, “bello come un raggio di sole”. L’amore di Anna è diviso fra Cusano e Giampietro, che finisce per sposare. Come ne L’eroica, è l’imminente nascita di un bambino a far precipitare il dramma. Anna, lacerata da passioni contrastanti, medita un aborto, poi ci ripensa, rinunciando anche all’amore per Cusano. Il L. riesce a costringere la torbida materia sentimentale negli equilibri di uno stile misuratissimo, che suggerisce piuttosto che declamare, cercando di sfuggire al contempo sia alla prosaicità del dialogo naturalista sia a una intonazione dannunziana.
In quegli stessi anni Venti il L. entrò in rapporto con E. Montale, R. Bazlen, G. Debenedetti e altri protagonisti della scena letteraria italiana, e strinse amicizia con scrittori di teatro quali L. Pirandello, P.M. Rosso di San Secondo, U. Betti, e M. Bontempelli. Proprio Pirandello, nel 1929, volle dirigere a Firenze, con Marta Abba nel ruolo della protagonista, Il grillo del focolare, una commedia che il L. aveva scritto in collaborazione con S. Strenkowsky, ispirandosi a un racconto di Ch. Dickens.
Nel 1926, il L., insieme con E. Somaré, fondò Il Quindicinale, fra le prime riviste a segnalare la recentissima pubblicazione degli Ossi di seppia di Montale (Torino 1925) e a ospitare i saggi dedicati dallo stesso Montale alla riscoperta dell’opera di I. Svevo (tra questi una celebre lettura di Senilità). Contemporaneamente, proseguiva un’intensa attività teatrale.
Il L. tentò di andare oltre l’intimismo un po’ asfittico delle prime commedie, intessendo rapporti con l’opera di maestri come A. Čechov, M. Maeterlinck, Bernard, D’Annunzio: gli esiti appaiono incerti, ed è probabilmente proprio l’assorbimento poco convinto e convincente di stilemi dannunziani a rendere disarmonico e provvisorio lo stile dei testi composti dal L. in questo periodo.
Scarso successo ottenne anche la commedia forse più nota di questa fase, La buona novella (Roma, teatro Quirino, ottobre 1923, compagnia Alda Borelli), storia di tre sorelle in un grigio interno di provincia esplicitamente ispirata alle Tre sorelle cecoviane.
Gli esperimenti degli anni Venti fecero, tuttavia, da prologo a futuri successi: Ruota, pièce in cui la sperimentazione di nuove (anche se non più nuovissime) forme sceniche si salda a una cifra stilistica pienamente matura, venne rappresentata a Roma il 23 genn. 1933 (teatro Valle, compagnia di Marta Abba) e si segnalò subito all’attenzione della critica.
“È stata la più bella vittoria riportata, fino ad oggi da Lodovici a teatro” – scrisse S. D’Amico, all’indomani della prima – “Riconosciamo assai lietamente che nel prologo la tecnica cecoviana prediletta dal Lodovici ha dato i risultati migliori: dai piccoli suggerimenti, dalle stucchevoli cadenze, dalle cose grigie e dai suoni indistinti, qui si è creato un clima, espressa una desolazione”. Protagonista della vicenda è Maria, donna ancor giovane e sposata da dieci anni a un marito rozzo e dispotico. Sulla scena l’autore rappresenta la sua reclusione domestica (primo atto) e la sua evasione nel sogno (il secondo, che oggettiva per scene giustapposte le sue fantasie oniriche), fino al drammatico epilogo del terzo atto. Maria, trascinata dalle sue allucinazioni, si getta con trasporto fra le braccia del marito, ma quando torna a rendersi conto della realtà, si suicida gettandosi sotto la macina del mulino.
Nel 1937, al successo di Ruota fece seguito quello de L’incrinatura, subito ribattezzata Isa dove vai? (Genova, teatro Margherita, 19 genn. 1937).
La trama di questa commedia in tre atti appare una sorta di sintesi delle precedenti: al centro dell’attenzione, ancora una volta, un rapporto amoroso ma a tre, quello composto da Isa, suo marito Marco e Luca, un amico di infanzia. L’amichevole intimità fra Isa e Luca, che dura da anni, a un tratto inizia a destare sospetti nel marito, che manifesta alla moglie la sua gelosia; Isa, pur non avendo colpe e pur provando rancore nei confronti di Marco, gli obbedisce, rinunciando per sempre a Luca.
Nel 1935 il L. si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, che mantenne fino al 1953. Dopo il successo di Isa dove vai?, sintesi ed epilogo di un itinerario teatrale, tentò la strada, a lui meno congeniale, del dramma storico. La rappresentazione del Vespro siciliano (Roma, teatro Argentina, luglio 1940) fu accolta tiepidamente sia dal pubblico sia dalla critica; il L. tornò sulle scene solo dieci anni dopo, con un’opera d’occasione, la Caterina da Siena rappresentata da E. Zareschi nel giugno 1950 sul sagrato del duomo della città toscana.
A partire dagli anni Trenta il L., sfruttando la duttilità del suo linguaggio teatrale e la sensibilità stilistica acquisita, aveva intensificato il lavoro di traduzione cui si era dedicato sin dagli anni giovanili.
La vastissima attività in questo campo va dal teatro antico (Aristofane, Plauto) a quello spagnolo (P. Calderón de la Barca, Tirso de Molina, M. de Cervantes), a quello francese (da Molière ad A. Gide) a quello inglese contemporaneo (nel 1940 tradusse Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot); il nome del L. resta comunque legato soprattutto alla traduzione, completata in un ampio arco di anni, di tutto il Teatro di W. Shakespeare (pubblicata integralmente da Einaudi nel 1964).
Significativa è anche l’attività del L. in campo musicale; scrisse infatti libretti per diverse opere, tra cui La scuola delle mogli, da Molière, musicata da V. Mortari (1930; rappr., dopo una revisione: Milano, Piccola Scala, 17 marzo 1959) e La donna serpente, dalla favola di C. Gozzi, musicata da A. Casella (Roma, teatro dell’Opera, 17 marzo 1932).
Nel 1937 il L. aveva debuttato nel cinema scrivendo il soggetto di La fossa degli angeli, regia di C.L. Bragaglia, dramma ambientato nelle cave di marmo di Carrara. Successivamente diede il suo contributo a diversi soggetti e sceneggiature tra cui Ettore Fieramosca di A. Blasetti (1938, collaborando alla sceneggiatura); Tutta la vita in una notte di C. D’Errico (1938, soggetto) trasposizione della sua commedia Ruota; I trecento della Settima di M. Baffico (1942 soggetto).
Nel 1941 venne pubblicata a Roma l’unica raccolta del Teatro del L. (comprendente Ruota, L’incrinatura e La donna di nessuno). Nel secondo dopoguerra il L. assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano La Giustizia, organo ufficiale del Partito socialista democratico italiano (PSDI). Fino agli ultimi giorni proseguì l’intensa attività di traduttore per Einaudi.
Il L. morì a Roma, il 24 marzo 1968.
Fin dalle opere giovanili appaiono alcune costanti della scrittura teatrale del L.: l’approfondimento dei rapporti fra i personaggi, l’inchiesta sentimentale, la predilezione per le protagoniste femminili, uniche a staccarsi dal coro degli altri personaggi; tutte le sue commedie più importanti si basano su un intrigo sentimentale e sull’analisi psicologica della protagonista. L’intenso rapporto con le avanguardie e i movimenti culturali del primo Novecento non si riflette immediatamente nella sua scrittura teatrale; il primo modello delle sue appassionate indagini di drammi domestici e intrecci amorosi sono autori della fine dell’Ottocento: H. Ibsen e i russi, in particolare Čechov e F. Dostoevskij. L’attenzione per le nuove forme drammatiche si rivela, piuttosto, nella proposta, mai plateale, di innovazioni strutturali e sceniche, nella costante ricerca di un linguaggio vibrante e musicale, in un percorso non scontato, che dalla vicinanza con il caos futurista conduce all’invenzione del “teatro del silenzio”. “Considero l’autore di teatro, se fa sul serio, un umile artigiano, votato a un duro destino” – scrisse il L. (v. Il Messaggero, 4 ag. 1940) in una lettera polemica indirizzata a E. Contini dopo la sua recensione di Vespro siciliano – “C’è bisogno di un coraggio da disperati per non perdersi d’animo giorno per giorno. Altro che rifare Shakespeare!”. Nella stessa lettera il L. indica “una via di salvezza dal teatro egocentrico” – quello delle sue prime opere – “in un ritorno a modelli universali e, specialmente per noi, a quelli del teatro che ha dato il Seicento europeo”.
Fonti e Bibl.: F.M. Martini, Cronache teatrali, Firenze 1924, pp. 247-252; S. D’Amico, Il teatro italiano, Milano 1932, pp. 265-268; R. Simoni, Isa dove vai?, in Corriere della sera, 3 febbr. 1937; D. Fabbri, Vespro siciliano, in Controcorrente, 1940, n. 11; C.V. Lodovici, Una lettera, in Il Messaggero, 4 ag. 1940; D. Fabbri, Il teatro di C.V. L., in Riv. italiana del dramma, V (1941), 3; A. Fiocco, C.V.L., uno e due, in Il Dramma, XVII (1941), 360, p. 48; B. Curato, Sessant’anni di teatro in Italia, Milano 1947, pp. 230-235; I. Sanesi, La commedia, Milano 1954, II, pp. 520 s.; R. Rebora, Il teatro di L., in Sipario, XIII (1955), 111; S. D’Amico, Cronache del teatro, II, Bari 1964, pp. 228-232; R. Radice, Un maestro del silenzio, in Corriere della sera, 26 marzo 1968; D. Fabbri, Il teatro di L., in Persona, settembre-ottobre 1968; Enc. dello spettacolo, VI, coll. 1587-1589.
Il 4 aprile del 1956, in una lettera a Goffredo Parise in cui rimprovera allo scrittore vicentino di aver smarrito, nel suo ultimo racconto Il fidanzamento, l’esuberanza patetica e piena di forza della sua opera prima Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza scrive: «Non ti dolere di questo parere negativo, io sono un vecchio provinciale con idee estremamente chiare anche se sbagliate (per te). Saranno idee d’arte e di poesia, che fanno pochi soldi, ma sono le sole capaci di sedurmi e interessarmi. Il resto, per me, è buio e vanità». La fede ostinata nel carattere d’arte e di poesia del lavoro editoriale attraversa da cima a fondo questi carteggi, che qui pubblichiamo per la prima volta nella loro completezza, tra l’editore vicentino e gli scrittori con cui ebbe un rapporto privilegiato di amicizia e di collaborazione: Dino Buzzati, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale e Goffredo Parise. Dal 1946, quando Neri Pozza fondò la sua casa editrice, fino al 1988, l’anno della sua morte, l’editore intrattenne rapporti epistolari con le figure di spicco della cultura italiana del Novecento: da Giuseppe Prezzolini a Emilio Cecchi, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi, da Camillo Sbarbaro a Corrado Govoni, da Carlo Diano a Concetto Marchesi, da Elémire Zolla a Amedeo Maiuri. È nelle lettere a Buzzati, Gadda, Montale e Parise, tuttavia, che emerge davvero la figura di Neri Pozza editore. Come ha scritto Fernando Bandini, Pozza «aveva già in mente per suo conto dei libri che pensava mancassero, e li proponeva agli autori che gli sembravano i più adatti a scriverli. Se avesse potuto li avrebbe scritti tutti lui di suo pugno». È Neri Pozza che, nel 1950, sedotto dall’idea di un’opera di Buzzati indica all’autore del Deserto dei Tartari la via per «un libro serio, vivo, necessario alla sua storia di scrittore». È Neri Pozza che, contro il parere dei critici che lo consideravano oscuro, pubblica Gadda e il suo Primo libro delle Favole, un titolo non compreso o addirittura sbeffeggiato quando apparve. È Neri Pozza che stampa coraggiosamente l’esordio in prosa di Montale, quella Farfalla di Dinard che esce nel 1956, con copertina rosso mattone, in un’edizione fuori commercio di 450 esemplari, con allegata un’incisione di Giorgio Morandi. È l’editore vicentino, infine, che non esita, in nome della chiarezza dell’arte e della poesia, a indicare «orrori» ed «errori» a Goffredo Parise, diventando, come ha scritto Silvio Perrella, oltre che il suo editore anche «il suo primo critico». A sessant’anni dalla nascita della casa editrice che reca il suo nome, con la pubblicazione di questi carteggi e della monografia Neri Pozza, la vita, le immagini, appare sempre più evidente il posto di rilievo che spetta all’editore vicentino nell’editoria e nella cultura del Novecento.
Cenni biografici di Neri Pozza
Neri Pozza nacque a Vicenza il 5 agosto 1912. Iniziò la propria attività come scultore nel 1933 seguendo l’esempio del padre, Ugo Pozza. Nell’ampia produzione è forte il richiamo di Arturo Martini e di Marino Marini. Espose alla Biennale di Venezia nel 1952 e nel 1958, alla Quadriennale di Roma e ancora alla Biennale veneziana della grafica. Nell’attività letteraria Pozza si distinse con volumi quali Processo per eresia (1970), Premio selezione Campiello, Comedia familiare (1975), Tiziano (1976), Le storie veneziane (1977), Una città per la vita (1979), Vita di Antonio, il santo di Padova e alcuni scritti sulle memorie della Resistenza come Barricata nel Carcere. Morì a Vicenza il 6 novembre 1988. Tra le opere pubblicate dalla casa editrice che porta il suo nome figurano: Neri Pozza, la vita, le immagini (a cura di Pasquale di Palmo, Neri Pozza, 2005); Saranno idee d’arte e di poesia (Neri Pozza, 2006); Opere complete (Neri Pozza, 2011).
Emily Dickinson (Amherst, Massachusetts, 1830 – ivi 1886) condusse una vita isolata e appartata e divenne celebre come poeta solo con l’edizione postuma dei Poems (1890) e con la pubblicazione delle sue lettere (1894, edizione accresciuta 1931). Altre poesie furono pubblicate nel 1929 (Further poems). La sua opera è riunita nell’edizione critica definitiva curata da Th. H. Johnson: Poems (3 voll., 1955); Letters (3 voll., 1958) e interamente tradotta in italiano.
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