Traduzione di Salvatore Quasimodo-Illustrazioni di Renato Guttuso –
Einaudi editore-20 febbraio 1952 (prima edizione)
PABLO NERUDA – Poesie. Traduzione di Salvatore Quasimodo. Illustrazioni di Renato Guttuso. Torino, Einaudi editore, 1952 (20 Febbraio).-Cm. 22, pp. 169 (7). Con 5 suggestive tavole a piena pagina f.t. ed una piccola illustrazione n.t. di Renato Guttuso. Bella brossura editoriale illustrata dallo stesso Guttuso. Trascurabili segni del tempo. Esemplare nel complesso ben conservato. Importante traduzione italiana delle poesie di Pablo Neruda curata da Salvatore Quasimodo. Ricercata prima edizione seguita da molte ristampe identiche per forma e contenuto. Cfr. Iccu; Galati (1980): cita erroneamente il 1965 come data per la prima edizione italiana.
Biografia di Pablo Neruda
Pablo Neruda, Pseudonimo del poeta cileno Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973). Premio Nobel per la letteratura nel 1971, N. è considerato una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea latino americana, per la sua sensibilità acuta ma non preziosa, ricchissima d’immagini ma non complicata. È stato testimone di molti degli eventi cruciali che hanno segnato il XX secolo: dalla guerra civile spagnola alla guerra fredda, dai movimenti di liberazione in America Latina alla morte di S. Allende. La sua opera poetica comprende un’impressionante antologia di testi fra i più alti della poesia moderna di lingua spagnola, sostenuti da un prodigioso dono di «canto» che si articola nelle strutture musicali più disparate, con una costante sperimentazione linguistica e metrica, sui temi congeniali dell’amore, del paesaggio natale e delle speranze collettive.
Vita
Di origini modeste, frequentò il liceo di Temuco e l’univ. di Santiago, dove nel 1921 si mise in mostra vincendo una gara poetica con La canción de la fiesta. Nominato console in India nel 1926, iniziò una brillante carriera diplomatica che gli dette modo di maturare le sue esperienze con continui viaggi e incontri. Stabilitosi in Spagna nel 1934, sempre al seguito dell’ambasciata cilena, si legò subito con il gruppo repubblicano di R. Alberti, F. García Lorca, M. Hernández e dette vita, sulle colonne della rivista da lui stesso fondata, El caballo verde para la poesía, a una vivace polemica con J. R. Jiménez. La guerra civile, il suo temperamento drammatico e, non ultima, la morte di Lorca e di Hernández, lo spinsero sempre più a precisi impegni politici che tanta parte hanno avuto poi nella sua vita e in tutta la produzione posteriore. Dopo ancora qualche anno di servizio diplomatico, nel 1944 N. tornò in Cile, e fu eletto senatore; ma un’accusa di tradimento lo costrinse ben presto a esulare in Messico, da dove compì lunghi viaggi in Europa (Parigi, Polonia, Ungheria). Nel 1949 presiedette a Città di Messico il congresso mondiale dei Partigiani della pace. Nel 1951 visitò l’Italia e la Cina. Nel 1952 fu ancora in Italia, da dove venne espulso come straniero indesiderabile. Tuttavia, a seguito di un movimento d’opinione pubblica, il decreto fu revocato, e N. poté trascorrere un lungo periodo a Capri. Nel 1953 tornò in patria, nel suo rifugio di Isla Negra presso Valparaíso. Con l’avvento alla presidenza della Repubblica di S. Allende (1970), fu nominato ambasciatore a Parigi. Nel 1972, gravemente malato, tornò in Cile, mentre il governo Allende era in crisi. Nel 1973, quando ormai la minaccia del colpo di stato militare era incombente, N. seguì Allende sul cammino della morte, mentre la dittatura di Pinochet s’instaurò in tutto il paese.
Opere
Trovatosi a scrivere negli anni in cui l’opera di R. Darío dettava legge in tutta l’Ispano-America, N. non aveva potuto fare a meno di allinearsi con le tendenze moderniste, benché la sua ispirazione fosse già orientata verso altre strade. Uscito finalmente dal pericoloso equivoco tra il 1924 e il 1935, e avendo raggiunto una notevole maturità espressiva, poté dare sfogo alla sua originalità, divenendo, in breve tempo, il maggior rappresentante degli anti-modernisti. Il sentimento riacquista allora l’importanza che l’esasperato formalismo gli aveva negato e la personalità intensa e drammatica del poeta si fa luce con versi che sembrano scritti, come disse Lorca, «più che con l’inchiostro, con il sangue». La società borghese, giudicata corrotta e ipocrita, è presa continuamente di mira con attacchi violenti alle convenzioni, ai sentimenti codificati, all’ordine costituito, mentre, con immagini grottesche, se ne sviliscono i suoi sacerdoti. Dal 1940 N., ormai marxista convinto, si dedica quasi esclusivamente alla poesia sociale e alla lotta politica: il dolore, l’umiliazione, la speranza sono i temi ricorrenti di questa nuova produzione, accompagnati da una vena di profondo calore umano che riesce a smorzare i toni marcatamente propagandistici e a dare spesso pagine d’intensa poesia. Tra le sue opere principali si ricordano: Crepusculario (1923), Veinte poemas de amor y una canción desesperada (1924), Tentativa del hombre infinito (1926), Residencia en la tierra (1933; 2a ed., con l’aggiunta di un 2º vol. contenente le liriche composte dopo il 1931, 1935), España en el corazón (1937), Tercera residencia (raccolta delle poesie composte dopo il 1935, 1945), Canto general (1950), la sua opera maggiore, amplissimo poema sulla storia del Cile e della stessa America latina come insieme di tradizioni e incrocio di civiltà; Odas elementales (1954), Nuevas odas elementales (1956), Tercer libro de las odas (1957), Estravagario (1958), Navigaciones y regresos (1959), Memorial de Isla Negra (1964), Arte de pájaros (1966), Fulgor y muerte de Joaquín Murieta (1967, dramma scritto in Italia), La barcarola (1968), Las manos del dia (1968), Aun (1969), l’apocalittico Fin del mundo (1969), Las piedras del cielo (1970), La spada encendida (1970), Geografía infructuosa (1972). Da segnalare infine le prose autobiografiche di Confieso que he vivido (1973; trad. it. 1975) e la traduzione italiana integrale della sua opera poetica (1960-73).
-Mario La Cava – Leonardo Sciascia, Lettere dal centro del mondo 1951-1988-
-Recensione di Ippolita Luzzo-
Ippolita Luzzo:“Nella primavera del 1951 Mario La Cava ha 44 anni e Leonardo Sciascia ha compiuto 30 anni. L’inizio di una corrispondenza durante la quale Sciascia scrive: “Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo”. Il libro delle 362 lettere che Mario La Cava e Leonardo Sciascia si scrissero dal ‘51 all’‘88, anno della morte di La Cava, si deve alla cura con cui i due interlocutori seppero conservare il loro dialogo, ed all’intelligenza degli eredi che hanno acconsentito che si potesse pubblicare la raccolta in un libro.
I curatori del libro, Milly Curcio e Luigi Tassoni, hanno scelto il titolo, spiegando che “il centro del mondo è il cuore dell’invenzione creativa di uno scrittore, il luogo da cui parte e a cui ritorna comunque costantemente, quel nocciolo che non smette di far ribollire il suo relazionarsi al mondo e, insieme, l’invenzione del proprio mondo, e la chiave o prospettiva da cui si guardano le cose da fuori”.
Le lettere iniziano con la prima edizione del libretto I Caratteri di Mario La Cava, pubblicato nel 1939, e che ha visto la seconda edizione nel 1953. Sono mini storie brevi e rapide, paradossali a volte, e c’è nella lettera di La Cava a Sciascia la gioia di aver trovato in Sciascia un lettore e un amico. Nello scambio delle lettere la lettura diventa essenziale, lo scambio di manoscritti, e insieme la difficoltà di sentirsi isolati. La Cava a Bovalino trova in Sciascia un amico, prima che uno scrittore.
Ad unire i due scrittori la loro esperienza nella rivista “Galleria” fondata nel 1949 da Sciascia e diretta da Sciascia fino al ’59.
La Cava parteciperà con recensioni di Vittorini, Pirandello, Thomas Mann, e altri, e ci sarà testimonianza nelle lettere degli scambi fruttuosi e della stima vicendevole con cui accompagnano uno il lavoro dell’altro.
Intanto Sciascia nel 1961 diventerà un autore di grande successo di pubblico e di critica con Il giorno della civetta e La Cava nel 1958 pubblicherà con Einaudi Le memorie del vecchio maresciallo con presentazione di Vittorini, in quarta di copertina.
Mi fermo su La Cava in questo mio risvolto di copertina, su un autore rimasto in Calabria, a Bovalino, e della Calabria ha colto la strettoia con I racconti di Bovalino pubblicato postumo da Rubbettino.
Quello che trovo di grande attualità nelle lettere è il grande lavorio, le attese, i dubbi, l’interrogarsi, sia sul lavoro proprio che su quello degli altri, il voler trovare quella relazione con il mondo letterario, un mondo a parte, e da quel mondo sentirsi parte e nello stesso tempo sentirsi messo da parte. Mario La Cava ad un certo punto in una lettera simpaticissima si meraviglia con Sciascia, raccontandogli che una scrittrice di romanzi si sia rivolto a lui per essere raccomandata affinché Sciascia legga il suo manoscritto .“Curioso che nel mondo ci sono persone che si rivolgono proprio a me per le raccomandazioni!” A pagina 267. E questa sua meraviglia ci fa capire quanto lo scrittore sia lontano dalle raccomandazioni e quanto sia lontano dal pensare di far parte di quel mondo. Nell’onestà vera che sancisce il rapporto dei due scrittori noi tutti ancora possiamo leggere Lettere al Centro del mondo con la certezza di Sciascia: “Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano”
Fonte- Giacomo Verri Libri-il blog di chi ama i libri e la buona musica
Se non avete ancora letto “Il Maestro e Margherita”, opera postuma di Michail Bulgakov, è venuto il momento di farlo! Rendetevi disponibili, prego, per una lettura intensa quanto sorprendente e assurda. Diversamente, nel caso lo aveste già letto, spero che le mie parole, qui, in questo confidenziale e prezioso spazio, vi rimandino alla sua rilettura. A me è capitato di riprenderlo tra le mani dopo vent’anni dalla prima volta, chiedendomi cosa, esattamente, avessi letto, giacché non era del tutto svanito il ricordo di essere stato letteralmente rapito dall’esposizione di quelle pagine, così ben lavorate da raccordarsi con il genio dei grandi maestri dello spirito russo. Tradotto e pubblicato da Einaudi, nel 1968, a vent’otto anni dalla morte dell’autore, il libro viene recensito sul “Corriere della Sera” da Eugenio Montale, che definisce il romanzo “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”.
Il poeta italiano scrive: “Un romanzo-poema o, se volete, uno show in cui intervengono numerosissimi personaggi, un libro in cui un realismo quasi crudele si fonde o si mescola col più alto dei possibili temi – quello della Passione – non poteva essere concepito e svolto che da un cervello poeticamente allucinato. È qui che il poco noto Bulgakov si congiunge con la più profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol’ e di Dostoesvkij e in quel pazzo di Dio che è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo.”
Cosa dovremmo sapere, dunque, di un’opera che quasi tutti gli esperti metterebbero nella lista dei migliori libri di sempre? Non possiamo ignorare, per esempio, che Bulgakov iniziò a scriverla nel 1928 e che ne distrusse la prima versione, lavorando in seguito a diverse altre, fino ad arrivare, aiutato dalla moglie Elena, a quella definitiva del 1940, portata al termine poco prima di lasciare questo mondo.
Il tema della distruzione del romanzo viene ripreso anche dalla testimonianza della storia d’amore tra il Maestro e Margherita, un punto di forza irrinunciabile dell’intera vicenda narrata, ma non il solo. Cosa ci fa, infatti, il Diavolo a Mosca, nelle vesti di Woland, accompagnato da personaggi memorabili, tra cui il maggiordomo stravagante, Korov’ev, e il clownesco gatto sovrappeso, Begemont? Certamente, insieme, daranno luogo a un esilarante e sconvolgente mulinello di accadimenti che vi terranno fermi alle pagine mediante un racconto che procede su due piani: in uno si narrano le vicende che si susseguono a Mosca, nell’altro si sviluppa il romanzo scritto dal Maestro, ambientato durante la Pasqua, ai tempi di Ponzio Pilato e Gesù.
E qui il tema tra il bene e il male si complica a tal punto che la stessa distinzione tra buoni e cattivi non è affatto netta. Satana appare quasi benevolo e si prende gioco della mediocrità e della vacuità delle persone. Mentre, Margherita, nella sua grazia e bellezza, mostra il suo lato oscuro e distruttivo. Quanto, a Ponzio Pilato, lavandosi le mani non dissolve la sua fragilità e la solitudine.
Il testo sfoglia con maestria elementi bizzarri e surreali, che si mescolano con la denuncia politica e sociale, con la religione, la giustizia, l’amore, l’illusione e il potere. E come ogni grande classico, il capolavoro di Bulgakov ci lascia alle nostre domande e riflessioni, magari aprendoci la strada a qualche dubbio, ma nella certezza di aver letto un’opera intramontabile e senza tempo, che avrà sempre qualcosa da insegnare a ogni nuova generazione.
I lettori di ogni epoca potranno considerare come difronte a tanta sofferenza e ai diritti negati, i protagonisti di questa grande opera letteraria abbiano ancora voglia di fare cose folli e innamorarsi del rischio. Margherita è desiderosa di vita e avventura e non è al corrente dei particolari del suo viaggio: sa solo che quando arriverà alla meta, potrà finalmente chiedere pace e redenzione per lei e per l’uomo che ama. Pertanto, la donna si lancia nuda, in volo, fluttuando come in un quadro di Chagall, sulla città di Mosca e i suoi dintorni, tra boschi e un paesaggio lacustre.
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-
Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE
“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.
«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.
Nel 1983 Natalia Ginzburg entrava in Parlamento, dove sarebbe rimasta per due legislature. I suoi interventi in aula furono accomunati da quella ricerca di una società più umana e più mite che permeò la sua opera e la sua vita: dal prezzo del pane al disarmo nucleare, dalle misure contro la violenza sulle donne alla valorizzazione dell’ambiente rurale. Raccolti per la prima volta in volume insieme a una scelta di articoli e interviste dello stesso periodo, questi discorsi ci mostrano una Natalia Ginzburg immediatamente riconoscibile nella fedeltà a quei valori di chiarezza e semplicità che tutti abbiamo amato nelle sue opere.
Brevi cenni biografici di Natalia Ginzburg nata Levi (Palermo 1916-Roma 1991), crebbe a Torino in una famiglia e in un ambiente antifascista. Sposò in prime nozze Leone Ginzburg, che seguì al confino in Abruzzo e al quale rimase accanto sino alla morte di lui, avvenuta nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini. Esordì nel 1942, pubblicando il romanzo La strada che va in città. Entrata all’Einaudi, casa editrice per la quale lavorò per decenni, si affermò come una tra le scrittrici più significative nel panorama letterario italiano. Nel 1963 vinse il Premio Strega per il romanzo autobiografico Lessico famigliare. Dal 1983 sino alla morte fu deputata della Sinistra indipendente.
L’Autrice-Michela Monferrini- nata a Roma 1986 ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (2014, finalista Premio Calvino 2012 e Zocca 2015), Muri maestri (2018) e Dalla parte di Alba (2023), romanzo biografico su Alba de Céspedes. È inoltre autrice di una guida letteraria dedicata al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, 2016) e del ritratto Grazia Cherchi (2015). Ha pubblicato due libri per ragazzi. Nel 2017 le è stato conferito in Campidoglio il Premio Simpatia per l’impegno nel sociale.
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Da: Alibi -Longanesi, 1958- Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi-Einaudi, 1968-
Da: Alibi -Longanesi, 1958-
ALIBI
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t’amo. Beato l’istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l’ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.
Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t’incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle-delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l’oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente, tu eri l’astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.
Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un’arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento. Il mio ragazzo non ha casa né paese.
La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d’un unico solitario fiore!
La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura. Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla, il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v’è risposta umana. Riposa un poco vicino a chi t’ama angelo mio.
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l’uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.
Riposa un poco vicino a chi t’ama.
Lascia ch’io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d’oro come gli autunni.
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…
Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. I tuoi colori, o fanciullesco mattino, tu ripiegasti. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera.
Il tuo corpo materno è il mio riposo.
(1955)
MINNA LA SIAMESE
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia, e ciò che lemetto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme, tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi, memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide, spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa. Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa, di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni. Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino; né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti: ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra. Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi, processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo, ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale. Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei, ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
AMULETO
Quando tu passi, e mi chiami, assente son io. Per lunghe ore ti aspetto, e tu, distratto, voli altrove. Ma tanto, il mezzano serafico del nostro amore, il sultano dello zenit che muove sul quadrante le sfere con le dita infingarde e sante, ha già segnato l’istante del nostro convegno. Molli si volgono i miei giorni a quella imperiosa stagione. Candida e glaciale essa risplende alta salendo, come fuoco. Ah, nostra incantevole stanza! Che importa a me, infido spirito, dei tuoi diversi pensieri? Il presagio inchina già la fronte all’annuncio. Sorte e amore ti congiungono a me.
(1945)
LETTERA
Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
(1946)
CANTO PER IL GATTO ALVARO
Tra le mie braccia è il tuo nido, o pigro, o focoso genio, o lucente, o mio futile! Mezzogiorni e tenebre son tue magioni, e ti trasformi di colomba in gufo, e dalle tombe voli alle regioni dei fumi. Quando ogni luce è spenta, accendi al nero le tue pupille, o doppiero del mio dormiveglia, e s’incrina la tregua solenne, ardono effimere mille torce, tigri infantili s’inseguono nei dolci deliri. Poi riposi le fatue lampade che saranno al mattino il vanto del mio davanzale, il fior gemello occhibello. E t’ero uguale! Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie tetro e sfolgorante, un giardino abitammo insieme, tra il popolo barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio, ma la camera tua là rimane, e nella mia terrestre fugace passi giocante pellegrino. Perché mi concedi il tuo favore, o selvaggio? Mentre i tuoi pari, gli animali celesti gustan le folli indolenze, le antelucane feste di guerre e cacce senza cuori, perché tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo, e io tre cose ho in sorte: prigione peccato e morte. Tra lune e soli, tra lucenti spini, erbe e chimere saltano le immortali giovani fiere, i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto, Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba, nel fastoso uragano del primo giorno… E tu? Per amor mio?
AVVENTURA
per Luchino Visconti
Hai tu un cuore? La leggenda vuole che tu non l’abbia. Al vedermi, che per te mi consumo d’amore, tutti mi dicono: «Ah, pazza, mangiata dalle streghe, rosa dalle fole, soldato d’imprese disperate, marinaio senza veli né remi, dove t’avventuri? in quali deserti di sabbia, dietro Morgane, e fuochi fatui, e larve canzonatrici tu vuoi spegnere la tua sete nella solitaria morte! Ah, chi ti gettò questa rete, povero pesciolino?» Così dice la gente; ma lasciamo che dica! A chi di te mi sparla, nemica io mi giurai. Per te, mio santo capriccio, volto divino, senz’armi e senza bussola sono partita. Non v’è riposo alla speranza mai. A difficili amori io nacqui. Come una rosa in un giardino d’Africa o d’Asia assai lontano, come una bandiera alzata in cima a una nave pirata, come uno scudo d’argento appeso in un barbaro tempio, difficile splende il tuo cuore il tuo frivolo, indolente cuore, l’eroico, femmineo tuo cuore. il tuo regale, intatto cuore, il cuore dell’amore mio. Io credo nel tuo cuore! Le caverne terrestri son tutte una gioielleria. Funerea primavera per le mie feste vanesie, l’ametista viola e l’agata lunare e i diamanti simili a rose cangianti e il topazio vetrino, il topazio d’oro. Hanno i cristalli aloni e code di fuoco, mille comete e lune per la mia notte. M’offron conchiglie i golfi, e giochi oceanici, e il cielo boreale riposi e meditazioni. Dolcezze ha l’aranceto, come salive d’amore, e l’Asia graziose belve, mie tenere schiave. Le Maestà dei re conversazioni m’accordano, e al mio comando s’accendono circhi e teatri. Ma alla conquista io partii d’un frutto aspro. Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere. Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego. Il solo mio volere è questa impresa! Alla conquista d’un frutto amaro andai. Le cose amare sono le più care. Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco. Lungo e incerto il viaggio fino al nido di questa civetta-fenice. Inesperta son io, compagno né guida non ho, ma giungerò alla camera felice del mio bell’idolo. Addio, dunque, parenti, amici, addio! Prima bisogna guadare il lago stagnante della paura, e i Grandi Orgogli oltrepassare, fastosa catena di rupi. Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca e i mostri di gelosia mettere in fuga, (ah, San Michele e San Giorgio, datemi il vostro scudo!) per notti occhiute, selve purpuree, dove incontrare potrò centauri e ippogrifi, e bere il magico sangue dei narcisi. Si levan poi le triplici mura di Sodoma intorno a campo straniero dalle sette torri merlate. Incantare dovrò i guardiani, riscattare le spose comprate, e a lungo errerò per corti e fughe di scale, fra un popolo d’echi e d’inganni fino alla cara porta, che reca la scritta crudele: Indietro, o pellegrina. Non riceve. Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura, ah, sirena foss’io, foss’io Medoro o Niso, che forse a te più amico sarebbe il nome mio, grazioso cuore! Invece, Lisa è il mio nome, nacque nell’ora amara del meriggio, nel segno del Leone, un giorno di festa cristiana. Fui semplice ragazza, madrina a me fu una gatta, e alla conquista partii d’un dolce cuore. Or che mi presentai, siimi cortese, o amore. Di che temi, o selvatico? d’esser preso al laccio? Ah, no, dell’amara pampa la figlia io non sono. D’esser trafitto? Io non ho coltello, né pungiglione. Né son io sbirra, per gettarti in carcere, né fata, per averti compagno notte e giorno, mutato in corvo, dentro gabbietta d’oro. Ah, dall’impresa non giudicarmi eroe! Leggera è la mia mente più del fuoco, più che un riccio dei tuoi fulvi capelli. Per la mia pena, per il tuo vinto amore, con te soltanto un poco giocare io voglio come una foglia scherza con l’ombra e il sole, o una ragazza col suo gatto rosso. E poi ti dirò addio. Tu dirai: Lisa! supplicherai: Lisa! Ah, Lisa! Lisa! chiamerai. Ma io ti dirò addio.
Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968)
ADDIO
Dal luogo illune del tuo silenzio mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino. O notte celeste senza resurrezione perdonami se torno ancora a queste voci. Io premo l’orecchio sulla terra a un’eco assurda dei battiti sepolti. Dietro la belva in fuga irraggiungibile mi butto sulla traccia del sangue. Voglio salvarti dalla strage che ti ruba e riportarti nel tuo lettuccio a dormire. Ma tu vergognoso delle tue ferite mascheri i cammini della tua tana. Io fingo e rido in un ballo disperato per distrarti dall’orrenda mestizia ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre non ammiccano più ai miei trucchi d’amore. Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso io corro le città lungo una pista confusa. Ogni ragazzo che passa è una morgana. Io credo di riconoscerti, per un momento. E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto o una maglietta rossa che scantona… Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio disprezzi la mia commedia miserabile. Buffone inutile io deliro per le vie dove ogni fiato vivente ti rinnega. Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta un carniere di piume insanguinate. E chiedo una tenerezza al buio della stanza, almeno una decadenza della memoria, la senilità, l’equivoco del tempo volgare che medica ogni dolore… Ma la tua morte cresce ogni giorno. E in questa piena che monta io vado e mi riavvento in corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. O nido irraggiungibile e caro, non c’è passo terrestre che mi porti a te. Forse fuori dai giorni e dai luoghi? La tua morte è una voce di sirena. Forse attraverso una perdizione? o vna grazia? o in quale veleno? in quale droga? forse nella ragione? forse nel sonno? La tua morte è una voce di sirena. Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza ma è stata già l’impostura dove ti ho perso! La tua morte è una voce di sirena che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse. Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata mentre al tuo grido innocente non c’è risposta. La tua morte è una luce accecante nella notte, è una risata oscena nel cielo del mattino. Io sono condannata al tempo e ai luoghi finché lo scandalo si consumi su di me. Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva per rubarle il segreto del mio tesoro. O pudore d’una infanzia uccisa, perdonami questa indecenza di sopravvivere. Tu sei partito credendo di giocare alla fuga. Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio. Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia minaccioso dietro le porte sbarrate come un gran capitano nel suo forte supremo. Guai per l’audace che si arrischi all’assedio! Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo. Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani. Le piogge entrarono nel vano abbandonato e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri. Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere, ricercata da tutti. E adesso tutti ne rifuggono, come fosse appestata. Il mio piede incíampa nella tua camiciola che nessuno ha più raccolto da terra. Sul terrazzo devastato dagli inverni, le piante sono morte. Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo dove infatti c’era poco di valore, da rubare! Ritagliàti dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime, il barbuto Fidel, Billie Holiday la suicida. In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta. Una cravattina rossa pende nell’armadio. Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali: il canestro con la gatta e il fonografo a valigia. «Il resto dei bagagli, speditelo per via mare». Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente. Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari, non posso più raggiungerti per riportarti indietro. Lo so che tu credevi di giocare all’addio. Era una braveria, la tua smorfia… Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede. La ladra delle notti è una cammella cieca e folle che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista. L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione. Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti. Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie. E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate irraggiungibili nei loro campi solitari. Amputati dai corpi, si disperdono separati senza rimedio, eterne mutilazioni. Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
…
A P. P. P.
In nessun posto
E così, tu – come si dice – hai tagliato la corda. In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato e alla fine te ne sei persuaso anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato. I vecchi ti compativano dietro le spalle pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami e i “giovani” ti sputavano in faccia perché fascisti come i loro baffi: (già, tu glielo avevi detto, però avevi sbagliato in un punto: questi sono più fascisti dei loro baffi) ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro ti chiedevano la propaganda per i loro volantini e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi E loro pigliavano e poi: “lui dà” – bisbigliavano nei loro pettegolezzi – “per amore di se stesso”. Viva, viva chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso. Loro odiano gli altri come se stessi e in tale giustizia magari si credono di fondare una rivoluzione. Loro ti rinfacciavano la tua diversità dicendo con questo: l’omosessualità. Difatti, loro usano il corpo delle femmine come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare. Il corpo delle femmine è carne d’uso ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada avesse assassinato uno dei loro non la giustificherebbero perché immatura. Ma in verità in verità in verità quello per cui tu stesso ti credevi un diverso non era la tua vera diversità. La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio perché i poeti sono il sale della terra e loro vogliono la terra insipida. In realtà, LORO sono contro-natura. E tu sei natura: Poesia cioè natura. E così, tu adesso hai tagliato la corda. Non ti curi più dei giornali– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo e i cali della lira, e decretoni e decretini e leggi e leggione. Io spero che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco – ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto dove ti trovi ora di passaggio – che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate e fughe dei capitali e tasse evase e delle loro carriere ecc. Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo prima di tornartene al Paradiso.
Tu eri un povero E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri, nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri per bisogno d’amore degli altri. Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridi[ne]. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio.
(1976)
Breve Biografia di ELSA MORANTE
ELSA MORANTE – nata a Roma il 18 agosto del 1912 – morì a Roma il 25 novembre 1985– la maggiore di quattro figli, figlia di Francesco Lo Monaco e Irma Poggibonsi. Elsa è cresciuta credendo che il secondo marito di sua madre, Augusto Morante, fosse suo padre. Nel 1922 a famiglia si trasferì a Monteverde Nuovo dove Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.Grazie al pittore Capogrossi, nel 1936 conosce Alberto Moravia il grande scrittore romano, autore tra gli altri de Gli indifferenti e La noia. Il matrimonio della Morante con Alberto Moravia, oppositore del governo fascista di Mussolini, la mise in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali italiani dell’epoca, tra cui Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Le sue raccolte di poesia sono Alibi (Longanesi 1958, Garzanti 1988, Einaudi 2004) e Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968, 2006, 2012). I suoi romanzi: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Numerosi i racconti e gli scritti vari, saggi e interventi. È uno dei maggiori narratori italiani. Menzogna e sortilegio viene pubblicato nel 1948 vincendo il premio Viareggio, con L’Isola di Arturo Elsa Morante divenne la prima donna a vincere il Premio Strega.
-La Poetessa Patrizia Cavalli arriva a Roma nel 1968, dopo essere passata per Ancona. Nella capitale conosce Elsa Morante, dalla cui frequentazione nasce, nel 1974, la sua prima raccolta di poesie, a lei dedicate. Nel 1976 viene inserita nell’antologia “Donne in poesia – Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi“, insieme a autrici come Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque Amelia Rosselli, Anna Maria Ortese.è scomparsa a 75 anni –
-Nata a Todi -Perugia 1947-Morta a Roma 21 giugno 2022-
È morta all’età di 75 anni Patrizia Cavalli una delle poetesse italiane contemporanee più importanti, come scrive Repubblica. Nata a Todi nel 17 aprile 1947, Cavalli viveva a Roma da tempo, ormai e lì, doveva aveva studiato Filosofia, aveva costruito la sua carriera letteraria che era legata a doppio filo con la casa editrice Einaudi per cui aveva pubblicato varie raccolte di poesie. In quegli anni romani aveva legato molto con un’altra delle scrittrici che hanno scritto il canone letterario italiano, ovvero Elsa Morante.
Poesie di Patrizia Cavalli
Sei poesie da Vita meravigliosa di Patrizia Cavalli, Einaudi, 2020.
Continuazione dell’Eden
L’originale comunque non lo voglio
non voglio stare dove ogni momento
se sbagli possono cacciarti via.
Lo preferisco falso e permanente
dove la legge la decido io.
Abolirò memoria e nostalgia,
non ci sarà intenzione né immaginazione
ma un’aria mite e ferma che acconsente:
si morirà per noia, dolcemente.
I nostri alberi non settentrionali
hanno foglie leggere e molto fitte,
vibranti nel dettaglio e pronte a rivelare
il loro lato argenteo, segreto,
solo sfiorate da un qualsiasi vento.
Senza peso sul ramo, ma ornamento,
sono le prime a muoversi, le ultime a star ferme
in quella oscillazione che acconsente
forte all’inizio e poi quasi incosciente.
Non c’era piú, anche se di solito spuntava
da ogni nebbia. Ma questa era una nebbia naturale o mia?
Con un’unghia raschiai un muschio grigio,
di cerchio in cerchio si era sovrapposto
al peperino e ambiva in sfumature
a farsi breccia d’Africa, non levigata,
che teneva in riserva i suoi colori.
Ma il suo colore – verde interiore, acido –
fu scalfittura e non levigatura
che lo scoprí. Gli ulivi intanto
si erano puliti della nebbia.
(Forse la nebbia era soltanto mia).
Si addensava lontano oltre il querceto
e non mi dava Orvieto, che aspettavo.
Era una nebbia a cumulo, potente
e concentrata, il vapore che segue
al fuoco spento, che sale bianco
ma ne mantiene l’empito. Tra poco
si sarebbe sciolto e a poco a poco
avrebbe liberato pure Orvieto. E fu cosí.
Ma era tutta grigia, rassegnata.
Era bruciata.
Era lí senza bene e senza male
aspettava il bene e il male,
aspettava nella stasi
bene o male calcolava
quanto tempo le restava
come rompere l’attesa
di questo persistere
in un’idea stanziale
che vuole sistemarsi in penitenza
eterna paura di esistere, pure
sapeva di non essere immortale.
Cerco i miei versi tra un tavolo e una sedia
nel bosco predisposto pei miei passi
mi apposto e aspetto quel suono che si forma
uscendo da un rumore senza forma.
La mia disperazione è la speranza,
io spero troppo e troppo spesso spero
ma è uno sperare fatto di incostanza,
giro la testa e mi ricala il nero.
Immagine: Foto di Dino Ignani.
Poesie di Patrizia Cavalli
Adesso che il tempo sembra tutto mio
Adesso che il tempo sembra tutto mio e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, adesso che posso rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto nel lusso immenso di una esplorazione, adesso che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte dove non c’è richiamo e non c’è piú ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, adesso che il mattino non ha mai principio e silenzioso mi lascia ai miei progetti a tutte le cadenze della voce, adesso vorrei improvvisamente la prigione.
Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
E’ tutto così semplice,
sì, era così semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.
Note: da “Amore non mio e neanche tuo” – Patrizia Cavalli
Per questo sono nata, per scendere
Per questo sono nata, per scendere da una macchina dopo una corsa in una strada qualunque e trafficata e guidata dagli angeli piegarmi attraverso il finestrino sopra quei capelli e in silenzio sentire l’odore di quel viso dove poco prima avevo visto come la bocca e gli occhi si passavano un sorriso che non si apriva mai e correndo veloce scompariva in un attimo e tornava.
Questa sfusa felicità che assale
Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.
Sempre aperto teatro
Indietro, in piedi, da lontano,
di passaggio, tassametro in attesa
la guardavo, i capelli guardavo,
e che vedevo? Mio teatro ostinato,
rifiuto del sipario, sempre aperto teatro,
meglio andarsene a spettacolo iniziato.
O amori – veri o falsi
siate amori, muovetevi felici
nel vuoto che vi offro.
Tutto mi appare in bella superficie
e poi scompare. Perché ritorni
la figura io mi sfiguro, offro
i miei pezzi in prestito o in regalo,
bellezza sia visibile, formata,
guardarla da lontano, anche sfocata,
purché ci sia, purché ci sia, anche non mia.
Note: Patrizia Cavalli, Sempre aperto teatro
Poesie per colazione -153
Era alla luce terribilmente sabato,
quel sole infimo che annunzia svogliatezze
mentre nella piazza fin dentro le mie finestre
chiuse si muoveva il mercato prolungato.
L’ultima offerta e poi si chiude. Poi la festa
untuosa e il silenzio. Già si smontavano
i banchetti con la ferocia trasandata
della fine. Forse era possibile
una corsa per prendere qualcosa, forse
restava qualche cassetta ancora non riposta.
Ma non mi decidevo a quella corsa.
Quando scendevo ormai era tardi
tra i mucchi di foglie di carciofi
e i pomodori sfatti dove una vecchietta china
correva rapace alla riscossa di mezze mele
di peperoni buoni per tre quarti.
Ma io non cercavo frutta marcia o fresca,
io volevo soltanto la certezza
della settimana che finisce,
dell’occasione persa.
Note: Patrizia Cavalli, “L’io singolare proprio mio” in Poesie, Einaudi, 1992.
Pure scoprendo che quello che vedevo,
e lo vedevo in te amore amato
in verità non c’è, non c’è mai stato,
forse per questo è meno vero? No,
continua ad essere vero, e non perché
così mi era sembrato, non si tratta
di soggettività. Nessuno infatti
avrebbe in sé alcuna qualità
se non fosse per quel sentire che spinge
a concepire mischiandosi all’oggetto
un pensiero commosso per cui la nostra mente
intenerita fa che la morte venga differita,
almeno per un po’, giocando a questo
o a quello, prestando al giocatore
opaco il suo fervore, anche inventato.
Note: da “Pigre divinità e pigra sorte” – Patrizia Cavalli
Essere animale per la grazia
di essere animale nel tuo cuore.
Mi scorge amore, mi scorge quando dormo.
Per questo io dormo. Di solito io dormo.
Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto intoccabile. Nelle reni
si condensava l’attesa senza soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.
Note: tratta da “Poesie”,Patrizia Cavalli, Einaudi, 1999)
Biografia di Patrizia Cavalli. – Poetessa italiana (n. Todi, Perugia, 1947-Roma 21 giugno 2022 ). La sua lirica, limpida e diretta, rivela spesso intensa drammaticità. Ha scritto: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974); Il cielo (1981); Poesie 1974-1992 (1992); Sempre aperto teatro (1999), con il quale ha vinto il premio Viareggio-Repaci; La Guardiana (2005); Pigre divinità e pigra sorte (2006); Flighty matters (2012); Datura (2013). C. si è dedicata anche a traduzioni per il teatro, e nel 2012 ha pubblicato, con la musicista D. Tejera, Al cuore fa bene far le scale, CD e libro con poesie e musiche originali nate dalla collaborazione tra le due artiste. Nel 2019 C. ha pubblicato la raccolta di prose Con passi giapponesi, finalista al Premio Campiello 2020; è dello stesso anno la raccolta di versi Vita meravigliosa.- Patrizia Cavalli arriva a Roma nel 1968, dopo essere passata per Ancona. Nella capitale conosce Elsa Morante, dalla cui frequentazione nasce, nel 1974, la sua prima raccolta di poesie, a lei dedicate. Nel 1976 viene inserita nell’antologia “Donne in poesia – Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi“, insieme a autrici come Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque Amelia Rosselli, Anna Maria Ortese.
Fonte Enciclopedia Treccani
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