«Laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia sibilla.»
Lungo tutto il secolo breve, una donna bellissima e fortissima pensa, scrive, agisce, lotta. Viaggia prima per studio, poi attraversando fronti e frontiere dell’Europa occupata dai nazifascismi: Parigi, Lisbona, Londra, Marsiglia, Roma, il Sud dell’Italia dove sono arrivati gli Alleati. Documenti falsi, missioni segrete, diplomazia clandestina. Joyce, insieme al marito Emilio Lussu e ai compagni di Giustizia e Libertà, sostenuta nelle sue scelte dalla sua famiglia di origine, è in prima linea nella Resistenza. Poetessa, traduttrice, scrittrice, ha sempre coniugato pensiero (prefigurante, modernissimo) e azione. Azione che prosegue nel dopoguerra con la ricerca di poeti da tradurre per far conoscere le lotte di liberazione degli altri paesi, in particolare dell’Africa e del Curdistan. Nazim Hikmet, Agostinho Neto, i guerriglieri di Amílcar Cabral che compongono canti di lotta durante le marce, sono alcuni degli autori che Joyce ‘scopre’ e propone attraverso traduzioni rivoluzionarie. Rievocando le scelte, gli incontri, le occasioni, ripercorriamo l’esistenza di questa donna straordinaria (laica, cosmopolita, ‘anglo-marchigiana’) e il suo essere, da sempre, riferimento per molte donne e molti giovani.
Edizione: 2022, II rist. 2022 Pagine: 248 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858147535 ISBN digitale: 9788858150399 Argomenti: Storia contemporanea, Biografie, autobiografie
Scheda dell’Autrice-Silvia Ballestra
Silvia Ballestra, marchigiana, vive e lavora a Milano. È autrice di romanzi, raccolte di racconti e saggi pubblicati per i maggiori editori italiani. Tra i suoi libri, tradotti in varie lingue: Compleanno dell’iguana; Gli Orsi; Nina; I giorni della Rotonda; Joyce L. Una vita contro; Amiche mie; Vicini alla terra. Storie di animali e di uomini che non li dimenticano quando tutto trema; La nuova stagione. Dal suo La guerra degli Antò è stato tratto l’omonimo film diretto da Riccardo Milani. Per Laterza ha pubblicato Christine e la città delle dame.
Cavalieri, fanti, arcieri e poi armi, strategie, tecniche. Questi sono gli elementi che fanno una battaglia. Ma se osserviamo con attenzione il ‘volto della guerra’ ci riconosciamo molto altro: emozioni, cultura, contesti, personalità e caratteristiche individuali. Un nuovo racconto del Medioevo in 21 momenti fatali che hanno deciso la Storia.Quando pensiamo al Medioevo, automaticamente ci vengono in mente immagini di spade, castelli e armature. Quasi ogni cosa che ricordiamo di questo periodo storico ha a che fare con battaglie, duelli o assedi. Mai come nei mille anni dell’Età di Mezzo, la guerra ha occupato uno spazio così centrale nella vita degli uomini. In queste pagine troveremo tutte le battaglie più famose, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma più volte ci stupiremo inoltrandoci in luoghi lontani, sconosciuti e affascinanti: dalle umide pianure indiane alle gole del Tagikistan, dalle acque del Giappone fino alle inesplorate valli dell’Impero azteco, dai ghiacci del Baltico fino al profondo deserto d’Arabia. Ciascuno di questi 21 ‘fatti d’arme’ diventa un prisma attraverso il quale conosciamo gli avanzamenti dell’῾arte della guerra’, ma anche uomini, culture, contesti. Un libro che piacerà a tutti gli appassionati di storia militare e che ha l’ambizione di proporre uno sguardo nuovo, capace di coinvolgere tutti coloro che amano la storia.
L’autore – Federico Canaccini, medievista, si occupa da anni di storia comunale italiana, con una particolare attenzione al conflitto tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Ha insegnato Storia della guerra nel Medioevo alla Catholic University of America di Washington, Paleografia latina alla LUMSA di Roma e attualmente insegna Paleografia e Filosofia medievale alla Università Pontificia Salesiana di Roma. In qualità di ricercatore all’Università di Princeton ha intrapreso un lavoro di edizione critica di Questioni quodlibetali e di trattati astrologici inediti. È assiduo collaboratore della rivista “Medioevo”, di cui cura la rubrica d’apertura. Tra le sue pubblicazioni, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (2007), Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII (2008) e Al cuore del primo Giubileo (2016). Per Laterza è autore di 1268. La battaglia di Tagliacozzo (2018) e 1289. La battaglia di Campaldino (2021).
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza- Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo… C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Editori Laterza
DESCRIZIONE
La Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.
I due anni che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d’Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il ‘tempo delle scelte’ per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all’interno di un’Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all’attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai ‘banditi’ dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta ‘zona grigia’, evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d’insieme si alterna costantemente con l’attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Ferruccio Parri
Rifiutiamo per noi le penne del pavone.
Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo ed all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista.
Ferruccio Parri (1971)
Introduzione
La Resistenza, ancora oggi, rappresenta in Italia un fattore di divisione. Benché costituisca l’antefatto e il presupposto di quello che la volontà popolare sanzionò il 2 giugno 1946 – la nascita della Repubblica e l’avvio del percorso che un anno e mezzo dopo porterà alla promulgazione della Costituzione – essa non gode dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi, soprattutto nei decenni successivi, da parte di un’estesa maggioranza della popolazione.
A ben guardare, in realtà, la maggioranza degli italiani non nutre particolare interesse verso la Resistenza, se non in occasione delle ricorrenze, delle celebrazioni, delle memorie – e delle polemiche – che rivisitano ogni tanto questo o quell’evento a essa legato. C’è una forte minoranza, tuttavia, che ritiene giusto insistere nel richiamare la Resistenza non solo come prodromo della Repubblica e della Costituente, ma come momento formativo di quella nuova “morale politica” che si era manifestata e affermata proprio tra il 1943 e il 1945. Una politica che condannava senza esitazione il totalitarismo fascista, l’aver condotto l’Italia nella tragedia della guerra, la mancanza di libertà sofferta da tutti durante il regime e l’offesa alla dignità patita soprattutto dai suoi oppositori; e una morale che vedeva nella partecipazione e nell’impegno individuale – nella “scelta” di stare dalla parte di chi voleva riportare in Europa la libertà e la dignità sottomessa e calpestata dal nuovo ordine nazista – la possibilità di uscire da quello stato di passività, di inazione, di subalternità che si era diffuso e consolidato nell’ultimo decennio di vita del fascismo.
Una minoranza molto più contenuta, da parte sua, considera la Resistenza, se non un atto di tradimento verso la fedeltà all’alleato tedesco – e questi sono i pochi ma rumorosi “seguaci” della RSI che ancora ricordano Mussolini come il migliore degli italiani – come un inutile dramma, che ha anticipato di poco la liberazione del paese da parte degli eserciti alleati e ha offerto il destro per violenze suppletive che un’ordinata obbedienza ai voleri germanici avrebbe potuto evitare.
Tra queste tre posizioni, come naturale, sono presenti numerose sfaccettature, diversità, gradualità, che rendono l’atteggiamento nei confronti della Resistenza molto più frammentato e irriducibile a una casistica limitata. Il dibattito pubblico che si è sviluppato nel corso dei decenni, anche se a volte sollecitato da studi, memorie, approfondimenti, o dall’uscita di romanzi e film (alcuni dei quali capaci non solo di raggiungere un vasto pubblico ma anche di riassumere in modo chiaro ed esemplare problematiche complesse e argomenti controversi), ha fatto prevalere sull’elemento della conoscenza storica quello del giudizio (morale, politico, giudiziario), foriero inevitabilmente di polemiche e contrapposizioni il più delle volte sterili. La ricerca storica, nel frattempo, ha fatto passi da gigante, non solo raccogliendo una documentazione sempre più massiccia e articolata, ma contribuendo, soprattutto con studi a carattere locale, regionale, biografico, su singoli temi, a fornire narrazioni fattuali assai estese, che hanno permesso interpretazioni sempre più accorte e coerenti anche quando sono state fra loro diverse o addirittura controverse.
È in questo contesto, nell’approssimarsi del 75° anniversario della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale, che abbiamo deciso di proporre una narrazione globale e generale della Resistenza, che può fondarsi proprio sulla ricchezza documentaria e storiografica accumulatasi negli anni, e in particolare nell’ultimo quarto di secolo. Una narrazione che vuole al tempo stesso raccontare gli eventi e far parlare i protagonisti, suggerire nuove interpretazioni e individuare i problemi ancora aperti e gli aspetti più controversi, raccontare l’orizzonte ampio della guerra europea e le vicende singole e particolari di eventi che hanno riguardato un numero limitato di persone ma sono state il simbolo e il riassunto di una drammatica epopea collettiva.
È la guerra a creare le condizioni che permettono, sia pure non immediatamente, di rendere sempre più precario il potere di Mussolini e del fascismo. In un intervento profetico dell’ottobre 1943, Giaime Pintor – che morirà poco dopo, il 1° dicembre, dilaniato su una mina nell’attraversamento del fronte, per raggiungere Roma – scrisse:
La condotta rovinosa della nuova guerra diede il colpo definitivo a questo stato di cose, precipitando dalla parte dell’opposizione insieme a pochi fascisti delusi tutta la folla dei pigri e degli opportunisti. L’antifascismo dispose allora di una forza che non aveva mai posseduto prima; l’enorme maggioranza del popolo italiano, contrario al regime e alla guerra, si trovò schierata contro un’esigua minoranza di fascisti stretti senza più convinzione ai loro privilegi e alle loro prerogative.
Dopo aver fustigato senza attenuanti il comportamento di Badoglio e del re, ultimo segnale del fallimento completo di una classe dirigente, Pintor terminava il suo scritto con una forte affermazione:
Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.
I protagonisti della Resistenza, e gli storici dopo di loro, hanno discusso a lungo se essa potesse essere considerata un «Secondo Risorgimento» (come sostenevano molti ufficiali inglesi che ne furono a contatto diretto). Lo fu, probabilmente, nella combattività di una minoranza capace di una «scelta inequivocabile», come proprio nel 1943 chiamò quella ottocentesca Leone Ginzburg (arrestato il 20 novembre 1943 e morto il 5 febbraio 1944 in seguito alle torture subite) in uno scritto pubblicato nell’aprile 1945.
Se era possibile apparentare gli antifascisti di lunga data o di più recente conversione ai patrioti del Risorgimento, per i giovani e giovanissimi che scelsero la via della montagna si trattava in molti casi di una scelta casuale – come scrisse Italo Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, uno dei primi romanzi sulla Resistenza pubblicato nell’ottobre 1947, scritto per «lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» – ma anche di una «volontà di resistere», come scrisse Antonio Giolitti nella sua autobiografia: «Resistenza sì, anche alla tentazione di scappare, di andarsi a nascondere, a rifugiare in qualche asilo […]. Due concomitanti resistenze. Non subire, non sottomettersi, non fuggire. Questa secondo me è stata la moralità collettiva, unificante della Resistenza, almeno per quanto riguarda la guerra partigiana».
Abbiamo voluto raccontare la molteplicità della Resistenza, il suo essere costituita da tante spinte diverse, azioni differenti, partecipazioni ineguali ed eterogenee, ma convergenti – pur con motivazioni ideali e pratiche, individuali e collettive, dissimili – verso un unico fine, quello di riacquistare la libertà, sconfiggere il nazismo, disfarsi dell’eredità fascista che aveva oscurato per vent’anni l’Italia. Abbiamo insistito, più di quanto un coerente equilibrio avrebbe suggerito, su alcuni aspetti che hanno fornito le occasioni più numerose a polemiche e contrapposizioni (il confine orientale, la violenza partigiana e tra partigiani, i rapporti tra Resistenza e Alleati), nella speranza di contribuire a una maggiore conoscenza di realtà e fenomeni estremamente complessi e contraddittori. Abbiamo limitato, non certo con l’intento di sottovalutarne il rilievo, le pagine dedicate ai partiti, condividendo, però, la convinzione che «era stata la guerra a rompere la cappa fascista, insieme agli errori e ai fallimenti di quella classe dirigente, ma la forza dei partiti di massa fu quella di preparare con la guerra di resistenza anche questa nuova classe dirigente. E di riuscire a farlo additando nel fascismo il nemico da sconfiggere e da sostituire con una nuova classe politica antifascista e democratica». L’errore più grande, nel valutare la “politica” nel triennio 1943-1946, sarebbe quello di farlo utilizzando i criteri utili ad analizzare gli anni della guerra fredda se non addirittura quelli della “crisi” dello Stato dei partiti dagli anni Ottanta in avanti. Uno degli antifascisti che s’interrogò maggiormente sul ruolo dei partiti, Vittorio Foa – sui «Quaderni dell’Italia libera», nel marzo 1944, scrisse un lungo articolo su I partiti e la nuova realtà italiana (La politica del CLN) –, avrebbe più tardi ricordato la contraddizione di voler «riformare il vecchio stato centralistico» e doverlo «intanto difendere per non cadere nel caos», sostenendo che la crisi della Resistenza era «cominciata assai prima della Liberazione, del 25 aprile 1945».
Nel ventennale della Liberazione Norberto Bobbio, in un discorso tenuto a Vercelli, ricordava come nel resto d’Europa era esistito un movimento patriottico di guerra allo straniero, mentre solo in Italia «la Resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la conquista dell’indipendenza nazionale e della libertà politica e civile». Sulla stessa convinzione si mosse il lungo lavoro da storico che Claudio Pavone pubblicò nel 1991 – Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza – e che avrebbe segnato una data discriminante nella storia degli studi sulla Resistenza.
La nostra ispirazione, pur se aiutata dalla lunga serie di studi che da allora si sono mostrati capaci di apportare conoscenza e comprensione verso uno dei bienni più intensi della storia italiana ed europea, si muove in questa stessa direzione, inaugurata da due studiosi – uno filosofo della politica, l’altro storico – che appartenevano alla generazione, pur se con dieci anni di differenza tra loro, di chi alla Resistenza aveva partecipato direttamente. Il loro dialogo a distanza sulla Resistenza investiva anche, come ha ricordato David Bidussa, «l’immagine che ne ha la prima generazione di italiani postresistenziali (quelli che hanno vent’anni negli anni sessanta)» e che andava messa a confronto con «la memoria che ne hanno i protagonisti», proprio per accettare, «come sollecitazione a riflettere sul passato», quella «opposizione padri-figli alla fine degli anni sessanta» in cui i secondi erano «convinti che la Resistenza “celebrata” non coincida con l’evento storico».
Tra gli autori di questo libro c’è la stessa distanza di età che esisteva tra Bobbio e Pavone ma pensiamo, anche se con un’estensione cronologica dilatata, di appartenere, soprattutto per la memoria pubblica e il dibattito storiografico sulla Resistenza, a una stessa generazione: che ha vissuto gli slogan emotivi sulla “Resistenza tradita” ma ha cercato di contribuire, soprattutto con la professione di storico, a un orizzonte di conoscenza che potesse evitare di rimanere vittima di interpretazioni ideologiche che selezionavano, a proprio comodo, la realtà dei fatti. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che il nostro debito nello scrivere questo libro non va solo alla generazione dei nostri padri, di cui Bobbio e Pavone erano due straordinari esempi, ma anche a quelle più giovani che ci hanno seguito e che hanno costituito una spinta decisiva nel modernizzare, ampliare e approfondire gli studi sulla Resistenza.
Infine, un pensiero sui protagonisti di queste pagine. A differenza dei loro coetanei, ossessionati dal disvalore della morte eroica e tramutatisi in macchine da guerra di Mussolini e Hitler, hanno guardato verso un futuro libero da guerre e hanno operato conseguentemente:
Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile, la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi in un atteggiamento di concreta responsabilità.
Queste riflessioni, annotate nel 1942 in una prigione del Reich da un teologo destinato all’impiccagione, attestano la valenza liberatoria della lotta contro fascismo e nazismo, alla quale i resistenti italiani forniranno nel 1943-1945 un rilevante contributo, che ancora oggi vale la pena di conoscere e di considerare.
I.
La guerra fascista e i suoi avversari
La guerra aveva posto le premesse per la conquista del potere da parte del fascismo. La guerra prepara le condizioni per il suo tracollo e la sua sconfitta.
La situazione che si crea all’indomani della prima guerra mondiale – la grave crisi economica, i profondi e perduranti conflitti sociali, la volontà di partecipazione delle masse e l’incapacità del liberalismo di dare loro uno sbocco politico, il contesto di violenza diffusa che accompagna il mito della “vittoria mutilata” – costituisce il terreno su cui Mussolini riesce a prevalere sulle velleitarie ipotesi rivoluzionarie dei socialisti e a conquistare il potere con la complicità della monarchia, degli apparati statali, dei ceti imprenditoriali, e con il consenso crescente delle classi medie.
La partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale scatenata da Hitler nel settembre 1939 viene accolta con entusiasmo quando il duce dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno 1940, ma già alla fine dell’anno le sconfitte in Africa e nei Balcani iniziano a creare una frattura con l’opinione pubblica che diventerà più marcata ed esibita nei due anni successivi. Dal novembre 1942 fino al marzo 1943 – mesi caratterizzati da massicci bombardamenti alleati sulle città italiane, dalla scomparsa di generi alimentari e dalla diminuzione delle razioni di pane, dalle notizie su Stalingrado e sullo sbarco americano in Nord Africa, sulla sconfitta di El Alamein e sulla disfatta dell’Armata italiana in Russia (ARMIR), dagli scioperi operai a Milano e Torino – il consenso nei confronti del fascismo crolla rapidamente e verticalmente, anticipando le manifestazioni di gioia che accompagnano la caduta di Mussolini il 25 luglio per mano del Gran Consiglio fascista e del re.
In Europa, la Resistenza era iniziata a ridosso delle vittorie militari compiute dalla Wehrmacht e della conquista nazista del continente. Hugh Dalton, il ministro dell’Economia di guerra britannico – la Gran Bretagna era rimasta sola nel combattere contro la Germania hitleriana – messo da Churchill nel luglio 1940 alla guida del SOE (Special Operations Executive), il nuovo organismo civile incaricato di favorire la ribellione e la guerra sovversiva nei paesi occupati dal nazismo, riteneva che fosse possibile avere
dalla nostra parte non soltanto gli elementi antinazisti in Germania e Austria, non solo i cechi e i polacchi, ma anche l’insieme del mondo democratico e amante della libertà in Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Olanda e Italia. Inoltre, in tutti questi paesi tranne l’Italia, si farà un appello nazionalista che si può collegare agli ideali di democrazia e libertà individuale. Sono convinto che le potenzialità di questa guerra dall’interno siano davvero enormi. Si tratta oggi di una delle nostre migliori armi offensive se solo riusciremo a imparare ad usarla e costituirà una parte assolutamente essenziale di ogni controffensiva di terra che noi dovremo alla fine intraprendere.
Il rapporto tra gli Alleati e la Resistenza – che fu un problema europeo ma particolarmente complesso in Italia, un paese che per tre anni era stato in guerra insieme alla Germania – ha dato luogo negli ultimi anni a ricerche e interpretazioni che hanno messo in discussione i luoghi comuni sull’appoggio parziale e discutibile che soprattutto la Gran Bretagna avrebbe dato al movimento partigiano italiano.
La guerra parallela vagheggiata da Mussolini, da impostare con propri obiettivi e strategie, «non per la Germania, né con la Germania ma a fianco della Germania», diviene in realtà una guerra subalterna: l’ultima del fascismo, dopo le aggressioni all’Etiopia del 3 ottobre 1935, alla repubblica spagnola nell’estate 1936 e all’Albania del 7 aprile 1939. Che si tratti di guerra fascista – col suo carattere ideologico di avversione per le democrazie, propagandato da stampa, radio e cinema – lo conferma la concentrazione dei poteri nelle mani del dittatore, titolare dei ministeri dell’Interno, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Mussolini si è pure attribuito il grado di Primo Maresciallo dell’Impero, ossia di ufficiale più alto in grado delle forze armate operanti.
L’antifascismo prebellico
Nel 1939 sono migliaia gli antifascisti in carcere o al confino, oppure – se liberi – strettamente controllati sotto minaccia di arresto alla minima infrazione. Vent’anni di persecuzione, ordinata dagli ispettorati regionali dell’OVRA, la polizia politica fascista, hanno distrutto le reti clandestine comuniste e gielliste, organizzate dai centri direttivi di Parigi con l’invio in patria di emissari sotto falso nome. Molti di loro vedono la sconfitta militare della Germania, dell’Italia e del Giappone (l’Asse Roma-Berlino-Tokyo) come un passaggio obbligato per il ritorno alla libertà. Questa visione antifascista globale si delinea nell’estate del 1936, come reazione al sostegno di Mussolini e Hitler alla ribellione militare franchista in Spagna. Volontari di cinquanta nazioni accorsero per entrare nelle Brigate internazionali, costituite da circa 40.000 combattenti, e tra di loro c’erano circa 3500 italiani, guidati dai repubblicani Mario Angeloni e Randolfo Pacciardi, dal giellista Carlo Rosselli, dall’anarchico Camillo Berneri, dai comunisti Luigi Longo e Palmiro Togliatti.
Tra i caduti vi è il professore triestino Piero Jacchia, cofondatore il 23 marzo 1919 dei Fasci italiani di combattimento e poi divenuto un avversario del regime. Angeloni, comandante della colonna italiana, è falciato da una mitragliatrice il 28 agosto 1936 mentre lancia una bomba a mano. Berneri viene sequestrato e ucciso a Barcellona nel maggio 1937 da agenti stalinisti, durante una delle fasi più acute delle divisioni intestine del fronte repubblicano. Gli italiani dell’esercito regio e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (che formano il Corpo truppe volontarie, cui parteciparono quasi 80.000 camicie nere) vengono sconfitti nella battaglia di Guadalajara proprio dagli italiani delle Brigate internazionali. È la prefigurazione della guerra civile, circoscritta per il momento allo scenario della penisola iberica. A Radio Barcellona, il 13 novembre 1936 Carlo Rosselli lancia lo slogan Oggi in Spagna, domani in Italia. Carlo viene assassinato, insieme al fratello Nello, in Normandia il 9 giugno 1937 da cagoulards assoldati dai servizi segreti di Mussolini; la loro morte provoca la crisi di Giustizia e Libertà.
L’unità faticosamente raggiunta dall’emigrazione politica italiana viene messa in crisi dal patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), preludio alla spartizione della Polonia tra nazisti e sovietici: le organizzazioni non comuniste respingono l’interpretazione proposta dal Komintern della guerra come scontro tra due imperialismi, egualmente nemici del proletariato, e i socialisti chiudono l’esperienza del patto di unità d’azione con il Partito comunista d’Italia (PCd’I).
Giustizia e Libertà, Partito repubblicano e Partito socialista costituiscono nell’autunno del 1939 il comitato promotore della Legione italiana, destinato – come nel 1914-1915 – a battersi contro i tedeschi in Francia e Belgio: in poco più di un mese si raccolgono 15.000 adesioni, ma il governo Daladier rifiuta di inserire reparti italiani nell’esercito, temendo ripercussioni sulla “non belligeranza”. I volontari sono così indirizzati alla Legione straniera, depoliticizzandone il reclutamento; a inizio giugno 1940, quando la situazione precipita, si liberalizzano gli arruolamenti e accorrono circa 7000 antifascisti, solidali con la Francia. Nell’aprile-giugno 1940, altre migliaia di esuli italiani si battono in Norvegia contro i tedeschi.
Tra gli antifascisti in esilio e gli oppositori del regime predomina lo sconforto. I dissidenti, al carcere e al confino, si sentono sempre più isolati. In Francia, dove è concentrato il grosso dell’emigrazione politica, socialisti e giellisti sono in piena crisi; i comunisti vengono arrestati in quanto considerati quinta colonna dell’Urss schierata con il Terzo Reich.
L’Italia in guerra e l’antifascismo
Dal 10 giugno 1940, quando Mussolini getta l’Italia in guerra contro Francia e Gran Bretagna, gli emigrati in quei paesi si ritrovano schedati e internati quali enemy aliens, ossia sudditi di nazione nemica. A Parigi, per reazione alla “pugnalata alle spalle”, assestata nel momento di massima difficoltà con i tedeschi in marcia verso Parigi, si scatena la caccia agli italiani: in un paio di mesi, se ne arrestano circa 2000. Eppure, molti di loro condannano l’avventura mussoliniana.
Il giellista Silvio Trentin considera Germania, Italia e Spagna come l’anti-Europa; prostrato dal crollo della Francia, rivive il naufragio della democrazia avvenuto nell’Italia del 1922 e si considera “un sopravvissuto”. Nonostante versi in pessime condizioni di salute, con problemi cardiaci, chiede l’arruolamento nell’esercito francese. L’anno successivo fonda a Tolosa il gruppo Libérer et Fédérer, aderente al movimento France Libre (costituitosi attorno al generale de Gaulle).
Il 22 giugno la Francia capitola e il maresciallo Pétain la subordina alla Germania. Dopo due giorni viene firmato l’armistizio con l’Italia. Agli esuli non rimane che passare in clandestinità e collegarsi alla nascente Resistenza francese, oppure riparare in Africa settentrionale o nelle Americhe. Il 5 ottobre, l’OVRA consegna alla polizia nazista lunghi elenchi di antifascisti da catturare e consegnare alla frontiera italo-francese. Nella seconda metà dell’anno, sono circa 40.000 i rimpatriati, volontari o forzati. I verbali degli interrogatori mostrano stati d’animo di cocente delusione: dopo anni di privazioni e lotte, ci si ritrova sconfitti, mentre l’Asse predomina e le masse plaudono al dittatore.
Eppure, nonostante tutto, molti partecipano alla “campagna di Francia” e poi passano nei maquis, convinti che contrastare la dominazione hitleriana in Europa significhi servire la causa della libertà italiana. Nel 1940, tuttavia, gli esiliati si ritrovano in piena crisi, con scarsi addentellati con la madrepatria. È questo, con tutta probabilità, il periodo più duro e ingrato dell’antifascismo. Gli stessi comunisti, meglio organizzati rispetto agli altri gruppi, devono dividersi e disperdersi per sfuggire alla repressione. La redazione della rivista teorica «Stato Operaio» si sposta a New York, con scarsi collegamenti con il nucleo allestito segretamente nella Francia di Vichy.
Il SOE e l’Italia
In Europa, ormai, il solo paese a resistere ai nazifascisti è il Regno Unito. Fin dal 1940 il governo Churchill cerca di dar vita, per quanto riguarda l’Italia, a un’“opposizione” indipendente e, su proposta di Hugh Dalton, acconsente nel gennaio 1941 alla creazione di un Comitato dell’Italia libera, affidato al cattolico Carlo Petrone, sconosciuto in patria e all’estero, giunto a Londra nel 1939, personaggio del tutto inadeguato, cui si contrappone nel luglio dello stesso anno un Movimento dell’Italia libera destinato ben presto anch’esso all’impotenza. L’illusione di Churchill di poter creare nella Cirenaica liberata nel gennaio 1941 dai britannici – che avevano catturato 100.000 soldati italiani – una «colonia dell’Italia libera» viene infranta dai successi di Rommel e dell’Afrikakorps che riconquistano la Cirenaica ai primi di aprile.
Si cerca, allora, di reclutare volontari tra i militari rinchiusi nei campi di prigionia in Africa settentrionale e in India; le adesioni si aggirano sul mezzo migliaio di unità, e si allestiscono due battaglioni di pionieri. Anche questa volta viene commesso un irrimediabile errore nella scelta del comandante, individuato nel generale Annibale Bergonzoli, già decorato con la medaglia d’oro nella guerra di Spagna (era comandante della 4a Divisione d’assalto “Littorio”), catturato il 7 febbraio 1941 in Africa settentrionale dopo il fallimento dell’offensiva italo-germanica in Egitto. Il generale Francis Davidson disapprova tale scelta perché Bergonzoli è «ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano […] inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia Libera, essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista». Il progetto, tuttavia, non prende corpo. Falliti i tentativi di costituire formazioni militari italiane da affiancare ai contingenti britannici, si ripiega su inserimenti individuali in reparti addestrati a colpi di mano e incursioni.
Per quanto riguarda l’Italia, l’attività del SOE si concentrò in gran parte sulla propaganda via radio, con le trasmissioni di Radio Italia (una costola di Radio Londra attiva fin dal 1935), inaugurata a metà novembre 1940. Le voci di Ruggero Orlando, di Umberto Calosso, di Paolo e Pietro Treves (figli dell’ex deputato socialista Claudio Treves) accennano alla presenza nel Regno Unito di esiliati politici, informano sull’attività della Resistenza sovietica, iugoslava e francese, ribadiscono – per esempio il 24 febbraio 1942, a opera del colonnello Stevens – che gli Alleati non prenderanno in considerazione l’Italia finché questa non avrà rovesciato la dittatura.
Il SOE si concentra sulla possibilità di una “guerra irregolare”, mediante incursioni dietro le linee da parte di piccole unità, con l’intento di distruggere infrastrutture civili e militari, e possibilmente collegarsi a nuclei di oppositori. Sono missioni della durata media di pochi mesi, prima dell’inevitabile cattura. Si spera, anche attraverso le operazioni speciali, di innescare ribellioni, ma è un obiettivo del tutto irrealistico per il contesto italiano, nonostante dall’agosto 1941 il Foreign Office studi possibili alternative politiche ai vertici del Regno d’Italia, per una fronda monarchico-militare o per la formazione di un governo in esilio. Un dirigente del SOE per l’Italia, il tenente colonnello Richard Hewitt, descrive una situazione deludente:
Fin dal 1940 la nostra politica mirava a proteggere e sostenere gli antifascisti in Italia e fuori. I primi contatti furono difficili: nel Paese gli elementi di opposizione comprendevano che il momento non era ancora giunto per affrontare rischi all’aperto; fuori del Paese gli antifascisti non erano ancora disposti a divenire volontariamente traditori formali della loro patria. L’opposizione in questo momento era in gran parte circoscritta entro teoria e propaganda e si limitava a sviluppare le cellule e le organizzazioni che un giorno sarebbero potute uscire all’aperto.
Il movimento maggiormente interessato alla collaborazione con gli Alleati è Giustizia e Libertà; chi più di tutti anela all’azione è Emilio Lussu, protagonista di una battagliera “diplomazia clandestina” e ideatore nella prima metà del 1942 di un piano insurrezionale che – coordinato con i progetti angloamericani di un fronte italiano – dovrebbe estendersi dalla Sardegna alla penisola. Egli si reca più volte in Corsica e riceve a Parigi emissari sardi, con i quali discute la fattibilità di un’iniziativa armata. Le trattative con gli inglesi si arenano dinanzi alle pregiudiziali di autonomia operativa e intangibilità dei confini italiani: «Faremmo un buco nell’acqua per la liberazione del nostro Paese se apparissimo venduti agl’inglesi. […] Il meno che possiamo chiedere è che all’Italia sia garantita l’integrità territoriale, metropolitana e coloniale, entro i limiti preesistenti all’avvento del fascismo».
L’opposizione inglese fa fallire anche il Congresso delle organizzazioni antifasciste delle due Americhe convocato a Montevideo il 14 agosto 1942 dalla Mazzini Society (fondata l’anno prima a New York su impulso di Gaetano Salvemini e presieduta da Max Ascoli), dove si annuncia la creazione di un organo politico diretto da Carlo Sforza e di una colonna militare che sotto il comando di Randolfo Pacciardi dovrà collaborare con gli Alleati. La pregiudiziale repubblicana non piace a Churchill, ma pesa anche lo scarso seguito che i promotori hanno presso la comunità italoamericana.
Traditori, o antesignani?
Naufragata l’intesa con le organizzazioni antifasciste, l’intelligence britannica ripiega sul coinvolgimento di singoli italiani nella guerra irregolare. Nel 1940-1943 sono decine i volontari arruolatisi nei servizi segreti angloamericani per missioni ad altissimo rischio, con l’obiettivo di costituire reti interne o per attuare sabotaggi. Sono forme di opposizione individuali alla guerra fascista, equiparate al tradimento e punite con la pena capitale. Chi prende in considerazione tale scelta è Leo Valiani, desideroso a fine 1941 di battersi «come soldato grigio e taciturno, nell’esercito sovietico o in un esercito alleato». Lascia il Messico per il Regno Unito, dove è addestrato dal SOE per l’invio ad Algeri, tappa intermedia della missione in Italia: «sapevano di mandarci allo sbaraglio; se fossimo stati arrestati, i fascisti ci avrebbero fucilati».
Tra i primi italiani inseriti nelle forze speciali del Regno Unito per missioni nella penisola, vi è il fiorentino Fortunato Picchi (Carmignano, 1896). Reduce della Grande Guerra, stabilitosi a Londra nel 1921, era divenuto vicedirettore di sala al Savoy Hotel. Schedato come antifascista all’entrata in guerra dell’Italia, Picchi viene internato sull’Isola di Man; trattato come un potenziale nemico, reagisce orgogliosamente, dichiarandosi disposto a combattere il fascismo al fianco delle forze armate britanniche. Nonostante sia quarantasettenne, il SOE gli assegna il nome di copertura di Pierre Dupont e lo include, con la mansione di traduttore, tra i 35 incursori di un commando del II Special Air Service.
È l’Operazione Colossus: partiti da Malta, gli incursori vengono paracadutati la notte del 10 febbraio 1941 sugli impervi territori dell’Avellinese. Viene fatto saltare il ponte-canale dell’Acquedotto pugliese, nei pressi di Calitri, per interrompere il rifornimento idrico alle città portuali di Bari, Brindisi e Taranto. Il SOE vuol far sentire alle popolazioni il peso della guerra, per acuire il malcontento contro Mussolini. Attuato il sabotaggio, gli incursori si dividono in tre gruppi e marciano verso la costa, dove li attende un sommergibile; individuati da alcuni cacciatori e segnalati ai carabinieri, si arrendono dopo una sparatoria, costata la vita a due persone. Dupont, imprigionato a Napoli con i suoi compagni, viene smascherato da agenti del controspionaggio e fucilato all’alba del 7 aprile in adempimento della sentenza del Tribunale speciale. Scrive alla madre: «Di morire non m’importa gran cosa, quel che mi dispiace è che io, che ho voluto sempre il bene del mio Paese, debba oggi esser considerato come un traditore».
Nel dopoguerra si accenderà una polemica giornalistica sulla figura dell’esule fiorentino e sarà il deputato inglese Ivor Thomas a criticare un articolo di Paolo Caccia Dominioni (già comandante del 31° Battaglione “Guastatori d’Africa” e poi esponente del Corpo lombardo volontari della libertà) apparso sul «Corriere d’informazione» il 16-17 aprile 1949 e intitolato Era un traditore oppure un eroe?. Thomas sosteneva infatti che «Picchi fu tra gli uomini più valorosi dell’età nostra. Amò la sua terra nativa e sacrificò la sua vita per contribuire a liberarla dalla tirannia fascista che la dominava. Credeva di esser fedele alla vera Italia nella sua stessa opposizione al regime fascista. M’inquieta vedere un Suo collaboratore bilanciare così equilibristicamente il problema se Picchi fosse un traditore o un eroe. Se Picchi fu un traditore, allora Mussolini fu un patriota». Quella di Fortunato Picchi fu una scelta estrema, presa in assoluta solitudine, dinanzi alla propria coscienza: «Fu un partigiano prima che in Italia esistessero i partigiani. Arrivò presto, forse troppo presto perché venisse riconosciuto il suo sacrificio (tanto che il governo della repubblica nata dalla Resistenza gli negò il riconoscimento postumo di combattente antifascista). Ebbe il destino degli idealisti solitari: una fossa comune, e l’oblio. Aveva fatto quello che riteneva giusto, senza chiedere il permesso a nessuno, senza porsi problemi troppo complicati».
La preparazione della campagna d’Italia
Nella prospettiva della campagna d’Italia gli Alleati inviano in Sicilia agenti segreti incaricati di raccogliere informazioni e predisporre reti d’appoggio al corpo di spedizione. Il compito, estremamente difficoltoso e a massimo rischio, è affidato a volontari reclutati tra disertori o prigionieri di guerra italiani di orientamento antifascista. Si tratta di incursioni suicide, che al più producono qualche messaggio cifrato prima dell’inevitabile cattura, determinata spesso da cittadini che segnalano ai carabinieri la presenza di estranei. Ogni missione – con base operativa a Malta – è costituita da un paio di elementi, uno dei quali specializzato nelle trasmissioni radiofoniche e l’altro con compiti operativi; quest’ultimo è originario della zona prescelta.
La spedizione che sbarca la notte del 14 ottobre 1942 sul litorale di Acireale si compone del trentaseienne catanese Emilio Zappalà e del trentunenne padovano Antonio Gallo, incaricati di raccogliere notizie sulle strutture militari nelle province di Catania e Messina: difesa costiera, aeroporti, sistemi di vigilanza, dislocazione dei reparti tedeschi ecc. Dopo una notte di marcia i due raggiungono Santa Venerina, paese natale di Zappalà, dal quale egli era partito quindici anni prima per la Libia, dove con alterne fortune aveva svolto attività commerciali, aderendo poi al movimento Libera Italia e impegnandosi nelle reti informative francesi e inglesi. Gallo, mobilitato per la campagna d’Abissinia, era rimasto in Etiopia sino al ritiro italiano, nel 1941, quando si era offerto all’Intelligence Service per missioni nel Regno: addestrato come sabotatore e marconista, deve trasmettere le notizie raccolte dal compagno. Ricostruirà così l’epilogo della missione:
Giunti finalmente alla periferia di Santa Venerina essendo già giorno fatto, lo Zappalà ad una donna che veniva dal paese disse che eravamo dei contrabbandieri e parlando in dialetto siciliano chiese se conoscesse qualcuno presso il quale potessimo lasciare in quei paraggi per poche ore le nostre valigie. La donna gli indicò un casolare poco distante dove essa era diretta e lo Zappalà la seguì, entrandovi mentre io aspettavo con le valigie al margine della strada. Essendo stata respinta l’ospitalità da lui chiesta, mi disse che sarebbe andato lui solo in paese per rivedere dei parenti e che sarebbe tornato dopo una mezz’ora. Prima di allontanarsi nascose le due bombe a mano in una buca presso di me. Rimasi nel posto da lui indicatomi ed attesi per circa mezz’ora che egli tornasse. Tornò in fatti e mi invitò a seguirlo in direzione del paese senza dirmi altro. Sennonché dopo pochi passi ci vennero incontro il maresciallo dei carabinieri con tre carabinieri ed un borghese e ci fermarono, traendoci poi in arresto.
I due prigionieri sono interrogati personalmente dal colonnello dei carabinieri Candeloro De Leo, l’ufficiale più valido del Servizio informazioni militare (SIM), che redige un resoconto con cui il Tribunale speciale motiva le due condanne a morte, eseguite il 28 novembre 1942 con il rituale della fucilazione alla schiena (il colonnello De Leo, fervente mussoliniano, comanderà i servizi segreti della RSI).
A volte i patrioti che intendono contribuire alla sconfitta militare dell’Italia per affrettare il ritorno alla democrazia cadono vittime dell’azione del controspionaggio fascista. Tra quanti aderiscono inconsapevolmente a cordate clandestine le cui fila sono tirate dal Centro controspionaggio dei carabinieri vi è la maestra trentina Clara Marchetto (nata nel 1911 a Pieve Tesino): residente in Liguria, nella primavera copia su fogli lucidi documentazione sulla corazzata Littorio e su altre navi da battaglia, per poi affidarli a una persona che dovrebbe portarli oltre confine. In realtà i carabinieri controllano l’intera organizzazione e a metà maggio 1940 ne arrestano i 15 componenti (alcuni dei quali doppiogiochisti). Il capocordata Aurelio Cocozza e il marinaio Francesco Ghezzi vengono fucilati il 22 dicembre 1940, mentre a Clara Marchetto e a suo marito Giusto Gubitta, disegnatore dei Cantieri Ansaldo, si infligge l’ergastolo. Scarcerata a Perugia nel maggio 1944 per ordine del Comando alleato, Clara Marchetto è tra i fondatori del Partito popolare trentino-tirolese, che rappresenta nel 1948 in Consiglio regionale. Fa richiesta di revisione della sentenza del Tribunale speciale ma viene accusata di tradimento dal democristiano Flaminio Piccoli: il 2 febbraio 1949 è ricondotta nel carcere di Perugia per scontare il resto della pena, in quanto «illegalmente liberata» dagli Alleati; dichiarata decaduta dal mandato elettorale, a fine anno è rilasciata, in libertà provvisoria, in attesa di un nuovo processo, che la condannerà in contumacia a 15 anni per rivelazione di segreti di Stato e complotto politico. Per non perdere nuovamente la libertà, Clara Marchetto si stabilisce dapprima in Austria, quindi in Tunisia e infine a Parigi, dove morirà settantunenne il 17 settembre 1982.
A tradire una combattente per la libertà, “partigiana” prima che nascessero i partigiani, è questa volta lo Stato repubblicano nato dalla Resistenza, incapace di promuovere una forte discontinuità (di leggi, di sentenze ma anche di valori) tra il fascismo e la democrazia. L’idea che la “patria” non vada mai tradita, nemmeno quando si lotta per ridarle una libertà conculcata, sembra una sconfessione del sacrificio che i martiri del Risorgimento patirono da parte dei tribunali austroungarici (da cui vennero condannati nella maggior parte dei casi proprio per tradimento): una contraddizione profonda proprio negli anni in cui si iniziava a parlare della Resistenza come Secondo Risorgimento, ma in un paese in cui la cultura nazionalista era ancora profondamente radicata.
La prima Resistenza nella penisola
Il 18 novembre 1940, al Gran Rapporto ai gerarchi provinciali del PNF, Mussolini aveva annunciato: «Con certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia!», mentre le truppe italiane stavano già indietreggiando di fronte alla controffensiva ellenica che costerà, due settimane dopo, le dimissioni del generale Badoglio. Nel giro di qualche mese, nell’aprile 1941, l’esercito di Mussolini torna nei Balcani al seguito della Wehrmacht che ha deciso di invadere la Iugoslavia. Partite da Zara, le truppe italiane raggiungono a metà mese Sebenico e Spalato, Ragusa e Mostar. L’armistizio firmato in fretta il 17 aprile dal generale Danilo Kalafatovi porta alla divisione del regno iugoslavo tra la Germania (in misura preponderante), l’Italia, l’Ungheria e lo Stato della Croazia, satellite tedesco sotto la guida di Ante Paveli.
Una parte della Slovenia diventa così l’italiana provincia di Lubiana, mentre si amplia la provincia di Fiume e si crea il governatorato della Dalmazia. Già nel 1940 erano stati smantellati dall’OVRA diversi gruppi di antifascisti sloveni, sia comunisti sia nazionalisti e rivoluzionari. I brutali interrogatori, nei quali si distinse il commissario Gennaro Perla, condussero a centinaia di arresti: vennero denunciati in 73 al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, poi ridotti di una decina, inizialmente divisi tra comunisti e irredentisti ma poi riuniti tutti come terroristi. Due di loro – Ivan Marija ok e Danilo Zelen – riescono a fuggire anche se quest’ultimo viene ucciso il 13 maggio 1941 dai carabinieri vicino a Ribnica, nel primo scontro armato avvenuto nella nuova provincia di Lubiana tra forze italiane di occupazione e antifascisti sloveni.
Il 2 dicembre 1941 inizia al Palazzo di giustizia di Trieste il processo a 60 imputati, arrestati quasi tutti in seguito a delazioni di loro ex compagni di lotta, sottoposti a estenuanti torture. A presiedere il Tribunale speciale è il generale Antonino Tringali Casanuova, che sarà successivamente ministro di Grazia e Giustizia della RSI e morirà per cause naturali ricoprendo quella carica. Gli imputati sono divisi in tre gruppi: comunisti, intellettuali e terroristi, sono tutti italiani anche se uno non è nato in Venezia Giulia, e tra loro vi è una sola donna, Marija Urbani. Il 14 dicembre vengono pronunciate nove condanne a morte di cui quattro – contro gli “intellettuali”, che lo stesso Alto commissario civile della provincia di Lubiana chiede di salvare per opportunità politica – commutate in ergastolo. L’indomani, al poligono di Opicina, ha luogo l’esecuzione dei “terroristi” Pino Tommasi (Toma�i), Vittorio Bobek, Giovanni Ivancich (Ivani), Giovanni Vadnal, Simone Kos. Dalle carte del processo – ha scritto Marta Verginella – emerge «come la sottrazione dei diritti nazionali, la decapitazione del ceto medio sloveno con la sua esclusione dalle istituzioni statali e dall’amministrazione locale e il suo allontanamento dalla sfera pubblica abbiano prodotto nei superstiti il bisogno di una risposta forte e coerente all’ideologia dello Stato-nazione. Di fronte allo Stato italiano e alla sua politica di assimilazione e snazionalizzazione la rappresentanza politica slovena, non soltanto nella sua composizione liberal-nazionale, ma anche in quella cattolica e comunista, individuava nella comune azione di tutte le forze politiche slovene una scelta di sopravvivenza».
Il 24 ottobre 1942 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato aveva decretato la condanna a morte per Antonio Grzina e i suoi collaboratori Vincenzo Hrvatin, Giuseppe Roi, Francesco Vci e Giuseppe Zefrin, immediatamente eseguita a Trieste. Il “Gruppo Grzina”, composto da una decina di contadini e artigiani coordinati da un meccanico fiumano, annotava ubicazioni e caratteristiche di aeroporti, caserme e infrastrutture belliche, ma la sua attività era stata stroncata il 10 ottobre 1941 da una raffica di arresti.
Tra i casi più significativi di opposizione all’oppressione fascista, identificata con la dominazione italiana, vi è il tragico destino dei fratelli Amauri ed Egone Zaccaria (nati a Fiume nel 1913 e nel 1917), appartenenti a una famiglia di sinistra: la madre Maria Soucek a inizio 1941 viene internata nel campo di prigionia di Montefusco, mentre il padre Alessandro, organizzatore partigiano, sarà catturato nell’ottobre 1942 da poliziotti triestini, imprigionato nel Lager di San Sabba e fucilato dai tedeschi il 22 giugno 1944. Arruolati in un “battaglione allogeni”, costituito con reclute considerate infide, disertano e si recano avventurosamente al Cairo, per offrirsi all’Intelligence Service quali volontari per missioni in Italia. Dopo un sommario addestramento, la notte del 9 ottobre 1942 un sommergibile li sbarca al largo della costa campana, nei pressi di Licola, muniti di cifrari, radio ricetrasmittente e una grossa somma di denaro.
Avvistati dalla guardia costiera, sono catturati nel giro di poche ore. Dopo un mese vengono condannati «alla pena di morte con degradazione mediante fucilazione alla schiena». Sentenza eseguita il 10 novembre nella capitale, nel poligono di Forte Bravetta, da un plotone d’esecuzione di camicie nere. Vengono sepolti al cimitero del Verano, nel “riquadro dei traditori”, con false indicazioni nominative.
L’opposizione al regime spinge alcuni irredentisti slavi a raccogliere informazioni per lo spionaggio iugoslavo. Qui entra in gioco un fattore decisivo e innovativo rispetto alle adesioni individuali ai servizi segreti del Regno Unito: la dimensione collettiva, legata a un progetto politico condiviso.
Il 26 aprile 1941, intanto, era sorto l’Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione del popolo sloveno, OF), cui aderiscono tutte le forze che intendono combattere l’occupazione italiana, e che vede una progressiva egemonia del Partito comunista sloveno. La Resistenza cresce man mano che la violenza dell’occupazione fascista si manifesta con tutta la sua ferocia: uccisioni, arresti, massacri di civili, incendi di villaggi, migliaia di prigionieri. Il 1° marzo 1942 il generale Roatta, dopo aver assunto il comando della 2a Armata da cui dipendevano le unita dislocate nei territori ex iugoslavi annessi nella primavera del 1941 e in quelli appartenenti al nuovo regno di Croazia, emana la famigerata circolare n. 3 C, in cui sottolinea che tutti gli abitanti dei territori occupati devono essere ritenuti nemici, che si deve evitare di fare prigionieri, che non devono essere risparmiati i sospetti di favoreggiamento e le loro case. È in quel periodo che entrano in funzione i campi di concentramento di Gonars (costruito nell’autunno precedente nella prospettiva di mettervi i prigionieri russi), operativo dalla primavera, e di Arbe, creato in luglio, dove migliaia di arrestati conoscono condizioni di vita terribili, violenze continue e una forte mortalità.
Ai partigiani sloveni si aggiungono presto anche numerosi antifascisti italiani, delle province di Trieste e Udine. Uno di loro è Vincenzo Marcon, arrestato nel 1937 e inviato poi al confino alle Isole Tremiti, nel carcere di Lucera, sull’Isola di Ponza, nel carcere di Cerchiara in provincia di Cosenza, a Corigliano Calabro e infine a Castrovillari, dove gli viene concessa la libertà provvisoria il 22 dicembre 1941. Nell’aprile 1942 Marcon è a Trieste e insieme a Giovanni Zol si dedica a riorganizzare il Partito comunista e ad avviare una collaborazione con i partigiani sloveni. Con il nome di battaglia di Davilla partecipa a incontri nel maggio e luglio 1942 per collegare le iniziative di lotta tra italiani e sloveni, e reperire e costruire armi. Ondina Peteani, considerata la “prima” staffetta partigiana, così lo ricorderà:
Nella primavera del 1942, al ritorno dal confino, Davilla si mise in contatto con Vinicio Fontanot, abitante in quel periodo a Ronchi. A quei tempi io pure abitavo a Ronchi e avevo continui rapporti con la resistenza. Portavo di frequente materiale propagandistico a Trieste. In uno di questi passaggi incontrai Davilla ed ebbi subito un’impressione molto positiva di lui; essendo io appena diciottenne, Davilla mi pareva, ed ebbi più tardi conferma, un organizzatore indiscusso con una personalità molto forte. Era assai radicato nel suo lavoro politico. Con Vinicio Fontanot e altri compagni del cantiere di Monfalcone andava d’accordo sulle varie decisioni politiche e di lavoro in genere.
A fine dicembre 1942 sono attivi a Trieste una trentina di Comitati rionali sloveni e italiani impegnati nel sostegno alle formazioni combattenti, come risultato degli accordi raggiunti da Drago Maruši, Giuseppe Udovi, Agostino Trobec (in rappresentanza del partito sloveno e dell’OF) e Davilla, Rinaldo Rinaldi, Cesare Gorian (organizzatori della Federazione triestina del PCd’I).
Mentre numerosi comunisti italiani scelgono nel corso del 1942 in modo spesso spontaneo e individuale di aderire alla Resistenza slovena, l’attività dei partigiani sulle alture del Collio e nella Slavia veneta (Beneija) spinge la Federazione comunista di Udine, nell’estate del 1942, a riflettere sull’opportunità di una partecipazione alla lotta armata. La prima richiesta alla direzione del PCd’I viene fatta da Mario Lizzero (Lima), con la proposta di costituire un movimento armato, pronto a partecipare alla lotta assieme ai partigiani iugoslavi, definiti alleati. Il primo incontro tra Lizzero e Mirko Braii, comandante del Briško Beneški Odred (BBO) ha luogo a fine ottobre 1942. «In concomitanza o in conseguenza di questi incontri si verificò un sensibile afflusso di italiani e sloveni nelle formazioni partigiane, tanto che Lizzero si incontrò ancora con gli sloveni all’inizio del 1943, chiedendo che fosse facilitata la riunione in un unico reparto di tutti quei partigiani italiani che erano presenti nelle formazioni slovene: ciò avrebbe permesso di far affluire altri combattenti italiani».
Dal sabotaggio alla Resistenza
Come per tutti gli antifascisti in esilio, in prigione o al confino prima del conflitto, con lo scoppio della guerra chiunque collabori alla sconfitta dell’esercito fascista e per mettere in crisi il governo di Mussolini viene considerato un traditore della patria. «La figura del traditore, in un’epoca contrassegnata dalla guerra, tende a sovrapporsi e a coincidere con quella della spia, anche perché gli apparati di intelligence si sviluppano […] evidenziando una frattura fra lealtà alla nazione e allo stato e fedeltà verso i propri valori e i propri principi». Dallo scoppio della guerra e fino al settembre 1943, l’assenza di referenti nel territorio del Regno rende estremamente rischiose le missioni e, tranne un paio di eccezioni, i loro protagonisti vengono rapidamente individuati e neutralizzati. Traditori o precursori? Nel secondo dopoguerra un velo di silenzio avvolge gli italiani condannati – e in diversi casi fucilati – per spionaggio, ignorando il retroterra politico di scelte esistenziali arrischiate.
La continuità dell’azione antifascista dal 1940 al 1945, in sinergia con il SOE, attraverso le differenti fasi politico-militari della seconda guerra mondiale, è ben rappresentata da Giacomino Sarfatti e da Max Salvadori.
Dopo le leggi antiebraiche Giacomino Sarfatti (Firenze, 1920-Siena, 1985) emigra in Inghilterra e si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Reading. All’entrata italiana in guerra viene internato in quanto “straniero nemico” e nel novembre 1940 si arruola come volontario nelle forze armate britanniche. Addestrato nel SOE come operatore radio, è considerato un idealista, dotato di coraggio e autocontrollo, sebbene con qualche inibizione morale: «Come ebreo, è antifascista e non ha nulla in contrario ad attaccare qualsiasi bersaglio militare o fascista, ma ha grandi remore sulla possibilità di provocare la morte di altri italiani». Munito di falsi documenti, opera dapprima a Malta; nel dicembre 1942 entra in Italia dalla Svizzera, per stabilirsi a Milano e trasmettere notizie a John McCaffery, che da Berna dirige i servizi segreti inglesi. Prima della missione, Sarfatti redige il testamento e lascia oggetti personali da consegnare in caso di morte alla famiglia, che a Firenze ne ignora l’affiliazione militare. McCaffery ha affidato l’agente a Eligio Klein, un triestino che in realtà è assoldato dai servizi segreti italiani: per questo motivo Sarfatti sarà controllato passo passo e lasciato operare per l’interesse del SIM a conoscere codici e comunicazioni del SOE. Ritorna brevemente in Svizzera nell’ottobre 1943 per poi riprendere servizio in Italia settentrionale, stavolta a diretto contatto con i partigiani delle Fiamme Verdi operanti nelle valli bresciane. Ha potuto evitare l’arresto e la fucilazione, in realtà, soltanto perché lo si era ritenuto di maggiore utilità in libertà, nell’orbita del doppiogiochista Klein.
Cresciuto a Firenze, Max Salvadori (Londra, 1908-Northampton, 1982) completa gli studi in Svizzera, a causa dei frequenti scontri con squadristi che perseguitano anche suo padre, docente di filosofia morale. Rimpatriato nel 1929, conduce un’esistenza semiclandestina per organizzare il movimento Giustizia e Libertà. Arrestato nel 1932, torna libero dopo un anno grazie a un “rinsavimento” politico simulato, espatria e riprende l’agitazione antifascista. Nel 1938 svolge missioni antinaziste nel Mare del Nord, per conto dei servizi segreti inglesi; dopo aver vanamente proposto al SOE di essere inviato in Italia, recluta in Messico esuli antifascisti disposti a tornare in Europa per battersi nella guerra segreta contro l’Asse. Il 19 gennaio 1943 è accolto nell’esercito britannico, per fungere da elemento di punta nell’imminente campagna d’Italia. Il 25 luglio 1943 sbarca in Sicilia con una missione aggregata alla 7a Armata, effettua una puntata dietro le linee italo-tedesche, agevola l’arruolamento di antifascisti che si batteranno nella guerra di liberazione (tra gli altri: Alberto Cianca, Aldo Garosci, Leo Valiani, Alberto Tarchiani e Giaime Pintor). Partecipa agli sbarchi di Salerno e di Anzio, e svolgerà un ruolo decisivo nel rapporto tra Alleati e Resistenza.
Probabilmente, Max Salvadori è – nel periodo precedente all’armistizio dell’8 settembre 1943 – il solo membro italiano del SOE a non essere individuato, controllato o catturato dal SIM. Ciò è dipeso soprattutto dalla brevità del suo lavoro sul territorio del Regno e dalla decisione dei suoi superiori di non “bruciarlo” in missioni impossibili, come invece accade agli altri antifascisti tornati clandestinamente nella penisola per il desiderio di contribuire alla lotta contro la dittatura di Mussolini.
Testimonianza su Fortunato Picchi
Fu aggregato alla nostra unità nel Regno Unito alla vigilia della partenza per l’Operazione Colossus.
Effettuò i lanci previsti, sia di giorno che di notte, col minimo della preparazione, il che, tenuto conto della sua età, non fu cosa da poco.
Quando vennero impartite le istruzioni per l’Op., mostrò il massimo interesse, e si mostrò senz’altro pronto ad andare ovunque ed a fare qualunque cosa gli si richiedesse. Mezz’ora prima di lasciare la Base avanzata, i soldati coinvolti, incluso Picchi, seppero che l’obiettivo era in realtà in Italia e non, come si pensava, nelle colonie italiane in Africa. Picchi non mostrò apprensione nell’apprenderlo, il che non ci sorprese, perché durante la nostra breve conoscenza eravamo rimasti molto colpiti dalla sua sincera determinazione nel fare ogni sforzo necessario a rovesciare il fascismo.
Durante lo svolgimento dell’Op. in territorio italiano, agì con freddezza e abilità quando fronteggiò vari tipi di italiani, e tutti gli ordini impartitigli – sia che riguardassero il suo compito di traduttore sia che riguardassero l’azione – furono da lui eseguiti meticolosamente. Dopo che l’unità ebbe raggiunto il suo obiettivo, e mentre stava recandosi all’appuntamento prefissato, Picchi mi avvicinò e chiese di essere lasciato indietro, perché non poteva tenere il passo con gli altri e temeva così di mettere a repentaglio le loro possibilità di salvezza. Sapeva perfettamente quale sarebbe stato il suo destino se i fascisti l’avessero catturato. Comunque si decise che egli restasse con noi, e dimostrò rinnovato vigore quando seppe che la sua richiesta, pur essendo stata debitamente accettata, non era stata accolta.
Mantenne poi il morale sempre altissimo nel corso dei noti eventi che portarono alla nostra cattura e, quando lo vedemmo per l’ultima volta a Napoli, prima che subisse da parte degli ufficiali fascisti un interrogatorio simile a quello degli altri membri dell’unità, non mostrò segni di apprensione per le possibilità di sopravvivenza.
Secondo noi era un uomo estremamente coraggioso, animato da un gran bisogno di contribuire alla caduta del fascismo. Questo spirito bastò ad indurlo a tornare in Italia in un modo tanto rischioso, pur sapendo perfettamente cosa avrebbe significato per lui non riuscire a rientrare dalla missione.
Ten. col. Trevor Pritchard, 24 ottobre 1946
Documento presso The National Archives, Kew (London)
II.
Dal complotto monarchico alla fuga del re
(25 luglio-9 settembre 1943)
La seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943, e il conseguente arresto del duce, sostituito alla guida del governo dal generale Pietro Badoglio, testimoniano la debolezza del regime fascista dopo tre anni di guerra. Lo stesso Mussolini, del resto, «narrando l’incontro con Hitler a Feltre del 19 luglio, attribuiva esplicitamente la crisi del regime alle disfatte militari subite dall’Italia». Ed era ormai rassegnato, «fin dal colloquio col re, a considerare la sua destituzione da capo del governo come la fine del regime fascista».
Dalla crisi militare alla crisi politica
Il 1943 segna effettivamente una svolta decisiva nel conflitto: l’esercito tedesco è ormai sulla difensiva, la sua avanzata all’apparenza senza ostacoli è terminata. La radicalizzazione della guerra iniziata con l’aggressione all’Unione Sovietica (le deportazioni, lo sfruttamento economico dei civili oltre che dei prigionieri, l’annientamento degli ebrei) apre la fase della “guerra totale”, che prosegue inesorabilmente anche quando l’iniziativa è passata agli eserciti alleati. La battaglia di Kursk cominciata ai primi di luglio – il più grande scontro di mezzi corazzati mai avvenuto – e terminata dopo dieci giorni con la vittoria sovietica, accentua la nuova direzione del conflitto, già chiara con la vittoria britannica a El Alamein (ottobre-novembre 1942) e la sconfitta tedesca a Stalingrado (fine gennaio 1943).
L’Italia, considerata tra il 1941 e il 1942 dagli Alleati un mero satellite della Germania, da punire e ridimensionare, è oggetto di particolare attenzione alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943, dove Roosevelt e Churchill, alla presenza dei generali francesi de Gaulle e Giraud, pianificano la “campagna d’Italia” e sperano di poter infliggere una resa senza condizioni alle potenze fasciste entro l’anno. Al disastro militare in Russia, con il dramma della ritirata, si accompagna l’intensificazione dei bombardamenti sulla penisola, soprattutto nel Meridione, preludio allo sbarco in Sicilia che le forze britanniche e statunitensi, sotto il comando unificato del generale Dwight Eisenhower, hanno messo a punto con l’Operazione Husky, programmata – in una riunione di inizio maggio ad Algeri – per il 10 luglio.
La campagna di Russia – mistificata nel dopoguerra come un’operazione umanitaria, quando invece fu una tipica invasione – si conclude con una “catastrofe”, come ricorderanno tutti i sopravvissuti. Le lettere scritte dai soldati alle famiglie non contengono alcuna «eco significativa dei presupposti ideologici della spedizione e della retorica bellicista di Mussolini», ma trasudano un familismo quasi infantile, e non sono del tutto immuni dalla propaganda fascista ma neppure coerentemente aderenti al regime. Le prime, in ordine di tempo, sono improntate all’ottimismo e a una certa spavalderia nei confronti del nemico: «Presto caro Papà anche la bella Stalingrado fa la morte del sorcio, se sapesti e vedesti quanti bombardieri ci volano sopra scaricando quintali di esplosivo che fanno tremare tutto il suolo russo, oh sì anche per Stalin è fatta non è tanto lontano il giorno che marceremo su Mosca». Quelle successive sprigionano nostalgia e pessimismo.
Sulla ritirata di Russia disponiamo di testimonianze letterarie che sono diventate ormai dei classici. Mario Rigoni Stern, sergente degli alpini mandato a combattere con il Battaglione “Vestone” della Divisione “Tridentina”, ricorda la battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio 1943, mentre è in corso la ritirata, con i russi trincerati tra le case del paese. Entrato in un’isba affamato, vi trova soldati dell’Armata Rossa e una donna che gli dà da mangiare: «In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Nuto Revelli, ufficiale della “Tridentina” lui pure coinvolto nella battaglia di Nikolaevka, nella prefazione a La strada del davai, volume in cui ha raccolto le testimonianze di molti reduci, ricorda che essi «ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla “gioventù del littorio”: vivevano liberi, lontano dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta».
All’inizio del marzo 1943 l’Armir ha perduto il 97% dell’artiglieria, l’80% dei quadrupedi e il 70% degli automezzi, su 230.000 uomini sono caduti o dispersi in 85.000, 27.000 sono stati feriti o congelati, 70.000 fatti prigionieri, e di questi quasi un quarto morirà prima di giungere nei campi di prigionia e la metà nel corso della detenzione in Urss. Il giudizio di Revelli riassume un sentimento diffuso, non solo tra i sopravvissuti di quella tragica esperienza: «La colpa peggiore del fascismo non è di aver tradito la generazione del littorio, di aver tradito noi che abbiamo gridato “viva la guerra, viva il duce”. È di aver tradito questi poveri cristi, a cui la guerra è caduta sulle spalle come una epidemia».
Dall’inizio del 1942 si scatenano bombardamenti a vasto raggio sulle principali città italiane, per provocarne il “collasso morale” secondo l’obiettivo dello strategic bombing: in ottobre furono colpite Genova e Milano, in dicembre Napoli e Torino, mentre il 19 luglio 1943 sarà la volta di Roma, un evento destinato ad accelerare la crisi del regime e dei suoi rapporti con la monarchia. Accanto ai massicci bombardamenti è la situazione alimentare a modificare progressivamente e profondamente l’opinione pubblica, preda adesso di sconforto, paura, delusione e rabbia, sentimenti che accompagnano la caduta verticale del mito del duce.
Che effetto hanno i bombardamenti sulla popolazione? La scelta di compiere bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, e non solo su impianti militari o obiettivi strategici, sembra produrre soprattutto depressione e paura, rassegnazione e fatalità, anziché spinta alla ribellione come era nelle intenzioni dei comandi alleati.
Le tessere alimentari si sono ormai ridotte a fornire 920 calorie, il livello più basso tra le potenze in guerra: una decina di milioni di italiani è costretta a vivere con una dieta “inferiore al minimo fisiologico”, come documentato da uno dei maggiori statistici, incaricato dal ministero dell’Agricoltura e foreste di uno studio sul problema del razionamento e dei prezzi.
Gli scioperi iniziati nel marzo 1943 alla Fiat costituiscono la prima manifestazione pubblica eclatante di frattura tra regime e popolo: «il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono». Le autorità fasciste, spaventate dalla compattezza della mobilitazione e sconcertate dalla partecipazione di operai vicini al regime, non possono soffocare la protesta né reprimerla con violenza. Nella memoria successiva, e anche nelle prime ricostruzioni storiche, agli scioperi del marzo 1943 è stato attribuito un significato politico rilevante, giudicandoli con l’ottica dell’anno successivo o per enfatizzare la presenza e il ruolo dei quadri comunisti e alimentare il mito di una Resistenza operaia che si imporrà nei primi anni della guerra fredda.
In realtà (come lo stesso dirigente del PCd’I Umberto Massola rileverà nel 1973), il 5 marzo succede ben poco e il vero sciopero inizierà la settimana seguente. Come ben raccontato da Tim Mason, gli scioperi iniziati l’8 marzo alla Fiat si estendono rapidamente a tutto il Piemonte e in aprile coinvolgono numerose aziende di Milano e di varie città della Lombardia. Essi segnano una grave caduta nel consenso al regime già indebolito dalla guerra, ma tra le cause di questa non si può dimenticare l’impatto profondo dei bombardamenti, che avevano spinto a cercar riparo fuori Torino decine di migliaia di persone e tra loro molti operai, cui era stata concessa a febbraio un’indennità pari a 192 ore di lavoro proprio per questo motivo, e che con lo sciopero si intendeva estendere a tutti, non solo ai lavoratori evacuati. «Gli scioperi alla Fiat non furono la prima protesta contro il dominio fascista a Torino. Piuttosto, gli scioperanti riguadagnarono la fiducia nell’agire a causa di una rottura nello stato fascista e perché furono sostenuti da un movimento molto più diffuso di disordini popolari che si svolse dal novembre 1942. Prima di diventare politiche, le proteste erano “esistenziali”: in risposta a un regime che chiedeva sacrifici per vincere la guerra, i lavoratori cominciarono invece a sostenere che era necessario abbandonare del tutto la guerra».
L’occupazione della Sicilia e la “guerra totale”
È soprattutto nelle regioni vicine alla linea del fuoco, sottoposte a una crescente militarizzazione e a una forte presenza tedesca, che la crisi di consenso al regime si fa più evidente. La Sicilia ne è l’esempio più chiaro: l’attesa dell’arrivo angloamericano – e l’accoglienza delle truppe che il 10 luglio 1943 sbarcano tra Gela e Licata (quelle americane) e tra Pozzallo e Avola (quelle inglesi) – suscita speranze ed entusiasmo. La Sicilia, cioè la «parte più arretrata del Paese si è trovata a dover sostenere l’urto della guerra, dapprima come retrovia del fronte mediterraneo nella guerra “parallela”, poi come zona di guerra con l’intensificarsi della militarizzazione del territorio, delle privazioni, delle distruzioni dovute ai bombardamenti aerei, e infine con l’invasione». L’accoglienza largamente favorevole riservata agli “invasori” alleati si spiega con elementi prevalentemente sentimentali: l’angoscia della guerra, il terrore dei bombardamenti e delle violenze (nel gennaio 1943 erano sfollate da Palermo oltre 60.000 persone), la speranza che l’arrivo angloamericano ponesse fine a quella tragica realtà. I 150.000 uomini sbarcati in Sicilia furono una forza inferiore solo a quella che di lì a poco avrebbe invaso la Normandia.
All’indomani dello sbarco i fascisti attribuiscono la sconfitta alla dissoluzione dell’esercito, imputata ai militari. In realtà i soldati italiani «combatterono certamente meglio e di più di quanto ricordato», anche se questo «non vuol dire che non si registrarono sbandamenti gravissimi. L’episodio della resa della fortezza di Augusta-Siracusa, che tanto sconcertò l’opinione pubblica, al pari dell’elevato numero di prigionieri, specie siciliani, sta lì a ricordarci che vi fu un drastico mutamento di atteggiamento dei soldati italiani». Sulla base di un entusiasmo reale si è costruita successivamente una narrazione tesa a diminuire e ridimensionare il consenso degli italiani per il regime fascista, ma le ricerche più recenti hanno riproposto anche una posizione critica presente nei giorni successivi all’invasione. Non solo quella di fascisti convinti, o di persone danneggiate nelle distruzioni prive di scopi militari, ma di una popolazione che vede con timore la presenza di soldati di colore e racconta – paura o realtà è difficile dirlo, ma gli eventi successivi non possono escludere alcuna ipotesi – di violenze nei confronti delle donne rimaste sole dopo la partenza dei loro uomini per la guerra: «questi racconti ci confermano che l’immagine della “liberazione festosa” non è riuscita a cancellare del tutto le memorie meno concilianti con gli Alleati, che ora riemergono prepotentemente».
Insistere sul quadro della “guerra totale”, che ha preso piede anche per gli italiani nel 1943, permette di cogliere le fasi di passaggio, a volte molto rapide, tra una resistenza “istintiva” scaturita in quel contesto e le forme meno spontanee e più organizzate di una consapevolezza antitedesca e antifascista che crescerà nel tempo. L’attenzione recente per le stragi commesse in Sicilia dall’esercito americano contro soldati prigionieri o civili – quelle presso gli aeroporti di Biscari e Comiso o quella di Gela, quelle di Acate e Piano Stella – permette un confronto con le stragi tedesche che avvennero soprattutto nella prima metà di agosto nella zona etnea, nel momento dell’abbandono della Sicilia da parte dei tedeschi. Le prime portarono anche a condanne dei responsabili e alla critica dell’operato del generale George S. Patton, «propugnatore di una linea dura, in contrasto con le raccomandazioni dello stesso Roosevelt di adottare atteggiamenti amichevoli verso la popolazione», e contribuiscono a «definire meglio la politica da adottare nei confronti della popolazione italiana (oltre che a tentare di contenere comportamenti simili)»; le seconde – rimaste generalmente impunite, per ragioni legate alla guerra fredda – ci mostrano i primi segnali, in Italia, di una dinamica già sperimentata altrove e che porterà lutti e tragedie crescenti dal 1943 al 1945 in tutta la penisola.
Sullo sbarco in Sicilia ha pesato a lungo il mito della “liberazione mafiosa” dell’isola, oggetto di presunti accordi tra autorità americane e mafia siciliana negli Stati Uniti; un mito duro a morire, anche perché rilanciato da libri, articoli di giornale, film e addirittura da una relazione della Commissione antimafia del 1993. Eppure, la ricerca storica ha dimostrato l’inesistenza di un «progetto di collaborazione tra mafia e autorità militari statunitensi per agevolare lo sbarco in Sicilia grazie ad un’opera di spionaggio effettuato da mafiosi siculo-americani».
L’entusiasmo che accompagna la caduta e l’arresto di Mussolini in molte città italiane, soprattutto di chi si sente pienamente ostile al regime – «la gioia grande per aver potuto finalmente passare da una posizione teorica a una posizione pratica» –, è accompagnato da una maggiore prudenza in chi auspicava che la caduta del fascismo non avvenisse per congiura interna. Gaetano Salvemini già nel febbraio 1942, in una lettera a Max Ascoli, era giunto «alla conclusione, dopo molto dispiacere, che esiste un accordo preciso tra il Ministero degli esteri britannico e lo State Department sull’idea che l’Italia debba essere ceduta a fascisti moderati controllati dal Duca d’Aosta, da Papa Pio XII, da Grandi, Badoglio e altri simili mascalzoni».
La caduta di Mussolini non è il risultato di un piano alleato, e infatti Gran Bretagna e Stati Uniti ne sono colti di sorpresa, tanto che nell’incontro di Québec della seconda metà di agosto Churchill e Roosevelt assumono «l’impegno di un trattamento comprensivo verso il popolo italiano», pur senza sconfessare la richiesta di resa incondizionata. Anche se si era trattato di un fatto tutto interno al regime e al suo rapporto con la monarchia, l’antifascismo italiano vorrebbe approfittare della situazione per legittimare ed estendere la propria presenza politica, pur con una cautela maggiore di quello che le manifestazioni popolari di giubilo potevano far intendere. Da crisi militare ed economica, il 25 luglio trasforma l’emergenza – in atto ormai da diversi mesi – in irreversibile crisi politica, in cui prende presto il sopravvento la violenza nei confronti della popolazione.
In agosto, infatti, riprendono con forza i bombardamenti alleati, che ispirano a Salvatore Quasimodo – in riferimento ai raid aerei tra l’8 e il 16 su Milano – una poesia indimenticabile:
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Già il 26 luglio il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, dirama una circolare in cui ammonisce che «qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento» e pertanto ordina di sparare ad altezza d’uomo contro i manifestanti, senza preavviso: «siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni gli squilli, le intimazioni e la persuasione. […] Contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento». Roatta, insieme a Badoglio, di cui è braccio destro, impersona il continuismo del potere: assunta nel 1934 la guida del Servizio informazioni militare, due anni dopo comanda i legionari fascisti nella campagna di Spagna, nel 1939 diviene addetto militare a Berlino e nel 1942 comanda l’esercito italiano nella provincia di Lubiana e poi guida la 2a Armata in Croazia, con il pugno di ferro contro partigiani e civili: «Non occhio per occhio e dente per dente! Piuttosto, una testa per ogni dente!».
In tre giorni le indicazioni di Roatta provocano diverse decine di vittime, quasi trecento feriti e oltre mille arresti. A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi. Nel capoluogo pugliese l’esercito spara su pacifici dimostranti che, sotto le finestre della Federazione del Fascio, chiedono la rimozione dei simboli del regime: i feriti sono 60 e i morti 23 (incluso il figlio sedicenne del meridionalista Tommaso Fiore, detenuto per antifascismo nel carcere cittadino). A Reggio Emilia gli operai delle Reggiane, scesi in strada per chiedere la pace, sono mitragliati dai bersaglieri in servizio di ordine pubblico e da guardie giurate della fabbrica: i morti sono nove e decine i feriti. Manifestanti cadono anche a La Spezia, Volterra, Sesto Fiorentino, e rimangono feriti in moltissimi altri luoghi. Nelle stesse ore il generale Quirino Armellini, comandante della Milizia fascista inserita da Badoglio nell’esercito regio, deplora in un’altra circolare le manifestazioni “inconsulte” della “plebaglia”: «alcuni dei temi che saranno propri della propaganda della Repubblica sociale sono anticipati in questa circolare, mescolati ad altri che troveranno ospitalità nella stampa monarchica e reazionaria del sud» (Armellini diverrà elemento di spicco del fronte militare clandestino romano d’ispirazione badogliana).
L’armistizio e il crollo delle istituzioni
Le vicende che portano all’armistizio dell’8 settembre 1943 sono state ampiamente ricostruite e interpretate: Elena Aga Rossi ha parlato di «inganno reciproco» nelle trattative tra gli Alleati e il re e Badoglio, mentre Gabriele Ranzato ha intitolato «Il disonore e l’onore» il paragrafo in cui ne riassume le vicende. La posizione italiana è caratterizzata da titubanze, contraddizioni e comportamenti diversificati da parte dei principali responsabili, nell’assoluta incertezza su come trattare i tedeschi. La ridicola pretesa di Badoglio di porre condizioni agli Alleati (su luogo e tempo dello sbarco a Salerno, nonché sul numero delle divisioni) viene ovviamente respinta e il 3 settembre il generale Giuseppe Castellano e il generale Walter Bedell Smith firmano l’armistizio “corto”, mentre le clausole più draconiane di quello “lungo”, consegnato in quell’occasione, sono sottoscritte il 29 settembre da Badoglio e dal generale Eisenhower. Gli Alleati non rivelano i loro piani operativi, convinti «della poca serietà dei loro interlocutori e della scarsa o nulla volontà dell’Italia badogliana di affrontare i tedeschi».
Badoglio vorrebbe, al mattino dell’8 settembre, rinviare l’«accettazione dell’armistizio», ma alle 18,30 esso è annunciato dal Comando alleato e alle 19,45 Badoglio legge il comunicato radio che, ripetutamente trasmesso, è ascoltato con gioia e preoccupazione in tutta Italia. Alle 5 del mattino successivo il re, Badoglio, i generali Ambrosio e Roatta e diversi ministri e membri dello Stato Maggiore lasciano la capitale per l’Abruzzo e poi si imbarcano a Ortona su una corvetta che l’indomani approderà a Brindisi, sotto protezione alleata.
Le reazioni alla notizia dell’armistizio sono contraddittorie e spesso contrastanti, ma accomunate dalla consapevolezza che si è aperta una fase nuova, e nulla può più essere come prima. Confusione e sbandamento tra i soldati sono testimoniati da una straordinaria pagina di Beppe Fenoglio, con un animato dibattito attorno a un lacerante interrogativo: «Farsi ammazzare per chi?» (trascrizione al termine di questo capitolo).
Atteso e temuto, esso è accolto festosamente da soldati e cittadini come fine della guerra, ma anche con rabbia, umiliazione e paura per essere stati abbandonati da ogni autorità e dover fare da soli nel momento del “tutti a casa”. È questo secondo sentimento a prevalere, anche perché la rapidità con cui i tedeschi occupano e controllano il territorio spinge a scelte drammatiche e impreviste, che comportano – spesso per la prima volta – una presa di consapevolezza individuale.
Che cosa è successo, in sintesi, l’8 settembre 1943? Davvero si può ipotizzare che quel giorno sia avvenuta la “morte della patria”, espressione coniata dal giurista Salvatore Satta, che è sembrata a qualcuno l’espressione «più adatta per definire la profondità, la ricchezza d’implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale»? Quella data segna senza dubbio «la profondità del baratro in cui la nazione era precipitata», un baratro che era il risultato del fallimento del fascismo, della sua criminale alleanza con Hitler e dell’illusione di vincere la guerra, dell’opportunismo della monarchia e dei comandi militari, della loro vigliaccheria e incapacità di accettare la mano tesa degli Alleati con la proposta di armistizio, del loro rifiuto di incamminare il paese sulla strada della democrazia. Ma un baratro, anche, da cui nel giro di poche settimane il paese – o almeno una parte importante di esso – si risolleva, con la Resistenza.
Non si può dimenticare, comunque, quanto risulti difficile, soprattutto per gli alti ufficiali che hanno fatto carriera nell’esercito fascista, comprendere il ribaltamento di alleanza sancito dall’armistizio e comportarsi conseguentemente. C’è infatti chi mantiene – o addirittura intensifica – le pratiche autoritarie del passato, come mostra l’eccidio di Acquappesa, in provincia di Cosenza, avvenuto proprio l’8 settembre. Gli Alleati, sbarcati a Reggio Calabria, stanno risalendo la penisola quando, il 5 settembre, una ventina di soldati del 76° Battaglione di Fanteria costiera, di stanza ad Acquappesa, abbandonano la caserma per raggiungere le famiglie. Sono, in certo modo, sbandati in anticipo. Cinque di loro, tutti di Gioia Tauro, vengono arrestati il giorno dopo da una pattuglia italiana. Il colonnello Ambrogi propone al suo superiore, il generale Luigi Chatrian, comandante della 227a Divisione, di fucilarli senza processo per diserzione, e lo trova concorde sull’esecuzione capitale. Poi, grazie all’intercessione del cappellano, il provvedimento viene rinviato, finché un assembramento minaccioso di folla circonda la caserma ed esige la liberazione dei condannati. Alle ore 15 dell’8 settembre Chatrian rinnova l’ordine di fucilazione «entro 24 ore», e Ambrogi fa individuare il luogo adatto e preparare le bare. A fine pomeriggio, la radio del reggimento trasmette il messaggio di Badoglio sull’armistizio. «L’esultanza dei militari è enorme: soldati ed ufficiali urlano e saltano per la gioia, si abbracciano felici; i cittadini di Acquappesa scendono in strada e il parroco del paese fa suonare le campane a distesa. Tutti pensano che la fucilazione dei cinque commilitoni verrà definitivamente sospesa». L’ordine, invece, sarà eseguito dopo la mezzanotte, raggelando gli entusiasmi per quella che, nella regione, sembra davvero la fine della guerra. Il generale Chatrian diventerà sottosegretario alla Guerra (e poi alla Difesa) nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi, venendo eletto all’Assemblea Costituente per la Democrazia cristiana. «La nascita del Regno del Sud preparata dalla fuga dei governanti, ha come viatico la fucilazione di cinque soldati-contadini».
Per molti antifascisti, militari ed ebrei la Svizzera rappresenta una possibilità di salvezza e una terra d’asilo. Quando a metà settembre Mussolini preannunzia da Radio Monaco la formazione di un governo collaborazionista, oltre 10.000 soldati e ufficiali varcano il confine italo-elvetico; nella metà dei casi, vengono respinti. Si presentano in divisa, con armi ed equipaggiamento personale.
A fine mese, giungono in Svizzera 22.000 militari e circa 4000 civili (1300 dei quali ebrei). In ottobre, giungono altri 3000 profughi. Gli immigrati vengono internati e godono di una relativa libertà. Tra di essi figurano l’economista Luigi Einaudi, il docente universitario Amintore Fanfani, il giornalista Indro Montanelli.
È un luogo comune, confortato da numerosi avvenimenti, ritenere che la Resistenza sia nata con l’8 settembre, quando anche l’Italia si trovò, sia pure in modo contraddittorio e controverso, occupata dalle truppe naziste, come era accaduto all’intera Europa nei tre anni precedenti, quando il nostro esercito aveva affiancato le truppe del Reich nel mettere il continente a ferro e fuoco. Rispetto alle altre nazioni, in Italia la Resistenza inizia più tardi e abbraccia gli ideali di libertà e democrazia con una spinta dal basso, dopo che per tre anni dall’alto i militari italiani avevano impedito, anche con violenza e ferocia inaudita, quella libertà nelle terre di Francia, di Grecia, di Iugoslavia, per non parlare del Nord Africa dove il fascismo costruì l’effimero impero che Vittorio Emanuele III – fuggitosene precipitosamente da Roma a Brindisi all’alba del 9 settembre – si era fino a quel momento intestato.
Anche se episodi di lotta e resistenza contro l’occupazione tedesca e italiana si erano già avuti, come si è visto, soprattutto sul confine orientale (nel Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Lubiana), è dopo l’8 settembre che si moltiplicano e si diffondono comportamenti che assumono nel loro insieme un senso compiuto di Resistenza all’occupante tedesco e, successivamente, anche al nuovo regime collaborazionista – la Repubblica sociale italiana – creato al Nord da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi il 12 settembre.
È ormai largamente condivisa la convinzione che la Resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna o dei nuclei guerriglieri nelle città, che ne costituirono la parte più evidente e combattiva, ma anche le molteplici “resistenze” che contribuirono alla vittoriosa avanzata alleata e al successo e all’estensione del movimento partigiano: quella dei militari combattenti, degli internati militari e politici, degli ebrei oggetto della persecuzione razziale, degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia, di donne e famiglie più o meno attivamente impegnate nelle campagne e nelle città a ostacolare gli obiettivi dell’esercito occupante e delle milizie e istituzioni fasciste. Un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione abbandonata l’8 settembre dai governanti e dai vertici militari allo sbandamento e al disorientamento. L’ambiguità della formulazione usata da Badoglio nel radiomessaggio di annuncio dell’armistizio – «Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» – e la mancanza di ordini chiari consentono a ogni comando militare territoriale di decidere come agire.
I giorni attorno all’armistizio, e soprattutto quelli successivi, favoriscono la crescita e la diffusione di valori nuovi, simili a quelli rivendicati dai resistenti della Francia e della Grecia, oppure della Iugoslavia: che fino ad allora l’esercito del fascismo aveva indicato come banditi e sovversivi e che la circolare n. 3 C emanata nel marzo 1942 dal generale Roatta imponeva di distruggere ed estirpare.
Resistere o collaborare: l’occupazione tedesca
Nella maggioranza dei casi i comandanti decidono di cedere le armi ai tedeschi, vuoi per convinzione e per un frainteso senso dell’onore, vuoi per evitare uno scontro ritenuto già perso in partenza, ma soprattutto perché incapaci di assumersi qualsiasi responsabilità di fronte al silenzio e all’abbandono in cui erano stati lasciati dal re e da Badoglio. Già nelle prime ore di questa situazione si poteva intravedere in nuce la guerra civile che sarà innescata dalla formazione della Repubblica sociale italiana. A Torino, per esempio, il generale Enrico Adami Rossi rifiuta di incontrare gli esponenti dei partiti antifascisti e di distribuire armi alla popolazione per difendersi dai tedeschi, con cui sta già trattando la resa e con i quali continuerà a combattere nei ranghi della RSI. La mancanza di collaborazione, in questo caso, prefigura la collocazione in campi avversi dell’ufficiale collaborazionista e degli antifascisti (tra di essi Franco Antonicelli e Aurelio Peccei) che lo avevano sfidato a scegliere la democrazia. A Milano, il generale Vittorio Ruggero dialoga con gli antifascisti promotori della Guardia nazionale (Gasparotto, Li Causi, Grilli e Pizzoni) e tergiversa fino al 10 settembre, quando si accorda con i tedeschi e l’indomani scioglie la Guardia nazionale (viene peraltro internato in Polonia).
Grazie all’indecisione e alla codardia della monarchia e dei comandi militari – in molte realtà il numero dei soldati italiani era preponderante rispetto ai tedeschi – gli ufficiali superiori rifiutano di armare il popolo e permettono che l’esercito si decomponga e si sciolga in quarantott’ore. A morire non è la patria, ma le istituzioni che formalmente la rappresentano e che sono sempre più lontane ed estranee al paese reale, alla patria che cerca di svegliarsi e ricostituirsi. Anche se sono in minoranza, infatti, non manca chi intende portare alle estreme conseguenze quello che avrebbe dovuto essere per tutti – compresi il re e Badoglio – il senso dell’armistizio: combattere a fianco degli Alleati e accelerare la sconfitta della Germania.
È quanto accade a Roma dopo la precipitosa fuga di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali Ambrosio e Roatta, disonorevole «perché essi avevano deciso, come risultava già dal testo letto da Badoglio alla radio, di rinunciare a qualsiasi organica operazione militare contro i tedeschi e di abbandonare a se stesse tutte le unità». Quella che dovrebbe essere una resa senza condizioni alle forze alleate, diviene in realtà una disfatta nei rapporti con l’ex alleato. Se per i soldati il “tutti a casa” significa ricercare, individualmente o in gruppo, il modo di sopravvivere e la responsabilità di porsi nella nuova condizione di occupati, ufficiali e sottufficiali in diversi casi guidano le proprie unità a resistere alla reazione tedesca.
A Roma le divisioni italiane – la motorizzata “Piave”, le corazzate “Ariete” e “Centauro”, quelle di fanteria “Piacenza” e “Granatieri di Sardegna” – hanno una superiorità numerica imponente ma i generali Roatta e Carboni decidono di non difendere la capitale, spingendo di fatto per una trattativa e per accogliere l’ultimatum tedesco, malgrado alcuni reparti abbiano già iniziato a difendersi dall’attacco germanico tra l’8 sera e il 9 mattina. «Roma, sebbene potesse contare per la sua difesa su un esercito con un numero di effettivi doppio – o quasi triplo secondo alcune fonti – rispetto a quello tedesco, certamente molto meglio armato, fu abbandonata al nemico senza che questo fosse costretto ad affrontare alcun combattimento contro forze veramente capaci di contrastarlo».
Reparti dei “Granatieri” e del reggimento dei “Lancieri di Montebello”, della “Sassari” e dei Carabinieri combattono con gruppi di civili attorno a Porta San Paolo e alla Piramide. «Sparano», ricorda Paolo Monelli, «questa gente nostra che nessuno ha pensato a inquadrare e a dirigere, con armi raccattate dai soldati in fuga, o distribuite da qualche sperduto gruppo di partiti; sparano da dietro gli alberi, stesi a terra, al riparo dei carri abbandonati, con una luce di febbre negli occhi, con manovre elementari e istintive».
Anche se ancora disorganizzato, caoticamente spontaneo, questo è l’inizio della Resistenza. E una delle sue prime vittime ne è, a suo modo, un simbolo. Insegnante di storia dell’arte, poi ufficiale dei granatieri, ferito e congedato, nel 1942 il ventisettenne Raffaele Persichetti aderisce al Partito d’Azione e all’annunzio dell’armistizio decide di agire. Il 10 settembre anima la Resistenza a Porta San Paolo; così lo ha ricordato Ruggero Zangrandi: «Giunse, con un gruppo di civili armati, all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e così, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri». Ferito a una spalla, continua a sparare contro i tedeschi, finché viene colpito a morte nel primo pomeriggio.
Si sentono patrioti gli ufficiali e soldati che cercano in situazioni spesso impossibili di contrastare l’occupazione tedesca e il disarmo delle truppe italiane, malgrado la mancanza di indicazioni chiare in tal senso. Ha scritto Zangrandi: «È strano: la storia d’Italia tra l’8 settembre ’43 e l’inizio della Resistenza organizzata, è ricca di fatti d’arme, rivolte popolari, casi minori, e non per questo meno eroici, di reazione alla prepotenza tedesca; tutti spontanei e quasi tutti poco noti». A Nepi (Viterbo) un carro armato ferma una colonna tedesca e provoca 40 vittime; a Valenza (Alessandria) artiglieri italiani impediscono ai tedeschi – che arrestano a decine – di passare il Po; a Barletta ha luogo una battaglia di ore, con la colonna motorizzata tedesca respinta; il porto di Bari viene difeso dalle truppe del generale Nicola Bellomo, che impediscono ai tedeschi di impadronirsene e lo consegnano intatto all’esercito alleato; a Luino (Varese) un tenente colonnello dei bersaglieri raccoglie attorno a sé quasi mille uomini: «Quando i tedeschi decisero di sbarazzarsi di quel nucleo di resistenza, impiegarono aerei, pezzi di artiglieria, lanciafiamme combattendo tre giorni. Ebbero 240 morti e un migliaio di feriti. Gli italiani persero 145 uomini, di cui 63 ancora sconosciuti; gli altri o furono catturati o riuscirono a raggiungere la Svizzera attraverso Ponte Tresa». Uno scontro ha luogo a Terracina, un combattimento all’Isola della Maddalena, un conflitto a fuoco davanti alla prefettura di Reggio Emilia anche se il comandante del presidio aveva consegnato le truppe in caserma, mentre il presidio di Piacenza, guidato dal generale Rosario Assanti, combatte per ore e si arrende solo per la minaccia di bombardamento della città e per le notizie che giungevano dal comando di piazza di Milano sull’intesa tra il generale Ruggero e i tedeschi.
È tutto il Meridione, e non solo la Sicilia, a essere coinvolto in ripetute ribellioni di civili e rappresaglie tedesche all’indomani dell’8 settembre, che segnalano come la vicinanza del fronte e il suo permanere costituiscano inevitabili premesse nella costruzione di azioni di resistenza. Qui, più che altrove, è vero che «la Resistenza non la organizza l’antifascismo: vi partecipa, la orienta e ne assume la direzione politica, ma lungo il percorso». Il rifiuto dell’occupazione e l’indisponibilità a collaborare con l’occupante costituiscono il contesto in cui hanno luogo gli eventi più disparati di quel terribile settembre. Anche qui vi sono occupazioni di terre che anticipano quelle degli anni seguenti, e che individuano un’unica battaglia: contro i tedeschi, i fascisti e i proprietari.
Ancor prima dell’armistizio vi sono episodi di resistenza vera e propria, come quello di Mascalucia, alle pendici dell’Etna, dove il 3 agosto 1943 il paese insorge contro le ruberie e angherie dei tedeschi, con l’aiuto di soldati italiani: un evento giudicato «l’unico episodio di resistenza armata di massa verificatosi in Italia prima dell’8 settembre» e che si imprime nella memoria cittadina come “le quattro ore di Mascalucia”.
Con l’armistizio avvengono episodi analoghi nel resto d’Italia. In Sardegna, per esempio, mentre alla Maddalena tra il 9 e il 13 settembre vi sono scontri tra militari tedeschi e italiani, che subiscono le perdite maggiori, e nelle acque al nord dell’isola il 9 viene affondata dalla Luftwaffe la corazzata Roma, provocando la morte di 1352 militari, il 10 vi è il tentativo del colonnello Alberto Bechi Luserna (già comandante del 187° Reggimento della Divisione “Folgore” a El Alamein e ora alla testa della Divisione paracadutisti “Nembo”) di bloccare due compagnie che hanno deciso di passare ai tedeschi, e che per questo viene ucciso a Macomer da un paracadutista insieme a uno dei due carabinieri della sua scorta.
Dopo l’8 settembre per le popolazioni della Sicilia e del Mezzogiorno si fa più confusa la percezione di quale sia l’esercito amico e quale quello nemico, della propria posizione nella tenaglia degli eserciti occupanti, con bombardamenti da una parte e dall’altra, che rendono improbabile la fine imminente della violenza. Molto presto ha luogo un’aggregazione di militari sbandati che avviene in forme spontanee o attorno a nuclei di ufficiali o di combattenti antifascisti – alcuni reduci della guerra di Spagna – i quali hanno deciso di entrare in azione. L’11 settembre a Rionero in Vulture (Potenza), patria di Giustino Fortunato, soldati tedeschi appoggiati dai fascisti locali occupano il paese e sparano il 16 contro la folla accorsa presso i magazzini viveri della 7a Armata, che i tedeschi sembravano intenzionati a distruggere prima della ritirata, uccidendo e ferendo numerose persone. Il 21 è la volta di Matera che si ribella e insorge contro il saccheggio e le violenze commesse dalle truppe germaniche: si tratta di una rivolta che «ebbe la configurazione di un moto spontaneo […]. Ma non va dimenticato che in città, e un po’ in tutta la regione, era rimasta memoria delle violenze dello squadrismo fascista».
A Moschito, un piccolo centro in provincia di Potenza, il protagonismo popolare porta alla deposizione del podestà fascista e all’instaurazione di una repubblica, che per tre settimane, dal 15 settembre al 5 ottobre, cercherà di promuovere misure democratiche – dalla equa tassazione alla distribuzione dei viveri – finché le nuove autorità badogliane non arresteranno gli organizzatori (in seguito tutti assolti).
Al confine opposto dell’Italia, in provincia di Cuneo, negli stessi giorni ha luogo quella che sarà spesso ricordata come la prima strage nazista dopo l’8 settembre (anche se violenze di tipo stragista c’erano già state soprattutto nel Mezzogiorno): quella di Boves. Sui monti che sovrastano la piccola cittadina si è formata una banda, guidata da un ex sottotenente della Guardia di frontiera, Ignazio Vian. Il 16 settembre il maggiore Joachim Peiper, al comando di un battaglione della Panzer Division Leibstandarte delle SS (la stessa che aveva occupato Milano), minaccia rappresaglie contro chiunque aiuti i militari italiani fuggiaschi. Il 19 due tedeschi vengono casualmente intercettati e catturati a Boves e in un successivo scontro a fuoco muoiono un partigiano e un milite tedesco. Peiper, giunto con il grosso del reparto, pretende che gli vengano riconsegnati i prigionieri, pena la distruzione del paese. Il parroco don Giuseppe Bernardi e l’ingegnere Antonio Vassallo, dopo l’impegno da parte del maggiore a non procedere a rappresaglie, negoziano con i partigiani la consegna del prigioniero e del corpo del tedesco morto. «Ottenuto il rilascio, le SS iniziano l’azione di rappresaglia: mentre i carri armati aprono il fuoco verso la collina contro le presunte basi dei resistenti, il paese viene dato alle fiamme e raffiche di mitra sparate a caso colpiscono gli abitanti. In poche ore vengono massacrati ventitré civili, tra cui gli stessi mediatori».
Le azioni con cui soldati italiani e civili resistono all’occupazione tedesca attorno all’8 settembre avvengono in ogni parte d’Italia, in forme largamente spontanee anche quando sono organizzate da ufficiali o da antifascisti di vecchia data tornati da poco in libertà. La maggior parte dei protagonisti di quelle giornate agisce d’impulso, anche se in molti casi consapevolmente e in modo calcolato. La Resistenza sta per nascere, per molti aspetti si può dire che sia già sorta, benché al momento nessuno sappia bene che cosa potrà essere e diventare. Probabilmente non lo sa nemmeno il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che si costituisce il 9 settembre sulle ceneri del Comitato delle opposizioni creato a Roma all’indomani del crollo del regime fascista e che chiama gli italiani «alla lotta e alla resistenza». Presieduto anch’esso da Ivanoe Bonomi, è costituito da rappresentanti del Partito democratico del lavoro (Meuccio Ruini), del Partito liberale (Alessandro Casati), della Democrazia cristiana (Alcide De Gasperi), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), del Partito socialista (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola).
Farsi ammazzare per chi?
Gridò: – Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! – Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata sui calzoni d’accatto e scarpe lampantemente militari.
– E gli ufficiali?
Esplosero tutti insieme: – Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti, avevano il vestito borghese bello pronto e stirato nelle pensioni. […]
– Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi.
– Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra?
– Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto?
– Farsi ammazzare per chi? Per il Re, o per il Principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darci. D’ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparate sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidete i tedeschi – auto disarmarsi – non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse. La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in culo. Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. Io l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi son detto «Debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole», e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia.
– Ce la farai?
– Dovrei, Dio benedetto. Tenendo sempre la campagna, viaggiando di notte e stando fermo e nascosto di giorno pieno. Questi cornuti tedeschi non saranno dappertutto. Son quattro gatti! […]
– Qui si finisce al muro. Abbandono di posto, di deposito munizioni, scherziamo?
– Alle conseguenze io nemmeno ci penso. Come ha detto il soldato, questo è il quarantotto completo. Non ci sarà mai più un esercito in Italia. Pallottola in canna, si rientra a Montesacro. Se arrivando troviamo il battaglione a ramengo, ciascuno se ne va alla sua ventura.
Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di Walter Pedullà, Einaudi, Torino 2015
III.
Resistenza e guerra civile
Diversamente dalla prima guerra mondiale, quando la difesa della patria risulta prevalente su ogni altra identità che possa venire rivendicata, nel secondo conflitto le cose mutano. La vittoria dei totalitarismi – la Russia comunista, l’Italia fascista, la Germania nazionalsocialista – crea un nuovo problema di fedeltà: Stato, nazione e patria non sempre si identificano e pongono a chi combatte i totalitarismi problemi di coscienza. «Alcuni tedeschi antinazisti hanno desiderato la sconfitta della propria patria e hanno perfino lavorato per favorire questa sconfitta fin quando non si è verificata. Erano traditori? Nei confronti dei nazionalsocialisti di sicuro. Nei confronti della loro coscienza certamente no. Nei confronti della classica nozione di patria forse, ma questa stessa nozione è messa in dubbio nell’epoca delle religioni politiche».
Chi tradisce chi: battaglia e strage di Cefalonia
Una discussione ancora più accesa di quella che ha segnato la “morte della patria” – rimasta per lo più nell’ambito accademico e storiografico – è quella sul presunto tradimento dell’Italia nel momento in cui, l’8 settembre 1943, ribalta le proprie alleanze di guerra.
«Gli italiani, per la loro infedeltà e il loro tradimento, hanno perduto qualsiasi diritto a uno stato nazionale di tipo moderno. Devono essere puniti severissimamente, come impongono le leggi della storia». Queste parole sono di Goebbels anche se presto la propaganda nazista accusa prevalentemente la monarchia, Badoglio e i gerarchi della congiura del 25 luglio, per cercare di riconquistare un consenso che in realtà solo gli aderenti convinti della Repubblica sociale potranno condividere. Claudio Pavone, che ha dedicato un intero paragrafo di Una guerra civile al tradimento, ricordava che «nella situazione italiana seguita l’8 settembre 1943 le contrapposte accuse di tradimento rimbalzavano, si intrecciavano e si contaminavano in vario modo perché tutte, o quasi, avevano in sé qualche frammento di verità». Anche un antifascista integerrimo come Salvemini, ad esempio, aveva dichiarato che «un malfattore non diventa un galantuomo quando tradisce un altro malfattore», ma si trattava di un giudizio morale che serviva a rimarcare la propria opposizione all’esperienza Badoglio nel suo insieme.
Il giuramento al re permette, soprattutto agli ufficiali e ai militari, di resistere con dignità alla prigionia e all’internamento, ma è certo che i conflitti di fedeltà si complicheranno quando la RSI e spesso anche le bande partigiane richiederanno fedeltà a una popolazione che fatica a scegliere la propria collocazione. La rivendicazione di non essere traditori, accusando i nemici di esserlo, non è un sintomo di “morte della patria” ma di quella frantumazione istituzionale in cui – in Italia, come già da tempo in Europa – le uniche identità forti sono costituite da valori politici e morali, primo fra tutti la libertà, che dividono inevitabilmente l’insieme della nazione. Dalla primavera del 1940, come testimonia l’articolo Quislings Everywhere pubblicato sul quotidiano londinese «The Times», esiste ormai anche un neologismo per connotare il tradimento:
Il maggiore Quisling ha aggiunto una nuova parola alla lingua inglese. Per gli scrittori la parola Quisling è un dono degli dei. Se fosse stato loro chiesto di inventare una nuova parola per traditore […] avrebbero difficilmente escogitato una combinazione di lettere più brillante. All’ascolto riesce a suggerire qualcosa al tempo stesso viscido e tortuoso.
Fondatore del partito fascista norvegese e primo ministro dal febbraio 1942, Vidkun Quisling è il prototipo del “collaborazionista” (sarà giustiziato a Oslo il 24 ottobre 1945).
In Italia – a seconda dell’angolo visuale – sono traditori Badoglio e il re, Mussolini e i gerarchi che l’hanno sfiduciato, gli ufficiali che combattono le truppe tedesche e quelli che si alleano con l’invasore tedesco. Molti antifascisti considerano traditori al tempo stesso Mussolini e Badoglio, anche se pochissimi tra loro hanno scelto dall’inizio della guerra di collaborare con gli Alleati in nome della libertà.
Da Monaco, Mussolini il 18 settembre annuncia il rientro sulla scena e la rinascita del suo movimento. Cinque giorni dopo, il primo Consiglio dei ministri del costituendo Stato si riunisce all’ambasciata tedesca, a Roma, dove il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, rende omaggio al «Capo Supremo della nuova Germania nazionale Socialista, Adolfo Hitler». Una genesi rivelatrice dell’estensione collaborazionista della Repubblica sociale italiana, denominazione assunta a inizio dicembre, quando il governo si è insediato sulla sponda bresciana del lago di Garda, tra Salò e Gargnano, residenza del duce.
Goebbels riporta nel suo diario le impressioni di Hitler dopo il suo incontro con Mussolini liberato:
Il Führer si aspettava che, per prima cosa, il Duce si preoccupasse di vendicarsi ampiamente su chi l’aveva tradito. Ma Mussolini non ha mai dato a vedere di voler far nulla di simile, e con ciò ha dimostrato quali sono i suoi limiti oltre i quali non saprà mai andare. Non è un rivoluzionario come il Führer o Stalin. È così legato alla sua italianità che gli mancano le qualità del rivoluzionario e del sovvertitore mondiale.
Praticamente negli stessi giorni, il 17 settembre, Hitler ordinava alle truppe del maggiore von Hirschfeld, giunto il giorno prima a Cefalonia, di non fare prigionieri tra i soldati della Divisione italiana “Acqui”, considerato il suo «comportamento improntato al tradimento e alla perfidia». Nell’isola greca, occupata dal 1941, sono presenti più di 10.000 soldati e 500 ufficiali italiani, cui si sono aggiunti nell’agosto 1943 circa 1800 tedeschi. Nella primavera di quell’anno i comandi germanici hanno preparato il piano Alarich, che prevede l’occupazione dell’Italia in caso di rottura dell’alleanza, e nell’estate il piano Achse, che stabilisce il disarmo e la deportazione delle truppe italiane che non intendono continuare a combattere con la Germania.
Anche nella penisola i primi tentativi di resistenza sono condotti dai comandi inferiori, mentre quelli superiori si danno alla fuga o collaborano apertamente con i nazisti. In molti casi i tedeschi uccidono in modo illegittimo e vendicativo gli ufficiali che osano prendere alla lettera gli ordini di un governo in fuga derivati dall’armistizio. Soprattutto fra le unità militari fuori d’Italia muoiono «in stragi “sistematiche” uomini con gradi elevati ed elevate responsabilità e giovanissimi sottotenenti di complemento, militari di professione e soldati di guerra, a Kos, Leros, Spalato, Krujë, Kuç, Corfù e Cefalonia e in altri luoghi, la maggior parte dei quali mai entrati nella memoria collettiva del paese. A Cefalonia e non altrove, però, oltre all’eccidio metodico e organizzato degli ufficiali, accadde qualcosa in più, cioè la strage indiscriminata dei soldati che man mano si arrendevano durante i giorni della battaglia».
Sui combattimenti e sulla strage di Cefalonia non esiste ancora una narrazione storica pienamente condivisa, anche per le lunghe e complesse vicende giudiziarie che ne hanno accompagnato la memoria pubblica e per le testimonianze discordanti rilasciate dai sopravvissuti. Già il 10 settembre, comunque, l’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), l’alto comando delle forze armate tedesche, aveva dato l’ordine di fucilare gli ufficiali italiani che avessero resistito, considerandoli franchi tiratori, e l’11 e poi di nuovo il 15 settembre esso era stato trasmesso a tutti i reparti. A prevalere, tra i soldati e gli ufficiali italiani, era certamente «la volontà di tornare in patria con sicurezza, con le armi e con il proprio onore», ma la difficoltà di ottenere questo risultato «avrebbe trasformato il punto di svolta rappresentato dall’armistizio in una scelta di lotta».
L’11 settembre, lo stesso giorno in cui dal “Regno del Sud” si ordinava al generale Antonio Gandin di resistere alle forze tedesche, i reparti italiani si ritirano dall’altura di Kardakata, probabilmente per il calcolo dello stesso comandante Gandin di mostrare ai tedeschi la buona volontà di un’intesa: una decisione gravida di conseguenze, poiché «Kardakata avrebbe rappresentato il cuore strategico della battaglia di Cefalonia, e quindi della vittoria tedesca, insieme, ovviamente, al “monopolio” dell’arma aerea da parte delle forze del Reich». Due giorni dopo giunge a Cefalonia il comandante della 22a Armata tedesca, il generale Humbert Kanz, che impone a Gandin la consegna di tutte le armi. A propendere per la resa (in base a una valutazione militare di lunga prospettiva) sono il comandante e la maggior parte del comando di divisione; a volersi battere (sulla base della preponderanza numerica) i comandi di Marina, Artiglieria, Carabinieri e gli ufficiali inferiori. Questo è il motivo della consultazione tra i reparti, passato alla storia come un “referendum” tra i soldati, in ogni modo un «gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale».
La risposta di Gandin, come risulta in quasi tutte le opere a carattere memorialistico e storico, è perentoria: «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione “Acqui” non cede le armi». Ma questa risposta costituisce, ancora oggi, un interrogativo irrisolto sulle vicende di Cefalonia. Nell’unico documento disponibile, che è di parte tedesca (il Diario di guerra del 22° Corpo d’armata da montagna), la risposta sarebbe stata meno categorica e assai più articolata: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata contro tutte le promesse tedesche. La Divisione intende restare sulle sue posizioni fino a quando non otterrà assicurazione […] che essa possa mantenere le sue armi e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo nome, che non impiegherebbe le armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione».
La sostanza, in ogni modo, è una risposta negativa all’ultimatum tedesco, anche se si tratta di una “comunicazione neutra” in cui il generale spiega «le ragioni del no alle condizioni tedesche e ribadendo le richieste italiane, ma il tono lasciava ancora aperta la possibilità di continuare le trattative». All’alba del 15 settembre, con un attacco aereo tedesco, inizia la battaglia. La prima fase sembra arridere agli italiani ma presto giungono sull’isola cospicui rinforzi, inclusi il 98° e il 724° Reggimento che, impegnati nella guerra antipartigiana in Iugoslavia e Grecia, avevano massacrato civili nell’ottobre 1941 (a Kragujevac, con centinaia di vittime) e nell’agosto 1943 (villaggio di Kommeno). Il 17-18 settembre inizia la seconda fase della battaglia, durante la quale centinaia di soldati fatti prigionieri vengono uccisi. Nell’ultimo attacco, il 21-22 settembre, massacri ed eccidi avvengono in circa quaranta località dell’isola: la Divisione “Acqui” si arrende e termina la prima fase della strage di Cefalonia. La seconda, quella più nota, è costituita dalla condanna a morte e dall’esecuzione degli ufficiali, in una «rappresaglia “canonica”, simile cioè alle tante che, in quel periodo, riguardarono gli ufficiali italiani ritenuti dai tedeschi colpevoli di avere loro resistito, e quindi traditori».
La tragica fine dei soldati italiani è strettamente connessa alla situazione confusa, sul piano militare come su quello diplomatico, che è conseguenza della gestione dell’armistizio da parte del governo, della monarchia e degli alti comandi militari.
Non è soltanto un episodio isolato, esso rientra nella più complessa e articolata dimensione europea della guerra condotta dal Terzo Reich alla quale non partecipano solo alcuni corpi speciali, ma anche la Wehrmacht, l’esercito tedesco […]. Le stragi, le rappresaglie, i paesi minati, non saranno soltanto l’espressione di una strategia bellica basata, da una parte, sul rallentare la marcia dell’esercito angloamericano e, dall’altra, sul fare terra bruciata attorno ai partigiani sterminando la popolazione civile che li sosteneva; le stragi sono soprattutto la conseguenza prioritaria dell’ideologia razzista del regime nazista e della sua applicazione sul piano militare.
La Resistenza degli internati militari
Quasi 700.000 soldati italiani, che si trovano nei Balcani e nel mar Egeo, all’indomani dall’8 settembre cambiano di stato, passando da militari occupanti a esercito sconfitto. La decisione, presa dal re, da Badoglio e dagli alti gradi militari, di non avvisare le divisioni di stanza all’estero dell’armistizio imminente e la scelta di non accordarsi con gli angloamericani per organizzarne la resistenza con un passaggio nel fronte di guerra ebbero come effetto prevalente la resa senza combattere di fronte all’occupazione da parte dei tedeschi dei territori dove essi fino a quel momento erano stati alleati degli italiani. Se si escludono poche eccezioni – di cui la più rilevante è Cefalonia – nelle regioni in cui il regio esercito era forza di occupazione non fu possibile, o fu impedita, la strada del combattimento e della resistenza contro l’esercito tedesco. Per molti soldati la scelta divenne quella tra la resa e l’internamento in Germania, la collaborazione con i tedeschi proseguendo l’alleanza e sconfessando la scelta del re e del governo, il passaggio tra le file dei partigiani locali (greci e iugoslavi) combattuti fino a quel momento con determinazione. In Montenegro, ad esempio, prevarrà la decisione di collaborare con i partigiani locali creando la Divisione Garibaldi che combatterà fino al 1945, come unità del regio esercito, nel 2° Korpus dell’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.
È una sorte analoga a quella dei soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre, che in minoranza combattono o fuggono sui monti per creare le prime bande, in maggioranza cercano di nascondersi e in parte vengono disarmati e arrestati dall’esercito tedesco. L’accusa di tradimento mossa immediatamente da Hitler nei confronti degli italiani, la liberazione di Mussolini e la creazione della Repubblica sociale italiana si accompagnano – già dal 20 settembre 1943 – alla decisione di trasformare i prigionieri di guerra in “internati militari” (ItalianischeMilitärinternierten): una definizione priva di senso giuridico, che peserà profondamente sul loro destino.
Il numero complessivo dei militari italiani che si arresero fu di circa 400.000 nell’Italia centro-settentrionale, mentre altri 100.000 vennero catturati nella zona di Roma e nell’Italia meridionale. In Francia i soldati disarmati furono circa 60.000 e in Iugoslavia e Albania furono fatti prigionieri 165.000 militari mentre in Grecia e nelle isole dell’Egeo si arresero circa 265.000 uomini. In totale, quindi, nelle giornate successive all’8 settembre, furono complessivamente un milione circa i militari catturati dai tedeschi. Di questi, solo 190.000 decideranno di continuare a combattere con la Germania.
Tra gli internati vi sono noti intellettuali quali il giornalista Giovannino Guareschi, ufficiale d’artiglieria di sentimenti monarchici, e il vignettista Giuseppe Novello.
Un ufficiale del regio esercito deportato nel settembre 1943 è l’insegnante Paride Piasenti, che svolge nel Lager una funzione di coordinamento (nel dopoguerra fonderà l’Associazione nazionale ex internati e diverrà parlamentare democristiano).
Già all’indomani dell’8 settembre il comando della Wehrmacht, l’OKW, aveva emanato direttive lesive del diritto internazionale ispirando vendette e rappresaglie per il “tradimento” italiano che condussero in numerose località, nella penisola, in Grecia e nei Balcani, a stragi e violenze contrarie al diritto di guerra. Del milione di soldati italiani disarmati sono 650.000 i prigionieri rapidamente condotti nel Reich o nei campi del Governatorato generale che, per il governo nazista, costituiscono l’occasione per far fronte a una forte carenza di manodopera. Circa 100.000, invece, rimarranno nei Balcani e in Francia a lavorare per la Wehrmacht in fabbriche locali. Lo Stato Maggiore tedesco concorda con il ministro degli Armamenti Albert Speer l’utilizzo degli italiani rimasti fedeli all’alleanza non in unità militari, ma al massimo come ausiliari o lavoratori volontari. Il trattamento degli altri dipende dalla volontà di rappresaglia o di sfruttamento da parte dei tedeschi, che intendono far loro pagare il tradimento, senza considerarli prigionieri per sottrarsi agli obblighi che altrimenti avrebbero – sulla base delle convenzioni internazionali – nei loro confronti. La parvenza di un’alleanza rifondata con il nuovo governo mussoliniano legittima l’occupazione militare nel Centro-Nord e pone a tutti gli “internati” la scelta tra l’adesione alla RSI e il lavoro coatto nel Reich. Fino al marzo 1944 si reitera la proposta di scegliere l’alleanza fascista-nazista e sfuggire, così, alle terribili condizioni dei campi di prigionia e lavoro.
Gli internati militari italiani (IMI), sottratti al ruolo naturale di prigionieri di guerra, non erano più garantiti dal rispetto della convenzione di Ginevra e dal controllo della Croce Rossa. Le condizioni cui dovettero sottostare – mancanza di igiene, alimentazione scarsissima (tra 700 e 1000 calorie al giorno), lavoro duro per almeno dodici ore giornaliere, angherie e violenze di ogni genere, sovraffollamento nelle baracche, freddo eccessivo nei mesi invernali, mancanza di informazioni e contatti – dipendevano al tempo stesso dalla volontà di punire e dal suggerimento di cedere da parte dei tedeschi, ma la reazione largamente maggioritaria fu, invece, quella di una resistenza tenace e coerente. Si è calcolato che soltanto tra il 10% e il 20% dei soldati e degli ufficiali accolse l’invito a collaborare con la Wehrmacht o la RSI, mentre la maggioranza rimase fedele al giuramento fatto al re. Dalle tantissime testimonianze accumulate nel tempo emerge come il senso dell’onore patriottico abbia rappresentato la molla più significativa, almeno esplicitamente; insieme, però, a un deciso e crescente rifiuto del fascismo e della guerra che solo per una minoranza si manifestava con una scelta consapevole di antifascismo. Per tutti, comunque, può valere la sintesi lasciata da uno di essi, Giovannino Guareschi (uno degli scrittori più letti del dopoguerra):
Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato.
Le ragioni del rifiuto a sottostare alle pressioni e alle minacce tedesche, estrapolate dalle memorie e testimonianze disponibili, sono state riassunte in una classificazione che vede prevalere (30%) le giustificazioni militari, seguite da quelle etiche (26%) e ideologiche (24%), cui si aggiungono per ultimi motivi legati all’antigermanesimo, alla diffidenza verso le promesse, al fatalismo. Il sentimento di onore militare e di rispetto del giuramento fatto al re risulta al primo posto, come è stato sempre ricordato, ma l’insieme di spinte etiche e ideologiche raggiungono complessivamente la metà delle motivazioni, contribuendo a dare un’immagine più complessa e compiuta della scelta antitedesca degli IMI. Motivi etici e ideologici certamente molto differenziati, ma che possono riassumersi in un ritrovato senso di autostima che la partecipazione alla guerra fascista aveva fatto perdere e che si intuiva dover essere recuperato con un comportamento coerente: «Esamino me stesso e constato che – più di altri – ho conservato, nonostante la fame, un fondo di dignità».
L’inserimento a tutti gli effetti degli IMI nell’ambito della Resistenza, cioè di chi in vario modo si oppose all’occupazione tedesca e fascista dopo l’8 settembre e si adoperò per la liberazione dell’Italia, è stato colpevolmente ignorato per alcuni decenni dopo la fine della guerra, a livello politico come sul piano storiografico. Il caso clamoroso delle memorie di Alessandro Natta – il quale aveva combattuto ed era stato ferito a Rodi e poi catturato e inviato in Germania nei Lager di Küstrin, Sandbostel e Wietzendorf – che nel 1954 vennero rifiutate per la pubblicazione da Rinascita, la casa editrice del Pci (di cui Natta era tra i principali dirigenti), indica come la mitologia della Resistenza “armata” nei confini italiani sia stata a lungo l’unica ammissibile all’interno del discorso pubblico; tant’è vero che solo nel 1998 verrà concessa dallo Stato italiano la medaglia d’oro all’“Internato ignoto” perché «per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Basta pensare a cosa avrebbe potuto costituire l’oltre mezzo milione di internati che resistettero alle promesse e alle minacce tedesche, se avessero accettato di tornare in Italia inquadrati in reparti per proseguire la guerra dalla parte nazifascista. La resistenza degli internati bloccò, in un modo per loro foriero di sofferenze a lungo dimenticate, la possibilità che tanti italiani si schierassero dalla parte sbagliata. In modo analogo, in condizioni diverse, si comportarono coloro che evitarono di presentarsi ai bandi di arruolamento della RSI e che costituirono la larga maggioranza delle classi giovanili richiamate. Si trattò di una resistenza militare e politica al tempo stesso.
E se il no del primo periodo della prigionia aveva avuto soprattutto un significato e un sapore antitedesco, quello dell’inverno 1943-44 si configurò come una netta e vigorosa presa di posizione antifascista, come uno scacco dato al nemico “politico”. In questo mutare della prospettiva e dell’obiettivo principale si può misurare il cammino percorso dalla resistenza, il suo politicizzarsi, perché le ragioni iniziali non avrebbero mantenuto così saldo e compatto il fronte degli internati se esse non fossero state convalidate e inverate da più profondi e seri motivi politici.
È soprattutto tra questi uomini, militari legati a un senso dell’onore diverso da quello che aveva cercato di inculcare in loro il fascismo, che motivazioni ed esperienze differenti finirono per dar luogo a una comportamento condiviso che permise un comune atteggiamento di resistenza accanto ai tanti che, nello stesso periodo, maturavano e si manifestavano in Italia.
Ma a dare vigore e maturità alla resistenza nei lager, facendone un episodio vero e proprio della lotta di Liberazione, contribuì soprattutto l’opera di chiarificazione e di educazione politica e culturale che venne svolta tra gli internati, in particolare nei campi ufficiali. Un ricordo personale mi consente di mettere in luce l’origine e il senso di un’attività che acquistò, a partire dal primo inverno, un rilievo e un’importanza notevoli. La sera in cui il mio gruppo giunse a Mühlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per “tenere su il morale” dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 Giornate, del glorioso ’48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione.
La Resistenza nel confine orientale: la battaglia di Gorizia
Il problema della patria e del tradimento si pone – su un piano diverso – anche dove la Resistenza è iniziata precedentemente, nella zona della provincia di Lubiana, conquistata con la guerra, e in Istria e Venezia Giulia dove il fascismo ha oppresso per un ventennio con estrema spietatezza le minoranze slave. In entrambe le regioni, sia pure in modo differente, la lotta partigiana si manifesta già nel 1942. Tra il maggio e il dicembre si risponde con il metodo del terrore, rivendicato dal generale Taddeo Orlando, comandante della 21a Divisione fanteria “Granatieri di Sardegna” (successivamente sottosegretario e ministro della Guerra nei governi Badoglio e comandante generale dell’Arma dei carabinieri dal luglio 1944): «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l’onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta».
In Venezia Giulia il clima di “guerra totale”, divenuto dopo l’8 settembre esteso e permanente, imperversava da almeno un anno, a opera dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, gestito con pugno di ferro da Giuseppe Gueli (che sarà in seguito al 25 luglio il responsabile della prigionia di Mussolini sul Gran Sasso) contro l’attività antifascista in genere e i partigiani slavi in particolare. Nello stesso periodo, la nuova provincia italiana di Lubiana è controllata da quasi 300.000 soldati; altrettanta violenza viene esercitata in Dalmazia, con eccidi e torture: a Podhum, che segna il culmine di una serie di crimini di guerra, in attuazione delle direttive del generale Roatta, vengono uccisi nel luglio 1942 tutti i maschi (circa 200) tra i 16 e i 55 anni, e il paese viene dato alle fiamme; nei campi di concentramento – tra i quali spicca quello dell’isola croata di Arbe, con 10.000 prigionieri in un anno e un tasso di mortalità del 15% – sono stipati oltre 30.000 deportati. Come ammetterà il generale Quirino Armellini, comandante delle truppe in Dalmazia, si era commesso «un grossolano errore» con la fascistizzazione e l’italianizzazione coatta e violenta, ottenendo invece «l’esasperazione degli animi, il rinfocolare dell’odio, il desiderio di rivolta».
Dopo il 25 luglio la Wehrmacht già assorbe nelle regioni balcaniche i reparti italiani, preparando il successo del piano Achse e il disarmo del regio esercito dopo l’8 settembre. L’occupazione dei grandi centri – Trieste, Monfalcone, Lubiana – è rapida e completa, con l’esclusione di Gorizia dove ha luogo tra l’11 e il 26 settembre uno dei primi e più importanti fatti d’arme legati all’armistizio, una battaglia che vede partigiani sloveni e italiani contrapposti alle forze armate germaniche. Alla vigilia dell’armistizio esisteva già il “Distaccamento Garibaldi” con circa una trentina di uomini, comandato dall’operaio di Muggia Piero Mercandel e con commissario politico Mario Karis, condannato dal Tribunale speciale nel 1930, che all’inizio del 1943 aveva creato nel Collio una base di aiuto per gli antifascisti italiani ricercati e di informazioni per i partigiani sloveni.
Si tratta del primo, ancora numericamente modesto, volontarismo partigiano della zona. È un pionierismo che stenta ancora ad incidere sull’opinione pubblica locale ma che ha un significato politico preciso. Con esso si apre una fase nuova per l’antifascismo italiano […]. La realtà partigiana slovena stimola la presa di coscienza della necessità di una lotta armata che ha i suoi precursori italiani sia nella Venezia Giulia che oltre confine.
Un’esperienza analoga, iniziata sul terreno logistico (invio di armi, aiuti, contatti, propaganda, reclutamento), è quella di Vinicio Fontanot, di Ronchi, che per sottrarsi all’arresto aveva raggiunto un reparto partigiano sloveno vicino a Ranziano e contribuito con Mario Lizzero alla creazione delle prime bande nel Friuli e nella Venezia Giulia. Il destino della famiglia Fontanot (il padre Giovanni morto a Dachau, due fratelli di Vinicio, Licio e Armido, morti nel corso della Resistenza nel 1944, due zii e un cugino morti tra i maquis francesi: una brigata del 7° Korpus sloveno nella provincia di Lubiana viene denominata “Fratelli Fontanot”) mostra l’importanza, soprattutto nella fase iniziale, dei legami familiari e amicali nello spingere i giovani a scelte politiche e militari consapevoli.
Dai cantieri di Monfalcone centinaia di giovani – alcune testimonianze parlano di quasi 2000 uomini – vanno a ingrossare le file degli insorti. Complessivamente
si calcolano a 3-4000 i volontari civili (tra cui numerosi ex detenuti politici sia italiani che sloveni, liberati dalle carceri a Trieste sotto la pressione popolare) che si uniscono alle formazioni partigiane in Istria, nel Triestino e nel Goriziano. La maggior parte di questi volontari costituisce gruppi autonomi o si aggrega alle formazioni italiane come la brigata Trieste e i gruppi “gappisti” di Muggia […]. Di queste formazioni non sono più rimasti neanche i nomi. La più celebre delle unità di quel periodo fu senza dubbio la brigata “Triestina”, cioè la “Proletaria”. Il nome di “Triestina” data alla “Proletaria” si spiega con la decisione di attuare una riorganizzazione generale dei reparti italiani e sloveni disposta dal comando sloveno alla vigilia del grande attacco tedesco del 25 settembre.
Alla costituzione della Brigata “Proletaria” partecipa Ondina Peteani – che aveva iniziato la militanza antifascista ai cantieri navali, dove faceva l’operaia, in contatto con il gruppo dell’Università di Padova guidato da Eugenio Curiel –, considerata la prima “staffetta” della Resistenza, poi arrestata e rinchiusa ad Auschwitz e Ravensbrück da dove riuscirà a fuggire nell’aprile 1945.
La “Proletaria”, comandata da Ferdinando Marega, è organizzata in tre battaglioni: alla loro testa ci sono lo sloveno Dušan Faganel, l’ufficiale Giuseppe Petroni e Vinicio Fontanot, che hanno come commissari politici Camillo Donda, Giovanni Calligaris e Valerio Bergamasco. Cerca di raggiungere, senza riuscirci, Gorizia prima dell’arrivo dell’esercito tedesco, secondo il piano preparato dal comando sloveno. Occupa allora la stazione della città e l’aeroporto militare e si posiziona dove riesce a interrompere i collegamenti tedeschi tra Gorizia e Trieste, facendo saltare alcuni ponti sul Vipacco, affluente dell’Isonzo. Anche soldati dispersi dell’esercito italiano si aggregano alla battaglia, che sul fronte goriziano coinvolge circa 5000 combattenti, 700 dei quali appartenenti alla “Proletaria”. Il generale Licurgo Zannini, comandante del 24° Corpo d’armata di stanza a Udine, mentre i partigiani tentano di difendere Gorizia raggiunge un accordo con i tedeschi permettendo loro di attraversare le zone controllate dai suoi uomini e riprendere così il controllo della città. Gli uomini della Divisione “Torino”, che per due giorni si sono opposti ai tedeschi, adesso sono divisi, non sanno se raggiungere i partigiani (alcuni lo hanno già fatto) o obbedire al nuovo comandante dopo che il generale Bruno Malaguti è stato destituito da Zannini perché ostile ai tedeschi. Malaguti riuscirà, prima di venire arrestato dai tedeschi e deportato in Polonia, a liberare i prigionieri politici e i detenuti nei campi di concentramento. Morirà nel dicembre 1945 per gli effetti delle privazioni patite in prigionia.
L’ingresso dei reparti germanici in città avviene tra applausi e lanci di fiori: «Era il segno di quel collasso politico e morale che le vicende armistiziali, la tradizionale ostilità e paura degli slavi, e l’identità fra italianità e fascismo predicata per anni, avevano provocato in alcuni strati della piccola e media borghesia urbana».
La battaglia presso la stazione ferroviaria di Gorizia rappresenta, probabilmente, il primo episodio di guerra civile tra italiani, alcuni dei quali, su versanti contrapposti, appartenenti fino a pochi giorni prima alla stessa divisione. Proprio alla stazione, infatti, che era occupata dal secondo battaglione della “Proletaria”, «in ottemperanza agli ordini di Zannini i carabinieri e la guardia di finanza si erano posizionati, in armi, con l’intento di attaccarla e liberarla dai ribelli». Un primo attacco condotto da tedeschi con l’ausilio italiano è respinto e per ben tre volte i partigiani prevalgono sugli assalitori. Poi, di fronte alla soverchiante forza nemica, decidono di ritirarsi, senza venire inseguiti perché ritenuti numerosi, bene addestrati e armati. La mattina del 14 settembre la bandiera tedesca sventola a Gorizia, anche se il circondario è ancora in mano ai ribelli e anche se vicino a Merna e a Peci, sul fiume Vipacco, i restanti battaglioni della “Proletaria” bloccano i tedeschi in arrivo da Trieste e Monfalcone.
Mentre iniziano le deportazioni di soldati e ufficiali della Divisione “Torino” (che resiste ai tedeschi sino all’11 settembre, ma deve poi cedere per ordine del comando della 24a Armata di Udine), tra il 12 e il 16 i combattimenti proseguono senza segnare la vittoria di uno dei contendenti; la “Proletaria” cerca di sabotare l’aeroporto riconquistato dai tedeschi e respinge gli attacchi lungo il Carso vicino a Merna. Tra il 18 e il 20 settembre la pressione tedesca aumenta, dopo l’ordine del Führer – registrato dal Diario dell’OKW alla data del 15 settembre – di combattere “le bande italiane” nell’Italia settentrionale, con chiaro riferimento ai partigiani operanti nella Adriatisches Küstenland, la zona di operazioni che include Venezia Giulia, Friuli e le province di Lubiana, Gorizia e Fiume, sotto il diretto controllo germanico.
La battaglia di Gorizia, tra circa 10-15.000 partigiani e 45-50.000 soldati tedeschi, termina il 26 settembre con la vittoria tedesca, ed è considerata «un episodio-chiave del ciclo operativo germanico nell’Italia del nord e la prima fase di una serie di operazioni predisposte da Rommel e collegate agli importanti settori sloveno e croato». Un rapporto dell’OF (Osvobodilna Fronta, Fronte di liberazione del popolo sloveno) afferma che la ritirata si è svolta in ordine e con scarse perdite; a fronte delle rappresaglie e degli eccidi di truppe tedesche e reparti fascisti contro i villaggi e le popolazioni locali, piccoli gruppi partigiani si mimetizzano in luoghi fuori mano, alcuni si sbandano e altri ancora occultano le armi per disseppellirle all’occasione propizia: «L’esperienza fatta, la forte coscienza antifascista, la presenza di unità partigiane sul Carso, sulle Prealpi Giulie, il germinare di gruppi “gappisti” quasi sempre di estrazione operaia, nel Monfalconese e nella Bassa friulana, indussero centinaia di uomini a riprendere la lotta». A fronte del centinaio di morti della Brigata “Proletaria” nei combattimenti contro i tedeschi, vi sono, in quella stessa zona, migliaia di soldati e ufficiali italiani arresisi e internati nei campi di prigionia e di lavoro della Germania.
Sul terreno militare si era trattato certamente di una sconfitta, ma i tedeschi avevano dovuto riconoscere – scrivendolo con preoccupazione sul proprio bollettino militare – che le bande nei dintorni di Gorizia erano numerose e agivano con determinazione. Considerando che prima dell’armistizio, tranne diversi casi individuali e piccoli gruppi, gli italiani non avevano mai accolto l’invito fatto loro dagli sloveni fin dal 1941 a imbracciare le armi, pur contribuendo in molte occasioni ad aiutare i partigiani dell’esercito di liberazione iugoslavo, si poteva sostenere che «la battaglia di Gorizia era stata un turning point della lotta antifascista nella regione, gli operai italiani avevano imbracciato le armi per la prima volta ma non sarebbe certo stata l’ultima».
Le foibe istriane del 1943
Mentre infuria la battaglia di Gorizia, in Istria il Comitato popolare di liberazione (CPL) proclama, il 13 settembre, l’annessione alla Croazia, confermata nelle settimane successive dal Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo (AVNOJ), anche se questa notizia suscita una reazione negativa da parte di Tito. In una parte del territorio istriano, già prima dell’8 settembre privo di controllo, con l’armistizio si vive un vuoto di potere che favorisce l’emergere del potere partigiano e di rivolte rurali contro i possidenti. In questo clima e in questa situazione, mentre l’esercito tedesco procede a riconquistare quella che è diventata la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), hanno luogo violenze contro i civili che coinvolgono il movimento partigiano: le “foibe istriane” del settembre-ottobre 1943. Il presidente del CPL istriano, Joakim Rakovac, aveva assicurato i comunisti italiani che dopo l’insurrezione i fascisti sarebbero stati sottoposti a processo impedendo vendette e procedimenti sommari.
L’insurrezione, accreditata poi come tale dalla storiografia ufficiale iugoslava, è in realtà un movimento spontaneo e poco coordinato che, in una prima fase, crea organismi provvisori di potere che solo in seguito – con il controllo militare e politico del Movimento popolare di liberazione iugoslavo e l’arrivo in Istria di quadri dirigenti del Partito comunista croato – troveranno una sia pur estremamente provvisoria sistemazione.
Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane in questi termini. Nella situazione di vuoto di potere si assiste parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio tra spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, tra il desiderio di cacciare gli invasori italiani e la volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.
La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti. Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono “giustizieri improvvisati”, tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come “guardie della rivoluzione” e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: «scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola».
Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così. Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come “vendicatori” di un ventennio di angherie e persecuzioni. La 13a Divisione del NOVJ, dopo aver sconfitto un battaglione di alpini, tra l’11 e il 12 settembre occupa Pisino, quasi al centro dell’Istria, e istituisce nel castello di Montecuccoli un tribunale rivoluzionario, capeggiato da Ivan Matka, presidente della Commissione regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria.
Anni più tardi un esponente del Partito comunista della Croazia in Istria, Bo�o Kali, si vantò pubblicamente di avere “liquidato” 82 fascisti per vendicare le 82 vittime “cadute all’incrocio di Tina” (località dove si verificò uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di “foibe” dove seppellirli.
La giustificazione, data sin da allora, di «fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili» o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di «elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici» è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente “spontanee”, quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere “nemici del popolo”, una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano. Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra.
A testimoniare la gravità delle violenze perpetrate nelle foibe istriane non vi è solo la ferocia ingiustificata e del tutto illegale di quelle azioni, ma la stessa riflessione che, poco più di un mese dopo, avviene all’interno del movimento partigiano croato e italiano. Il 6 novembre Zvonko Babi-�ulje relaziona al comando dell’Armata di liberazione popolare di Croazia: «La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in modo diseguale, che in alcune località si è rivelata del tutto inadeguata e in altre è stata invece radicale. È sintomatico a riguardo il fatto che in molti luoghi gli istriani non volevano eseguire le esecuzioni […]. Non è stato costruito nessun campo di lavoro e i nemici nazionali sono stati puniti con la morte, fra loro anche alcuni sacerdoti».
La confessione di Anton Gregorovich, giudice istruttore presso il comando partigiano di Pisino, arrestato il 15 ottobre a Pola dai tedeschi, rievoca «lo stato di caos in cui versava il Movimento di Liberazione, l’improvvisazione e il potere arbitrario dei singoli, assetati di vendetta, ma anche la loro adesione al modello della “violenza rivoluzionaria” bolscevica, oppure a quella mussoliniana della “violenza militare”. In fin dei conti, questi erano gli unici due modelli cui potevano fare riferimento». Nella conferenza dei comunisti istriani tenutasi nel dicembre 1943, dopo che il Partito comunista italiano aveva espresso una protesta ufficiale, il dirigente di Rovigno Giuseppe Budicin, condannato due volte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato (e che sarà ucciso dai fascisti nell’aprile 1944), «rivolse un aperto rimprovero ai dirigenti del PCC in merito alle responsabilità sui fatti delle foibe e ad altri incidenti di stampo nazionalista verificatisi durante l’insurrezione, rinfacciando loro di avere mancato alla parola data: fatto che, a suo dire, stava causando un certo disorientamento tra l’elemento italiano e non pochi danni al Movimento di liberazione».
Tra le motivazioni della violenza, tanto nelle testimonianze quanto nella riflessione storica, permangono contrapposti, quasi si dovesse scegliere tra l’uno o l’altro, motivi di classe e di comportamento rivoluzionario, tipici della tradizione comunista dell’epoca che aveva alle spalle la vicina esperienza della guerra civile spagnola, e scelte di carattere nazionalistico ed etnico, tentativo di escludere, nella guerra di liberazione, la convivenza con chi aveva assunto complessivamente l’immagine e l’identità del nemico: «le azioni di polizia contro i “nemici del popolo” decise dal Comando di Pisino sono un’indicazione di percorso nella quale s’inseriscono le rabbie popolari, aprendo spazi di discrezionalità dove trovano posto le esecuzioni politiche mirate, ma anche gli odi personali e gli atti di criminalità comune». Non si può negare che la violenza, come accadde spesso e ovunque, «esercitava su molti combattenti una sua seduzione, anche se a posteriori venne giustificata come atto necessario, come risposta alla violenza altrui. L’esercizio della violenza diventava anche per numerosi combattenti una sorta di sfogo della pressione a lungo accumulata».
Le quattro giornate di Napoli
L’8 settembre nel Mezzogiorno è accompagnato da un elemento contrastante in modo palese con l’atteggiamento pavido, ambiguo o addirittura codardo mostrato dal re e da Badoglio in fuga proprio verso il Sud dell’Italia. Si è già visto come la resistenza mostrata a Barletta e a Bari, a Rionero in Vulture e poi a Matera, per non parlare della piccola “repubblica” di Maschito, costituissero momenti diversi di un fenomeno comune: la difesa contro la violenza dell’occupazione che le forze naziste stanno rapidamente imponendo in tutto il paese. «In Campania il lungo settembre del ’43 è scandito da eccidi, scontri a fuoco, rappresaglie, insorgenze popolari e assalti ai municipi».
La storia ha sempre ricordato quasi esclusivamente Napoli – e le sue “quattro giornate” – come centro di un episodio significativo di resistenza al Sud, di cui si è voluto spesso rimarcare la diversità e l’alterità rispetto alla Resistenza che avrebbe preso piede, negli stessi giorni, nel Centro-Nord della penisola. L’11 settembre a Castellammare di Stabia vengono giustiziati ufficiali e civili ribelli, incendiate le industrie della zona (Cirio, Voiello) e rastrellate migliaia di persone da deportare in Germania. La stessa violenza si manifesta a Napoli dopo la morte di sette tedeschi in una prima protesta popolare, mentre prefetto e commissario prefettizio collaborano con il comando germanico, e i generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, dopo aver rifiutato di armare il popolo come richiesto dal Comitato dei partiti antifascisti, fuggono lasciando l’ordine di sparare sugli assembramenti di civili.
Il 12 settembre, debellata la resistenza di gruppi di militari e carabinieri, i tedeschi accerchiano e poi incendiano l’università: «Un’offesa certamente premeditata data la presenza, attestata da più testimoni oculari, di una macchina cinematografica montata su un camioncino parcheggiato dinnanzi all’ingresso dell’Ateneo». È da questo momento che le angherie e le violenze si susseguono e si moltiplicano: il 13 è affissa la proclamazione dello stato d’assedio e qualche giorno dopo si ordina lo sgombero della fascia costiera per trecento metri, lasciando senza casa 35.000 famiglie; vengono saccheggiati depositi militari e distrutti impianti industriali; si mettono a fuoco l’Ilva di Bagnoli ma anche i grandi alberghi del centro in via Partenope (Excelsior, Santa Lucia, Vesuvio, Royal, Vittoria). Le “quattro giornate” di Napoli, quindi, sono un evento assai più esteso cronologicamente: gli scontri dureranno tutto il mese.
Oggi si riconosce quasi unanimemente che, con questo evento, «si è in presenza di un episodio di lotta armata da inscrivere nella guerra partigiana. L’antifascismo propriamente inteso arriva dopo».
È naturalmente la guerra a catalizzare la ribellione, che coinvolge tutto il popolo, donne e uomini, ragazzi e anziani, impiegati e studenti, lavoratori e intellettuali, soldati e ufficiali. Le agitazioni si diffondono nei quartieri di antica tradizione antifascista e nei rioni borghesi. Già il 22 settembre al Vomero gruppi di civili si impadroniscono delle armi abbandonate dal regio esercito, e l’indomani solo 150 persone si presentano al servizio di lavoro obbligatorio imposto dal colonnello Walter Scholl con la minaccia di fucilare i 30.000 renitenti; il 26 sono le donne ad assaltare i camion che dovrebbero trasportare i rastrellati. Il terrore della deportazione forzata spinge all’insurrezione generalizzata.
Si insorge perché stanchi delle angherie dei tedeschi – dal 23 al 24 settembre oltre 200.000 napoletani si ritrovano senza casa per l’evacuazione forzata di alcuni quartieri –, ci si batte per impedire l’invio di migliaia di “schiavi” nelle officine belliche del Terzo Reich, per scongiurare la riduzione della città a “fango e cenere”, ma anche sotto la spinta di imperativi civili e politici, che ispirano la scelta di affrontare a viso aperto i “moderni unni meccanizzati” nonché i “cainifascisti”, sulla cui presenza – ci si riferisce soprattutto al ruolo dei cecchini – spesso è caduto il silenzio.
Sono 17 i gruppi rionali armati che si formano in quei giorni e tra essi ci sono oltre 700 militari e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali. Si combatte dappertutto: al Vomero come a piazza Garibaldi, a piazza Trieste e Trento come a Capodimonte e nei sobborghi, a Ponticelli come a Piscinola, a Barra come a Soccavo. I cittadini coinvolti sono oltre 2000, in molti casi adottano tecniche di guerriglia che prendono alla sprovvista i tedeschi e li costringono alla ritirata; è la prima città europea a liberarsi da sola. Le quattro giornate di Napoli «nacquero come moto spontaneo ma svilupparono processi di organizzazione, nacquero come rivolta spontanea di resistenza civile e raggiunsero l’obiettivo di impedire la deportazione degli oltre ottomila napoletani rastrellati. Nel corso degli eventi acquisirono la configurazione di rivolta armata».
Tra i gruppi che partecipano alla battaglia si distingue il Fronte unico rivoluzionario – che ha sede nei locali del Liceo Sannazzaro – costituito dal professor Antonio Tarsia in Curia, ma tra i tanti protagonisti merita una speciale menzione Maddalena “Lenuccia” Cerasuolo, protagonista degli scontri armati al quartiere Materdei e in difesa del Ponte della Sanità – dove opera anche suo padre, sotto la guida del tenente colonnello Ermete Bonomi – e che da ottobre collaborerà con i servizi britannici del SOE partecipando a diverse missioni fino al febbraio del 1944. L’insurrezione del rione Materdei viene ricordata per lo scontro decisivo sul ponte, minato dai tedeschi, costretti a ritirarsi senza poter farlo esplodere, per i tram rovesciati a impedire l’avanzata dei carri Tigre che scendevano da Capodimonte, per il dodicenne Gennaro Capuozzo, ucciso dopo aver aiutato a sparare con un mitragliatore da un terrazzo, cugino di Lenuccia e medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
L’ultima rappresaglia tedesca viene attuata il 1° ottobre, con un fuoco di artiglieria da Capodimonte accompagnato da azioni isolate di nuclei fascisti. Con la ritirata germanica, la violenza si sposta altrove, mentre nello stesso giorno, nel primo pomeriggio, entrano a Napoli i reparti corazzati della 5a Armata, accolti da una folla in festa che aveva già reso onore ai propri caduti per la libertà.
Anche in una zona limitrofa, quella di Salerno, vi furono scontri, morti e feriti. Qui, accanto all’opera instancabile in aiuto di soldati sbandati e prigionieri alleati fuggiti (mentre soccorre un ferito, viene uccisa la crocerossina Filomena Galdieri), scoppiano rivolte contadine culminate nella proclamazione della Repubblica di Sanza, il 10 ottobre. «Un anziano contadino antifascista, Tommaso Ciorciari, fu nominato sindaco; i dipendenti comunali ritenuti responsabili di aver vessato i contadini vennero licenziati in tronco, mentre le terre del latifondista locale venivano occupate». Un mese dopo l’avventura finisce, e il sindaco e trenta braccianti verranno condannati dalla giustizia del Regno del Sud.
Negli stessi giorni dell’insurrezione di Napoli, in Abruzzo avviene uno scontro armato poi ricordato da Parri come il primo conflitto «nostro in campo aperto» contro i tedeschi. Ha luogo a Bosco Martese, a 1400 metri d’altezza e a 40 chilometri da Teramo, dove si sono radunati dopo l’8 settembre centinaia di giovani: «ci sono carabinieri, soldati, civili italiani, ex prigionieri alleati, slavi, apolidi, ex internati politici, comunisti, socialisti, monarchici, azionisti, borghesi, contadini, artigiani, intellettuali, operai. Uno spaccato di varia umanità accomunata dalla consapevolezza che il tedesco è il nemico di tutti». Il comando di questo insieme eterogeneo di gruppi è affidato al capitano dei carabinieri di Teramo, Ettore Bianco. Il 25 settembre, su segnalazione di una spia (linciata dalla folla senza che intervengano i tedeschi), una colonna motorizzata tedesca, che ferma alcuni patrioti incontrati casualmente, viene attaccata dai partigiani che distruggono venti autoblindo e catturano il maggiore Rhodas Hartmann, comandante della Wehrmacht. Le azioni di rastrellamento e rappresaglia, in seguito alle quali Hartmann verrà giustiziato, provocano alcuni morti, ma il grosso dei combattenti, divisi in gruppi, continuerà la lotta fino alla liberazione di Teramo nel giugno 1944.
Anche solo a scorrere nomi, luoghi, partecipanti e dinamiche delle azioni di lotta e di contrasto all’occupazione tedesca avvenute nel mese di settembre – e di cui qui se ne sono ricordate pochissime tra le più importanti – si può concludere con quella che oggi sembra una constatazione ampiamente condivisa: la Resistenza è stata molteplice, articolata, sfaccettata, è stata l’insieme di scelte e comportamenti differenti che si sono intrecciati e sommati in un arco di tempo molto compresso (venti mesi). Anche solo nel primo caotico mese essa ha avuto tappe e tipologie diverse, che si sono accavallate nel tempo con grande rapidità e che hanno mostrato la versatilità e l’ampiezza delle possibilità di lotta e di solidarietà nella battaglia contro il nazifascismo. Nei mesi successivi prevarranno tipologie più marcate e definite, che diventeranno più facilmente il simbolo – anche visivo, anche nell’immaginario – di tutta la Resistenza.
L’ampiezza e la diversità che si manifestano in questo primo mese, di reazione all’occupazione tedesca ma anche al ritorno in forma di regime collaborazionista di Mussolini e dei fascisti, e di lontananza, ostilità e disagio per il comportamento della monarchia e dei comandi militari, rimarranno comunque un segno distintivo che la Resistenza si porterà dietro in tutti i venti mesi che condurranno alla Liberazione. Ogni partigiano, patriota, armato o disarmato che sia, soprattutto in queste prime settimane, ha una propria idea di cosa significhi «resistere» al nazifascismo, all’occupazione, al disonore, alla vigliaccheria. Ma tutti hanno in comune un obiettivo semplice e chiaro: la riconquista della libertà, la fine dell’incubo totalitario in cui è precipitata l’Europa intera tra il 1939 e il 1943.
Esumazione e distruzione delle salme degli ufficiali trucidati a Cefalonia
Io sottoscritto Sabattini Alberto, dichiaro di aver personalmente assistito al trasporto di oltre 200 salme da San Teodoro al porto di Argostoli, e questo avvenne come segue:
La sera del 27 settembre 1943, verso le ore 21, fui chiamato da alcuni graduati tedeschi per seguire da vicino, con la mia automobile, una loro macchina; nei pressi di San Teodoro ci siamo fermati e subito dopo la macchina che mi precedeva partiva, mentre io fui trattenuto.
Davanti a me, un po’ a destra, da un’incavatura naturale abbastanza profonda, perveniva un grandissimo fetore. Nelle immediate vicinanze si trovavano un autotreno con un autista italiano, attorno al quale lavoravano in silenzio alcuni marinai italiani, mentre 7 o 8 tedeschi assistevano imperterriti, con le pistole in pugno, a quel macabro andirivieni.
Il mio compito – disse un ufficiale tedesco – era di proiettare la luce dei fari della mia auto carretta nell’interno delle buche e che scegliessi il posto migliore per tale scopo. Quando il posto fu illuminato, ciò che vidi mi impressionò talmente che mi imposi di non guardare mai più da quella parte. Ma involontariamente l’occhio scrutava: corpi inanimati, deformi ed irriconoscibili, giacevano senza ordine, senza posa, senza cura uno sopra l’altro, imbevuti nel sangue. Erano gli ufficiali italiani fucilati in precedenza.
I marinai, muniti di barelle, portavano i cadaveri dalla buca all’autotreno. Quando l’autotreno fu carico, venne fatto partire, accompagnato da due tedeschi. Ma un altro autotreno arrivava con la stessa missione, partito il secondo, arrivò di nuovo il primo e seppe dall’autista quanto segue: le salme dei nostri ufficiali venivano trasportate dal luogo della fucilazione al porto di Argostoli per essere caricate su uno zatterone tedesco; ogni autocarro ne trasportava 32-33. I marinai che lavoravano nella buca facevano parte della batteria marina costiera di Faraò. Quando il quarto autotreno fu ultimato, il lavoro fu cessato e con l’autocarretta io trasportai italiani e tedeschi alla casetta rossa, dove noi italiani siamo stati piantonati da due guardie tedesche: erano le 4 del nascente 28 settembre. […] I marinai rimasero al porto e da allora nessuno li ha più visti.
NB – Posso aggiungere che le fosse di San Teodoro contenevano 18 salme di marinai, esumate il 25 ottobre 1944 alla mia presenza. Ciò potrebbe spiegare perché quei marinai di cui parla il Sabattini non furono più visti.
24 ottobre 1944 Il cappellano militare p. Luigi Ghilardini
Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 1968
IV.
Il tempo delle scelte
Gli sconvolgimenti dell’autunno 1943 pongono l’imperativo delle scelte, ossia la necessità di prendere posizione dinanzi all’occupazione tedesca, alla ripresa del fascismo in forma repubblicana, alle prime manifestazioni di resistenza. Fattori ambientali, appartenenze familiari, frequentazioni amicali, retroterra personali si intrecciano e si sovrappongono nel determinare atteggiamenti e coinvolgimenti nella fase di incubazione della guerra civile, sotto la pressione di circostanze imprevedibili e spiazzanti.
Tra quanti sciolgono pubblicamente questo nodo, vi è il magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova, Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943, nella cerimonia d’apertura dell’anno accademico, tiene un discorso ambiguo apprezzato anche dalle autorità della RSI, per poi passare alla clandestinità e rivolgere un fiero appello antifascista alla gioventù italiana (trascritto in chiusura del capitolo).
I due principali filoni alla base della Resistenza sono quello dell’antifascismo storico, sconfitto nella prima metà degli anni Venti e sopravvissuto – con qualche innesto – tra carcere, confino ed esilio, e quello di una parte della gioventù, indottrinata nel ventennio mussoliniano e gettata al macello nella seconda guerra mondiale, che passa risolutamente all’opposizione, sentendosi ingannata dal duce. La guerra disillude anche molti fascisti, alcuni dei quali – soprattutto quelli legati idealmente alla dimensione rivoluzionaria – passano dalla fronda al dissenso e infine alla contrapposizione.
Ernesto Rossi, resistente di lungo corso
Ernesto Rossi (1897-1967), prima di diventare un personaggio tra i più rappresentativi dell’antifascismo non comunista, vive e attraversa le contraddizioni di tanti giovani maturati anzitempo nelle tragedie della trincea, segnati nel corpo dalle ferite e nello spirito dalla morte di tanti amici. Partecipa volontario diciannovenne alla Grande Guerra, infervorato da idealità democratiche coniugate con le aspirazioni al completamento dell’unità nazionale, viene ridotto in fin di vita e rimane mutilato. Nell’immediato dopoguerra pubblica articoli di natura economico-finanziaria su «Il Popolo d’Italia», «l’Unità» e «La Rivoluzione Liberale». Si avvicina nel 1919 al nascente movimento dei Fasci italiani di combattimento, staccandosene però prima della marcia su Roma. Nel 1923 fonda con i fratelli Rosselli il Circolo di cultura di Firenze, la cui sede viene distrutta l’anno successivo dalle camicie nere. Svolge attività clandestina nel movimento Italia Libera e anima nel 1925 con Gaetano Salvemini il giornale murale «Non Mollare», stroncato dalla polizia dopo diversi mesi di indagini. Docente di economia in un istituto superiore di Bergamo, conduce una doppia vita e nel 1928 costituisce a Milano un gruppo clandestino repubblicano con Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Ferruccio Parri, Dino Roberto e altri intellettuali di estrazione borghese. I cospiratori, legati al centro parigino di Giustizia e Libertà, da cui ricevono opuscoli e materiale propagandistico, estendono la loro rete in varie città centro-settentrionali, finché il 30 ottobre 1930 il tradimento dell’avvocato Carlo Del Re (che vende i compagni al capo della polizia, in cambio di grosse sovvenzioni) determina decine di arresti e lo sradicamento del Centro interno giellista. Imprigionato a Regina Coeli, Rossi rivendica la propria opposizione:
Sono nettamente e decisamente antifascista; gli stessi principi democratici liberali che già mi condussero a fare la guerra quale volontario nella ferma idea di combattere la Germania, nella quale vedevo una forma di oppressione anti-liberale, e che mi condussero ad oppormi al bolscevismo nel periodo immediatamente dopo la guerra, gli stessi principi demo-liberali, ripeto, mi hanno portato dalla marcia su Roma in poi ad assumere una posizione nettamente contraria al fascismo.
Condannato a vent’anni, subisce una carcerazione durissima, con periodi di isolamento e riduzione del vitto per l’irriducibilità alle soperchierie carcerarie. Assegnato nel novembre 1939 al confino quale “elemento socialmente pericoloso”, nell’isola di Ventotene approfondisce con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli l’analisi della situazione europea, scrivendo nel 1941 l’appello ai resistenti «Per un’Europa libera e unita», poi divenuto noto come Manifesto di Ventotene.
Nel 1942 anche sua moglie Ada, docente di matematica a Bergamo, finisce al confino. A inizio luglio 1943 viene ricondotto da Ventotene a Regina Coeli in regime di isolamento con Riccardo Bauer e Vincenzo Calace, nell’ambito di una montatura per attribuire ai giellisti la strage della Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928. Crollato il regime, il 30 luglio torna libero e si reca nell’abitazione della madre di Altiero Spinelli, dove trova Colorni e altri federalisti, che redigono il secondo numero del giornale «l’Unità Europea», critico del governo Badoglio e della prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti: Rossi vi pubblica uno scritto intitolato Le tendenze federaliste. Viene poi preparato un volantino con la richiesta di abdicazione del re e l’appello alla mobilitazione antitedesca: è il primo documento pubblico distribuito in Italia evocante la Resistenza. In serata Rossi viene imprigionato con due compagni per la distribuzione di questo volantino, ma, dopo averne verificato la recentissima scarcerazione, lo si libera per la seconda volta nel giro di poche ore.
I quaranta giorni del governo Badoglio sono vissuti in un vorticoso susseguirsi di riunioni private e di attività pubbliche tra Roma, Firenze, Torino e Milano, per recuperare i 12 anni di segregazione inflittigli dal regime. Dopo alcune titubanze aderisce al Partito d’Azione, sostenendovi la linea di incompatibilità con il Partito comunista, nell’ottica di una coalizione democratico-socialista-repubblicana che respinga l’egemonia comunista sull’antifascismo, con un programma che coniughi in una prospettiva federalista l’opposizione al nazifascismo. Trova affinità, tra gli altri, con Enzo Enriques Agnoletti, Piero Calamandrei, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Ada Gobetti, Mario Alberto Rollier. Riprende i contatti epistolari con Altiero Spinelli, liberato a inizio agosto 1943. Condivide il progetto di Colorni, entrato nel Partito socialista per condizionarlo in senso federalista. È invece distante da altri azionisti, per esempio Ugo La Malfa, critici della priorità federalista, concepita da Rossi quale piattaforma su cui fondare il nuovo assetto continentale, in un’Europa pacificata e senza nazionalismi. A metà agosto organizza una riunione a Monte Oriolo, in una casa di parenti, sulle colline di Firenze, per discutere della fondazione del movimento federalista; vi partecipano anche Colorni e Rollier, che il 28 agosto sono a Milano, con Altiero Spinelli e una ventina di altri militanti.
A inizio settembre Rossi partecipa a Firenze al congresso costitutivo del Partito d’Azione, poi si reca a Bergamo, dove incontra un gruppo di giovani sensibilizzati al federalismo da Ada Rossi.
La sera dell’8 settembre, pur febbricitante e afflitto da esaurimento psicofisico per il peso degli anni di prigionia e confino, e per l’intenso impegno profuso nelle settimane trascorse in libertà, è l’oratore al raduno popolare tenutosi alla Torre dei Caduti alla notizia dell’armistizio. Invita alla lotta antinazista in corso in tutta Europa e addita quale obiettivo politico la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Rielabora quel discorso – intitolato Guerra al nazismo – per la pubblicazione sul terzo numero dell’«Unità Europea», edito clandestinamente a Bergamo.
L’esposizione pubblica pregiudica la sua permanenza a Bergamo, dove è in testa alla lista degli antifascisti da arrestare. Recatosi a Milano per collegarsi ai primi nuclei di resistenti, si ritrova isolato e ripara in Svizzera, per riprendere le fila dell’azione federalista. Il 17 settembre partecipa a Lugano al primo incontro tra emissari della Resistenza italiana e Alleati, alla presenza dei direttori dello Special Operations Service (SOE) John McCaffery e dell’Office of Strategic Services (OSS) Allen W. Dulles. Al secondo appuntamento, il 3 novembre, intervengono anche Ferruccio Parri e Leo Valiani; in quell’occasione viene distribuito agli angloamericani un memoriale elaborato da Rossi, ispirato alle posizioni azioniste e con riferimenti alla visione postbellica di «un nuovo ordine europeo che consenta il pacifico sviluppo dei diversi Paesi del continente entro le direttive generali espresse dalla carta Atlantica».
In ottobre si stabilisce con la moglie a Lugano e nel marzo 1944 a Ginevra. Insieme a Spinelli svolge un’intensa opera propagandistica e organizzativa federalista, con interlocutori quali Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Ignazio Silone e Umberto Terracini. Scambia con Gaetano Salvemini – in esilio negli Stati Uniti – lunghe lettere e densi memoriali sulla situazione politica. Nell’estate 1944 cura per «l’Unità Europea» la Dichiarazione federalista internazionale dei movimenti della Resistenza Europea. Lavora intensamente tra Lugano e Ginevra, a contatto con la delegazione elvetica del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), finché il 19 aprile 1945 rimpatria e si stabilisce a Milano, collegandosi al partigianato azionista. Il suo sguardo si spinge costantemente ai futuribili assetti del dopoguerra, che vorrebbe fondati sui valori della pace e della collaborazione tra i popoli, cui dedica L’Europe de demain (revisione e traduzione di Gli Stati Uniti d’Europa, saggio apparso qualche mese prima in italiano). Si rende peraltro conto della divaricazione esistente tra gli ideali federalisti e le logiche di potenza sottese ai rapporti politico-militari tra gli stessi Alleati. Nonostante comprenda che la rivoluzione democratica da lui auspicata sia lungi dal realizzarsi, è tra i promotori a Ginevra di organismi quali il Comité provisoire pour la Fédération Européenne (giugno 1944) e il Centre d’action pour la Fédération Européenne (dicembre 1944) che, nati dopo gli incontri ginevrini tra i movimenti della Resistenza europea, consentono di mantenere vive le relazioni con i federalisti elvetici e gli emissari del maquis francese, in preparazione del primo Congresso federalista internazionale, svoltosi nel marzo 1945 nella Francia liberata, a Parigi, presso la Maison de la Chimie.
Il socialismo come redenzione: l’architetto Giuseppe Pagano
Vi sono personaggi essenziali per comprendere le contraddizioni e le ricchezze, le varie fasi sperimentate in una vita, nell’Italia tra la prima e la seconda guerra mondiale. Uno di essi è sicuramente l’architetto Giuseppe Pagano Pogatschnig (Parenzo, 1896-Melk, 1945), la cui esistenza, straordinariamente avventurosa e significativa, si dipana dalla Grande Guerra al fascismo, dalla campagna di Grecia alla guerriglia partigiana, dal carcere alla deportazione, con un eccezionale lavoro nei campi dell’architettura e dell’urbanistica, segnato da linearità e discontinuità, da compromessi anche dolorosi – in particolare il rapporto con Marcello Piacentini –, atteggiamenti in parte connaturati al suo temperamento irruente e in parte condizionati dai processi storici. Il rapporto con il fascismo passa dall’adesione giovanile all’impegno politico durante gli anni Trenta in battaglie culturali coniugate con una forte sensibilità sociale; alla disillusione segue – quale logica conseguenza – la lotta aperta.
Originario dell’Istria, si batte per il compimento dell’unità nazionale, nella posizione di “traditore” vissuta da Cesare Battisti e da altri intellettuali di nazionalità austroungarica. A inizio 1915 varca illegalmente il confine per arruolarsi nell’esercito italiano; in quella circostanza cambia il cognome da Pogatschnig in Pagano. Ferito in combattimento, viene catturato due volte e per due volte fugge dai campi d’internamento. Nel dopoguerra è tra i fondatori del fascio del suo paese natale, Parenzo; partecipa all’occupazione dannunziana di Fiume.
Laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino, intraprende un’attività professionale che dal 1927 – con la nomina a capo dell’Ufficio tecnico dell’Esposizione internazionale di Torino – lo vede impegnato a promuovere un’architettura razionale. Un’attività che, affiancata alla collaborazione alla rivista «La Casa Bella» (di cui è redattore dal 1930, direttore dal 1939), lo schiera contro monumentalismo e accademia, per un’architettura aperta alla tradizione modernista europea e al servizio delle esigenze sociali, per il miglioramento della qualità della vita. Individua in Mussolini l’artefice del rinnovamento nazionale ed è direttore artistico della Scuola di mistica fascista.
Secondo il suo collega Ernesto Nathan Rogers: «La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dissidente poi e infine dell’avversario del fascismo». Il distacco avviene anzitutto sul terreno dell’architettura, con il rifiuto del concetto di romanità esaltato dal duce e il sequestro della rivista «Costruzioni-Casabella» per scritti politicamente scorretti.
Pagano partecipa come volontario alla campagna di Grecia. Richiamato alle armi nel 1942 con il grado di colonnello, esce dal Partito nazionale fascista e dalla Scuola di mistica fascista. È la formalizzazione della fine del lungo viaggio dentro il fascismo. Inadatto a mediazioni e mezze misure, diviene un risoluto oppositore, con il risentimento accumulato in anni di frustrazioni. Nel periodo badogliano diffonde il giornale clandestino «Avanti!» e svolge azione propagandistica nell’esercito. Su «Costruzioni-Casabella» dell’agosto 1943 invita gli artisti italiani
a quell’azione pratica e personale che si svolgerà in circostanze certamente eccezionali e che richiederà ad ognuno di noi un impegno morale elevatissimo, un’obbedienza assoluta alla voce della coscienza, una coerenza rigorosa con la missione che ognuno di noi si è prescelta, impegnando tutta la nostra vita e la nostra arte a quel bel modo di pagar di persona che i nostri uomini del risorgimento, da Cattaneo e Pisacane, ci hanno opportunamente insegnato.
L’8 settembre 1943, quando la divulgazione dell’armistizio senza direttive chiare getta le forze armate italiane nel caos, Pagano si trova a Milano e propugna l’azione armata contro i tedeschi. L’esperienza si dimostra poco produttiva, in quanto il comandante della Piazza, generale Vittorio Ruggero, promette agli antifascisti la distribuzione delle armi ma poi le consegna ai tedeschi. Dopo aver organizzato in Lombardia i primi nuclei delle Brigate Matteotti, Pagano ritorna a Carrara, dove aveva prestato servizio militare, per allestire una rete clandestina nelle caserme; la sera del 9 novembre viene catturato all’esterno di una postazione della Milizia, armato di pistola. Deferito al Tribunale speciale, nell’attesa del processo è trasferito al carcere di Brescia, dove rimane otto mesi. Il curriculum combattentistico e la trascorsa militanza fascista potrebbero fargli ottenere la liberazione, al prezzo di un adattamento opportunistico, tanto più che qualche gerarca – segnatamente l’ex segretario fascista Scorza – vorrebbe giovargli in nome della vecchia amicizia, ma Pagano scarta questa strada: «Non posso né voglio assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filofascista. Ormai Basta! con queste porcherie!». Durante la prigionia studia un sistema di prefabbricazione della casa, documenta con tre rullini fotografici la condizione carceraria e commenta nel suo diario il tentativo di legittimare il fascismo di Salò con l’appello ai programmi socialistoidi del 1919:
Chi comanda ha confusa la responsabilità morale del potere con la libidine di un arbitrio assurdo, pazzescamente illusi di essere investiti da un destino grottesco di dominio su tutti e su tutto, come se non bastasse l’evidente sfiducia di tutta la maggioranza degli italiani per questo regime di volta-gabbane che si trasforma adesso in un grande stato socialista e repubblicano, copiando come gli scolaretti testoni quel che non vollero capire in tempo utile.
Durante un bombardamento notturno, alle tre di mattina del 13 luglio 1944, evade con circa duecento detenuti. Riacquistata la libertà, torna a Milano, dove prende la direzione delle Brigate Matteotti. Nei primi giorni di vita clandestina si fa fotografare in posa sarcastica, con un gesto di sfregio per i suoi ex carcerieri.
Scrive per la stampa clandestina Reazione artistica in berretto frigio, contro Ugo Ojetti (vicepresidente dell’Accademia d’Italia) e gli intellettuali collaborazionisti, suggellato da una frase emblematica: «Ormai tutto è chiaro: da una parte il nazismo con la sua corte di sguatteri nostrani; dall’altra la gente che non vende la propria coscienza e che lavora e sogna e opera “come ditta dentro”». Un breve e intenso interludio di libertà. La sera del 5 settembre partecipa a una riunione del Partito socialista e concorda per l’indomani mattina un appuntamento cospirativo, ma tre traditori informano la Banda Koch – formazione di polizia speciale al servizio dei nazisti – che lo cattura. Imprigionato nella cella n. 4 della palazzina di via Paolo Uccello n. 17-19 (Villa Triste), viene ripetutamente torturato. Rilasciato a fine mese sulla parola con Eugenio Dugoni (futuro deputato socialista alla Costituente e sindaco di Mantova) e Alessandro Nardini, per trattare con i dirigenti socialisti milanesi la liberazione di alcuni prigionieri in cambio dell’incolumità per Pietro Koch, quando l’iniziativa si rivela infruttuosa rientra nella prigione, per evitare rappresaglie sui suoi compagni (differentemente da Dugoni e Nardini, che scelgono la libertà).
L’atmosfera di terrore respirata a Villa Triste è descritta nel memoriale elaborato da Pagano nell’autunno 1944, appena uscito da quell’esperienza:
Lo sgomento che afferrava immediatamente ogni detenuto, era lo stato d’animo che regnava nei sotterranei: disperazione di non potersi difendere; inutilità di ogni tentativo di sincerità; panico continuo per ogni rumore e per ogni passo che rimbombava sulle nostre teste; disagi continui di chi doveva dormire sul cemento, a mucchi, con un solo materasso ogni 8 prigionieri. E per di più i lamenti dei feriti febbricitanti, parecchi con costole rotte; allucinanti angosce dei più terrorizzati e disperate paure per le probabili future torture che si sarebbero svolte nella notte. Era difatti la notte che si raggiungeva il colmo delle nostre sofferenze. Non si poteva dormire: sopra di noi, al piano rialzato, si svolgevano gli “interrogatori”: si sentivano i colpi delle cadute, l’urto dei corpi sollevati e buttati a terra; rimbombavano nel sotterraneo gli urli e le minacce, e ognuno di noi viveva le stesse sofferenze del compagno che era “di sopra”.
Durante la carcerazione, anima il collettivo dei detenuti con utopiche descrizioni della città del futuro, in conversazioni che si sviluppano con il contributo dei compagni di pena, molti dei quali avvocati e insegnanti di fede socialista. L’ex deputato bresciano Guglielmo Ghislandi descriverà quei momenti di vita comune, sospesi tra l’incertezza del presente e la fiducia nell’avvenire:
L’architetto amava portare la conversazione sulla sua arte e descrivere a se stesso e a noi la visione di un’Italia nuova e rinnovata anche nelle sue esigenze edilizie ed urbanistiche. Ci parlava di un suo progetto di città-giardino, a immagine e somiglianza di quanto egli aveva visto ed ammirato nei suoi viaggi nei più progrediti paesi di Europa, specialmente in Svezia: case ampie, chiare di pitture esterne ed interne, con locali razionalmente disposti, secondo la tecnica più moderna, accoppiata a opportuni ma non ristretti criteri di economia, finestre amplissime da cui entrasse il beneficio dell’aria purificata dal verde tutt’attorno e dove la luce, la luce, la luce dominasse risanatrice sovrana.
Pagano aveva chiamato quel suo progetto Città Verde; qualcuno di noi disse: «Meglio forse Città Luce, perché, ancora più del verde, pur tanto necessario ed augurabile, la luce costituirebbe la caratteristica più significativa in quelle case e città di un’Italia futura, finalmente libera e redenta». «Luce» aggiunse altri «che non sarà dunque soltanto di sole, ma di nuova civiltà e di nuova storia». «Luce» concludemmo quindi, tutti o quasi tutti, «di socialismo, perché soltanto in una società socialista sarebbero possibili iniziative tanto grandiose e concrete di rinnovamento della nostra terra e della nostra gente».
Ed ecco Città Luce significare per noi, dopo di allora, qualche cosa di assai più vasto che non il geniale, ma limitato, progetto di un architetto urbanista, e cioè la visione non di una sola città-modello, ma di tutta una nazione risorta sulle vie del più luminoso progresso e benessere civile e sociale; la realizzazione concreta di un ideale e, in definitiva, l’ideale stesso della nostra fede, della nostra lotta, del nostro sacrificio. Insomma: Città Luce = Socialismo.
Pagano prepara un piano di fuga, fallito a causa del trasferimento dei prigionieri a San Vittore. Il 9 novembre viene internato nel campo di Gries, alla periferia di Bolzano, e il 22 novembre è deportato a Mauthausen. Dopo un paio di settimane è assegnato al sottocampo di Melk, vicino a Linz. Il lavoro coatto nelle miniere è inasprito dalle percosse di un guardiano, che gli provocano broncopolmonite traumatica e febbre alta.
Ricoverato nell’infermeria in condizioni disperate, scrive un testamento morale sui due lati di un foglietto, ricoperto con grafia fitta e irregolare, affidato a Alessandro Nardini (al termine della guerra, lo consegnerà ai familiari). «Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona», scrive alla moglie Paola, sintetizzando le contraddizioni del proprio itinerario esistenziale. «Ricordatemi bene uomo vivo e pieno di volontà. Sono stato stroncato di violenza», confida al fratello Zanetto, mentre il suo tempo si consuma: «Non posso né voglio scrivere di più». All’architetto Palanti affida la propria eredità spirituale. Le righe finali, leggibili solo a tratti, ribadiscono la fede socialista e la propria dignità: «Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A Voi continuare bene e meglio. Addio». Si spegne il 22 aprile 1945. In un altro sottocampo di Mauthausen, Gusen, erano morti due suoi amici e collaboratori: in gennaio il critico Raffaello Giolli, a inizio aprile l’architetto Gian Luigi Banfi.
Teresio Olivelli, da littore della razza a Fiamma Verde
Negli anni Trenta, gli ecclesiastici sono un vettore di consenso al regime. Dal rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Agostino Gemelli, all’influente gesuita Pietro Tacchi Venturi, dall’arcivescovo di Milano cardinale Schuster al più umile parroco di campagna, il clero italiano omaggia “l’uomo della Provvidenza”, che ha riconciliato Chiesa e Stato con il Concordato del 1929 e schierato l’Italia nella crociata antibolscevica in terra di Spagna. Il clerico-fascismo è un tratto distintivo della pedagogia del regime, che condiziona profondamente la gioventù.
Teresio Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio (Como) in una famiglia di commercianti, dispiega un notevole attivismo nelle organizzazioni cattoliche e in quelle di regime. Crede che nell’Italia di Mussolini si costruisca una nuova civiltà rispettosa dei valori comunitari cristiani, alternativa a quella basata sui precetti dell’individualismo liberale e pure al modello collettivista sovietico.
Laureatosi in Giurisprudenza a Pavia nel 1938, attivista della Gioventù universitaria fascista (GUF), l’anno successivo vince con una dissertazione sul razzismo il concorso di Dottrina del Fascismo ai Littoriali della cultura. La sua concezione della “razza italiana” si richiama alla Roma imperiale e alla tradizione della Chiesa cattolica.
Nel maggio 1940 diviene segretario dell’Ufficio studi e legislazione del Partito nazionale fascista, nonché delegato del PNF nel Consiglio superiore della demografia e della razza presso il ministero dell’Interno. Quell’estate frequenta a Berlino il corso di politica nazionalsocialista per stranieri. In ottobre, quando l’Italia combatte al fianco della Germania, è relatore al primo Convegno interuniversitario italo-tedesco di studi politici. Nel febbraio 1941 torna a Berlino per un nuovo corso di politica nazionalsocialista.
Alberto Caracciolo, suo primo biografo, crede che il fascismo di Olivelli non si possa spiegare come un tentativo di influenzare il regime in senso cattolico:
Bisogna anche dire che questo sforzo egli non [lo] compì dall’esterno, che il tentativo di modificare segue a una reale immedesimazione in quel mondo: in altre parole, mentre tenta di trasformare il fascismo, egli ne assorbe le idee, lo spirito, lo stile stesso. Sarebbe errato pensare il suo fascismo come una posizione puramente strumentale rispetto al suo cristianesimo.
L’esigenza etica di coniugare idee e comportamenti concreti lo spinge a presentarsi volontario di guerra, per il fronte russo, dove entra in azione nel luglio 1942, rimpatriando il 20 marzo 1943.
Torna dalla guerra profondamente disilluso e ora valuta il fascismo come un’infausta dittatura, i cui danni vede rispecchiati nelle città semidistrutte dai bombardamenti e nel dilagante deficit morale.
Inviato in licenza da aprile a luglio, ottiene dal ministro Bottai l’incarico di rettore del Collegio “Ghislieri” di Pavia.
Tornato al suo reparto, dislocato a Vipiteno, in Sud Tirolo, a metà settembre è catturato e internato nei pressi di Salisburgo. Evade il 20 ottobre 1943 e l’11 novembre giunge a Brescia, dove contatta alcuni intellettuali cattolici promotori del movimento delle Fiamme Verdi e dopo una decina di giorni si trasferisce a Milano presso l’ingegner Carlo Bianchi (titolare di un’azienda cartografica), accanto al quale esplica un rilevante lavoro organizzativo in Lombardia. Con Bianchi – figura chiave della Resistenza cattolica lombarda, ancorché trascurato dalla storiografia – nel febbraio 1944 promuove il giornale clandestino «il Ribelle», distribuito clandestinamente a inizio marzo e che sul numero d’esordio riporta il motto «Insorgere per risorgere». Sul secondo numero Olivelli spiega il programma dei ribelli («così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo»), chiarendo che l’8 settembre 1943 è nata l’autentica Patria, aperta all’umanità decisa a strappare le catene delle dittature:
L’8 settembre è uno spartiacque: di qui rampolla e dirompe la vita nuova della nazione che ci divampa nello spirito, s’illumina di verità, freme nell’azione. Per chi non ne sente il flusso suggestivo e possente e lo disperde nei fondigli dell’animo o nell’impotente pettegolezzo, per i complici, i titubanti, i frigidi, non c’è posto. […] Uno è il dato di partenza nella sua crudezza veritiera: niente più c’è da salvare. La parola d’ordine è ricostruire, scartando le ambigue esitazioni. […] Lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non ci sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti, anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore.
Al giornale è allegata la Preghiera del ribelle, nella quale traspare l’ispirazione cristiana che sorregge Bianchi e Olivelli:
Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, dà la forza della ribellione. […]
Tu che dicesti: «Io sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie!
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
Il 26 aprile 1944 l’arresto di un collaboratore della rete partigiana cattolica, il medico Giuseppe Jannello, da parte dell’Ufficio speciale di polizia, organizzato da Luca Osteria sotto protezione tedesca, si rivela gravido di conseguenze. Il prigioniero cede al ricatto di ritorsioni contro sua madre e – lusingato dalla prospettiva della liberazione – attira con una telefonata Bianchi e Olivelli a un appuntamento, nel quale l’indomani saranno entrambi catturati. Le prove raccolte dagli investigatori contro i dirigenti del «Ribelle» convince don Giuseppe Bicchierai, elemento di raccordo tra l’arcivescovado e il comando germanico, a raccomandare al cardinale Schuster la massima prudenza, cioè a evitare un forte intervento in favore degli arrestati, rinchiusi nel frattempo a San Vittore (tra di essi figurano i tipografi Luigi Monti e Franco Rovida, e l’ex militare Rolando Petrini che – come Bianchi e Olivelli – verranno uccisi dai nazisti).
Dopo pochi giorni Olivelli invia di nascosto a Claudio Sartori (nuovo direttore del «Ribelle») un messaggio a tratti ironico e allusivo delle torture subite, indicandogli come limitare i danni inflitti dalla polizia alla rete partigiana.
Il 9 giugno è trasferito nel campo di Fossoli; l’11 luglio, selezionato per la fucilazione con una settantina di compagni, si nasconde arrampicandosi sulle travi del capannone; grazie alla copertura di alcuni internati si sottrae alle ricerche, ma viene scoperto durante la smobilitazione del campo. Il 5 agosto è trasferito a Bolzano e un mese più tardi deportato al sottocampo di Hersbruck. Oltre a lavorare nello scavo e nella sistemazione delle fognature del Lager, svolge mansioni di interprete e scrivano del blocco degli italiani. Muore il 17 gennaio 1945, per le conseguenze delle percosse inflittegli da un kapò polacco, irritato da un gesto di solidarietà verso un prigioniero ebreo. Il cadavere viene cremato e le ceneri disperse.
Come ha rilevato uno studioso della gioventù italiana tra dittatura e democrazia, «non solo la maturazione di una nuova coscienza critica, ma, soprattutto, la tragica e altruistica fine del giovane intellettuale cattolico valevano indubbiamente a riscattare gli errori e le ingenuità degli anni precedenti». Secondo la tradizione cattolica, molti biografi hanno evitato di confrontarsi con il problema della continuità esistenziale, contrapponendo la prima e la seconda vita di Olivelli, nel segno della conversione e del martirologio. E, per meglio esaltarne la figura, hanno sminuito se non ignorato il ruolo dell’altro artefice del «Ribelle», Carlo Bianchi, di cui Olivelli fu intimo collaboratore. Decorato con medaglia d’oro al valor militare alla memoria, il 3 febbraio 2018 Teresio Olivelli è stato proclamato beato ed è attualmente in corso il processo di santificazione.
La dimensione solidarista: Maria e Delfina Borgato
Nelle giornate caotiche seguite all’armistizio, quando ancora non si è delineata un’organizzazione resistenziale e sembra non esservi alternativa al predominio tedesco, vi sono migliaia e migliaia di persone solidali che, ognuna nel proprio ambiente, spesso in modo volontaristico e non coordinato, soccorrono i soldati fuggiaschi, li riforniscono di abiti borghesi e li ospitano, esponendosi in tal modo a forti rischi. Nella stragrande maggioranza si tratta di donne, spesso a loro volta madri, mogli o sorelle di soldati disseminati su fronti lontani dalla patria. Sono interventi spontanei, immediati e prepolitici, prestati per un senso di umanità a chi è braccato e ricerca vie di fuga. L’ambiente è costituito solitamente dalle vallate montane e dalla dimensione urbana, dove le caserme si svuotano l’8 settembre in una fuga generalizzata o divengono una trappola per chi vi si ferma. Non di rado le catene solidaristiche sono prestate da gruppi familiari di tradizione contadina.
Forme consimili di solidarietà, con grande esposizione a rischi, si attuano a favore degli Alleati prigionieri di guerra, fuggiti a migliaia dai campi di internamento, nelle giornate caotiche del post-armistizio.
Tra i tanti nuclei parentali espostisi in iniziative solidaristiche vi è la famiglia Borgato, residente nella borgata agricola di Saonara (una ventina di chilometri a est di Padova), dove è affittuaria di alcuni campi.
L’esistenza di Maria Borgato, nata nel 1898, prima di quattro figli, è segnata da una malformazione alla gamba destra, che la rende zoppicante e le impedisce di realizzare il sogno della sua vita: divenire suora. La sua tensione religiosa la porta tra le figlie di Sant’Angela Merici, come suora laica. Per mantenersi, ricama corredi e tovaglie, aiutando come può i familiari nei lavori campestri.
Nella temperie del settembre 1943, trova un’intesa operativa con il fratello Giovanni e con sua figlia Delfina, sedicenne cresciuta nei valori evangelici. L’abitazione dei Borgato si trasforma in ospitale rifugio per ex prigionieri alleati e soldati italiani sbandati. Zia e nipote li accompagnano nottetempo a Padova, da padre Placido Cortese, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio», che alla Basilica del Santo produce documenti falsi e affida i fuggiaschi alla rete clandestina Fra-Ma per il trasferimento verso il confine elvetico, in contatto con i professori Ezio Franceschini dell’Università Cattolica di Milano e Concetto Marchesi dell’Università di Padova.
Dai Borgato, passano prevalentemente ex prigionieri inglesi, australiani e neozelandesi, che in numero di 2000 erano stati internati in provincia di Padova per essere impiegati in lavori agricoli: c’è chi chiede asilo per una notte e chi si ferma più a lungo per essere affidato alla rete Fra-Ma. Anche qualche ebreo usufruisce di analogo sostegno, con il fattivo aiuto delle studentesse universitarie Teresa e Liliana Martini, due sorelle antifasciste, allertate da Maria Borgato che dal posto telefonico pubblico le informa: «Sono pronti due o tre polli». Varie altre famiglie padovane forniscono punti d’appoggio, nonostante dall’ottobre 1943 il comando germanico alterni punizioni a lusinghe, prevedendo l’incendio delle case ospitali con i ricercati, e promettendo 1800 lire o il rilascio di un parente internato nel Reich a chi denunci il nascondiglio di un ex prigioniero.
Alla cognata (madre di dieci figli), che la sconsiglia di esporre la famiglia ai rischi della ritorsione tedesca, risponde: «Un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo, e non sai che sorte avranno: saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora per questi poveretti». Grazie alla famiglia Borgato, oltre 200 persone sfuggono alle ricerche dei nazifascisti.
La notte del 13 marzo 1944 le SS – informate da un altoatesino presentatosi ai Borgato come disertore – catturano Maria, il fratello Giovanni e la nipote Delfina, devastando abitazione, stalle e fienili. Le due donne vengono picchiate dinanzi ai familiari attoniti. La retata include anche le sorelle Martini.
Anche padre Cortese è catturato: trasferito nella sede della Gestapo di Trieste, sarà ucciso verso la fine del 1944, dopo prolungate sevizie.
I tre Borgato vengono condotti nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore; al momento della separazione, Maria dice al fratello: «Ho una sola preoccupazione: la sorte tua e di Delfina, perciò ti scongiuro di accusare me, di’ che sono stata io!». Rinchiusi in rigido isolamento per una quarantina di giorni, i tre prigionieri sono percossi per far loro confessare i complici e distruggere l’intera organizzazione clandestina.
Maria si assume ogni responsabilità per le azioni illegali e il fratello riacquista la libertà. Delfina rivede la zia a metà luglio 1944 in occasione del loro trasferimento nel Lager di Bolzano e la trova patita, smagrita. Maria invia ai parenti quattro lettere, improntate a spirito di sacrificio e profonda religiosità.
Il 5 agosto Delfina (di cui si riproduce la fotografia nel documento d’identità fornitole dai nazisti) è deportata a Mauthausen. La zia vorrebbe lei pure essere inserita nel numero dei partenti, ma la menomazione fisica la fa giudicare inadatta al lavoro coatto.
Tre giorni più tardi, scrive ai familiari: «iò fatto il posibile per seguirla mamie stato respinta ma con molta bontà dal Comando Tedesco per letà e per lemie condizione fisiche che voi gia micomprendete». La sua insistenza per condividere il destino della nipote le vale, dopo un paio di settimane, l’invio a Ravensbrück, nel blocco 17, dove però non ritrova Delfina, deportata a Mauthausen. Una compagna di deportazione ha ricordato che ogni mattina alle 4 Maria si alzava e, inginocchiata accanto al pagliericcio, recitava la Messa; durante il giorno rammendava le uniformi delle compagne, lieta di poter servire il prossimo; in una sola occasione si mostrò addolorata: «Un giorno fu detto alle prigioniere di spogliarsi perché dovevano passare una visita medica; Maria, con le altre, si spogliò; poi, una alla volta, in fila, attraversammo un corridoio per recarci alla visita. Maria veniva avanti lentamente, zoppicando, con le braccia incrociate sul petto, per coprirsi, mentre lunghe lacrime le rigavano il volto: fu l’unica volta che la vidi piangere». Maria porta sulla casacca il triangolo rosso dei politici, ed è munita di un cartellino rosa per indicarne l’inabilità al lavoro a causa dell’handicap fisico.
Destinata all’eliminazione, viene inviata nella camera a gas in data imprecisata. A casa, ci si aggrappa a un filo di speranza e si continua a tenere in ordine la sua stanza, nel miraggio della sua ricomparsa. Un giorno l’anziana madre confida alla nipote Delfina (rimpatriata il 29 giugno 1945): «È meglio che sia tornata tu che lei…». Alla fine, ci si deve arrendere all’evidenza e viene compilato l’atto di morte presunta.
Ludovico Ticchioni, patriota diciassettenne
Nella Resistenza confluisce con impeto una parte della gioventù, risoluta a battersi per la liberazione della patria da tedeschi e fascisti. Al fattore ideale si somma per molti la volontà di sottrarsi all’arruolamento nelle costituende forze armate fasciste. L’impatto con guerra civile e occupazione straniera è condizionato da fattori amicali e dall’inserimento in gruppi ove elementi più attempati ed esperti esercitano un richiamo su personalità ancora in formazione. Le prime difficoltà consistono nello stabilire un rapporto continuativo con nuclei mobili, i cui organici si espandono o restringono a seconda dei fattori ambientali e delle fasi della lotta. Laddove precarietà e labilità delle bande espongono a rischi imprevisti (violente repressioni, o soprassalti di conflittualità interpartigiana), sono i più giovani a pagare il prezzo maggiore, a causa dell’inesperienza e dell’idealismo.
La sorte del liceale ferrarese Ludovico Ticchioni (Mestre, 1927-Codigoro, 1945) è rivelatrice di slanci, impegno, delusioni e tragedie di chi, adolescente, si gettò nella temperie del 1943-1945 animato da amor patrio.
Figlio di un colonnello del regio esercito, Ludovico assorbe dal padre idealità liberal-democratiche, l’attaccamento ai Savoia e la convinzione che il maresciallo Badoglio sia l’uomo giusto per risollevare il paese dal baratro in cui lo aveva spinto Mussolini. Gli bruciano le modalità dell’armistizio, aggravate dalla contestuale fuga da Roma del re e dei ministri militari: «Questa guerra ha dato una dolorosa smentita a quella che era sempre stata la mia illusione, la mia fierezza di essere Italiano. Ma il massimo di questa delusione si è manifestata per me dopo l’8 settembre, durante il periodo della repubblica», annota nel suo diario, che sulla prima pagina riporta la frase di Metastasio «La patria è un nume a cui sacrificar tutto è concesso».
Al giovane studente – che vive a Ferrara con madre e sorelle – pesa l’inazione. Vorrebbe attraversare le linee e combattere nell’esercito monarchico insieme al padre, comandante del Raggruppamento speciale “Granatieri di Sardegna”, formazione scontratasi con i tedeschi nei giorni successivi all’armistizio, e successivamente inquadrata nel Gruppo di combattimento “Friuli”, a fianco degli Alleati nella campagna d’Italia. Compie per suo conto arrischiate iniziative propagandistiche come scritte murali e compilazione di volantini. Iniziative minime, ma che lo segnalano ai fascisti, i quali a metà dicembre 1943 lo includono tra i predestinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisione del segretario federale Ghisellini; a salvarlo è il vicequestore Poli, amico di famiglia, che confida alla signora Ticchioni: «Io ho fatto tutto il possibile; ora dica a suo figlio di stare attento».
Al termine dell’anno scolastico 1943-1944 Ludovico rompe gli indugi: «Finalmente il mio sogno di poter fare qualcosa per la cacciata del tedesco dall’Italia, si è avverato! […] Chi comanda qui è un sergente maggiore, un ragazzo sulla trentina, molto in gamba e pieno di entusiasmo giovanile. Lui è del Comitato Nazionale di Liberazione e riceve ordini direttamente da un capitano che a sua volta è comandato dalla Romagna» (annotazione diaristica del 30 agosto). Vede la militanza partigiana come preludio alla carriera militare che vuol intraprendere nel dopoguerra, anche se mette in conto la possibilità di una fine tragica: «Per quanto son giovane non temo la morte: è l’incoscienza della gioventù che mi fa dire questo. Se devo morire, pazienza! Fatto sta che mi dispiacerebbe finire tutto adesso a soli 17 anni di vita!».
Appartiene al “Gruppo del Gatto”, nucleo garibaldino aggregatosi nella zona di Serravalle attorno all’operaio ventitreenne Olao Pivari (nome di battaglia “Gatto”), già sergente di un reparto costiero, cui i fascisti avevano bruciato l’abitazione per punirne la diserzione. I suoi uomini disseminano chiodi a tre punte prima del passaggio di colonne nemiche e disarmano qualche milite della RSI poco propenso al combattimento. Ticchioni sceglie come nome di batta
Il fascismo dalle mani sporche- Dittatura, corruzione, affarismo
a cura di Paolo Giovannini – Marco Palla
Editori Laterza- Bari
DESCRIZIONE
Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una ‘dittatura degli onesti’. Un regime, che pretendeva di forgiare un ‘uomo nuovo’ e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell’industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma ‘mani sporche’ sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei ‘pesci piccoli’ a caccia di buone occasioni nelle colonie dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia. Un iceberg,quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda.
Introduzione di Marco Palla e Paolo Giovannini
La parabola storica del fascismo dalle origini alla seconda guerra mondiale, dal movimento al partito e al regime, mostrò svariati segnali coevi dell’emergere, discontinuo e dissimile nei tempi e nella morfologia, e quasi sempre occultato dalla propaganda, di una sorta di ‘questione morale’ relativa ai molteplici episodi e casi di corruzione e di affarismo, di interessi privati in atti d’ufficio, o – come diremmo oggi – di conflitto di interessi: in una parola, di un peculiare rapporto tra fascismo/fascisti in quanto istituzione al potere e uso privato (talora manomissione e appropriazione indebita) della cosa pubblica.
Le lotte intestine fra ras locali e nascenti gerarchi ‘in doppiopetto’ nella fase di iniziale stabilizzazione al potere, dopo la marcia su Roma fino al 1925-26, videro l’avvicendamento al comando dei potentati in periferia o anche in grandi città segnato non di rado da denunce del malaffare e dei pragmatici risvolti per così dire pecuniari e privatistici di defenestrazioni e cadute in disgrazia. La liquidazione del ‘populista’ Padovani a Napoli, lo scandalo soffocato sul nascere sulle trame affaristiche di Giampaoli a Milano, le oscure vicende legate agli intrighi attorno al primo podestà di Milano, Belloni, in cui rischiò di essere invischiato il fratello di Mussolini, Arnaldo, la rivincita degli ex liberali che a Firenze ripresero le redini del potere sul parvenu Tamburini, che aveva lucrato sul gioco d’azzardo e tenuto sotto controllo buona parte del racket della prostituzione e delle case di tolleranza, potrebbero essere menzionati come le punte di un ben più consistente iceberg.
All’intensa e maniacale sommersione di quell’iceberg il capo del governo, che stava nel frattempo edificando una dittatura con manifeste tendenze verso uno Stato totalitario, dedicò un’attenzione costante, introducendo la censura sulla stampa che veniva integralmente fascistizzata e irreggimentata dall’alto e dal centro, potenziando il cardine dell’incipiente apparato propagandistico dello Stato-partito con l’onnipresente e tentacolare Ufficio stampa alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, costruendo insomma gradualmente un complesso e pervasivo ‘discorso pubblico’ in cui il fascismo era presentato come l’unico decisivo elemento propulsore della moralizzazione italiana. Nella politica di ‘andare al popolo’ sancita dalla nomina di Starace a segretario nazionale del Pnf alla fine del 1931, con la creazione nel 1934-35 prima di un sottosegretariato e poi di un ministero della Stampa e propaganda dotato di un ingente budget di spesa pubblica, Mussolini in prima persona e un po’ tutti gli organismi di massa del regime e non poche delle sue istituzioni piccole e grandi seguirono la disposizione superiore e inderogabile di descrivere l’Italia come un paese dove la cronaca nera, i crimini e i suicidi, per non parlare poi degli illeciti amministrativi, contabili, finanziari, erano del tutto scomparsi e la corruzione in generale, e quella legata alla politica in particolare, era stata sradicata. La macchina per la ricerca del consenso popolare funzionò a lungo, con notevole efficacia di risultati, negli anni Trenta, e, quando non riuscì a suscitare entusiasmo o adesioni fanatiche, per lo meno centrò il target di una specie di manzoniano e antichissimo ‘troncare e sopire’, diffondendo nuove versioni di arcaiche e meno arcaiche forme di conformismo.
I segnali di guerra, accolti dallo spirito pubblico con una certa apprensione, una volta tradottisi in guerra vera e propria, per quanto lungamente annunciata e proclamata, rappresentarono una svolta epocale, mettendo per primi i combattenti italiani alla prova dei fatti e di realtà belliche disastrose per le forze armate nazionali, con il manifestarsi tra soldati e ufficiali delle campagne balcaniche, africane, russe, di una distonia e poi un distacco dai falsi miti e dalle false illusioni di una guerra facile e vittoriosa: per primo fu Roberto Battaglia, nella sua pionieristica Storia della Resistenza italiana, a concettualizzare il fenomeno dell’‘antifascismo di guerra’, che tendeva in modo abbastanza naturale a trasmettersi dai soldati combattenti alle loro famiglie in Italia. Il fronte interno cominciò a sviluppare, come testimoniato da innumerevoli segnalazioni delle varie polizie fasciste, una specifica casistica di prese di distanza dal regime che a lungo risparmiarono Mussolini nel periodo 1940-43, investendo tuttavia tutto il resto della classe dirigente dello Stato-partito, in particolare sommergendo di odio e ripulsa la casta privilegiata dei gerarchi che conducevano una vita dispendiosa e lussuosa al di sopra e in aperto contrasto e quasi beffa e spregio dei sacrifici e delle ristrettezze della vita quotidiana della maggior parte della popolazione, alle prese con il tesseramento e il razionamento dei generi alimentari primari. Gli affari di una gerarchia corrotta, tuttavia, erano sulla bocca di tutti ma ancora non sfociavano in insofferenza manifesta o, sul piano politico, in una sorta di indignazione collettiva capace di insorgere contro il regime fascista e di ribellarsi apertamente al suo duce.
Negli anni della guerra combattuta sul territorio italiano, una svolta si verificò con la liberazione di Roma nel giugno 1944, con la fine del governo Badoglio e la formazione del primo governo a composizione ciellenistica e l’avvio del processo di epurazione. Emerse allora, all’interno del più ampio ambito delle sanzioni contro il fascismo, una vera e propria specifica definizione di ‘profittatori del regime’, che derivava dalla unanime convinzione politica delle varie forze antifasciste che cooperavano nel Comitato di liberazione nazionale – bipartito in quello romano/centro-meridionale e in quello del Nord o Comitato di liberazione nazionale Alta Italia – e che intendevano aprire una pagina nuova nell’ambito istituzionale, legislativo, amministrativo, iniziando rapidamente a defascistizzare lo Stato e a costruire su basi nuove un’autentica democrazia. Tuttavia, i profittatori fascisti potevano costituire un più o meno vasto insieme di persone, individui e gruppi che era molto più facile identificare tramite un solidale sforzo politico che non attraverso una codificazione del reato, di imputazione giuridica assai generica se non discrezionale.
La volontà di fare i conti con il fascismo e con i fascisti che dal regime avevano lucrato carriere e successi anche patrimoniali corrispondeva bene all’indignazione di buona parte dell’opinione pubblica, mentre secondo la celebre battuta di Nenni soffiava forte il «vento del nord» a cambiare l’aria stantia della vecchia Italia monarchica e fascista. Quel vento però non tardò ad affievolirsi e l’intero meccanismo istituzionale, politico e giuridico, dell’epurazione si avviò a una graduale ma sempre più veloce archiviazione. Le corti di assise straordinarie svolsero parimenti un intenso lavoro di istruzione e messa a processo degli autori dei vari reati di collaborazionismo, inclusi quelli sommariamente rubricabili come ‘economici’, ma cessarono il loro operato nell’inerzia della nuova fase 1946-47. I beni razziati agli ebrei italiani nel 1943-45 dalla Rsi, e anche quelli in vario modo ceduti da cittadini e famiglie ebraiche sotto la costrizione o il ricatto della congiuntura delle leggi antisemite del 1938, non furono restituiti che in minima parte.
Nella complessa transizione italiana del 1945-48, con la liberazione seguita però abbastanza presto dai riflessi nazionali della Guerra Fredda, iniziò in parte a disperdersi la memoria dell’indignazione e della ripulsa del fascismo, con la sua classe politica corrotta e il suo duce sempre disponibile a coprire scandali e ruberie. Si dimostrò sotterraneamente persistente uno dei miti e canoni propagandisti del regime totalitario, la presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e in parte della sua dittatura. Anzi, in seguito, con il trascorrere del tempo, a ogni emergere di scandali e denunce del malaffare nelle cosiddette Prima e Seconda Repubblica, il ‘discorso’ neofascista, tacitamente accolto dalla ‘maggioranza silenziosa’ dell’opinione media e ‘moderata’, finì per contrapporre una democrazia screditata a un regime immaginario ma, per così dire, intonso dalla corruttela affaristica. Da Tangentopoli nel 1992 a oggi, per quello che ormai è un lungo quarto di secolo, è parso più credibile, agli occhi di parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal ‘cono d’ombra’ delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi.
La storiografia sul fascismo, in linea generale, ha considerato affarismo e corruzione come elementi pressoché ‘fisiologici’, ma anche come aspetti tutto sommato marginali, comunque di non primaria importanza per la comprensione del fenomeno fascista, meritevoli al massimo di qualche rapido accenno. Il tema dell’affarismo e della corruzione, pur spesso presente o evocato, non è stato sottolineato con vigore e continuità. Uno dei primi libri, pamphlet e testimonianza più che ricerca o analisi sistematica, a sollevare apertamente la questione fu quello dell’antifascista fiorentino Ernesto Rossi, che prendeva di mira l’avidità della classe dirigente economica, connivente e complice del regime, ma tralasciava di approfondire il nesso sistematico dello ‘scambio’ reciproco di favori, convenienze e sostegni tra politici fascisti e ambienti finanziari, bancari e del grande capitalismo industriale, che del profitto si occupavano per così dire in modo professionale e strutturale. Le prime storie generali del periodo fascista, da Salvatorelli (1953, poi in edizione ampliata con la collaborazione di G. Mira, 1964) a Carocci (1959) non posero il problema. Gli storici professionali ‘pionieri’ (Aquarone, De Felice, Santarelli) e una prima serie di indagini archivistiche successive tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta si concentrarono sulla ricostruzione pur necessaria dei lineamenti istituzionali della fisiologia, e a volte della patologia, del regime facendo emergere come momento centrale della discussione storiografica soprattutto la questione del consenso.
Restarono ancora a lungo sullo sfondo o ai margini i nessi tra regime e corruzione, con qualche meritoria eccezione. Per esempio lo storico inglese Adrian Lyttelton mise in luce, grazie al ricorso frequente alla prospettiva di indagine che partiva dalle periferie e non dal centro, un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo già nel processo di conquista e stabilizzazione al potere del fascismo fino al 1929. In varie sintesi generali di storia del regime fascista il tema del carrierismo e del rampantismo degli uomini nuovi fascisti, della rapacità del nuovo establishment dei gerarchi, della corruzione e dell’affarismo endemici, stentava a figurare tra i principali e più rilevanti, sia in sede puramente informativa e descrittiva sia in ambito interpretativo. Seppure affarismo e corruzione avessero certamente avuto un peso e un costo notevoli nel funzionamento dello Stato fascista e continuino a suscitare l’interesse di studiosi dell’età liberale e della prima guerra mondiale, in anni abbastanza recenti neppure due ampi e assai articolati dizionari hanno ritenuto l’argomento meritevole di specifiche voci.
Significativamente diverso è il caso di quelle opere nelle quali la dimensione periferica e anche i sia pur sommari ritratti biografici di gerarchi maggiori e minori sono tenuti nel massimo conto, come nel libro di Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, e con particolare evidenza negli studi di Paul Corner, dove emerge la valenza euristica di un approccio attento a tali questioni. L’esame complessivo dei cosiddetti duri e puri dello squadrismo ha messo in luce numerosissimi risvolti prosaici e affaristici delle loro carriere. Mentre corruzione e malversazioni hanno trovato un’adeguata considerazione in biografie di importanti gerarchi, studi di alcuni anni addietro hanno dimostrato che affarismo e corruzione a livello centrale non rappresentavano una degenerazione del tardo fascismo, di un regime ormai ripiegato su sé stesso, ma costituivano già una realtà dei primi anni, come attestato dallo scandalo dei residuati bellici, che aveva contribuito non poco a intorbidare il clima politico nei primi tempi del governo Mussolini, e dall’affare Sinclair Oil, che era arrivato a toccare lo stesso presidente del Consiglio.
Interventi storiografici (soprattutto di storici stranieri) hanno poi messo in evidenza il forte contrasto che si venne a stabilire fra un regime che pretendeva di correggere i mali dello Stato liberale, di forgiare un «uomo nuovo», e il proliferare durante il Ventennio dell’affarismo, della corruzione, del clientelismo e del nepotismo, in una forma addirittura assai più estesa rispetto al passato.
Su tali questioni si sono soffermate anche opere recenti di taglio giornalistico, che non di rado sacrificano il rigore storiografico a favore di un sensazionalismo o di uno ‘scoopismo’ teso soprattutto ad accattivarsi l’attenzione di un vasto pubblico. Così il libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, dal titolo anacronistico ma di forte richiamo Tangentopoli nera, dedicato a «malaffare, corruzione e ricatti all’ombra del fascismo», promette di restituire «per la prima volta in modo organico» – come recita la quarta di copertina – «la verità sulla corruzione dei gerarchi, la faida interna al Partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell’Italia del Ventennio», attraverso l’uso delle «carte segrete di Mussolini». Si tratta di un libro piuttosto discontinuo, che, se non è del tutto inservibile, lascia comunque parecchio a desiderare dal punto di vista scientifico, mentre la documentazione utilizzata, proveniente dagli archivi nazionali britannici, risulta spesso essere nient’altro che la riproduzione di quella conservata a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato. Le sue acquisizioni, in definitiva, non aggiungono granché rispetto a quanto già noto, ma hanno almeno il merito di sollevare il problema sia pure con metodologia criticabile sul piano storiografico professionale.
Eppure le fonti per studiare seriamente questi argomenti non mancano di certo, come dimostrano anche i contributi qui proposti. Presso l’Archivio centrale dello Stato sono disponibili vari fondi che permettono approfondimenti in questo senso: dal Carteggio riservato della Segreteria particolare del duce, dove si trovano – pur con qualche significativa assenza rispetto all’inventario – vari fascicoli su gerarchi e altre personalità di spicco del regime o su spinose questioni, alle carte della Polizia politica (con i fascicoli per materia e personali), agli archivi fascisti, alle buste dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, ecc. Recente è l’acquisizione di un importante fondo sugli ‘arricchimenti illeciti’ (in corso di riordino e inventariazione) che risale alla seconda metà del 1943 ed è il risultato di una duplice committenza: dapprima esso fu commissionato dal governo Badoglio subito dopo il 25 luglio, con l’evidente intento di delegittimare il regime appena crollato, poi passò in gestione a Mussolini, tornato al suo posto con la Repubblica sociale italiana, secondo un orientamento che mirava a distruggere la reputazione dei gerarchi che si erano rapidamente messi a disposizione di Badoglio e del re, e soprattutto quella di coloro che gli avevano votato contro il 25 luglio.
A livello provinciale in particolare la documentazione prefettizia, come anche quella prodotta dalle questure e dagli enti locali, contribuisce a far luce su episodi e situazioni di corruzione e affarismo che in vari casi vanno al di là del cosiddetto ‘beghismo’, degli scontri fra fazioni contrapposte, dei contrasti fra una piccola e media borghesia emergente in camicia nera e il vecchio notabilato, permettendo di focalizzare da un interessante punto di vista specifiche dinamiche del potere locale, il costituirsi di rinnovate reti di interessi e di rappresentanza, il rapporto del centro con le molteplici e diverse periferie e viceversa. Dagli studi finora condotti emerge un’endemica conflittualità interna ai fascismi provinciali, conseguente alla perniciosa mescolanza fra le deteriori pressioni personalistiche dei capi e le istanze politico-affaristiche connesse con il controllo del territorio, tant’è che essi – nonostante i ripetuti tentativi in tal senso messi in atto dai vertici governativi e del partito – non appaiono praticamente mai pacificati.
Gli studi sul fascismo locale, facilitando lo scavo archivistico, possono contribuire efficacemente alla ricostruzione dei contorni del fenomeno. Ad esempio ci si chiede quale quadro generale emergerebbe dall’insieme dei diversi casi trattati da Leandro Arpinati nel periodo in cui, come sottosegretario del ministero dell’Interno, intraprende un’opera di moralizzazione dei fascismi provinciali e dispone accertamenti sulle fortune economiche di vari gerarchi. Certamente si trattò di casi non legati in un’unica trama, ma che comunque compongono i tasselli di una realtà che appare assai diffusa. O, negli anni 1930-31 della segreteria del Pnf retta da Giovanni Giuriati, quali possibili risultati potrebbero fornire le fonti archivistiche in merito alla verifica analitica delle espulsioni in massa di circa 200.000 iscritti al partito per indegnità o per veri e propri reati connessi al carrierismo e in generale alla manomissione della cosa pubblica.
Con i saggi presentati in questo libro i curatori vogliono ribadire, nello specifico di questi contributi storiografici professionali, l’acquisizione ormai consolidata di più stagioni di studi scientifici, che forse ha il limite di non essere riuscita a trovare gli opportuni canali di diffusione nella più generale cultura di massa e negli stessi vari livelli della divulgazione di memoria e dell’insegnamento scolastico di ogni ordine e grado. Non si affronta, con questi contributi, una più generale questione di come si siano svolti nel periodo fascista gli affari e le transazioni economiche, finanziarie, bancarie; di come si siano approcciati al regime fascista i potentati economici, gli imprenditori e i manager, insomma i professionisti degli investimenti, dell’allocazione di risorse e della gestione produttiva, privata e dei grandi apparati pubblici di interventismo economico. Restano deliberatamente al di fuori della nostra cernita gli imprenditori tout court come Agnelli, Benni, Donegani e tanti altri che Ernesto Rossi definì i ‘padroni del vapore’, coinvolti strutturalmente nel regime fascista.
Tuttavia abbiamo scelto di includere nel libro un ritratto che evidenzia la natura politica e la statura politica di un grosso calibro come il magnate dell’industria elettrica privata Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, il più eminente tra le figure di uomini d’affari designati a far parte degli esecutivi fascisti in tempi diversi, quali Guido Jung o Vittorio Cini: Volpi fu uno dei pochissimi, come anche Alberto Pirelli, a essere regolarmente ricevuto in udienze periodiche dal duce, mantenendo per tutto il Ventennio fino alla caduta del luglio 1943 una stretta prossimità anche personale con il dittatore. Abbiamo anche deciso di includere nella casistica qui presentata figure di collegamento e sutura tra industria privata e dicasteri militari come il capo di Stato maggiore che sostituì, nel 1940, il maresciallo Badoglio, cioè Ugo Cavallero, il quale aveva in precedenza affiancato alla carriera militare la presidenza del gruppo industriale Ansaldo.
In buona sostanza, con la scelta di gerarchi come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza, il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi, alcuni casi di gerarchie provinciali come quelle di Verona o Palermo, ovvero esaminando anche fortune e insuccessi dei ‘pesci piccoli’ alla caccia di buone occasioni d’affari in colonia soprattutto nel neonato impero italiano dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia, ci siamo concentrati sul più specifico nesso politica-affari e sulla facilitazione che la prima componente di questa endiadi ha dato al successo della seconda componente. Se accanto alla monarchia e all’élite militare il mondo dell’establishment economico e finanziario italiano accompagnò benevolmente e sorresse costantemente le origini del fascismo, legittimandone la presa del potere, fu poi la politica come professione a garantire una scorciatoia al successo in affari dell’ambiziosissimo, astuto e spregiudicato Farinacci, o a consentire a un modesto armatore livornese come Costanzo Ciano, e ai suoi famigliari, di diventare non solo tra i più ricchi, ma tra i pochissimi super-nababbi del regime, con il capolavoro del più importante legame matrimoniale della storia del regime: quello tra i rispettivi primogeniti – Edda e Galeazzo – di quella nuova famiglia ‘allargata’ che furono dall’inizio degli anni Trenta i Mussolini-Ciano.
Nelle ricerche dello storico e politologo francese Musiedlak è stata debitamente documentata con fonti archivistiche primarie la vera e propria bulimia patrimonialistica di vari gerarchi: Farinacci, che comprò immobili e proprietà al ritmo di circa uno all’anno tra il 1936 e il 1941; il delfino di Galeazzo Ciano, Alessandro Pavolini, acquirente di due fattorie in provincia di Firenze per 4 milioni di lire (e proprietario di un’abitazione romana talmente sontuosa da avere una sala cinematografica inclusa nell’immobile); il gerarca protettore dell’intellettualità, Giuseppe Bottai, che acquistò a Casal Palocco «un villino di 42 stanze» per un valore di 4 milioni. Gli studiosi non hanno tuttavia ripreso uno dei dati più clamorosi documentati da Musiedlak, e cioè le due occasioni in cui furono stanziate ingenti somme di denaro pubblico da parte di uno dei due rami del Parlamento in favore del duce, riscontrabili dall’archivio del Senato del Regno d’Italia e precisamente sui libri mastri contabili; si tratta di somme registrate come spese inserite a bilancio: una prima, del 31 agosto 1936, come «offerta per la celebrazione della fondazione dell’impero», su cui non ci sono dubbi essere costituita da denaro, ma di cui il documento non menziona l’ammontare né se sia stata effettivamente erogata e incassata dal beneficiario, cioè dal capo del governo; una seconda l’11 giugno 1938, per l’esercizio 1937-38, indirizzata al cav. Benito Mussolini, con mandato esecutivo per 1 milione di lire pur senza indicazione di causale – una somma ingente per l’epoca, che corrispondeva all’insieme annuo (932.000 lire) delle indennità versate a tutti i senatori –; fondi pubblici sottratti alle casse del Parlamento, ovvero allo Stato, erogati per la prima volta senza la benché minima giustificazione tanto più obbligatoria quanto più enorme e non certo simbolica era l’entità della elargizione. Non conosciamo altri particolari, ma gli episodi appena menzionati sono più che sufficienti a proiettare uno spesso ‘cono d’ombra’ sul duce in affari in prima persona.
Non è inutile rammentare che ben prima del successo fascista e dell’esercizio del suo potere di dittatore, Mussolini si era dimostrato un abile, spregiudicato e incredibilmente ‘veloce’ sollecitatore e collettore di finanziamenti: dagli esordi poche settimane dopo l’espulsione dal Psi nel 1914, quando mise in piedi ‘dal nulla’ il quotidiano milanese «Il Popolo d’Italia», con una redazione, tipografia, società editrice che avrebbero conosciuto grande espansione, per ovvie ragioni, durante il Ventennio; e proseguendo, sempre affiancato dal più fedele braccio destro nella persona del fratello Arnaldo, con la fondazione dei fasci di combattimento nel 1919, in particolare con la gestione personale anche finanziaria dei proventi in favore del fascio milanese, e con ulteriori incrementi nel periodo 1921-25 e un flusso regolare di enormi introiti del Pnf per tutto il corso successivo del regime.
Insomma, i fattori che consentono di qualificare sul piano storico di lungo periodo il regime fascista come un momento che fa compiere, per così dire, un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo sono molteplici, ed emergono a nostro parere con chiarezza da tutti i contributi qui raccolti, ed esemplarmente dal saggio di apertura di Paul Corner, che li inquadra in un contesto sia analitico sia interpretativo assai innovativo. La soggezione degli altri poteri all’esecutivo e in particolare la subalternità della magistratura al governo e la vera e propria obliterazione del potere di contrappeso e di controllo parlamentare degli eventuali o reali abusi del potere ministeriale procedettero di conserva e sempre in parallelo con la propaganda che occultava scandali o semplici infortuni di percorso, nella dilatazione di inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa che rispetto al fascismo facevano impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale. Tra i tanti elementi, con la dittatura e l’onnipresenza del partito unico del regime si apriva la strada del successo, non incidentalmente ma strutturalmente, ai più audaci e spregiudicati gerarchi, che godevano quasi sempre di una sorta di impunità preventiva, e rappresentarono rispetto al personale politico prefascista, non raramente improvvisato e talora sprovveduto, una nuova inedita fase di professionalizzazione della politica, ma non certo nel pluralismo e nella democrazia dei valori e dei comportamenti: professionisti della politica, come segretari federali e gerarchi di ogni ordine e grado, che vivevano degli stipendi, prebende e gratifiche varie che solo la politica garantiva loro e che molto spesso, anzi nella maggior parte dei casi, riuscirono a conservare il maltolto dal punto di vista patrimoniale anche dopo la fine del regime e della dittatura.
Anche la letteratura coeva o immediatamente successiva alla fine dei regimi fascisti aveva registrato con sarcasmo l’ampiezza dei fenomeni di corruttela delle dittature totalitarie, tutte tese a celarli e a presentarsi come immacolate e incorruttibili. Così recita il magnifico ‘elogio’ della corruzione che l’esule tedesco Bertolt Brecht mise in bocca a due esuli incontratisi per caso nel ristorante della stazione di Helsinki durante il periodo dei grandi successi militari del Nuovo ordine europeo nazista (il testo, redatto nel 1940-41 e rimasto incompiuto e inedito, fu pubblicato postumo nel 1961):
lo spirito umanitario, di questi tempi, non si potrebbe mantenere senza la corruzione, che è pure una forma di disordine. Lei trova umanità se trova un impiegato che intasca qualcosa. Con un po’ di corruzione talvolta può persino ottenere giustizia. Io, per raggiungere il mio turno nella fila all’Ufficio passaporti in Austria, ho dato una mancia. A un impiegato gli ho visto in faccia ch’era di animo buono e avrebbe intascato. I regimi fascisti ce l’hanno con la corruzione proprio perché sono disumani.
E di non minore ferocia fu Carlo Emilio Gadda, che nel 1944-46 iniziò a redigere la tormentata stesura del suo Eros e Priapo:
Ontogeneticamente, cioè quanto all’«evoluzione» individuale (nel lor caso involuzione), erano giovanissimi, giovani e giovinastri, talvolta addirittura puberi […]. Socialmente provenivano, dico gli arrivati primi, i conti palatini, la guardia scelta, la coorte pretoria e quelli che si autodefinivano «élite», e con loro i paradigmi, i campioni, i manganellatori tipo, senza professione specifica e dunque senza disciplina o morale o civile o tecnica, provenivano dalle squallide lande dell’insipienza e del tedio, dalla sciagura del non aver che fare, dalle brame onnicupienti d’una «infantile» povertà. […] Alati d’una subita impellenza ascensionale corto-circuitante i normali gradini dell’ascendere, e d’una lubido rapace cortocircuitante le normali fatiche del lavoro e del profitto e del guadagno legittimo, ecco ecco la lor duplicata levità li ha tolti fuora dalle parificate lane e parificate groppe del gregge: li ha sublimati allo stipendiucolo del bidello, al premio del sicario «una tantum», alla media agiatezza della spia, all’agiatezza del provocatore o del ruffiano, al sedente fasto della sanguisuga, ai sommi onori del pacco di merda: corporativo e non.
Il tema dell’affarismo e della corruzione durante il fascismo ha avuto anche varie – sia pure incidentali – rappresentazioni cinematografiche, rivestendo un ruolo centrale in particolare nel film del 1962 Anni ruggenti, diretto da Luigi Zampa. Il protagonista, l’assicuratore Omero Battifiori (magistralmente interpretato da Nino Manfredi), arrivato da Roma, viene scambiato dai maggiorenti di una cittadina meridionale per un funzionario del Pnf inviato in incognito dalla direzione centrale per un’ispezione politico-amministrativa nel comune, dando luogo a una commedia degli equivoci che coinvolge soprattutto il podestà don Salvatore (Gino Cervi) e il segretario politico del fascio don Carmine (Gastone Moschin), «i forchettoni», impegnati, con altri, a evitare che l’ispettore scopra le loro molteplici malefatte e ruberie ai danni della povera gente, peraltro di pubblico dominio. Come dice a Battifiori in modo allusivo il personaggio interpretato da Salvo Randone, il dottor De Vincenzi, l’agente delle assicurazioni avrebbe fatto molti più affari se invece che contro la grandine avesse assicurato «i cittadini contro i furti», aggiungendo subito dopo che «i ladri di qui sono molto più furbi», tant’è «che nessuno di loro è mai stato arrestato».
Il presente volume – frutto di un progetto di ricerca intrapreso da alcuni anni, i cui primi parziali risultati sono stati pubblicati in un recente fascicolo monografico di «Storia e problemi contemporanei» – non riunisce atti di un convegno né di uno o più seminari propedeutici. Gli studiosi di generazioni diverse che hanno collaborato si sono trovati a convergere sulle linee guida loro proposte dai curatori e hanno raggiunto, ciascuno nel proprio ambito e sviluppando le proprie specifiche ricerche in autonomia, una complessiva sintonia interpretativa che di per sé è forse esemplificativa del rilievo del tema. A tutti gli autori e all’editore va il nostro non solo formale ringraziamento.
L’auspicio è che questo libro possa stimolare ulteriori ricerche sul piano scientifico, soprattutto sul piano locale e con la moltiplicazione di biografie anche ‘minori’, e che possa suscitare interesse e curiosità anche oltre la cerchia degli specialisti e della storiografia professionale. La circolazione delle tematiche storiche del ‘fascismo dalle mani sporche’ presso un pubblico di lettori più ampio, meno incline a seguire le sirene del sensazionalismo e più attento ai molteplici risvolti culturali e alle implicazioni per così dire ‘civiche’ della lettura e rilettura del nostro passato nazionale, sarebbe la gratificazione migliore per l’impegno di curatori e autori.
Corruzione di sistema? I ‘fascisti reali’ tra pubblico e privato di Paul Corner
1. Dittatura e corruzione
È un fatto generalmente riconosciuto che le dittature sono spesso – anzi, quasi sempre – corrotte. Il che è un paradosso, dato che quasi sempre le dittature nascono con il fermo proposito di eliminare la corruzione. L’autorappresentazione degli uomini ‘nuovi’ che cercano di sostituirsi ai ‘vecchi’ è quella di un vento purificatore che spazza via un mondo politico degenerato e corrotto. Se, molto spesso, il dittatore afferma la sua legittimità al potere attraverso discorsi sprezzanti sulle istituzioni parlamentari e rappresentative, ciò avviene perché quelle istituzioni sono percepite come inefficienti, fonte di divisione, e, soprattutto, corrotte. Gli esempi di questo tipo di giustificazione dell’assalto al potere non mancano, e non è necessario allontanarsi dall’Italia per trovarne uno fra i più calzanti. Nei primi anni di vita il fascismo denunciò la decadenza del vecchio regime liberale e in particolare l’inefficienza del Parlamento, considerato semplicemente il luogo di accordi e compromessi all’insegna della corruzione, e promise la ‘moralizzazione’ della vita pubblica attraverso l’eliminazione della vecchia classe politica. Che questa moralizzazione fosse realizzata con l’olio di ricino e il manganello poco importava agli squadristi; anzi, sia la purga che la bastonatura erano viste come azioni ‘purificatrici’ di un mondo che aveva venduto i suoi valori. Nel nuovo mondo fascista non ci sarebbe stato più spazio per la corruzione e per i corrotti; gli interessi nazionali avrebbero messo al bando tutti gli intrallazzi privati e personali.
La realtà, come sappiamo, era molto diversa. Nonostante la costante reiterazione del tema della moralizzazione della vita pubblica, il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato, e da un clientelismo e nepotismo senza precedenti. Il potere pubblico – ad esempio, il potere del segretario di una federazione provinciale – veniva spesso usato per scopi privati; la cura e la coltivazione di interessi privati attraverso un ruolo pubblico – l’affarismo – erano pratiche comuni. In questo il fascismo era simile ad altri regimi dittatoriali. L’esempio più evidente è rappresentato dal regime di Hitler, che denunciava la corruzione e la decadenza della Repubblica di Weimar ma non esitava a ‘comprare’ l’appoggio di generali e industriali attraverso l’elargizione di sontuose ville, terreni, grandi tenute (tutti sequestrati ai nemici del nazismo), né muoveva un dito contro il vertiginoso arricchimento di alcuni dei suoi gerarchi. Sotto Stalin l’immensa burocrazia sovietica era notoriamente sensibile alla corruzione, molto spesso l’unico modo per farla funzionare. E nella Romania comunista l’accumulo di ricchezze da parte di Ceauescu e sua moglie era evidente a tutti quelli che li circondavano – la bilancia da cucina in oro massiccio era forse una spia di un certo tipo di comportamento –, ma a nessuno dei funzionari passava per la mente di denunciare questa rapina di Stato in quanto erano essi stessi il prodotto e i beneficiari del medesimo sistema corrotto. E si potrebbe andare avanti, parlando della Cina del dopo-Mao, dell’Africa e dell’America Latina… Dittature e corruzione sembrano andare sempre assieme.
Che la corruzione non sia limitata ai regimi dittatoriali è evidente; sappiamo bene che anche in democrazia la tangente, la bustarella e il finto appalto sono prassi comune. Ma non c’è in democrazia quel rapporto stretto fra il regime dittatoriale e la corruzione che sembra esistere in quasi tutte le dittature. È un rapporto che fa pensare a qualcosa di funzionale, quasi di strutturale, come se facesse parte del regime stesso e non rappresentasse un cancro esogeno o marginale che il regime non è in grado di controllare. Viene da chiedersi pertanto quale fosse il ruolo della corruzione e dell’affarismo in regimi che, formalmente, si proposero al mondo come regimi della retta via e della morale. Posto il quesito in termini più concreti e meno astratti, ci si potrebbe chiedere perché Mussolini, che era indubbiamente a conoscenza dell’alto livello di corruzione che esisteva all’interno del Pnf e del modo in cui i gerarchi sfruttavano le loro posizioni per arricchirsi personalmente – basti pensare a Farinacci –, non agisse contro le cattive abitudini ma guardasse sempre dall’altra parte, quando necessario.
Prima di cercare una risposta, può essere utile procedere con alcune osservazioni di carattere generale. Nei regimi ci sono certamente delle persone corrotte, ma va sottolineato che il regime dittatoriale è, in un certo senso, corruttore della società che domina. La coercizione – aperta o implicita – sulla quale esso si basa richiede un atto di sottomissione da parte della popolazione che la rende, volente o nolente, in qualche modo complice del regime stesso. L’atteggiamento che sembra caratterizzare gran parte della popolazione che vive sotto una dittatura – il conformismo pubblico, vissuto in forme e gradazioni diverse – rappresenta l’accettazione dei limiti imposti dal regime, spesso a costo di non poter esprimere e, a volte, quasi neanche formulare i pensieri privati. Va ricordato che molto spesso i regimi governano dall’alto popolazioni povere e che il potere di distribuire scarse risorse – case, lavoro, licenze, talvolta persino il cibo – permette alla dittatura di esercitare una forma di ricatto nei confronti della popolazione; in un regime ‘del bastone e della carota’ è meglio mirare alla carota che subire il bastone, la dacia è evidentemente meglio del campo di lavoro forzato. All’interno di questo quadro, gli spazi per l’indignazione individuale o collettiva di fronte agli abusi di potere sono molto limitati, e la volontà di reagire è ancora più circoscritta.
Václav Havel aveva perfettamente compreso la corruzione morale della popolazione della sua Cecoslovacchia quando scriveva del verduraio che, la mattina, accanto alle carote e alle cipolle, affiggeva nella vetrina del negozio un cartello con lo slogan ‘Operai del mondo, unitevi!’, pur essendo totalmente indifferente al senso della frase. Lo faceva, spiegò Havel, perché nel mondo comunista «si faceva così», ma lo faceva anche per nascondere a sé stesso la sua condizione subordinata rispetto al potere – in fondo, lo slogan avrebbe potuto essere anche accettabile, quindi perché non mostrarlo? In tal modo, il verduraio «viveva dentro una bugia», sapendo bene che gli operai del mondo non si sarebbero mai uniti, ma comportandosi come se quello slogan rappresentasse realmente un qualche tipo di verità. Attraverso il suo conformismo, il verduraio si rendeva complice del sistema e, in quanto complice, aiutava il sistema a sopravvivere.
Complicità con il potere non significa di per sé corruzione, almeno non nell’accezione usuale della parola. Ma può essere molto importante nel creare un terreno in cui può svilupparsi la corruzione vera e propria. Il regime dittatoriale, infatti, distrugge sempre la sfera pubblica, impedendo la formazione di una vera opinione pubblica in grado di commentare, criticare, biasimare, e forse modificare, i comportamenti di coloro che detengono il potere. In tali circostanze, le complicità – anche coatte – con il regime possono generare un clima morale che accetta come inevitabile ciò che non è in grado di cambiare. Pertanto, chi è corrotto e chi corrompe, chi fa affari sporchi e illeciti, non subisce la pressione di un’opinione pubblica nella misura in cui ciò avviene solitamente in una società aperta.
Tale considerazione è pertinente rispetto a quel fattore, centrale per qualsiasi discorso sulla corruzione nei regimi dittatoriali, rappresentato dall’assenza di controlli su chi esercita il potere, sia a livello di vertice nazionale sia a livello locale. Se non esiste un giornalismo libero, con libera stampa e mass media autonomi, un potere giudiziario indipendente, un Parlamento con una vera opposizione in grado di istituire commissioni di inchiesta, se la polizia è in mano al partito o al governo, non ci sono ostacoli all’abuso del potere; è la discrezionalità della dittatura che determina tutto. Anche le elezioni o le pratiche plebiscitarie, se ci sono, non rappresentano un elemento di freno ai comportamenti illeciti; la popolazione è controllata ed è comunque in qualche modo complice del regime. Nonostante che tutti gli elementi del potere dominante possano essere percepiti o perfino emotivamente avversati dalla popolazione, quel clima morale di non-protesta, generato dal ricatto implicito esercitato dal potere, interviene a facilitare la prevaricazione. Fra chi detiene il potere cresce quasi inevitabilmente una forte sensazione di impunità di fronte agli scarsi o inesistenti controlli – sensazione di impunità che molto spesso corrisponde concretamente a ciò che avviene nella realtà.
Ovviamente non tutti i regimi dittatoriali sono uguali. I rapporti di forza fra chi domina e chi è dominato possono variare, anche se le caratteristiche di fondo cambiano poco. Si può osservare una differenza maggiore fra i vari regimi nei livelli di controllo dell’economia. Nell’Urss il controllo da parte dello Stato era pressoché totale, mentre nell’Italia fascista e nella Germania nazista la sfera economica manteneva una certa autonomia. Anche in questi due casi, però, la mano della dittatura si faceva sentire in quanto, là dove vigevano comunque il primato della politica e un certo livello di dirigismo di Stato, i rapporti fra economia e politica erano sempre rapporti di scambio, con concessioni ma anche favori ripagati – il terreno ideale per la corruzione, il clientelismo e l’affarismo. Come vedremo, una delle caratteristiche più evidenti dell’Italia fascista era la rete di interessi privati che si sviluppò intorno alla gestione ‘politica’ dell’economia.
2. Fascismo e corruzione
Fra le armi più efficaci utilizzate dalle dittature c’era il ricatto, un ricatto di sistema, con un messaggio molto semplice: o collabori con il regime o subisci le conseguenze del tuo rifiuto. Più o meno esplicito, il ricatto era sempre presente. Si traduceva non solo nella necessità di osservare determinati comportamenti, ma anche – se si voleva far carriera, intraprendere un’attività commerciale, far funzionare un’industria, esercitare una professione senza intralci – di cercare, mantenere e coltivare appoggi politici, e, avendo il regime il monopolio del potere politico, il prezzo di questi appoggi veniva deciso in gran parte dai rappresentanti del regime stesso.
Il fascismo italiano non faceva eccezione. Non che l’Italia non avesse avuto problemi di corruzione anche prima dell’avvento del fascismo. Giolitti si era guadagnato il titolo di ‘ministro della malavita’ da parte di Gaetano Salvemini per il modo in cui utilizzava il trasformismo e il clientelismo allo scopo di garantirsi una maggioranza in Parlamento, basata più su scambi che su principi; e come dimostrò la Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra, ovvero sui sovrapprofitti realizzati dagli industriali durante la prima guerra mondiale (commissione soppressa da Mussolini appena arrivato al potere), la manomissione dei fondi statali non era una novità. C’è comunque materia per ritenere che la corruzione e l’affarismo raggiungessero nuovi livelli sotto il regime fascista.
Come prevedibile, l’elemento del ricatto risulta evidente nel finanziamento delle organizzazioni locali del Pnf e – spesso associato con le stesse fonti di finanziamento – nella realizzazione di cospicue fortune da parte di alcuni fra i gerarchi più in vista. Il fundraising del partito aveva diverse facce. Molto comune era la richiesta fatta dal fascio a noti personaggi locali, i quali in qualche misura dipendevano dal beneplacito del fascio per il loro lavoro, di un ‘contributo volontario’ alla causa del fascismo. Si trattava, di fatto, di un atto di estorsione, dato che l’entità del contributo veniva decisa dal fascio e non di rado riguardava grosse somme.
Una variante molto comune della prassi di estorsione consisteva nel vendere pubblicità sul giornale del fascio locale a persone che non avevano bisogno di quella pubblicità; anche qui furono richieste somme molto elevate per un servizio non voluto ma pressoché obbligatorio. Una strategia più diretta (e più chiaramente delinquenziale) fu il controllo, nelle grandi città come Milano e Genova, del commercio e dei mercati centrali attraverso l’imposizione di una tassa che in realtà non era altro che un ‘pizzo’ di tipo mafioso. In tutti questi casi il rifiuto di pagare poteva avere conseguenze disastrose – chiusura del negozio, ritiro del permesso, boicottaggio dello studio legale, appalti negati, e così via. In più e peggio – almeno negli anni Venti – lo spettro della violenza squadrista non era mai molto remoto. Chi rifiutava di versare il suo ‘contributo volontario’ rischiava la bastonatura, la devastazione dello studio, l’incendio del negozio, da parte di persone che risultavano sempre ignote alla polizia e alla magistratura.
Un’altra variante di prassi estorsiva riguardava il posto di lavoro. Se nei primi anni Venti i braccianti agricoli avevano dovuto scegliere fra l’adesione al sindacato fascista e la fame, anche i lavoratori di altri settori si trovarono a fare più o meno la stessa scelta: lavoro o fame. In altre parole, il posto di lavoro aveva un valore e in certe zone i fascisti non esitavano a monetizzare quel valore approfittando in modo sfacciato di situazioni di disperazione. A Napoli, ad esempio, alcuni operai lamentavano il fatto che il fascio locale imponeva una tariffa a chi voleva lavorare e che chi non la pagava non lavorava: «500 lire per un manovale, 1500 per un muratore, prezzo da concordare per gli apprendisti meccanici e così via». Altri operai, questa volta a Pescara, raccontavano del federale che aveva venduto i posti a chi voleva andare in Africa orientale come emigrante (500 lire per garantire la partenza). Non sorprende che in alcune città i fascisti venissero chiamati «sanguisughe» e definiti «buoni solo a spillare soldi alla povera gente».
In questo quadro di estorsione e di sfruttamento del monopolio di potere, non poteva mancare il mercato della tessera del partito. Com’è noto, con effetto progressivo durante il corso del Ventennio (e, a volte, con un sorprendente ritardo), la tessera del Pnf divenne il passaporto per alcuni tipi di lavoro. L’importanza della tessera era evidenziata soprattutto dalle dichiarazioni di chi non la possedeva, di chi rischiava di perderla o di chi era stato espulso dal partito. Secondo un informatore che scriveva nel 1938, «oggi, definitivamente, non essere iscritti al partito vuol dire non poter trovare nessun lavoro», opinione confermata da un fascista che osservava che «il ritiro della tessera, vale a dire del pane», poteva avere delle conseguenze molto gravi, e di un altro, espulso, che pregava di essere riammesso al partito e «alla vita». Lo stesso Mussolini, nell’avvertire Farinacci che rischiava l’espulsione dal partito per il suo persistente ‘frondismo’, ricordava al ras cremonese che «chi è fuori del partito, muore». Tale era l’importanza della tessera che si sviluppò un mercato di tessere falsificate, rilasciate da burocrati corrotti, che dovevano non solo attestare l’appartenenza al partito ma anche indicare una data di adesione della ‘prima ora’, per consentire al portatore di beneficiare dei privilegi riservati ai membri della ‘vecchia guardia’. Come venne più volte osservato all’epoca, il numero dei ‘Sansepolcristi’cresceva via via ogni anno che passava.
Lucrare dove possibile sembra essere stato l’obiettivo di non pochi dirigenti fascisti, ma la destinazione precisa dei soldi, passati sopra o sotto la scrivania, è difficile da stabilire. Come in altri regimi di questo tipo, la mancanza di una qualsiasi forma di trasparenza permetteva la deviazione dei fondi in diverse direzioni. È evidente, comunque, che se una parte dei contributi estorti doveva servire a far funzionare l’organizzazione fascista, una parte anche notevole finiva nelle tasche dei fascisti stessi. Solo così si può spiegare il fenomeno del repentino arricchimento di molti dei nuovi dirigenti fascisti, persone spesso di modeste origini sociali che già alla fine degli anni Venti si erano abituate a vivere nel lusso. Anche se il confine fra la donazione spontanea e la tangente è spesso molto labile, esistono pochi dubbi sul fatto che i nuovi ricchi dovevano molto non solo al fatto di essersi appropriati di fondi versati al fascio, ma anche a donazioni più o meno ottenute con la concussione e a offerte ‘interessate’, intese a mantenere buoni rapporti con chi deteneva il potere. L’evidente rapporto di scambio che operava dietro queste elargizioni verso i fascisti aveva un costo, ma presupponeva anche un eventuale premio. A Milano, ad esempio, nel 1928, in occasione del matrimonio di Mario Giampaoli, capo del fascismo in città, imprenditori e commercianti si misero in fila per offrirgli regali. Si diceva che il gerarca avesse ricevuto regali per più di un milione di lire – soldi peraltro spesi male, perché Giampaoli fu rimosso da Milano ed espulso dal partito (per malaffare) meno di un anno dopo.
I gerarchi fascisti avevano molte possibilità di sfruttare il rango per vantaggi personali. L’avvocato Roberto Farinacci, ad esempio, era in grado, con dubbie credenziali professionali, di chiedere e ottenere parcelle a sei cifre per interventi in casi giudiziari in cui il suo peso politico veniva usato per ‘aggiustare’ la sentenza. Che Farinacci fosse, alla fine degli anni Trenta, un uomo molto ricco non era un segreto per nessuno, ma anche molti altri gerarchi disponevano di somme che non erano giustificate dal loro stipendio. Nel 1942, in piena guerra, Giuseppe Bottai acquistò una villa di 42 stanze per 4 milioni di lire; nello stesso anno, per una cifra analoga, Alessandro Pavolini comprò due fattorie fuori Firenze. L’origine di questi soldi resta sconosciuta – certamente somme che andavano ben oltre le possibilità offerte da uno stipendio ministeriale – anche se un indizio si può forse trovare nel comportamento di Luigi Federzoni che, come presidente del Senato, nel 1929 si aumentò lo stipendio da 25.000 lire annue a 125.000 senza dire niente a nessuno (e senza che nessuno avesse qualcosa da ridire). Non contento, incrementò anche le sue indennità parlamentari, raggiungendo nel 1939 uno stipendio annuale di 263.000 lire: al confronto, la paga annuale di un bracciante agricolo nel 1938 era di circa 2.000 lire. Al processo del 1947 i beni di Federzoni vennero valutati quasi 8 milioni di lire.
Ma i rapporti di scambio più premianti per molti gerarchi fascisti nascevano dagli stretti legami esistenti fra la politica e il mondo dell’industria, delle banche e di quegli istituti parastatali che avevano visto uno straordinario sviluppo durante gli anni Trenta. Qui il regime aveva enormi possibilità di patronage; erano in palio nomine alle cariche più alte, posti nei consigli di amministrazione, prestiti, contratti, concessioni, appalti per lavori pubblici – un mondo che ragionava sempre in termini di centinaia di milioni di lire e dove, molto spesso, la mano del governo di Roma poteva essere decisiva nell’andamento delle cose. Come è evidente, lo scambio fra economia e politica aveva dei vantaggi per entrambe le sfere. I posti di dirigente o membro dei consigli di amministrazione offrivano lauti compensi ai fascisti (o ai loro amici e sostenitori) che li occupavano, mentre per le società coinvolte avere una linea diretta con il ministero a Roma tramite i consiglieri fascisti poteva costituire un asset prezioso. Naturalmente le società dovevano pagare un prezzo, richieste pressanti di contributi e ‘sussidi’ per i progetti dei fasci locali e per l’organizzazione nazionale erano sempre all’ordine del giorno, ma al tempo stesso chi pagava sperava di poter contare su un occhio favorevole del regime. Si formava dunque un intreccio per così dire ‘virtuoso’ fra il mondo politico e quello economico, che offriva benefici a entrambi, ma a trarne particolari vantaggi erano quei fascisti che, riusciti ad entrare nei gangli del mondo dell’industria e della finanza grazie all’operato del partito, si trovavano nella posizione di poter incidere sulle decisioni di società di importanza nazionale e, di conseguenza, con un’influenza enorme da sfruttare come sembrava loro più opportuno.
3. Percezioni e impunità
Che la corruzione e l’affarismo restino nascosti, una faccenda gestita all’interno delle strutture del regime stesso, è un tratto tipico di molti regimi dittatoriali; ad eccezione dei casi clamorosi e difficili da nascondere, la zona ‘sporca’ dei ricatti e degli intrallazzi non arriva all’attenzione del pubblico, se non attraverso voci e sospetti non suffragati da prove. Per questo motivo spesso non è semplice valutare con precisione la natura e l’estensione del fenomeno. Diverso, invece, è il discorso sulla percezione dei livelli di corruzione e di affarismo da parte dell’opinione pubblica, che arriva spesso ad esagerare l’entità di quel mondo che non riesce a vedere bene ma della cui esistenza non dubita.
Tali considerazioni valgono appieno per l’Italia fascista. A giudicare dalle relazioni degli informatori fascisti, dalle spie della polizia, dai rapporti delle autorità locali di prefetture e questure, per non parlare delle lettere anonime, esiste lungo il Ventennio – ma in modo crescente quanto più ci si avvicina alla seconda guerra mondiale – la convinzione in almeno una parte dell’opinione pubblica che il regime fascista fosse un regime intimamente corrotto. Benché spesso derivino da fonti che vanno utilizzate con cautela, le accuse rivolte al regime e ai fascisti puntavano sempre il dito sui funzionari locali del partito – in particolare, sui segretari federali – incolpati di utilizzare la propria posizione pubblica per realizzare obiettivi privati, ed erano troppo concordi e convergenti per essere attribuite soltanto ai nemici del regime o alle malelingue. Al riguardo bisogna ricordare che il fascismo, sin dai primi anni, aveva attratto una certa componente criminale e che, nonostante le purghe del partito degli anni Venti, essa non era stata del tutto sradicata. Indicativo è il fatto che nel 1935 l’intero gruppo dirigente di Perugia venisse denunciato per criminalità e che le fedine penali di molti, attestanti condanne per attività criminali, venissero allegate alla denuncia.
La più comune fra le denunce di abuso di posizione riguardava ciò che potremmo definire lo stile di vita del federale: grandi automobili, i posti migliori nei ristoranti migliori, uniformi ‘napoleoniche’ indice di un narcisismo dilagante, il palco al teatro con il contorno di belle donne. Questo stile di vita, più che evidenziare direttamente la corruzione, esibiva gli attributi vistosi del potere locale, spesso portati all’eccesso da persone nuove alla politica, ma a chi denunciava simili comportamenti veniva spontaneo chiedersi da dove provenivano i soldi per le macchine, i pranzi e le donne. L’uomo che nel 1937 racconta (con un misto di rabbia e di invidia, come si avverte fra le righe) che il federale di Piacenza «dedica ogni sua attività allo sport del tamburello e alle gite sulle spiagge adriatiche ove […] col pretesto di visitare una colonia estiva, passa lunghi giorni in graziose compagnie femminili» non poteva non notare che le spese di queste giornate provenivano da fondi pubblici. La stessa constatazione si legge in una lettera anonima inviata al duce nel 1939: «Qui a Perugia essi [i funzionari fascisti] spendono il denaro pubblico in modo sfacciato e scandaloso», e anche in questo caso le accuse sono le stesse: grandi macchine («una potente Alfa-Romeo, del costo di oltre 70.000 lire») e frequentazioni pubbliche di «volgari prostitute».
Vere o no, le denunce di questo tipo riflettevano ciò che appare come un disagio generalizzato, quando si trattava di verificare l’onestà dei funzionari fascisti. In parte era un disagio che nasceva da un fattore che abbiamo già osservato, e cioè la totale mancanza di trasparenza che circondava le finanze dei fasci locali; la gente poteva fare il conto del denaro che entrava – bastava moltiplicare il costo della tessera per il numero degli iscritti per farsene un’idea – ma non riusciva a capire come venivano spesi quei soldi: «È da tutti risaputo che la maggioranza degli iscritti al partito versano annualmente delle somme non indifferenti che assommano a parecchie centinaia di lire, mentre vengono versate al centro solo tre lire per ogni iscritto al partito. Tutti si domandano dove vanno a finire le somme versate dai fascisti e tutti non si sanno spiegare la ragione per la quale non debba venir mai fatto un resoconto». In effetti, quando le situazioni locali degeneravano al punto che da Roma veniva inviato un ispettore, le relazioni che questi ispettori compilavano raccontavano spesso di ammanchi, di elargizioni senza causale, di ‘sussidi’ pagati ad amici senza alcuna giustificazione, di ‘missioni’ in altre città con tanto di alberghi e ristoranti di lusso. Tali situazioni davano man forte a chi si lamentava del fatto che «i caporioni del fascismo sono tutti dei mangioni e dei profittatori» o che «il requisito necessario per rivestire le alte cariche politiche e amministrative è quello della delinquenza raffinata».
Se la finanza allegra e lo stile di vita eccessivo attiravano le critiche un po’ dappertutto, a volte le denunce avevano a che fare con faccende più squallide. In alcune relazioni, si legge che l’abuso della posizione di potere si estendeva anche alla richiesta di prestazioni sessuali rivolta a donne che in qualche modo dipendevano dal funzionario fascista. Del gerarca di Savona, che aveva costituito un istituto commerciale serale femminile, si diceva che «le favorite passano nel suo ufficio durante le ore di lezione, e quelle che soddisfano i suoi piaceri trovano lavoro». Ancora più esplicita la denuncia di un cittadino padovano, che in una lettera a Starace spiega il modo migliore per ottenere un lavoro a Padova: «ha un figliolo da occupare? occorre che abbia una bella mamma o una sorellina». Casi di questo genere riflettevano i rapporti di forza in una situazione in cui il cittadino non aveva alternative o possibilità di ricorso. Nel Ventennio il regime aveva il coltello dalla parte del manico ed era difficile e a volte rischioso mettersi a discutere.
Guardando sempre alle realtà locali, la percezione generalizzata del marcio trova conferma anche in altre circostanze, in cui i federali mostrano di preferire la strada più diretta della criminalità spiccia. Uno dei casi più clamorosi è quello di Clodo Feltri, federale di Modena alla fine degli anni Trenta, che secondo l’ispettore del partito aveva mescolato polvere di marmo alla farina per aumentarne il peso (suo cugino era proprietario della principale azienda molitoria della provincia), aveva venduto illegalmente a terzi la benzina ‘rossa’ destinata esclusivamente a usi agricoli (egli stesso era il direttore della locale filiale Agip) e aveva concesso al cognato alcuni contratti per lavori edili finanziati dallo Stato. Qui potere incontrollato e familismo sono molto evidenti. Ma Feltri non era l’unico. Nel 1934, a Savona, il federale venne accusato di «aver ricavato quest’anno una somma considerevole dalla gestione dei campi estivi» e il sospetto spingeva ignoti a scrivere sui muri «Duce, lega le mani ai profittatori». Verso la fine degli anni Trenta diversi federali furono accusati di aver guadagnato grosse somme con la raccolta di oro e di altri metalli preziosi – raccolta mai trasferita, o trasferita solo in parte allo Stato. Non sorprende pertanto trovare un vecchio fascista che nel 1939 scriveva a proposito delle «infiltrazioni di numerosissimi elementi profittatori e di nessuna fede» che avevano preso in mano il partito, né che altri protestassero per il fatto che «si lascia che la nuova casta creata dal regime faccia soldi a palate, a destra e a manca».
Il quadro dipinto dalle denunce di prefetti, fascisti, informatori e cittadini comuni è chiaro. Arrivati al 1940, pochi erano disposti a negare l’esistenza di una corruzione su larga scala all’interno del partito; la percezione popolare era quella di un Pnf organizzato per assecondare gli appetiti dei suoi capi. Ma più che la corruzione in sé, ciò che colpisce è il manifesto senso di impunità che accompagnava l’attività dei corrotti. Regnava fra i ras e i funzionari fascisti la sensazione di poter fare quello che volevano; alcuni lo affermavano esplicitamente – ‘Chi mi può toccare?’ – e, molto spesso, avevano ragione.
Il senso di impunità dimostrato dai capi fascisti, che tanto nuoceva all’immagine del fascismo fra una popolazione pesantemente colpita dalla crisi economica, si può spiegare in diversi modi. In parte nasceva dal fatto che il partito, più che un’organizzazione impersonale e rigidamente disciplinata, era in realtà un reticolo di rapporti clientelari e personali in cui ciò che contava non era la correttezza dei comportamenti ma la fedeltà a – e l’appoggio di – un particolare capo. Essere ‘uomo di Balbo’ o ‘uomo di Ciano’ spesso rendeva quella persona intoccabile, anche da parte della magistratura. Per i capi locali i guai seri cominciarono con la perdita dell’appoggio del padrino e non con la denuncia per abuso di potere. Certo, il segretario del Pnf poteva agire contro i corrotti – di fronte a gravi abusi gli ispettori arrivavano da Roma e compilavano i loro rapporti, a volte molto critici sui poteri locali –, ma tutti sapevano che, nella peggiore delle ipotesi, la conseguenza più probabile di una punizione sarebbe stata la rotazione, ovvero un incarico diverso in un posto diverso. La parola d’ordine era sempre quella di evitare scandali in grado di screditare il partito agli occhi della gente. Non sorprende dunque che il cittadino si sentisse impotente di fronte al regime; era difficile contestare la corruzione dei funzionari perché ci si trovava davanti a un muro di omertà fascista che mirava solo ad insabbiare qualunque protesta.
Ma il senso di impunità aveva anche origini più lontane. Sin dall’inizio del movimento fascista gli squadristi avevano agito contro la legge e nella presunzione – che si dimostrò spesso giustificata – di non essere perseguibili per le loro azioni di fronte alla magistratura. Convinti di aver trovato l’Anello di Gige che rende invisibili, essi sostenevano di rispettare una legge superiore dettata dalla nazione e non esitavano a ridicolizzare le autorità dello Stato liberale e a umiliare prefetti e polizia. Le azioni e le dichiarazioni di Italo Balbo durante l’occupazione di Bologna nel 1922 sono una sintesi di questo atteggiamento di sfida. E anche se con la svolta del 3 gennaio 1925 (quando anche Mussolini invocò una legge superiore) e con i provvedimenti successivi la posizione degli squadristi venne ridimensionata, i primi anni di lotta avevano lasciato un tipo di imprintingche affermava la soggettività del diritto, assai difficile da sradicare. Come non pochi prefetti furono costretti a constatare, per tanti fascisti l’atteggiamento del ‘Qui comando io’ oppure ‘Obbedisco solo a Mussolini’ restava il principio fondamentale della rivoluzione fascista determinandone l’azione per tutto il Ventennio. I frequenti litigi tra federali e prefetti rappresentavano, in realtà, non solo il contrasto fra le diverse interpretazioni delle competenze del partito e dello Stato, ma anche un conflitto fra la legge dello Stato, che il prefetto doveva far rispettare, e una fantomatica ‘legge fascista’, derivante dalle vittorie degli anni Venti, alla quale faceva appello il federale.
Conseguenza non ultima dell’interpretazione fascista della legge era anche l’incapacità – o, meglio, la non volontà – da parte dei fascisti di distinguere fra ciò che era pubblico e ciò che era privato. Per molti, l’idea che ‘la legge è del più forte’ aveva in parte annullato la distinzione, in quanto gli squadristi erano avvezzi a mostrare scarso rispetto per la proprietà privata, soprattutto di quella dei nemici del fascismo, e ad appropriarsi di quello che volevano. Quest’atteggiamento era ulteriormente incoraggiato dall’interscambiabilità di ‘fascismo uguale nazione’, che induceva i fascisti più rozzi a pensare che tutto ciò che era parte della nazione apparteneva ai fascisti. Si creava così una sorta di sentimento di ‘credito’ e di ‘diritto’ a varie ricompense e prebende di potere; per quelli che avevano conquistato la nazione i lauti premi offerti anche dall’affarismo e dalla corruzione apparivano in qualche modo dovuti.
In molti casi, dietro a questi comportamenti arroganti e spavaldi, che persistettero ben oltre la prima fase della ‘battaglia fascista’, c’era il desiderio del dirigente fascista, una volta assurto al potere, di essere riconosciuto dall’élite tradizionale. Causa non ultima della corruzione del tipo descritto qui sopra – cioè la corruzione legata agli abusi di potere a livello provinciale e locale – è la necessità degli ‘uomini nuovi’ alla politica di legittimare le proprie posizioni all’interno della società locale. Sconfitta la spinta intransigente di Farinacci che avrebbe voluto un radicale cambiamento nella classe dirigente, e ignorata l’invocazione di Augusto Turati di «mettere una camicia nera ad ogni posto di comando», in molte città i fascisti si trovarono costretti a venire a patti con l’élite della società provinciale. Per alcuni fascisti ‘rivoluzionari’ la questione non mancava di sollevare problemi, com’è testimoniato da scontri anche molto duri in alcuni luoghi; ma per altri la prospettiva di poter far parte dell’establishment era troppo seducente. Non solo ciò sembrava legittimare agli occhi dei concittadini il controllo esercitato dal fascismo, ma si apriva la strada a tutta una serie di privilegi e di possibilità di affari che permettevano al capo fascista di sedersi effettivamente allo stesso tavolo dei maggiorenti locali. Dall’altra parte, per l’élite locale corrompere il federale con offerte e promesse allettanti era la strada maestra per limitare il più possibile l’ingerenza del partito nelle proprie faccende ed anche – come abbiamo già visto – per sfruttare le possibilità offerte da qualche contatto utile a Roma.
Si spiegano così le lotte interne che caratterizzarono i fasci locali, soprattutto sul finire degli anni Venti e per tutto il decennio successivo. Come abbiamo avuto occasione di osservare altrove, il ‘beghismo’ diffuso esprimeva solo di rado differenze di opinione sul significato del fascismo o sul percorso da seguire per realizzare fino in fondo la ‘rivoluzione fascista’; molto più spesso rappresentava semplicemente un conflitto per il potere fra gruppi rivali, in quanto il potere apriva la porta a possibilità che andavano ben oltre il diritto all’uniforme ‘napoleonica’.
Una delle lamentele più persistenti contro i capi fascisti nelle lettere anonime e nei rapporti degli informatori riguardava l’‘accumulo di cariche’ da parte dei boss del fascismo locale. Come abbiamo già accennato, molto spesso al segretario federale veniva offerto un posto nel consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio, nel comitato direttivo dell’ospedale locale, nella redazione del giornale cittadino, per non parlare dei posti nei consigli di amministrazione delle industrie del luogo – tutti incarichi remunerati, che gli permettevano di moltiplicare diverse volte il suo stipendio di federale, di per sé non indifferente, senza dover fare altro che presenziare a qualche riunione. Alcuni fascisti di spicco arrivavano a sedere in più di venti consigli di amministrazione. Qui si vede come, per il giovane e rampante fascista, l’ambizione e il desiderio di riconoscimento si intrecciassero con la ben più banale ma concreta ricerca di arricchimento. E se agli inizi degli anni Trenta, di fronte al malcontento popolare suscitato dal fenomeno dell’accumulo delle cariche, il partito cercò di reagire con un decreto contro tale prassi, non c’è però alcuna evidenza che quel provvedimento abbia avuto effetto. Il decreto, come le ammonizioni di Mussolini contro lo stile di vita esagerato dei fascisti provinciali (la ‘Consegna’ del 1933), restò lettera morta. Il potere delle realtà locali di condizionare i comportamenti dei funzionari fascisti era evidentemente molto più forte.
Naturalmente non tutto il fascismo provinciale era una palude di corruzione e di affarismo; c’erano federali onesti come federali corrotti. Colpisce comunque il tono di esasperazione e di indignazione che emerge da molte denunce – firmate anche da fascisti di lungo corso – per le condizioni del partito alla fine degli anni Trenta e durante i primi anni di guerra. Il ‘succo’ dei commenti era che molti fascisti avevano utilizzato il potere dello Stato per favorire i propri interessi privati, ignorando totalmente le condizioni di estrema difficoltà in cui si trovava buona parte della popolazione. Come scriveva un fascista, l’Italia era divenuta «un campo da razziare non una nazione», dove il denaro pubblico veniva sistematicamente rubato e sperperato da un ceto dirigente «parolaio, confusionario, e spesso corrotto». Un altro fascista convinto annotava nel suo diario che «raramente le menzogne e la frode si sono sistemate nelle abitudini consuete di un grande popolo come si stanno attualmente instaurando nella classe dirigente del popolo italiano». Più articolato, ma fededegno, il commento di un informatore, che protestava per «una politica interna in mano ad elementi che servono solo in apparenza il capo e il fascismo, ma che in realtà servono unicamente la propria vanità e il proprio esclusivo interesse» e concludeva scrivendo che «mai come oggi fu corrotta l’Italia borghese». Come risulta evidente, la percezione di un sistema corrotto era molto diffusa.
4. Una corruzione funzionale
Viene da chiedersi perché il fenomeno della corruzione, così largamente riconosciuto fra tutti quelli che avevano a che fare con le reti di influenza dei fascisti, non venisse affrontato in modo più determinato. Per quali motivi, alla fine del Ventennio, la corruzione era molto più diffusa di prima dell’avvento del fascismo? Perché quel movimento che aveva promesso la ‘moralizzazione’ della vita pubblica non seguiva le sue stesse prediche? In parte – lo abbiamo visto – la corruzione non veniva colpita perché si cercava di evitare scandali che avrebbero messo il fascismo in cattiva luce. Se alla fine degli anni Trenta il fascismo era diventato soprattutto ‘esteriorità’, come sostenevano gli osservatori più acuti, almeno le apparenze di rigore morale dovevano essere mantenute; la facciata pubblica del regime non doveva tradire i segni della malattia interna. Al riguardo, una magistratura accondiscendente facilitava le operazioni di copertura.
Il medesimo intreccio fra corruzione, affarismo e rapporti di scambio coinvolgeva anche alcuni dei gerarchi più alti – ossia quelli che in teoria avrebbero dovuto agire contro il malcostume. Non conveniva a nessuno lanciare una campagna moralizzatrice, perché chi si permetteva di denunciare altri rischiava di trovarsi contro l’intero Stato maggiore del fascismo. In un ambiente caratterizzato da ciò che Salvatore Lupo ha definito «la politica dei dossier» – cioè l’affannosa ricerca, da parte di tutti, di materiali da utilizzare, se necessario, contro gli altri – i rischi, per chi era tentato di gettare la prima pietra, erano molto forti; pertanto la convivenza negli affari assicurava un’omertà di collusione. In effetti, nei rari momenti in cui la corruzione venne additata come causa dell’espulsione di qualche gerarca dal partito, si trattò di solito di persone già cadute in disgrazia per altri motivi, per cui l’accusa di corruzione era più che altro la giustificazione di facciata.
Ma torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio: perché Mussolini non intervenne per fermare ciò che veniva percepito come una corruzione endemica e un affarismo generalizzato? Il duce era certamente a conoscenza del fenomeno; e chi pensava che non lo fosse – ed erano in tanti – si illudeva, anche se il mito dell’ignoranza del capo tornava indubbiamente comodo e serviva, semmai, a rafforzarne il culto di uomo sobrio e integerrimo in mezzo ai corrotti e agli opportunisti. L’indifferenza di Mussolini di fronte alla corruzione è da attribuire a fattori legati alla struttura del fascismo stesso e ai suoi modi di governo e controllo. Innanzitutto si può sostenere che Mussolini apprezzasse il fatto che quell’intreccio tra il fascismo e il mondo degli affari, anche se gestito e alimentato da persone corrotte, rappresentasse comunque la penetrazione del regime negli ambiti che più contavano nel paese e andasse pertanto considerato un punto di forza per il fascismo. In questo quadro il comportamento dei singoli attori appariva di importanza secondaria; ciò che contava erano i rapporti di potere, e avere fascisti alla direzione di banche e nei consigli di amministrazione di grandi e medie industrie significava gestire il potere. Lo stesso discorso valeva per i problemi spiccioli delle periferie: il federale corrotto e immorale rischiava la sua posizione solo se i suoi comportamenti minacciavano di mettere a repentaglio il controllo fascista della provincia. Per il resto, come sta a indicare l’indifferenza del duce, le grandi macchine, i ristoranti di lusso, e le donne ‘di facili costumi’ non erano poi così importanti e andavano semmai ascritte alla terribile e potente turbina della ‘rivoluzione fascista’.
C’è tuttavia da aggiungere un’ulteriore considerazione. Chi mai avrebbe potuto realizzare la bonifica del partito? E con quali conseguenze? A differenza di Hitler, Mussolini non disponeva delle SS, una guardia pretoriana pronta ad agire contro i corrotti del partito. La Milizia non era minimamente paragonabile alle SS (semmai somigliava più alle SA) e, come risulta dalle relazioni dei prefetti, molti militi erano corrotti quanto i loro compagni di partito. Invocare l’intervento della polizia sarebbe stato possibile – Bocchini sapeva fare bene il suo lavoro –, ma il risultato di una purga effettuata dallo Stato sarebbe stato un partito molto indebolito nei quadri e, soprattutto, danneggiato nel suo status di portabandiera della rivoluzione fascista. In effetti, il problema riguardava proprio la struttura del potere mussoliniano. Riformare il partito dall’interno, eliminando i corrotti e inserendo persone capaci e oneste (ammesso che se ne trovassero, dato che arruolare quadri efficienti rappresentò sempre un problema per il regime), rischiava di rendere il partito troppo forte; aggredire il Pnf dall’esterno, utilizzando soprattutto la polizia e la magistratura, avrebbe reso il partito subordinato e troppo debole. A Mussolini serviva il partito – su questo non c’è dubbio –, ma il Pnf non doveva essere né troppo forte, in grado di contestare il suo potere (come Farinacci e Adelchi Serena ebbero modo di imparare a proprie spese), né troppo debole.
In un colloquio del 1943, prima della caduta del fascismo, Mussolini parla «delle indigestioni del totalitarismo», riferendosi alle difficoltà sperimentate nel mantenere un ‘equilibrio’ fra i diversi centri di potere nel paese – e fra questi centri c’era anche il Pnf. Nell’economia del potere mussoliniano il partito aveva un suo ruolo – veicolare il consenso, certamente, ma anche controbilanciare altri centri di potere – e cambiare la natura del partito avrebbe potuto distruggere quel faticoso ma funzionale equilibrio. In una dittatura per molti versi policratica, un partito dominante, realmente totalitario e moralmente inflessibile, avrebbe creato non pochi problemi per tutti, in primo luogo per Mussolini, che sin dal 1925 aveva capito che l’Italia non avrebbe accettato un fascismo intransigente. Dal suo punto di vista era preferibile un partito immobile e stagnante, occupato con le ‘esteriorità’ e tenuto assieme da grandi e piccoli abusi di potere, rispetto a un partito dinamico, fatto di veri ‘uomini nuovi’, che avrebbe contrastato tutti quei compromessi, anche a livello locale, su cui poggiava il regime. Assai lontano dalle promesse di un fascismo ‘moralizzatore della vita pubblica’, pertanto, il partito corrotto e inefficiente faceva parte di un complesso sistema di equilibri, con la corruzione e i vari affarismi che fungevano da collante per tenere insieme un segmento non piccolo della classe dirigente fascista.
Lo squadrismo al potere. La parabola di Roberto Farinacci di Matteo Di Figlia
Il giovanissimo Ettore non si assunse – né poteva, appunto perché giovanissimo e considerando la struttura di una famiglia siciliana – il ruolo di investigatore, di coordinatore, di guida del collegio di difesa. Avrà senza dubbio «meditato» (espressione che ricorre nelle sue lettere quando parla di una qualche difficoltà da superare), sul problema: ma proprio nel porselo come problema è da credere riuscisse a vivere il caso con più distacco e meno ansietà degli altri familiari. Che poi delle sue deduzioni, della sua soluzione del problema gli avvocati si avvalessero è del tutto improbabile. Quasi tutti «principi del foro» – e l’unico che non lo fosse era Roberto Farinacci: ma la sua nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica – c’è da immaginarsi con quale freddezza o addirittura spregio avrebbero accolto ogni profano suggerimento.
Così, nel suo La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia parlava en passant di Roberto Farinacci, individuando nella sua «temibilità politica» il motivo per cui era entrato nel collegio di avvocati che rappresentò la famiglia Majorana in beghe giudiziarie precedenti la scomparsa di Ettore. Quando Sciascia scrisse il libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, erano già disponibili un paio di biografie del gerarca, del quale ovviamente si parlava molto anche negli studi generali sul fascismo e l’Italia mussoliniana. Non so, però, se lo scrittore di Racalmuto abbia attinto a questa letteratura storiografica o se invece abbia dato conto di un rumore di fondo, di una memoria del periodo fascista che, sospesa nel pulviscolo dei racconti familiari o dei ricordi personali, era giunta fino all’Italia degli anni Settanta.
Di certo, l’idea che Farinacci si giovasse del suo peso politico anche nella professione di avvocato era diffusa sin dagli anni Trenta. Nella trascrizione di una intercettazione telefonica del 1939 leggiamo, ad esempio, che un avvocato rifiutava il nome di un collega per un patrocinio in Cassazione indicando senza indugio quello di Farinacci: «no; oggi Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze che nessuno immaginerebbe mai […], Farinacci supera tutti, ha più influenza». Quest’ascendente era stato costruito nel tempo, attraverso una pervicace prassi volta all’acquisizione di una visibilità strettamente connessa al suo essere considerato leader del fascismo intransigente. Organizzatore delle violentissime squadre cremonesi nei primi anni Venti, assertore di una fascistizzazione completa del paese nel periodo successivo, era stato messo a capo del Partito nazionale fascista dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, ma aveva perso la carica di segretario nazionale un anno dopo (1926). Le ragioni di questo allontanamento erano profonde e avevano a che fare con il conflitto con Benito Mussolini, intento ad attenuare il clima di terrore in cui le squadre avevano gettato il paese. Sui suoi giornali «Cremona nuova» e, poi, «Il Regime fascista», Farinacci non smise mai di auspicare fascistizzazioni feroci dell’establishment italiano, di scagliarsi contro coloro che, giunti al fascismo dopo la marcia su Roma, non potevano a suo dire essere considerati affidabili interpreti delle politiche del regime. Né mancò di lanciare strali contro i suoi avversari fascisti cui attribuiva arricchimenti illeciti, accusandoli di aver tradito la rivoluzione. Ne derivarono continui contrasti col duce, stremato dai suoi richiami moralizzatori e consapevole di quanto lo stesso Farinacci avesse avuto modo di migliorare le sue condizioni di vita:
Quanto alla pezzenteria ed alle fortune – gli scriveva nel 1928 – io non contesto che tu fossi un pezzente nel 1922, ma nego nella maniera più recisa che tu sia rimasto un pezzente anche nell’anno di grazia 1928 – sesto del regime Stop. I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso Stop. La demagogia del falso pezzentismo mi est odiosa come l’esibizionismo pescecanesco Stop.
Lo stesso concetto gli veniva ribadito da altri gerarchi: «io ora vado in automobile – gli disse Leandro Arpinati in una agitata riunione svoltasi poco tempo dopo –, ho la serva, tutte cose che prima non avevo. […] Ho una posizione sociale che prima non avevo e che mi permette un determinato tenore di vita. Tu stesso che fai l’avvocato io credo che tu non pensi che saresti diventato il grande avvocato Farinacci se non fossi l’ex segretario del partito».
Oltre che ergendosi a paladino dell’intransigentismo, però, Farinacci si difendeva mettendo insieme dossier sui suoi avversari, dai quali potevano evincersi malefatte e illeciti su cui costruire questioni morali
Gli autori
Paolo Giovannini
Paolo Giovannini insegna Storia contemporanea all’Università di Camerino. Ha studiato la storia sociale della psichiatria, del movimento cattolico e del fascismo. Tra le sue pubblicazioni, La prima democrazia cristiana. Progetto politico e impegno culturale (Edizioni Unicopli 2014), La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale (Edizioni Unicopli 2015) e Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918) (Affinità Elettive 2017).
Marco Palla
Marco Palla ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Firenze. Ha studiato a lungo il periodo 1914-1945 e ha pubblicato, tra l’altro, Firenze nel regime fascista 1929-1934 (Olschki 1978), Fascismo e Stato corporativo (Franco Angeli 1991) e Mussolini e il fascismo (Giunti 1993). Ha curato volumi sullo Stato fascista, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, l’antifascismo a Prato e la storia della Resistenza in Toscana.
RECENSIONE– Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
IL FASCISMO DALLE MANI SPORCHE-
Dittatura, corruzione, affarismo
Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
-Quaderno 4103 -pag. 517 – 518-Anno 2021-Volume II
La storiografia relativa al Ventennio mussoliniano ha considerato a lungo i temi dell’affarismo e della corruzione tutto sommato marginali. Le prime ricostruzioni generali del periodo non si occuparono affatto di questi argomenti, ma un gran numero di contributi più recenti ha messo in rilievo come simili fenomeni non abbiano caratterizzato solo il tardo fascismo, ma siano stati presenti anche in quello degli inizi e, rispetto allo Stato liberale, in una forma addirittura più estesa. Il quadro di insieme è apparso dunque caratterizzato da truffe, tangenti, legami con la mafia, arricchimenti rapidi e inspiegabili; quella di Mussolini fu, quindi, tutt’altro che una «dittatura degli onesti».
È quanto viene documentato in questa raccolta di saggi curata da Giovannini e Palla, ai quali va riconosciuto il merito di aver illustrato in maniera esauriente il nesso tra politica e affari, nonché quanto la prima componente di questo legame sia stata decisiva nell’agevolare il successo della seconda. Detto altrimenti: il regime che intendeva forgiare un «uomo nuovo» e correggere nel contempo le storture dell’Italia post-unitaria vide al contrario estendersi a macchia d’olio il malaffare, che raggiunse il cuore delle istituzioni statali.
Nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo durante l’epoca fascista vi fu insomma un vero e proprio «salto di qualità»: una dinamica in grado di spiegare i successi e la notevole accumulazione di ricchezze che riuscirono a realizzare alcuni tra i protagonisti della scena economica e finanziaria di quegli anni: da Giuseppe Volpi, magnate dell’industria elettrica privata, al generale Ugo Cavallero, presidente dell’Ansaldo, fino all’imprenditore Alberto Pirelli.
Le cosiddette «mani sporche» furono però anche quelle di alcuni esponenti di primo piano del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza e il giovane pesarese Raffaello Riccardi, ai quali occorre aggiungere una miriade di «pesci piccoli» che, dopo la conquista dell’Africa orientale, ricercarono occasioni propizie nelle colonie, provando a «oliare» le ruote giuste.
Una pratica, quella della corruzione, della quale lo stesso Mussolini era pienamente consapevole, tanto da dedicare costanti attenzioni – mediante l’attività della censura e della propaganda – al suo occultamento. Così, da un lato, venne elaborato un «discorso pubblico» finalizzato a indicare nell’ormai consolidato regime fascista l’unico elemento moralizzatore presente nel sistema istituzionale italiano e, dall’altro, rimase costante la disponibilità del Duce a coprire scandali e ladrocini.
Frutto di un’attenta consultazione dei fondi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, questo volume sfata dunque il mito della presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e, in parte, del suo sistema dittatoriale: un’immagine rimasta però curiosamente nella memoria di molti e che si sarebbe riaffacciata verso la fine del secolo, quando avrebbe preso piede la tendenza a contrapporre un sistema democratico ormai screditato a un regime che sarebbe rimasto invece sostanzialmente immune dalla corruttela affaristica. Osservano al riguardo i due Curatori: «Da Tangentopoli nel 1992 a oggi […], è parso più credibile, agli occhi di una parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal “cono d’ombra” delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi» (p. VII).
È pertanto probabile che molti contributi forniti dalla storiografia non siano purtroppo riusciti a trovare gli opportuni canali di diffusione nell’ambito della cultura di massa né dei vari ordini e gradi nei quali si articola l’insegnamento scolastico.
RECENSIONE–il manifesto
Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo a cura di PAOLO GIOVANNINI – MARCO PALLA Roma – Bari, Laterza, 2019, 272, € 22,00.
Palmiro Togliatti è stato uno dei più acuti interpreti del fascismo. I suoi scritti principali sul tema, A proposito del fascismo del 1928 e Lezioni sul fascismo del 1935, rappresentano secondo Renzo De Felice, rispettivamente, «l’analisi più compiuta e più matura del fascismo italiano elaborata fra le due guerre mondiali da un autorevole esponente comunista» e «un modello metodologico che può benissimo essere applicato anche ad una ricerca di tipo storiografico e non solo ad una analisi politico-pratica». Giuseppe Vacca -con un’ampia introduzione- inquadra storicamente gli scritti di Togliatti nello svolgimento degli avvenimenti e nel dibattito internazionale sul fascismo, sviluppando un confronto con i testi di Gramsci.
AUTORE
Palmiro Togliatti- Uomo politico italiano (Genova 1893 – Jalta 1964). Animatore con A. Gramsci del giornale l’Ordine nuovo, aderì al Partito comunista d’Italia (1921); dopo l’arresto di Gramsci divenne segretario del partito (1927) e tale rimase sino alla morte. Trasferitosi nel 1934 a Mosca, dove divenne membro del Comintern, rientrò in Italia nel 1944 e promosse la collaborazione delle forze antifasciste, abbandonando temporaneamente la pregiudiziale antimonarchica (cd. svolta di Salerno). Vicepresidente del Consiglio (1944-45), come ministro della Giustizia (1945-46) varò l’amnistia per gli ex fascisti. Fu membro della Costituente e dal 1948 deputato. Teorizzò la cd. via italiana al socialismo, ma rimase sempre profondamente legato all’Unione Sovietica. *
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.